Penale Cop98CD
28-04-1999 14:56
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RIVISTA ITALIANA DI
DIRITTO E PROCEDURA PENALE FONDATA DA GIACOMO DELITALA
DIRETTA DA G. L E O N E T. D E L O G U G. V A S S A L L I M. G A L L O G. C O N S O A. C R E S P I C. P E D R A Z Z I G. D E L U C A M. S I N I S C A L C O D. SIRACUSANO M. P I S A N I A. P A G L I A R O V. CAVALLARI C. F. G R O S S O G. L O Z Z I G. MARINUCCI F. MANTOVANI F. S T E L L A M. R O M A N O V. G R E V I D. P U L I T A N Ò T. P A D O V A N I E. M U S C O E. D O L C I N I A. G I A R D A - F. C. P A L A Z Z O
NUOVA SERIE - ANNO XLII 1999
M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I TO R E
INDICE GENERALE
DOTTRINA AGAZZI E., La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli) (A) ............ AMODIO E., Libero convincimento e tassatività dei mezzi di prova: un approccio comparativo (A) ........................................................................................... AMODIO E., La procedura penale comparata tra istanze di riforma e chiusure ideologiche (1870-1989) (A) ........................................................................ BARBIERI M.C., Obbligazione al rimborso delle spese processuali e principio di personalità della responsabilità penale (N) ................................................. BERTOLINO M., Libertà sessuale e blue-jeans (N) ................................................ BUZZELLI S., L’art. 513 c.p.p. tra esigenze di accertamento e garanzia del contraddittorio (N) ................................................................................................... CALAMANDREI J., Le nuove regole sulla circolazione probatoria (A) .................... CARMONA C., Le intercettazioni ambientali in relazione alla normativa del 1991 sui reati di criminalità organizzata (N) ....................................................... CECCARONI V., La contestazione alternativa tra vecchia giurisprudenza e nuovo codice (N) ..................................................................................................... COLLICA M.T., Scambio elettorale politico mafioso: deficit di coraggio o questione irrisolvibile? (A) ........................................................................................... CRESPI A., La giustizia penale nei confronti dei membri degli organi collegiali (A) ..... CURTOTTI NAPPI D., L’uso dei collegamenti audiovisivi nel processo penale tra necessità di efficienza del processo e rispetto dei principi garantistici (A) ..... DI MARTINO A., Sul bacio involato a lei che dissente (postilla in margine a G.U.P. Trib. Piacenza, 4 giugno 1998) (N) ................................................. DOLCINI E., Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio (A) ................................................................................................................ DOLCINI E., Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena? (A) ..............................................................................................
393 3 1338 1103 694 307 160 352 1461 877 1147 487 1526 10 857
DONINI M., La causalità omissiva e l’imputazione per « l’aumento del rischio » (A) ................................................................................................................ FORNARI L., Descrizione dell’evento e prevedibilità del decorso causale: « passi avanti » della giurisprudenza sul terreno dell’imputazione colposa (N) ...... FURGIUELE A., L’articolo 513 c.p.p. fra conflitti ideologici e problemi di struttura (A) ................................................................................................................
918
GALLO M., Il reato nel sistema degli illeciti (A) .................................................. GIANNITI P., Rilievi sul « fatto » nel processo penale (A) ....................................
769 408
GIARDA A., I Giudici della Consulta recuperano qualche carattere del sistema accusatorio (N) ................................................................................................
1449
32 719
— IV — GIUNTA F., La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica (A) ..
86
GREVI V., Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio (A) ...........................................................................
821
GULLO A., La delega di funzioni in diritto penale: brevi note a margine di un problema irrisolto (N) ........................................................................................
1508
HIRSCH H.J., Sulla dottrina dell’imputazione oggettiva dell’evento (A) ...............
745
LOPEZ R., Le attenuanti generiche e il silenzio dell’imputato (N) ......................
1121
MAIWALD M., Profili problematici del riciclaggio in Germania e in Italia (A) ...
369
MANNA A., Corruzione e finanziamento illegale ai partiti (A) ............................
116
MANTOVANI F., Criminalità sommergente e cecità politico-criminale (A) ............
1201
MARINUCCI G., DOLCINI E., Diritto penale ‘minimo’ e nuove forme di criminalità (A) .........................................................................................................
802
MAUGERI A. M., I reati di sospetto dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza, di proporzione e di tassatività (parte I) (A) ................................................
434
MAUGERI A.M., I reati di sospetto dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza, di proporzione e di tassatività (parte II) (A) ...................................................
944
MORSELLI E., Un breve bilancio fine-secolo sul finalismo e le sue prospettive di sviluppo (A) ..................................................................................................
1319
MUSCATIELLO V. B., Per una caratterizzazione semantica del concorso esterno (A) ....
184
NOTARO D., Art. 416-bis c.p. e « metodo mafioso », tra interpretazione e riformulazione del dettato normativo (N) ................................................................
1481
PADOVANI T., Il confine conteso — Metamorfosi dei rapporti tra concussione e corruzione ed esigenze « improcrastinabili » di riforma (A) ........................
1302
PAGLIARO A., Il documento della Commissione Grosso sulla riforma del diritto penale: metodo di lavoro e impostazione generale (A) ...............................
1184
PERINI A., Ai margini dell’esigibilità: nemo tenetur se detegere e false comunicazioni sociali (A) ............................................................................................
538
PISANI M., Il « giudice unico » nel quadro del sistema penale (A) .....................
1168
PULITANÒ D., Nemo tenetur se detegere: quali profili di diritto sostanziale? (A) ........
1271
RENON P., Ancora in tema di sindacato sulla logicità della motivazione (a proposito del caso dei « blue-jeans » di fronte alla Corte di cassazione) (N) ......
1497
RIVELLO P.P., Incompatibilità, astensione e ricusazione nel processo penale: delimitazione delle fattispecie; nuove norme in tema di giudice unico; effetti processuali derivanti dalla violazione della disciplina (A) ..........................
1359
STELLA F., Scienza e norma nella pratica dell’igiene industriale (A) ..................
382
STELLA F., Criminalità di impresa: nuovi modelli di intervento (A) ...................
1254
VALASTRO A., La tutela penale delle comunicazioni intersoggettive, fra evoluzione tecnologica e nuovi modelli di responsabilità (A) .............................
989
VALIANTE M., Il reato permanente. Aspetti sostanziali e problemi processuali (A) ......
210
VARRASO G., Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione, nullità della vocatio in iudicium e autorità competente alla rinnovazione (N) ...............
333
VARRASO G., Interrogatorio in vinculis dell’imputato: tra istanze di difesa, esigenze di garanzia, ragioni di accertamento (A) ...........................................
1387
ZAGNONI BONILINI P., La sanzione di cui all’art. 12-sexies l.d. (N) ....................
*
— V — NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO FRONZA E., Profili penalistici del negazionismo ................................................... SACCUCCI A., L’art. 6 della Convenzione di Roma e l’applicazione delle garanzie del giusto processo ai giudizi di impugnazione ...........................................
1034 587
COMMENTI E DIBATTITI FORTE G., Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente? .......... Relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, istituita con D.M. 1 ottobre 1998 ......................................................................... SCHIAFFO F., Riflessioni critiche intorno ad un « dogma »: l’antigiuridicità generica ................................................................................................................ VANNI R., La detenzione ingiusta. Il procedimento riparatorio ...........................
228 600 1075 651
NOTIZIE BONSIGNORE V., Il convegno di Belfast sul ruolo del giudice nel processo penale ........ MIEDICO M., « Prospettive di riforma del sistema penale e nuove tipologie sanzionatorie »: il Convegno di Erice e Palermo dal 18 al 21 novembre 1999 .... RUGA RIVA C., Progetto comune europeo di contrasto alla criminalità organizzata. Programma Falcone U.E. (I Workshop, Palermo 5-6 febbraio 1999; II Workshop, Freiburg i. Br. 2-4 settembre 1999) ...........................................
681 1441
1435
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA A. MANNA, Imputabilità ed i nuovi modelli di sanzione. Dalle « finzioni giuridiche » alla terapia sociale, Torino, Giappichelli, 1997, pp. IX-281 (M.A.) . NOBILI M., Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, CEDAM, 1998, pp. XII-310 (F.C.) ........................................................................................
686 690
GIURISPRUDENZA Associazione di tipo mafioso — Configurabilità del reato — Esplicazione di una concreta attività intimidatoria — Necessità — Semplice « avviamento mafioso » — Sufficienza — Esclusione (C.p., art. 416-bis) (con nota di D. NOTARO) ................................................
1475
Circostanze del reato — Concessione delle attenuanti generiche — Silenzio dell’imputato — Diniego (C.p., artt. 62-bis e 133) (con nota di R. LOPEZ) .........................................
1120
— VI — Colpa — Accertamento — Giudizio di prevedibilità — Descrizione dell’evento — Possibilità di prefigurare, da parte dell’agente modello, il decorso causale verificatosi — Necessità (C.p., art. 43) (con nota di L. FORNARI) ............................
711
Criminalità organizzata — Prova — Mezzi di ricerca della prova — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni — Ammissibilità (limiti) — Intercettazioni ambientali — Nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. — Reati di « criminalità organizzata » — Ambito di tale concetto — Indicazione (C.p.p., art. 266; d.l. 13 maggio 1991, n. 125; l. 12 luglio 1991, n. 203; d.l. 8 giugno 1992, n. 306; l. 7 agosto 1992, n. 356) (con nota di C. CARMONA) .............................................................................
344
Decreto che dispone il giudizio — Procedimento ordinario — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Nullità — Trasmissione degli atti al g.i.p. — Abnormità — Insussistenza (C.p.p., artt. 429, comma 1, lett. c) e comma 2; 185, comma 3; 491, comma 1. Corte cost. sent. 88⁄94) (con nota di G. VARRASO) ......................
324
— Procedimento ordinario — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Nullità — Rinnovazione — Competenza (C.p.p., artt. 429, comma 1, lett. c) e comma 2; 181, comma 3; 185, comma 3; 491, comma 1. Corte cost. sent. 88⁄94) (con nota di G. VARRASO) ..........................................................
324
— Procedimento ordinario — Ordinanza del giudice di nullità del decreto che dispone il giudizio — Inammissibilità (con nota di G. VARRASO) ....................
324
Decreto di citazione a giudizio — Procedimento pretorile — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Nullità — Trasmissione degli atti al P.M. — Abnormità — Insussistenza (C.p.p., artt. 555, comma 1, lett. c) e comma 2; 181, comma 3; 185, comma 3; 491, comma 1) (con nota di G. VARRASO) ...................................
324
— Procedimento pretorile — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Nullità — Rinnovazione — Competenza (C.p.p., artt. 555, comma 1, lett. c) e comma 2; 185, comma 3) (con nota di G. VARRASO) ....................
324
— Contestazione alternativa — Necessità di un approfondimento dell’attività dibattimentale per la definitiva qualificazione dei fatti contestati — Nullità — Esclusione (C.p.p. art. 521) (con nota di V. CECCARONI) .............................
1453
Delitti contro la libertà sessuale — Violenza carnale — Valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in assenza di riscontri oggettivi della condotta costrittiva — Inattendibilità di esse (C.p., art. 519) (con nota di M. BERTOLINO) .........................................
692
— Violenza carnale — Valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in assenza di riscontri oggettivi della condotta costrittiva — Inattendibilità di esse (con nota di P. RENON) ..........................................................................
692
— Violenza sessuale — Bacio sull’avambraccio a donna non consenziente — Assenza della finalità di appagamento di un istinto sessuale — Esclusione — Violenza privata — Sussistenza (C.p., artt. 609-bis e 610) (con nota di DI MARTINO) ........................................................................................................
1522
Dibattimento — Persone indicate nell’art. 210 c.p.p. — Rifiuto o omissione di rispondere su fatti concernenti la responsabilità altrui — Applicabilità dell’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. in mancanza di accordo delle parti alla lettura — Possibilità — Esclusione — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 24; c.p.p., art. 513 comma 2, ultimo periodo) (con nota di S. BUZZELLI) ...................................
280
— VII — — Art. 210 c.p.p. — Applicabilità anche all’esame su fatti altrui dell’imputato nel medesimo procedimento — Possibilità — Esclusione — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 24; c.p.p., art. 210) (con nota di S. BUZZELLI) ......
280
— Persone indicate nell’art. 210 c.p.p. — Rifiuto o omissione di rispondere su fatti concernenti la responsabilità altrui — Art. 238 comma 4 c.p.p. — Applicabilità dell’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. in mancanza di consenso dell’imputato alla utilizzazione — Possibilità — Esclusione — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 24; c.p.p., art. 238, comma 4) (con nota di S. BUZZELLI) .......
280
— Dichiarazioni rese in precedenza dal dichiarante sul fatto altrui — Normativa transitoria stabilita dall’art. 6 l. 7 agosto 1997, n. 267 — Conseguenze derivanti dalla sentenza costituzionale n. 361⁄1998 — Immediata applicabilità ai procedimenti in corso — Corte di cassazione — Esclusione — Applicabilità solo a richiesta di parte (art. 6 l. 7 agosto 1997, n. 267) (con nota di S. BUZZELLI) ..............................................................................................................
281
Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni — Prova — Mezzi di ricerca della prova — Ammissibilità (limiti) — Intercettazioni ambientali — Nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. — Reati di « criminalità organizzata » — Ambito di tale concetto — Indicazione (C.p.p., art. 266; d.l. 13 maggio 1991, n. 125; l. 12 luglio 1991, n. 203; d.l. 8 giugno 1992, n. 306; l. 7 agosto 1992, n. 356) (con nota di C. CARMONA) ...................................
344
Istruzione dibattimentale — Assunzione di nuovi mezzi di prova — Possibilità che il giudice del dibattimento possa disporla anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero — Omessa previsione — Asserito contrasto con i principi di legalità, di non dispersione della prova e di indefettibilità della giurisdizione — Manifesta infondatezza della questione (Cost., artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101, comma 2, 102 e 112; c.p.p., art. 507; disp. att. c.p.p., art. 151) (con nota di A. GIARDA) .........................................................................................
1446
— Esame dei testimoni e delle parti private — Possibilità che il giudice del dibattimento possa effettuare anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero — Omessa previsione — Prospettazione della questione in termini ipotetici — Difetto di rilevanza — Manifesta inammissibilità (Cost., artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101, comma 2, 102 e 112; c.p.p., art. 506, commi 1 e 2) (con nota di A. GIARDA) .........................................................
1446
Nullità — Procedimento ordinario — Decreto che dispone il giudizio — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Trasmissione degli atti al g.i.p. — Abnormità — Insussistenza (C.p.p., artt. 429, comma 1, lett. c) e comma 2; 185, comma 3; 491, comma 1. Corte cost. sent. 88⁄94) (con nota di G. VARRASO) ......
324
— Procedimento ordinario — Decreto che dispone il giudizio — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Rinnovazione — Competenza (C.p.p., artt. 429, comma 1, lett. c) e comma 2; 181, comma 3; 185, comma 3; 491, comma 1. Corte cost. sent. 88⁄94) (con nota di G. VARRASO) ......................
324
— Procedimento ordinario — Ordinanza del giudice di nullità del decreto che dispone il giudizio — Inammissibilità (con nota di G. VARRASO) ....................
324
— Procedimento pretorile — Decreto di citazione a giudizio — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Trasmissione degli atti al P.M. — Abnormità — Insussistenza (C.p.p., artt. 555, comma 1, lett. c) e comma 2; 181, comma 3; 185, comma 3; 491, comma 1) (con nota di G. VARRASO) .........
324
— Procedimento pretorile — Decreto di citazione a giudizio — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Rinnovazione — Competenza (C.p.p., artt. 555, comma 1, lett. c) e comma 2; 185, comma 3) (con nota di G. VARRASO) ...............................................................................................................
324
— VIII — — Decreto di citazione a giudizio — Contestazione alternativa — Necessità di un approfondimento dell’attività dibattimentale per la definitiva qualificazione dei fatti contestati — Esclusione (con nota di V. CECCARONI) ......................
1453
Prevenzione infortuni — Infortuni sul lavoro — Preposto ex d.lgs. n. 626⁄1994 — Obblighi — Individuazione (con nota di A. GULLO) ..................................................................
1508
Spese giudiziali — Anticipazione e recupero da parte dello Stato — Obbligo del condannato di rimborso — Non trasmissibilità agli eredi — Omessa previsione — Preteso contrasto con gli artt. 3, 27, 31 Cost. — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3 comma 1, 27 comma 1, 31 comma 1; c.p., art. 188 comma 2) (con nota di M.C. BARBIERI) ................................................................................... — Anticipazione e recupero da parte dello Stato — Iscrizione degli articoli di credito nel registro del campione penale — Decesso del condannato in stato di insolvibilità — Annullamento — Conseguente trasmissibilità agli eredi del condannato solvibile dell’obbligazione per le spese — Violazione degli artt. 3 e 27 Cost. — Illegittimità costituzionale conseguenziale (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27; Cost., artt. 3 e 27; r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701, art. 273 primo periodo e secondo periodo) (con nota di M.C. BARBIERI) .............................
1098
1098
Violazione degli obblighi di assistenza familiare — Omesso versamento dell’assegno stabilito nella sentenza di divorzio — Trattamento sanzionatorio — Pene previste dall’art. 570, secondo comma — Applicabilità (con nota di P. ZAGNONI BONILINI) ...................................................
1111
Violenza privata — Bacio sull’avambraccio a donna non consenziente — Assenza della finalità di appagamento di un istinto sessuale — Sussistenza — Violenza sessuale — Esclusione — (C.p., artt. 609-bis e 610) (con nota di DI MARTINO) ............
1522
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE Cooperazione internazionale in materia penale (a cura di M. PISANI) ................ — A proposito del « caso Baraldini » .................................................................. — L’estradizione di Gelli da Aix-en-Provence ..................................................... — Doppia punibilità e diritto intertemporale ...................................................... — Blocchi delle rogatorie, corsie preferenziali, prescrizioni ................................ — Trasferimento dei detenuti e non riformabilità in peius del trattamento punitivo dello straniero .......................................................................................... — Sulla difficile cooperazione internazionale tra Svizzera e Federazione Russa (il caso Dogaev) ............................................................................................. — In tema di art. VI della Convenzione sul genocidio: il caso Pinochet e la Spagna .................................................................................................................. — Il trasferimento negli Stati Uniti del detenuto Robert Venetucci ................... — Il trasferimento dalle Bahamas di due sposini napoletani ............................. — Sull’estradizione di Erich Priebke ................................................................... — Reati di « mercenarismo » ed offerta di estradizione .................................... — Sul concorso di più domande di estradizione ................................................. — Germania-Turchia: espulsione di un minorenne (e dei genitori) ...................
359 359 362 363 364 364 365 366 731 735 735 736 737 740
— IX — — Affare Lockerbie: la « consegna » dei due presunti autori ............................. — Italia-Svizzera: ritardi nella ratifica dell’« accordo aggiuntivo » ..................... — Interrogativi sul caso Ocalan .......................................................................... — Un’« azione comune » dell’Unione Europea sull’assistenza giudiziaria in materia penale ..................................................................................................... — Riciclaggio ed offerta di assistenza internazionale ......................................... — La conferma dell’atto d’accusa nei confronti di Milosevic ............................. — Una direttiva in tema di condannati del Tribunale per i fatti dell’ex-Jugoslavia .... — Aut dedere aut judicare (tra Francia e Stati Uniti) e una trasferta di giudici all’estero ......................................................................................................... — Italia-Perù: assistenza giudiziaria e trasferimento di condannati e di minori ........ — Estradizione e pena di morte nei rapporti Italia-Repubblica Federale Jugoslava .... — Una commissione di studio ministeriale ......................................................... — Il trasferimento in Italia di Silvia Baraldini ................................................... — Il blocco elvetico dei beni di Milosevic e coimputati .....................................
741 742 742 1138 1139 1141 1143 1143 1144 1145 1146 1535 1546
DOTTRINA
LIBERO CONVINCIMENTO E TASSATIVITÀ DEI MEZZI DI PROVA: UN APPROCCIO COMPARATIVO (*)
SOMMARIO: 1. La libertà di valutazione come espressione della razionalità del conoscere giudiziale. — 2. La teoria romantica della preuve morale e le sue degenerazioni. — 3. Il recupero della legalità probatoria nel nuovo codice di procedura penale italiano. Il problema della tassatività dei mezzi di prova. — 4. Un apparente paradosso: ricerca della legalità nel sistema italiano e tendenziale flessibilità probatoria nel processo di common law.
1. La libertà di valutazione come espressione della razionalità del conoscere giudiziale. — Il principio del libero convincimento, inteso come regola concernente la valutazione della prova penale da parte del giudice, costituisce indubbiamente uno dei pilastri della procedura penale del continente europeo. La freie Beweiswürdigung del sistema tedesco e l’intime conviction del processo penale francese sono concetti che esprimono lo stesso significato insito nella formula italiana del libero convincimento. La radice comune è quella del rifiuto di ogni limitazione della libertà di valutazione della prova, sottratta a qualsiasi meccanismo di preventivo dosaggio della sua persuasività stabilito a priori dal legislatore. Il valore ispiratore del principio sta nell’affrancamento del giudice dalle prove legali del processo medievale, bollate come strumenti di mortificazione della razionalità dell’accertamento giudiziale. Gli ideali di libertà e di razionalità, rivendicati quale espressione dei principi naturali che collocano in primo piano l’individuo e il buon senso comune coessenziale al suo agire, sono figli della cultura dell’illuminismo europeo. Peraltro, il passaggio dal piano del pensiero filosofico illuminista a quello della normativa processuale ha determinato, nell’Ottocento europeo, una radicale trasformazione della effettiva portata della regola attinente alla libera valutazione della prova. Alla libertà come supremazia della ragione si è gradualmente sostituita, nelle disposizioni dei codici di procedura penale di Francia, Italia e Germania e nella prassi, la nozione di libertà come primato della sfera emotiva. La storia di questa singola eterogenesi dei fini — alla quale non è stata finora riservata adeguata atten(*) Testo della relazione svolta al Convegno sul tema « La disciplina della prova nei Paesi dell’Unione Europea » tenutosi a Ischia nei giorni 2, 3, 4 luglio 1998.
— 4 — zione — va brevemente riassunta per intendere le degenerazioni subite dalla regola del libero convincimento nell’esperienza processuale europea del novecento. 2. La teoria romantica della preuve morale e le sue degenerazioni. — Dopo il trapianto dell’istituto della giuria — importato dall’Inghilterra sull’onda del fascino per le istituzioni giudiziarie di common law subìto dagli uomini della rivoluzione francese — si è diffusa nel continente l’idea di una valutazione della prova affidata ai giurati in forza di un approccio puramente emotivo. La decisione della giuria, resa con un verdetto immotivato, ha fatto pensare ai giuristi continentali che il giudizio sull’imputazione fosse per sua intrinseca natura così fortemente radicato nella reazione istintiva alle prove da essere sottratto a qualsiasi forma di razionalizzazione, anche a quella astrattamente attuabile a posteriori mediante la motivazione. La catena logica giuria-verdetto immotivato-persuasione emotiva costituisce l’asse portante di quella che potrebbe essere definita la teoria romantica del libero convincimento. La testimonianza più significativa di questo orientamento — non a caso definito preuve morale o intime conviction — si trova nel testo delle istruzioni ai giurati contenuto nelle norme del codice di procedura penale francese: « la legge non chiede conto ai giudici del modo in cui si sono convinti; essa non prescrive regole dalle quali far dipendere in modo particolare la pienezza o la sufficienza di una prova; essa prescrive ai giudici di interrogarsi nel silenzio e nel raccoglimento e di cercare, nella sincerità delle loro coscienze, quale impressione hanno avuto, sulla loro ragione, le prove a carico e quelle a discarico introdotte dalla difesa. La legge pone ai giudici un solo interrogativo, che racchiude la pienezza dei loro doveri: « Avez-vous une intime conviction? » (art. 363 c.p.p., e analogamente art. 498 c.p.p. italiano del 1865). Il convincimento appare così fortemente collocato nel foro interno dell’inesprimibile e dell’irrazionale da spingere i legislatori processuali dell’Ottocento europeo a sancire il divieto di motivare in fatto per l’impossibilità materiale — subito trasferita dai giurati ai giudici professionali — di esplicitare un collegamento « leggibile » tra prove e risultati dell’accertamento giudiziale. Così gli artt. 195 e 165 del code d’instruction criminelle del 1808 richiedevano al giudice di esporre nella sentenza solo l’énonciation des faits, cioè i risultati dell’accertamento senza indicazione delle prove. E l’art. 267 della Strafprozessordnung tedesca, nel testo tuttora vigente risalente al 1877, si limita a richiedere, nella sentenza di condanna, la tatsachenangabe, cioè l’esposizione del fatto accertato. Analogamente nel codice sardo del 1847 non si richiedeva niente di più della « dichiarazione dei fatti di cui l’accusato è riconosciuto autore e complice » (art. 448). La teoria romantica della preuve morale, con il correlativo divieto di
— 5 — motivare in fatto, ha dato luogo a due fenomeni marcatamente negativi nella cultura processuale europea. Anzitutto, ha impedito la creazione di un diritto delle prove penali, in conseguenza della ritenuta refrattarietà del giudizio di fatto a qualsiasi regolamentazione normativa, inidonea ad incidere su un momento valutativo appartenente ad un terreno insondabile. In secondo luogo, ha dato la spinta alla nascita di un fenomeno degenerativo che ha reso possibile, in una cultura inquisitoria imperniata sulla figura del giudice dominus della prova nella ricerca della verità reale, l’uso della libertà del convincimento come strumento per giustificare il superamento di qualsiasi limite nella ammissione e nella assunzione delle prove. Nell’esperienza italiana del codice Rocco (1931-1989), il principio patrocinato dagli illuministi come impegno alla razionalità del giudizio è divenuto il veicolo funzionale a sottrarre l’accertamento del fatto ad ogni controllo. Sul piano comparativo si deve quindi registrare una curiosa evoluzione di segno opposto tra l’Inghilterra e il continente europeo. Mentre nella common law la giuria ha dato luogo al sorgere di quel complesso reticolo di regole probatorie che va sotto il nome di law of evidence, regole sorte per prevenire i possibili errori valutativi dei giudici non professionali, al contrario nell’Europa continentale proprio la presenza dei laici nelle corti d’assise ha dato vita alla teoria della intime conviction che ha affrancato tutti i giudici, laici e togati, da qualsiasi limite legislativo nella valutazione della prova. 3. Il recupero della legalità probatoria nel nuovo codice di procedura penale italiano. Il problema della tassatività dei mezzi di prova. — Per superare gli esiti di un sistema che consegnava nelle mani del giudice la libertà di fare l’uso più illimitato e incontrollabile della prova, in tutto l’arco dei diversi momenti processuali (ammissione, assunzione, valutazione), il codice di procedura penale italiano entrato in vigore nel 1989 ha ricondotto il fenomeno probatorio nell’ambito della disciplina normativa, sottraendolo a quella sfera dell’irrazionale non governabile che aveva in passato consentito pesanti degenerazioni giurisprudenziali. Il recupero della legalità probatoria è stato indubbiamente favorito anche dalla riflessione svolta dalla dottrina italiana sull’esperienza della law of evidence di common law e sui contenuti garantistici della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’aspirazione genuinamente garantistica del legislatore, impegnato a rendere effettivo il principio di imparzialità del giudice nel nuovo processo, ha trovato efficaci punti di riferimento nelle exclusionary rules del processo angloamericano e nel diritto alla prova della Convenzione europea. La nuova cultura della legalità ha spinto anzitutto a creare un libro intero del codice, il terzo, tutto dedicato alle prove, quasi un corpus autonomo che racchiude il diritto delle prove penali. Inoltre, è stato inserito,
— 6 — nella parte iniziale di questo libro, un gruppo di disposizioni generali che delineano i principi fondamentali del procedimento probatorio con riguardo all’ammissione (artt. 187 e 190), all’assunzione (art. 188) e alla valutazione delle prove (art. 192). Proprio per superare qualsiasi equivoco, derivante dalla concezione irrazionalistica del libero convincimento, il legislatore ha attribuito alla motivazione, nell’art. 192 c.p.p., il ruolo di strumento per ancorare la valutazione della prova ai parametri razionali di un discorso giustificativo nel quale il giudice deve dar conto dei risultati acquisiti, cioè delle prove assunte nel procedimento, e dei criteri adottati, vale a dire delle massime di esperienza utilizzate per vagliare la persuasività delle risultanze probatorie. A sottolineare questo forte impegno legislativo verso un accertamento del fatto libero da fuorvianti suggestioni emotive, l’art. 546 comma 1, lett. e) c.p.p. stabilisce che la motivazione in fatto deve contenere « l’indicazione delle prove poste a base della decisione » e « l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie ». L’obiettivo del nuovo codice di impedire involuzioni giurisprudenziali capaci di far rivivere l’arbitrio del giudice nella acquisizione della prova, è testimoniato in modo ancor più significativo dalla nuova sanzione della inutilizzabilità (art. 191 c.p.p.). Qui è chiaramente percepibile l’eco delle exclusionary rules del processo penale statunitense. Si è scelta una sanzione forte per rendere incontrovertibile che i divieti probatori stabiliti dalla legge, i beweisverboten della dottrina tedesca, costituiscono veri e propri sbarramenti (evidentiary barriers) di fronte ai quali il giudice deve fermarsi nell’accertamento del fatto, con la conseguenza della perdita del dato probatorio in caso di violazione del precetto normativo. Nel quadro del recupero della legalità si inserisce la problematica della tassatività dei mezzi di prova. Essa si riannoda ad una forte esigenza garantistica che vede con sfavore l’utilizzo di veicoli di convincimento non conoscibili preventivamente dall’imputato e, quindi, affidati interamente alle scelte dell’investigatore o al controllo compiuto a posteriori dal giudice. Distaccandosi ancora una volta dal modello francese, nel quale continua ad operare la regola secondo cui « les infractions peuvent être établies par tout mode de preuve » (art. 427 c.p.p.), il nuovo codice italiano ha imboccato una strada intermedia. Al giudice è consentito assumere prove atipiche, vale a dire non disciplinate dalla legge, con l’obbligo peraltro di accertare preventivamente la loro idoneità ai fini dell’accertamento e la loro attitudine a offrire un contributo conoscitivo tale da non pregiudicare la libertà morale della persona (art. 189 c.p.p.). Si realizza così un sistema probatorio a struttura flessibile, capace cioè di dare ingresso a nuovi strumenti di convincimento proposti dall’e-
— 7 — voluzione tecnologica, ammissibili, ad istanza di parte, solo quando ne sia accertata in concreto la oggettiva attendibilità sul piano dei risultati e la mancanza di qualsiasi attitudine lesiva con riguardo alla libertà morale della persona. Prova atipica è certamente la registrazione fonografica di colloqui tra presenti realizzata ad opera di soggetti privati. Esclusa la sua riconducibilità al genus delle intercettazioni ovvero a quello delle informazioni testimoniali o dei documenti, questo strumento conoscitivo rivela la sua vera natura di prova non disciplinata dalla legge. Il pubblico ministero o il difensore che ne chiede l’acquisizione al giudice nelle indagini preliminari o nel dibattimento ha l’onere di dimostrare, da un lato, che il colloquio è avvenuto in condizioni tali da far salva la libertà morale dell’interlocutore, dall’altro, che la registrazione è stata effettuata in modo da garantire la genuinità della riproduzione fonografica. Trattandosi di prova precostituita, non si tratterà dunque di stabilire le modalità di assunzione, ma di verificare che la prova abbia ingresso nel processo senza provocare inquinamenti nell’accertamento della volontà di chi ha reso le dichiarazioni. Prova non disciplinata dalla legge e da assumersi sulla base dell’art. 189 c.p.p. deve essere considerata anche la individuazione di persona eseguita all’udienza dibattimentale. La prassi del rito abrogato registrava spesso la domanda rivolta ad un teste dal giudice del dibattimento circa la possibilità di riconoscere tra i presenti la persona protagonista dell’episodio riferito nella testimonianza. Nel nuovo sistema, che distingue nettamente l’individuazione informale attuata davanti al pubblico ministero (art. 361 c.p.p.) dalla ricognizione rigorosamente disciplinata dagli artt. 213 e 214 c.p.p., il solo modo di far entrare ritualmente nel processo una simile dichiarazione è quello che passa attraverso l’accertamento dei requisiti di attendibilità della prova e delle modalità di assunzione della stessa. Occorre distinguere le ipotesi di preesistente individuazione extradibattimentale da quelle in cui non vi sia stata alcuna forma di riconoscimento ante iudicium. È da escludere, nel primo caso, che il teste possa essere chiamato a deporre solo per confermare l’identificazione compiuta nel corso delle indagini preliminari, a norma dell’art. 361 c.p.p., a richiesta del pubblico ministero. Non così, invece, quando il riconoscimento sia strettamente compenetrato con l’episodio criminoso, come accade nel caso in cui un ragazzo, soggetto passivo di atti di libidine, accompagnato da un genitore in loco subito dopo il fatto, si diriga decisamente verso una persona esclamando « è lui! » (il caso è tratto da Keane) ovvero nell’ipotesi in cui la vittima di una truffa, recatasi al posto di polizia per querelarsi, vedendo in un corridoio una persona fermata per altra causa la indichi al pubblico ufficiale come responsabile del reato appena subito. Qui la testimonianza-individuazione è certamente ammissibile dopo che il pub-
— 8 — blico ministero avrà fatto narrare in dettaglio le circostanze del precedente riconoscimento. La domanda « la persona di cui ha parlato è presente in questa udienza? » potrà essere posta a chiusura della deposizione, previo provvedimento di ammissione a norma dell’art. 189 c.p.p. Se invece non è avvenuta alcuna individuazione nelle indagini preliminari, né provocata né spontanea, il rischio della suggestione derivante dalla posizione che l’imputato assume nell’aula d’udienza svuota di attendibilità la prova e la rende pertanto in concreto inammissibile in base al parametro della « idoneità probatoria » stabilito dall’art. 189. Non è comunque escluso, anche se di remota applicazione nella pratica, che si possa disporre in questi casi la ricognizione al dibattimento con provvedimento che ordina procedersi all’assunzione dell’atto a porte chiuse (art. 472 c.p.p.). 4. Un apparente paradosso: ricerca della legalità nel sistema italiano e tendenziale flessibilità probatoria nel processo di common law. — Volendo dare uno sguardo comparativo alle tendenze emergenti nel nostro sistema e in quello di common law, si impone una considerazione all’apparenza paradossale. Mentre il processo penale italiano si muove verso la legalità probatoria — sia pure non senza oscillazioni che, dopo la bufera involutiva del 1992, hanno ora condotto alla importante affermazione del diritto al controesame nella riforma degli artt. 238, 403 e 513 c.p. p. (legge 7 agosto 1997, n. 267) —, nel processo penale statunitense si assiste ad una graduale attenuazione della portata delle exclusionary rules e delle regole probatorie di common law, nate con l’intento di offrire una adeguata prevenzione degli errori dovuti all’inesperienza dei giurati. Qualcuno ha persino parlato, non senza una certa esagerazione, di una law of evidence alla deriva, preconizzando la fine del processo adversary, destinato ad essere soppiantato da una procedura di accertamento basata sulla prova scientifica (Damaska). Il processo come laboratorio scientifico, affidato ad asettici operatori in camice bianco, era già stato teorizzato in Italia all’inizio del secolo dai giuristi della Scuola positiva, fortunatamente senza esito alcuno. Non si può d’altra parte negare che la tendenza verso la destrutturazione della law of evidence sia chiaramente percepibile anche in Inghilterra. Con il Criminal Justice and Public Order Act 1994 è stata attenuata la portata della corroboration rule, essendosi abolito l’obbligo dal giudice di avvertire la giuria circa la necessità di riscontri per la pronuncia di un verdetto di colpevolezza basato sulla testimonianza del coimputato ovvero della vittima di violenze sessuali (sec. 32 e 33). Lo stesso Act ha poi introdotto norme che consentono, con una svolta definita inquisitoria e divenuta oggetto di infinite polemiche, di ricavare dal silenzio mantenuto dall’imputato nell’interrogatorio di polizia inferenze negative ai fini del giudizio di merito (sec. 34 e ss.).
— 9 — Se si considera poi che in Inghilterra non vige il sistema delle exclusionary rules, essendo tradizionalmente consentito al giudice di escludere discrezionalmente le prove che avrebbero « such an adverse effect on the fairness of the proceedings that the court ought not to admit » (Police and Criminal Evidence Act 1984, sec. 78), si ha la possibilità di intendere quanto cammino abbia fatto il processo adversary sulla strada che conduce ad una maggiore flessibilità delle regole probatorie. È appena di qualche anno fa, del resto, la riforma che ha ampliato, sia pur con cautela, il regime dibattimentale delle letture di atti contenenti dichiarazioni rese nella fase anteriore al giudizio (Criminal Procedure and Investigation Act 1996, sec. 68). Come si spiega, allora, la divaricazione tra il nostro « accusatorio all’europea » che muove verso la legalità probatoria e l’accusatorio blasonato dalle insegne della primogenitura che in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America aspira alla flessibilità del regime probatorio? A me sembra evidente che le direzioni opposte in cui marciano le due famiglie di sistemi processuali sia dovuta alla diversità dei punti di partenza. La common law aspira a rendere più snello e lineare un sistema probatorio cresciuto a dismisura nei secoli, tanto da diventare una selva quasi inestricabile di regole talvolta prive di valore pratico. Il nostro processo, di matrice continentale inquisitoria, ha invece un retroterra singolarmente povero di norme sulle prove e deve riempire tanti vuoti per controbilanciare la propensione dei giudici ad erodere il valore della imparzialità. Non è quindi difficile prevedere che, muovendosi lungo percorsi antitetici, le due grandi famiglie che fanno capo alla tradizione continentale e a quella del rito adversary, possano giungere in futuro ad un omogeneo equilibrio tra libertà e legalità della prova tale da soddisfare le esigenze del garantismo unitamente all’interesse al pieno accertamento dei fatti di reato. ENNIO AMODIO Bibliografia. M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, 1974. D. SIRACUSANO, voce Prova: III) nel nuovo codice di procedura penale, in Enc. giur. Treccani, XXV, 1991. E. ZAPPALÀ, Il principio di tassatività dei mezzi di prova nel processo penale, 1982. A. KEANE, The modern law of evidence, 1994. M.R. DAMASKA, Evidence law adrift, 1997. J. PRADEL, Procédure pénale, 1997. KLEINKNECHT, MEYER, GÖSSNER, Strafprozessordnung, 1995.
PRINCIPI COSTITUZIONALI E DIRITTO PENALE ALLE SOGLIE DEL NUOVO MILLENNIO (*) RIFLESSIONI IN TEMA DI FONTI, DIRITTO PENALE MINIMO, RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI E SANZIONI
SOMMARIO: 1. La perdurante attualità dei principi costituzionali per la riforma del diritto penale. — 2. La riserva di legge in materia penale come riserva di legge formale. — 3. Il principio di offensività come vincolo per l’interprete (e un equivoco da dissipare circa gli oggetti della tutela penale). — 4. Responsabilità personale e responsabilità della persona giuridica. — 5. Il principio della rieducazione del condannato e le recenti riforme del sistema sanzionatorio.
1.1. La richiesta di riforme, l’auspicio di un ‘nuovo’ diritto penale, sono dati pressoché costanti nella storia del nostro Paese, e non soltanto del nostro: riflettono una valutazione negativa del diritto penale vigente, al quale si rimprovera, da un lato, di non saper assicurare le condizioni essenziali per una convivenza pacifica e ordinata, dall’altro, spesso, di comprimere in misura eccessiva i diritti di libertà dei cittadini. L’attuale momento storico non fa eccezione alla regola: la conferma anzi in modo particolarmente evidente. È radicata nella società l’insoddisfazione per un sistema penale che non riesce a salvaguardare i più classici tra i beni giuridici contro forme primordiali di criminalità (dall’omicidio al furto), non svolge un’apprezzabile azione dissuasiva contro fenomeni patologici tutt’altro che nuovi, ma oggi particolarmente acuti (dalla corruzione all’usura), stenta a mettersi al passo con i tempi, fornendo risposte adeguate a forme di criminalità caratteristiche della nostra epoca (si pensi alla criminalità finanziaria, soprattutto, ma non solo, a quella di dimensione transnazionale). Nel contempo, si denunciano inaccettabili squilibri nei rapporti tra cittadino e autorità. Il sistema penale appare non solo inefficiente, ma anche pervasivo e irrispettoso dei diritti individuali: e ciò sia per effetto di vere o presunte deviazioni dalla legge perpetrate da chi la legge dovrebbe (*) Si tratta del testo, ampliato e integrato con le note, di una relazione tenuta al Forum ‘‘Le nuove frontiere del diritto penale’’, nel ventennale dell’assassinio di Girolamo Tartaglione, Roma, 10 ottobre 1998.
— 11 — invece applicare, sia per le scelte illiberali compiute dallo stesso legislatore, sul piano del diritto sostanziale come su quello del diritto processuale. Parafrasando Cesare Beccaria, si può dire che, secondo un giudizio diffuso, si impone oggi ai cittadini un grande sacrificio in termini di libertà individuale, senza che si assicuri loro di ‘‘goderne il restante con sicurezza e tranquillità’’ (1). 1.2. Ma secondo quali direttrici dovrebbe muoversi la riforma del diritto penale alle soglie del nuovo millennio? C’è bisogno di un ripensamento degli stessi principi di fondo che ispirano il sistema penale, analogo a quello promosso nel ’700 dall’Illuminismo? In particolare, nel nostro ordinamento sono ancora attuali i principi — almeno in parte di ascendenza illuministica — dettati dalla Costituzione del 1948 per orientare la legislazione penale, quali risultano dalla costante opera di elaborazione e affinamento degli interpreti, in primo luogo della Corte costituzionale? A mio avviso, quei principi conservano piena attualità (2): se il diritto penale vigente ha fallito molti dei suoi obiettivi, tali insuccessi possono farsi risalire, tra l’altro, ad un insufficiente impegno da parte del legislatore nell’attuazione delle lungimiranti indicazioni del Costituente. Le ‘nuove frontiere’ del diritto penale possono dunque essere individuate secondo le direttrici segnate dalla Costituzione: richiamando il legislatore a dare attuazione a principi che proprio per la loro portata innovativa non sono ancora integralmente penetrati, dopo cinquant’anni, nel tessuto del nostro sistema penale. Certo, la Costituzione non contiene formule taumaturgiche in grado, di per sé, di risolvere ogni problema politico-criminale: è però in grado, tuttora, di dare un significativo contributo alla creazione di un diritto penale più efficiente e soprattutto più garantista, tale da riequilibrare un rapporto costi-benefici che risulta oggi del tutto insoddisfacente. 1.3. Nel tentativo di dimostrare questo assunto, fermerò la mia attenzione su quattro principi enucleabili dalla Costituzione che interessano il diritto penale sostanziale: il principio di legalità, il principio di offensi(1) Il riferimento è all’enunciazione, da parte di Beccaria, dell’idea del contratto sociale: cfr. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, ed. di Harlem 1766, a cura di VENTURI, 1965, p. 11. (2) Sull’attualità dei principi illuministici per la scienza e per la legislazione penale odierne, cfr. da ultimo ROXIN, Zukunftsaufgaben der Strafrechtswissenshaft, lectio magistralis tenuta nell’Università degli Studi di Milano il 23 ottobre 1998, p. 6 ss. del dattiloscritto.
— 12 — vità, il principio di personalità della responsabilità penale e il principio della rieducazione del condannato. Ragioni di brevità impongono di dare per dimostrata la rilevanza costituzionale di tali principi, anche di quelli che non trovano una formulazione espressa nella Costituzione: è il caso del principio di offensività, che — secondo l’insegnamento di Franco Bricola (3) — può ascriversi ai contenuti dell’art. 25 comma 2 Cost., letto alla luce dell’intero sistema costituzionale, in quanto la disposizione citata individua in un fatto (e non in un atteggiamento interiore, né in un modo di essere della personalità) ciò che solo può essere represso con la più dura delle reazioni statuali, la pena. Senza pretesa di completezza, cercherò di mettere in evidenza come le indicazioni ricavabili dai principi citati siano tuttora largamente disattese dal legislatore e come un’integrale attuazione di quei principi potrebbe segnare importanti progressi verso un diritto penale razionale e rispettoso delle libertà individuali. Nel contempo, dedicherò qualche riflessione a corollari, a mio avviso discutibili, che una parte della dottrina contemporanea pretende di trarre da alcuni principi costituzionali, in particolare dal principio di offensività e da quello di personalità della responsabilità penale. 2.1. Del principio di legalità, mi occuperò soltanto in relazione a uno specifico problema, che a torto può apparire oggi pacificamente e definitivamente risolto: se la riserva di legge in materia penale debba essere intesa come riserva di legge materiale o formale (4). 2.2. Già Cesare Beccaria, sottolineando come il diritto di punire ‘‘non può risiedere che presso il legislatore che rappresenta tutta la società unita per contratto sociale’’ (5), individuava nella rappresentatività del Parlamento il fondamento politico della riserva di legge in materia penale; e tale fondamento si è rafforzato quando, con l’avvento dello Stato democratico, il Parlamento è stato eletto a suffragio universale. Ai giorni nostri, la Corte costituzionale ha affermato testualmente che ‘‘il monopolio della competenza penale’’ spetta ‘‘al soggetto-Parlamento, l’organo... che vede riunito, attraverso i suoi rappresentanti, tutto il popolo sovrano’’ (6); così evidenziando che il principio di riserva di (3) Cfr. BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Nss. dig. it., vol. XIX, 1973, p. 82 ss. (4) La trattazione che segue, in tema di riserva di legge, sintetizza argomenti sviluppati in MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. I, 2a ed., in preparazione, I, 10.1. (5) Così BECCARIA, Dei delitti e delle pene, cit., p. 14. (6) Così Corte cost. 30 ottobre 1989 n. 487, in questa Rivista, 1990, p. 1562 ss., in
— 13 — legge riguarda, prima che i rapporti tra atti, i rapporti tra i poteri dello Stato (7): precisamente, tra il potere legislativo da un lato, i poteri esecutivo e giudiziario dall’altro. Da tali premesse, circa i rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo dovrebbe seguire, fra l’altro, l’esclusione del decreto-legge e del decreto legislativo dalle fonti del diritto penale: coerentemente con la sua ratio politica, la riserva di legge in materia penale deve essere intesa come riserva di legge formale (8). 2.3. Adeguare la futura normazione penale al principio di legalità così interpretato rappresenta, a mio avviso, una prima fondamentale indicazione ricavabile dalla Carta costituzionale per il diritto penale del terzo millennio, dal cui accoglimento deriverebbe un significativo potenziamento delle garanzie individuali di fronte alla potestà punitiva dello Stato. È vero per la legge formale, e soltanto per la legge formale, che ogni limitazione delle libertà individuali stabilita dalla legge si traduce — sono parole di Crisafulli — ‘‘in una sorta di autolimitazione indirettamente consentita dai diretti interessati a mezzo dei loro rappresentanti’’ (9). Semmai, desta sconcerto che il principio di legalità sia stato sino ad oggi mutilato, nel nostro ordinamento, di questa sua essenziale componente; e ciò con l’avallo della maggioranza della dottrina (10) e della stessa Corte costituzionale, che non ha tratto dall’affermazione di principio sopra citata le conseguenze doverose: sì che la proposta interpretativa che qui si avanza può suonare radicale, se non eversiva. particolare p. 1567, con nota di PIERGALLINI, La potestà penale delle Regioni, oggi: reticenze e suggestioni di una recente sentenza della Corte costituzionale. (7) In questo senso v. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, 6a ed., vol. II, pt. I, 1993, p. 61; CARLASSARE, voce Legge (riserva di), in Enc. giur., 1990, vol. XVIII, p. 2. (8) A favore di questa tesi, tuttora minoritaria, si esprimono nella dottrina penalistica CARBONI, L’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità, 1970, p. 249 ss.; BRICOLA, voce Teoria generale del reato, cit., p. 39 ss.; ID., in BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, sub art. 25, 1981, p. 238 ss.; PICOTTI, in BRICOLA-ZAGREBELSKY (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Codice penale, pt. gen., vol. I, 2a ed., 1996, p. 17 ss.; GAMBERINI, in INSOLERA-MAZZACUVA-PAVARINI-ZANOTTI (a cura di), Introduzione al sistema penale, 1997, p. 117 s. Sostanzialmente in questo senso, sia pure in forma dubitativa, si pronunciano inoltre, tra i penalisti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., 3a ed., 1995, p. 53 s. e, fra i costituzionalisti, CARLASSARE, voce Legge, cit., p. 3. (9) Così CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 61. (10) Cfr., fra le voci più autorevoli, VASSALLI, voce Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Dig. pen., vol. VII, 1994, p. 310, nonché, nella manualistica, CONTENTO, Corso di diritto penale, vol. I, 1996, p. 36 s.; FIORE, Diritto penale, pt. gen., vol. I, 1993, p. 64 s.; MANa a TOVANI, Diritto penale, pt. gen., 3 ed., 1992, p. 90 s.; PADOVANI, Diritto penale, pt. gen., 4 ed., 1998, p. 20 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, pt. gen., 6a ed., 1998, p. 42 s.; ROa MANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2 ed., 1995, sub art. 1, p. 34.
— 14 — 2.4. Proprio la consapevolezza di esprimere un punto di vista eterodosso impone qualche considerazione ulteriore. Quanto al decreto-legge, importa sottolineare che in caso di mancata conversione da parte del Parlamento non tutti gli effetti di un decretolegge che preveda una nuova incriminazione o che inasprisca il trattamento sanzionatorio di un reato preesistente si prestano ad essere travolti fin dall’inizio, secondo il disposto dell’art. 77 comma 3 Cost.: sono irreversibili, infatti, gli effetti prodotti sulla libertà personale (11), allorché, prima della decadenza del decreto, ad esempio, sia stata adottata una misura cautelare restrittiva della libertà personale o si sia proceduto all’arresto in flagranza dell’autore del reato. Scelte punitive operate dal Governo, e mai fatte proprie dal Parlamento, possono dunque produrre effetti indelebili sui diritti fondamentali del cittadino. Va dato atto alla Corte costituzionale di aver posto un serio argine all’abuso del decreto-legge, in materia penale e non, con l’importante sentenza che nel 1996 ha dichiarato illegittimi i decreti-legge iterati o reiterati che riproducono il contenuto di precedenti decreti non convertiti (12): un fenomeno che aveva assunto tali dimensioni, nella prassi, da incardinare sostanzialmente la funzione legislativa nel Governo, a spese del Parlamento (13). Ma la pronuncia della Corte costituzionale ha avuto un effetto paradossale: ha fortemente incentivato il ricorso, anche in materia penale, allo strumento della legge-delega, con la conseguenza che il potere esecutivo conserva tuttora un ruolo centrale nella produzione delle norme penali. In luogo del decreto-legge, domina oggi tra le fonti delle norme penali non la legge formale, bensì il decreto legislativo. Ora, non mi sento di sottoscrivere la tesi secondo la quale una delega legislativa improntata a ‘‘rigore, analiticità e chiarezza’’ varrebbe a far salve le esigenze sostanziali sottese alla riserva di legge in materia penale (14). Contro questa tesi parla innanzitutto la costante prassi delle deleghe legislative (15): emblematiche le deleghe al Governo per l’attuazione di (11) Cfr. CARBONI, L’inosservanza, cit., p. 261 s.; BRICOLA, voce Teoria generale del reato, cit., p. 41; GAMBERINI, in Introduzione, cit., p. 117; PALAZZO, voce Legge penale, in Dig. pen., vol. VII, 1993, p. 346; ROMANO, Commentario sistematico, vol. I, cit., sub art. 1, p. 34. (12) Corte cost. 24 ottobre 1996 n. 360, in Giur. cost., 1996, p. 3147 ss., con note di SORRENTINO, La reiterazione dei decreti-legge davanti alla Corte costituzionale e di CICCONETTI, La sent. n. 360 del 1996 della Corte costituzionale e la fine della reiterazione dei decreti-legge: tanto tuonò che piovve. (13) Cfr. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, 1996, p. 245 s. (14) Così ROMANO, Commentario sistematico, vol. I, cit., sub art. 1, p. 34. (15) Cfr. MARINUCCI, Gestione di impresa e pubblica amministrazione: nuovi e vecchi profili penalistici, in questa Rivista, 1988, p. 430, nt. 11.
— 15 — direttive comunitarie (16), spesso relative a materie del tutto eterogenee, nelle quali si rimette costantemente al Governo il compito di vagliare se sia o meno necessario il ricorso alla sanzione penale, nulla si dice circa i fatti da sanzionare penalmente, si fornisce soltanto qualche indicazione circa i beni che possono formare oggetto di tutela, solo eccezionalmente si enunciano vaghi criteri-guida per la scelta del tipo delle sanzioni, lasciando comunque alla libera discrezionalità del Governo la fissazione del loro ammontare. D’altra parte, non si tratta, o non si tratta soltanto, di sciatteria da parte del legislatore delegante, bensì di ostacoli insuperabili connaturati alla delega in materia penale: anche un testo di legge-delega redatto con grande scrupolo di analiticità e precisione — come lo ‘‘Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale’’, presentato nel 1992 (17) — non ha potuto fare a meno di attribuire al Governo fondamentali scelte politico-criminali (18), in relazione sia alla ‘parte generale’ (ad esempio, in tema di dolo, di colpa, di causalità, di concorso di persone, etc.), sia alla ‘parte speciale’, dove le singole figure di reato sono spesso designate con il solo nomen iuris, mentre è del tutto eccezionale che si precisi il tipo di pena che dovrà essere comminato. Si aggiunga che sempre più spesso le leggi-delega conferiscono al Governo il potere di emanare disposizioni integrative e correttive della disciplina inizialmente dettata (19), nel solo rispetto dei principi e criteri direttivi fissati nella delega. Questa facoltà, talora protratta per diversi anni attraverso proroghe successive, accentua lo squilibrio tra i poteri dello Stato: realizza un’espropriazione permanente della funzione legislativa a favore del Governo, in radicale contrasto, nella materia penale, con l’art. 25 comma 2 Cost. Prendere sul serio il principio di legalità, nei futuri sviluppi della nostra legislazione penale, dovrebbe significare dunque, fra l’altro, rinunciare sia al decreto-legge, sia al decreto legislativo quali fonti di norme incriminatrici. Solo a questa condizione potrà dirsi davvero rispettato, a ga(16) A proposito della l. 19 febbraio 1982, n. 142, con la quale il Parlamento delegava al Governo l’attuazione di ben 97 direttive comunitarie, cfr. MUCCIARELLI, La normativa sullo smaltimento dei rifiuti, dei policlorodifenili e dei rifiuti tossici e nocivi e i suoi rapporti con la normativa sull’inquinamento idrico, in LP, 1983, p. 577 ss. (17) Il testo del Progetto è pubblicato in Indice pen., 1992, p. 579 ss. (18) Per una critica al Progetto in questa prospettiva, cfr. MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1996, p. 437 ss. e ANGIONI, Le norme definitorie e il Progetto di legge delega per un nuovo codice penale, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, 1998, p. 192 ss. (19) Per un’analisi critica di questa tendenza delle deleghe legislative a partire dagli anni settanta, cfr. per tutti CARTABIA, I decreti legislativi ‘‘integrativi e correttivi’’: il paradosso dell’effettività, in Rass. parlam., 1997, p. 45 ss.
— 16 — ranzia delle libertà individuali, il monopolio del legislatore nelle scelte politico-criminali. 3.1. In forza della sua rilevanza costituzionale, il principio di offensività vincola non soltanto l’interprete, ma anche il legislatore, imponendogli di imperniare la struttura del reato sul fatto, ossia sull’offesa a un bene giuridico: ne segue che solo comportamenti lesivi o pericolosi per un bene possono essere repressi con la pena (20). Ora, non c’è dubbio che tutta la tradizione della nostra legislazione penale sia largamente coerente con le indicazioni del principio di offensività (21): lo esprime in maniera emblematica, nella parte generale del codice penale, la disciplina del tentativo. Anche nella parte speciale la grande maggioranza delle norme incriminatrici è costruita secondo lo schema del reato come offesa a un bene giuridico, senza concessione alcuna a schemi di tipo soggettivistico. 3.2. Semmai, va sottolineato che a fronte di modelli di reato nei quali potrebbe annidarsi una deviazione dal principio di offensività — si pensi, ad esempio, ai delitti di attentato e soprattutto ai reati a dolo specifico — è compito dell’interprete fornire una lettura delle norme incriminatrici che subordini la configurazione della responsabilità penale all’esposizione a pericolo del bene giuridico in gioco (22). L’esigenza primaria che discende dal principio di offensività per il diritto penale di oggi e di domani interessa a mio avviso proprio l’interprete, dal quale si deve pretendere un corretto uso del bene giuridico quale criterio di interpretazione delle norme incriminatrici: mai come strumento di dilatazione della loro area applicativa, sempre come criterio di selezione all’interno dei significati letterali della norma. Ed è quasi superfluo sottolineare quale contributo possa venire da una costante interpretazione restrittiva delle norme penali, in linea con il principio di offensività, per un’evoluzione in senso liberale dei rapporti tra individuo e coercizione penale. 3.3. Soltanto un’osservazione sulle prospettive politico-criminali aperte dal principio di offensività. (20) Sulla funzione limitativa del potere punitivo statuale propria del dogma ‘bene giuridico’, può vedersi, da ultimo, DOLCINI, Il reato come offesa a un bene giuridico: un dogma al servizio della politica criminale, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, cit., p. 211 ss. (21) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. I, 1995, p. 159 ss. (22) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 197 ss., e ivi ampia bibliografia, cui adde GELARDI, Il dolo specifico, 1996, in particolare p. 205 ss.
— 17 — Va sgombrato il campo da un equivoco, ingenerato da alcuni fra gli alfieri del c.d. ‘diritto penale minimo’ (23), ovvero di un ‘diritto penale ridotto al nucleo essenziale’ (Kernstrafrecht) (24). Ritenere che l’idea del reato come offesa a un bene giuridico abbia la forza degli imperativi costituzionali, e che il diritto penale ‘moderno’ debba rimanere aderente a tale idea, non significa affatto che il diritto penale debba limitare il proprio raggio d’azione alla tutela di pochi, classici beni individuali: il principio di offensività non sbarra le porte all’intervento penale in settori come quelli dell’economia e della finanza, per lasciare integralmente il campo ad altre tecniche di controllo, sanzionatorie e non (25). Da sempre il diritto penale si fa carico della protezione sia di beni individuali, sia di beni collettivi; e tra i beni collettivi trovano spazio, accanto a beni che si concretizzano in entità fisico-materiali, beni che si sostanziano invece in attività giuridicamente regolate: gli uni e gli altri presentano tutti i connotati essenziali del bene giuridico, in primis l’offendibilità, e come tali possono essere tutelati (anche) attraverso la pena (26). (23) Cfr. FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, in Dei delitti e delle pene, 1985, p. 493 ss.; ID., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989. (24) Cfr. HASSEMER, Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, in Jenseits des Funktionalismus - Arthur Kaufmann zum 65. Geburstag, 1989, p. 85 ss. (25) Le posizioni criticate nel testo sono adottate, fra l’altro, da HASSEMER, Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, cit., p. 90: l’A. muove da una concezione ‘personalistica’ del bene giuridico, secondo la quale meriterebbe la qualifica di bene giuridico solo ciò che rappresenta una condizione per lo sviluppo della personalità umana. Nella letteratura italiana, auspica ‘‘una massiccia deflazione dei ‘beni penali’ ’’, che dovrebbero ridursi a quelli ‘‘la cui lesione si concreta in un’offesa in danno di altre persone in carne ed ossa’’, FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 479 ss. Per un diverso, e più persuasivo, approccio al tema in esame, cfr. invece PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, p. 466 ss., il quale trae alcuni spunti dalla concezione personalistica del bene giuridico, ma conclude legittimando la tutela penale di beni collettivi sia istituzionali che ‘diffusi’ (dal corretto esercizio del credito ai beni ambientali). (26) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 183 s. e p. 189. Considerano la tutela penale di funzioni come fenomeno distinto dalla tutela dei beni giuridici, senza però negarne la legittimità, oltre a PALAZZO, op. cit., p. 468 ss., MANTOVANI, Diritto penale, pt. gen., cit., p. 227; PADOVANI, Diritto penale, pt. gen., cit., p. 110 ss. Contrappone la tutela di beni e la tutela di funzioni anche G.A. DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in questa Rivista, 1996, p. 21 ss., in particolare p. 67, nt. 74. Criticando l’impostazione qui accolta, l’A. rileva che ‘‘la circostanza che... una determinata entità risulti ‘offendibile’ non conduce necessariamente ad indentificare in essa un oggetto meritevole di tutela penale’’. L’osservazione non sembra però del tutto pertinente: una cosa è la compatibilità strutturale di un determinato modello di reato con un diritto penale del bene giuridico, altra cosa il problema se un certo bene (in questo caso, un bene collettivo di tipo istituzionale) sia meritevole di tutela penale. Dimostrato, ad esempio, che le funzioni di controllo di un soggetto pubblico sul mercato finanziario o sul sistema del credito presentano i connotati di un vero e proprio bene giuridico, rimane del tutto impregiudicato il quesito se quel bene meriti (e abbia bisogno) di essere presidiato con lo strumento della pena contro questo o quel comportamento lesivo o pericoloso.
— 18 — La presenza nell’ordinamento di attività giuridicamente regolate, che rappresentano l’esercizio delle funzioni di enti o organi pubblici, è cresciuta negli ultimi decenni, e verosimilmente è destinata a crescere ulteriormente in futuro: il governo di processi economici sempre più complessi ha comportato la creazione di nuovi enti e l’attribuzione di nuovi compiti di controllo a enti preesistenti, con frequente ricorso alla sanzione penale per reprimere comportamenti che impediscano o ostacolino l’esercizio di quelle funzioni. Va detto però a chiare lettere che di null’altro si tratta che della tutela di nuovi beni, strutturalmente identici a beni classici, contro comportamenti dannosi o pericolosi. In definitiva, la ‘gente per bene’ (27) — una formula che, riferita a molti tra gli attuali protagonisti del mondo degli affari, più che mai si colora di sarcasmo — non trova nell’idea del reato come offesa a un bene giuridico alcuna ‘copertura’ per la sua eterna aspirazione a liberarsi dagli impacci del diritto penale. 4.1. Che un lungo cammino separi tuttora il diritto penale italiano da un’integrale attuazione del principio di colpevolezza, recepito dalla Costituzione attraverso il principio di personalità della responsabilità penale, è cosa troppo nota perché valga la pena di soffermarvisi in questa sede. La responsabilità penale dell’incapace di intendere o di volere e soprattutto la responsabilità oggettiva occupano ancora ampi spazi nel nostro ordinamento. A dieci anni di distanza dalla svolta nella giurisprudenza costituzionale che ha immediatamente interessato la disciplina dell’errore sulla legge penale e una singola, marginale ipotesi di responsabilità oggettiva (28), bisogna prendere atto che il legislatore non si è per nulla affannato a trarre le doverose conseguenze dalle affermazioni di principio della Corte: non è intervenuto, fra l’altro, sulla disciplina dei delitti aggravati dall’evento, su quella dei delitti preterintenzionali, sulle ipotesi speciali di concorso di persone nel reato. Ha ritenuto di poter attendere i tempi lunghi della riforma del codice penale, intrapresa — come si è accennato (cfr. supra, 2.4.) — per la discutibile strada della delega legislativa. Né, a proposito della responsabilità oggettiva, l’inerzia del legislatore (27) Per la contrapposizione tra ‘delinquenti’ e ‘gente per bene’, cfr. LANGE, Die Magna Charta der anständigen Leute, in JZ, 1956, p. 519 ss. (28) Il riferimento è a Corte cost. 24 marzo 1988 n. 364, in questa Rivista, 1988, p. 686 ss., con nota di PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, nonché a Corte cost. 13 dicembre 1988 n. 1085, ivi, 1990, p. 289 ss., con nota di VENEZIANI, Furto d’uso e principio di colpevolezza.
— 19 — può sempre trovare un correttivo soddisfacente da parte della giurisprudenza, attraverso l’interpretazione costituzionalmente adeguata della norma penale: spesso — esemplare il caso dei delitti aggravati dall’evento — l’attuazione del principio di colpevolezza postula ben altro che la mera inserzione nella norma del limite della colpa, alla quale residuerebbero comunque inaccettabili squilibri tra il trattamento sanzionatorio e il rimprovero cui si espone l’agente (29): sono pertanto necessari interventi più profondi sulla disciplina vigente, che solo il legislatore è in grado di compiere. D’altra parte, nell’opera di adeguamento della normativa penale al principio di colpevolezza si prospetta per lo più non un’unica soluzione, ma una pluralità di soluzioni: il principio di colpevolezza deve confrontarsi con disparate istanze politico-criminali e l’opera di mediazione tra le diverse istanze è compito ineludibile del legislatore (30). 4.2. A proposito del principio di personalità della responsabilità penale, un profilo che non si può passare sotto silenzio nel quadro di una riflessione sulle ‘nuove frontiere’ del diritto penale è quello che riguarda i rapporti fra il principio costituzionale e il problema della responsabilità penale delle persone giuridiche: un problema la cui stringente attualità (31) è segnalata, fra l’altro, dal progressivo arretramento del dogma societas delinquere non potest nell’area giuridica dell’Europa continentale (32), nonché da una raccomandazione del Consiglio d’Europa che già nel 1988 invitava gli Stati membri a ‘‘rendere le imprese responsabili per i reati commessi nell’esercizio della loro attività’’ (33). Nello stesso senso parlano alcune recenti convenzioni internazionali — fra le altre, il Secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (Convenzione P.I.F.), del 19 giugno 1997 (34), e la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici (29) Cfr. DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, in questa Rivista, 1979, p. 814 ss. (30) Cfr. MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, cit., p. 427. (31) Cfr. TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in questa Rivista, 1995, p. 615. (32) Si veda in proposito l’ampio quadro — relativo anche al mondo anglosassone e ad alcuni Stati extraeuropei — tracciato da TIEDEMANN, La responsabilità penale, cit., p. 623 s. (33) Cfr., anche per i riferimenti bibliografici, DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in questa Rivista, 1995, p. 89. (34) Il testo di tale Protocollo può leggersi in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee n. C221 del 19 luglio 1997, p. 12 ss. Secondo il disposto dell’art. 3, ‘‘ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili della frode, della corruzione attiva e del riciclaggio di denaro commessi a loro
— 20 — ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali, del 17 ottobre 1997 (35) — nelle quali, limitatamente ai reati oggetto delle convenzioni, che dovranno essere introdotti nelle legislazioni degli Stati firmatari, si prevede una responsabilità diretta delle persone giuridiche. E i tratti di tale responsabilità, con tutta evidenza, sono quelli caratteristici di una responsabilità penale (36); se le convenzioni si astengono dall’attribuirle espressamente questa qualifica, lo fanno soltanto in ossequio formale alle scelte di quei legislatori nazionali che ancora non prevedono la responsabilità penale delle persone giuridiche (37). 4.3. È evidente che la complessità del problema non consente di esaurirlo in pochi, sbrigativi cenni. Vorrei soltanto esprimere una riserva beneficio da qualsiasi persona che agisca individualmente o in quanto parte di un organo della persona giuridica, che detenga un posto dominante in seno alla persona giuridica...’’. (35) Cfr. Convention on Combating Bribery of Foreign Public Officials in International Business Transactions (and related Documents), 1997, p. 6 ss. La Convenzione, che all’art. 1 impegna gli Stati firmatari a configurare come reato la corruzione di pubblici ufficiali stranieri, prevede all’art. 2 che ‘‘ciascuna parte adotti le misure necessarie, secondo i propri principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche per la corruzione di pubblici ufficiali stranieri’’. (36) Il citato Secondo Protocollo della Convenzione P.I.F., pur lasciando facoltà agli Stati membri di prevedere sanzioni non penali per le persone giuridiche, delinea all’art. 4 una tipologia sanzionatoria indirizzata nei loro confronti comprendente sanzioni pecuniarie, pene interdittive di vario contenuto, il probation (‘‘assoggettamento a sorveglianza giudiziaria’’), nonché lo scioglimento, vera e propria pena di morte per la persona giuridica: si tratta dunque, salve poche eccezioni, dell’intero arsenale delle sanzioni penali previste per le persone giuridiche negli ordinamenti che hanno ripudiato il principio societas delinquere non potest. (37) Particolarmente significativo in questo senso appare il disposto dell’art. 3 comma 2 della citata Convenzione OCSE: ‘‘Nel caso in cui, secondo il sistema giuridico di una Parte, la responsabilità penale non sia applicabile alle persone giuridiche, la Parte in questione assicura che le persone giuridiche siano passibili di sanzioni non penali efficaci, proporzionate e dissuasive, incluse le sanzioni pecuniarie, in caso di corruzione di pubblici ufficiali stranieri’’. Solo in quanto la legislazione nazionale non conosca forme di responsabilità penale degli enti collettivi, potranno dunque essere previste sanzioni non penali: e in ogni caso tali sanzioni dovranno presentare i connotati salienti — di efficacia, proporzione e dissuasività — delle sanzioni penali. Un ulteriore, significativo indice degli orientamenti oggi dominanti in Europa è fornito dal ‘‘Corpus iuris recante disposizioni penali per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea’’, presentato nel 1996 a conclusione dei lavori di una commissione di esperti costituita su iniziativa del Parlamento europeo. Il progetto, limitatamente ai reati ivi contemplati, prevede la responsabilità penale degli enti collettivi (art. 14), nonché la ‘‘messa sotto sorveglianza giudiziaria’’ come specifica pena principale per tali soggetti (art. 9 comma 1 lett. b). Il testo del Corpus iuris e la relazione che lo accompagna possono leggersi in Verso uno spazio giudiziario europeo. Corpus iuris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea, 1997, p. 33 ss.
— 21 — circa la tesi, accolta da autorevolissima dottrina (38), secondo la quale il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale opporrebbe uno sbarramento insuperabile alla configurazione di una responsabilità diretta degli enti collettivi. Che il principio costituzionale valga a mettere al bando qualsiasi forma di responsabilità penale delle persone giuridiche è una conclusione alla quale si può giungere soltanto attraverso un percorso interpretativo segnato da scelte probabilmente legittime, ma nient’affatto necessitate: tale conclusione non è imposta, mi sembra, né dalla lettera, né dallo spirito della norma costituzionale (39). L’art. 27 comma 1 Cost. fissa dei limiti alla responsabilità penale a garanzia dell’individuo nei confronti della potestà punitiva dello Stato: esclude che egli possa rispondere penalmente per un fatto integralmente realizzato da altri, ovvero per un fatto proprio incolpevole; del pari, esclude che la pena possa essergli inflitta in misura superiore al limite segnato dalla colpevolezza (40). Ma questa finalità garantistica — che riguarda soltanto l’individuo — non è affatto frustrata da un scelta legislativa che incardini la responsabilità penale — oltre che nella persona fisica, entro quei limiti e a quelle condizioni —, anche nella persona giuridica: una disciplina legislativa che dall’operato dell’amministratore di una società faccia conseguire sanzioni penali non solo nei confronti della persona fisica, ma anche nei confronti della società non rende nessun uomo responsabile per il fatto di altri, né lo rende responsabile oltre i limiti segnati dalla colpevolezza. A meno di non voler riproporre la vecchia, confutabilissima tesi che ravvisa una violazione del divieto di responsabilità per fatto altrui nei riflessi che la sanzione penale — verosimilmente, ma non necessariamente, (38) Cfr., fra gli altri, con diverse impostazioni, BRICOLA, Il costo del principio ‘‘societas delinquere non potest’’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, p. 951 ss., in particolare p. 1010 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., 3a ed., 1995, p. 141; GROSSO, voce Responsabilità penale, in Nss. dig. it., vol. XV, 1968, p. 711 s.; MANTOVANI, Diritto penale, pt. gen., cit., p. 151; PADOVANI, Diritto penale del lavoro, 1976, p. 27; PEDRAZZI, La responsabilité pénale non individuelle, in Rapports nationaux italiens au X Congrès international de droit comparé, 1978, p. 750; ROMANO, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola), in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, cit., p. 163. (39) Conf. ALESSANDRI, Commento all’art. 27 comma 1, in BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, tomo IV, 1989, p. 137 ss. dell’estratto. Cfr. inoltre, in relazione agli ordinamenti italiano e francese, TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 616. (40) Sulla ‘‘funzione liberale’’ del principio di colpevolezza, di presidio delle libertà del cittadino, cfr. per tutti ROXIN, Strafrecht, A.T., 3a ed., 1997, p. 59 e p. 732.
— 22 — pecuniaria (41) — produrrebbe nei confronti dei soci (42): di tutti i soci, anche di quelli che, eventualmente, abbiano espressamente dissentito dalla decisione dell’organo sociale da cui è derivata la responsabilità penale. È facile controbattere che ogni sanzione penale — dalla pena di morte alla pena pecuniaria — produce effetti più o meno gravosi, talora devastanti, su persone del tutto estranee al reato: ed è inevitabile che ciò accada. Chi proponga un simile argomento contro la responsabilità penale delle persone giuridiche dovrebbe dunque battersi, fra l’altro, e ben prima, anche contro qualsiasi impiego della pena detentiva nei confronti di chi abbia una famiglia da mantenere, o dia lavoro a terzi, o soltanto abbia dei debiti che a seguito della condanna non potrà più onorare. D’altra parte, l’ingresso in una società di capitali implica l’assunzione di un rischio economico, che lo schermo societario vale a circoscrivere al capitale conferito: e solo all’interno di questo limite la pena inflitta alla società produrrebbe i suoi indiretti effetti pregiudizievoli nei confronti dei soci (43). 4.4. Proviamo, d’altra parte, ad affrontare la questione da un diverso angolo di visuale. Ammettiamo, secondo l’assunto della dottrina prevalente, che l’art. 27 comma 1 Cost. consenta di ascrivere un reato alla persona giuridica solo a condizione che tale responsabilità presenti tutti i requisiti di una responsabilità ‘personale’: a condizione cioè che il fatto di reato possa essere considerato un fatto ‘proprio’ della persona giuridica e che sia possibile muovere nei suoi confronti un rimprovero di colpevolezza. Muovendo da questa premessa, sembra almeno plausibile — ma tanto basterebbe — adottare gli schemi concettuali della c.d. teoria organicistica: con la conseguenza che il fatto penalmente rilevante posto in essere, ad esempio, dall’amministratore di una società commerciale che agisca nell’esercizio delle sue funzioni e nell’ambito della politica di impresa potrà essere considerato come fatto dell’ente, sul piano penalistico come su quello civilistico, e che potranno ravvisarsi in capo all’ente tutte le con(41) Sull’esigenza di affiancare alla sanzione pecuniaria ‘‘altri tipi di sanzione capaci veramente di scoraggiare l’intrapresa di operazioni, da parte della società di capitali, dirette ad estenderne illecitamente la sfera di influenza economica’’, cfr. MARINUCCI-ROMANO, Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori delle società per azioni, in AA.VV., Il diritto penale delle società commerciali, 1971, p. 98 ss. (42) Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. gen., 14a ed., 1997, p. 595. (43) Sottolinea il carattere ‘‘del tutto indiretto’’ di tali effetti ALESSANDRI, Commento, cit., p. 144.
— 23 — dizioni necessarie per soddisfare il meccanismo di imputazione normativa che designiamo come colpevolezza (44). Sotto quest’ultimo profilo, solo attribuendo alla colpevolezza contenuti psicologici e connotati etici modellati sulla persona umana si può giungere alla conclusione — a questo punto, sì, ineludibile — che una responsabilità colpevole può essere soltanto dell’uomo, e non anche dell’ente collettivo (45). Di cristallina trasparenza una recente affermazione di Mario Romano: ‘‘l’innegabile impronta etica che il diritto penale ha sempre posseduto nelle intese normative anche costituzionali porta a riconoscere che nel nostro ordinamento la personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27... si radica, prima ancora che su una colpevolezza, su un insieme di fattori fisio-psichici che la colpevolezza stessa presuppone, identificabili solo in capo a persone fisiche’’ (46). Ma questa conclusione sta o cade a seconda che si muova o no da quella — non pacifica — premessa. 4.5. Nemmeno il sistema dei principi costituzionali sembra orientare verso una lettura dell’art. 27 comma 1 Cost. che riconduca tra i suoi contenuti il divieto della responsabilità penale delle persone giuridiche. Parla semmai in senso opposto il principio di eguaglianza (art. 3 comma 1 Cost.), ove si consideri lo squilibrio creato tra imprenditore individuale e imprenditore societario da un controllo penale che si eserciti sulle sole persone fisiche: nei confronti dell’imprenditore societario la condanna penale dell’amministratore si riduce infatti a poco più che al problema della sua sostituzione (47). Né il fine rieducativo attribuito alla pena dall’art. 27 comma 3 Cost. si pone in antitesi con la responsabilizzazione della persona giuridica (48). Nessuno potrebbe infatti seriamente sostenere che tale princi(44) Cfr. ALESSANDRI, Commento, cit., p. 144 s. (45) Cfr. BRICOLA, Il costo del principio ‘‘societas delinquere non potest’’, cit., p. 961: rileva l’illustre Autore che la tesi che considera la società commerciale ‘‘incapace di essere soggetto passivo di un giudizio di rimprovero (colpevolezza)... risente troppo di una impronta eticizzante attribuita alla responsabilità penale’’. (46) ROMANO, Societas delinquere non potest, cit., p. 164; sulla stessa linea, nella letteratura tedesca, v. ad esempio JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., 5a ed., 1996, p. 227. Per una diversa impostazione, v. peraltro TIEDEMANN, La responsabilità penale, cit., p. 628 s., secondo il quale ‘‘nulla impedisce di considerare le persone giuridiche come destinatarie di norme giuridiche che presentano anche un carattere etico’’: ‘‘nel modo di vedere e nelle espressioni della societas si riconosce tranquillamente l’esistenza di una responsabilità che non è del tutto priva di un carattere etico o morale, anche se la colorazione morale assume qui un contenuto parzialmente diverso’’. (47) Cfr. ALESSANDRI, Commento, cit., p. 139. (48) Sull’idoneità della pena a svolgere un’azione specialpreventiva nei confronti della persona giuridica, cfr. TIEDEMANN, La responsabilità penale, cit., p. 629 ss. Afferma in-
— 24 — pio significhi la messa al bando della pena pecuniaria, strumento di intimidazione-ammonimento in grado di operare nei confronti di persone fisiche e di enti collettivi. Che poi la persona giuridica sia ontologicamente incompatibile con la pena detentiva, non comporta costi significativi sul versante della rieducazione, nemmeno intesa nel significato pregnante di risocializzazione (49): l’esperienza di altri ordinamenti conferma che nei confronti della persona giuridica possono trovare applicazione modelli sanzionatori derivati dal probation (50) o dal community service (51) — matrici ben note al diritto penale italiano — dai quali si possono attendere effetti di socializzazione più apprezzabili di quelli normalmente prodotti (rectius, non prodotti) dalla pena privativa di libertà. Si aggiunga un ulteriore spunto ricavabile dalla recente esperienza degli Stati Uniti d’America. Prevedendo sensibili benefici in sede di commisurazione della pena pecuniaria per le società commerciali che abbiano adottato ‘effettivi programmi di collaborazione’ — codici di comportamento, elaborati sulla base di principi fissati dalla legge federale e volti a promuovere dall’interno della società il rispetto della legge penale —, il legislatore federale del 1991 si è proposto di incentivare le persone giuridiche a ‘rimodellarsi’ così da prevenire alla radice la commissione di reati. Attraverso questo particolare meccanismo, la comminatoria di una pena pecuniaria diventa dunque strumento, in un certo senso, di rieducazione dell’ente collettivo: e ciò in una forma particolarmente penetrante, ‘‘come se, nei confronti di una persona fisica, si pretendesse di regolarne la vita di ogni giorno’’ (52). vece che ‘‘la finalità rieducativa della pena finirebbe in forte tensione nella convivenza con la responsabilità penale della persona giuridica’’ ALESSANDRI, Commento, cit., p. 147. In quest’ultimo senso, v. anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., cit., p. 141. (49) Circa il concetto di rieducazione qui accolto, che fa spazio sia alla risocializzazione, sia all’intimidazione-ammonimento, ed esclude che la risocializzazione possa assumere le forme di una manipolazione coattiva della personalità del condannato, si rinvia a DOLCINI, La ‘‘rieducazione del condannato’’ tra mito e realtà, in questa Rivista, 1979, p. 469 ss., ora in MARINUCCI-DOLCINI, Studi di diritto penale, 1991, p. 133 ss., in particolare p. 137 ss. (50) Sul ‘corporation’s probation’ previsto negli Stati Uniti d’America, cfr. TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 618 s. Anche l’art. 131-39 del cod.pen. francese, all’interno di un ampio ventaglio di sanzioni applicabili alla persona giuridica, prevede la sottoposizione a sorveglianza giudiziaria per un periodo non inferiore a cinque anni. Cfr. DE SIMONE, Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, p. 189 ss., in particolare p. 228. Per ulteriori previsioni dell’assoggettamento a sorveglianza giudiziaria delle persone giuridiche, contenute in convenzioni internazionali e nel Corpus iuris, cfr. supra, nt. 36 e 37. (51) Cfr., in relazione all’esperienza australiana, TIEDEMANN, La responsabilità penale, cit., p. 619. (52) Così DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie, cit., p. 157 s., alla quale si rinvia per
— 25 — 4.6. Sembra dunque di poter concludere che, in nessun modo pregiudicato dalla Costituzione, lo scottante problema della responsabilità penale delle persone giuridiche risulta integralmente rimesso alle valutazioni politiche del legislatore. A lui il compito di stabilire se dovremo ancora sopportare i costi del principio societas delinquere non potest ed eventualmente l’ulteriore compito di individuare le soluzioni più idonee a trarre dal controllo penale delle persone giuridiche sicuri benefici per la collettività. 5.1. Venendo, da ultimo, al principio della rieducazione del condannato, l’angolo di visuale è suggerito, quasi imposto, dai recenti, molteplici interventi legislativi che hanno interessato la normativa penitenziaria, e soprattutto la disciplina delle misure alternative alla detenzione (53). Cercando di individuare una linea politico-criminale comune alla base di tali interventi, mi sembra di poter affermare che negli anni novanta l’insieme della normativa penitenziaria è andato suddividendosi sempre più nettamente in due sottosistemi (54). L’uno delinea il trattamento sanzionatorio della criminalità organizzata, rispetto alla quale l’art. 4-bis ord. penit., più volte riformato nel corso degli ultimi anni, ha creato una serie crescente di preclusioni che si oppongono o ritardano l’accesso del condannato alle misure alternative, ai permessi-premio e al lavoro all’esterno: per questa classe di destinatari la pena detentiva risulta dunque decisamente orientata verso un’esecuzione in forma chiusa, che privilegia le istanze della neutralizzazione, ulteriormente assecondate dalla previsione del secondo comma dell’art. 41-bis. L’altro sottosistema riguarda invece il trattamento sanzionatorio della criminalità comune: in questa sfera è progressivamente cresciuto lo spazio per sanzioni non privative di libertà, senza che si sia formalmente rinnegata la scelta di principio a favore della pena detentiva. Strumento principe di questa opzione politico-criminale sono le misure alternative, attraverso le quali le pene della reclusione e dell’arresto comminate dalla legge si trasformano sostanzialmente in altra cosa nel corso dell’esecuzione, e anzi sempre più spesso già prima che l’esecuzione abbia inizio. Ora, la scelta di principio che ha portato alla creazione dei due sottosistemi non sembra incoerente rispetto all’imperativo costituzionale della un’attenta e documentata analisi dei compliance programs nella riforma del sentencing per le persone giuridiche varata dal legislatore federale americano nel 1991. (53) Per una panoramica, può vedersi DOLCINI, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, 3a ed., in preparazione, Nota introd. al Titolo II del Libro I. (54) V. per tutti GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, 1994, p. 4 ss.
— 26 — rieducazione del condannato. Molti sono i prezzi che l’idea della rieducazione deve pagare all’impatto con la realtà: tra l’altro, va preso atto delle ridottissime potenzialità rieducative della pena detentiva nei confronti degli esponenti del crimine organizzato che si siano resi autori di gravi reati. Nei loro confronti, l’accento della politica sanzionatoria non può cadere che sull’intimidazione-ammonimento, dunque sull’afflittività della pena, e sulla neutralizzazione: fatta salva la possibilità che in concreto emergano, nel corso dell’esecuzione, ben verificate svolte nelle scelte di vita del condannato. 5.2. In relazione al trattamento sanzionatorio della criminalità comune, bisogna però domandarsi se davvero le riforme più recenti riflettano una razionale linea di politica criminale: in particolare, nella prospettiva di questa analisi, fino a che punto quelle riforme possano essere ricondotte all’idea della rieducazione del condannato. Non c’è dubbio che uno dei più rilevanti corollari del principio enunciato nell’art. 27 comma 3 della Costituzione riguardi la lotta alla pena detentiva breve: una formula che da molti decenni sintetizza l’idea della rinuncia alla pena privativa di libertà per la piccola criminalità del delinquente occasionale. Tale rinuncia è imposta da ragioni perentorie: come si rileva da almeno un secolo (55), già per le caratteristiche dei suoi destinatari la pena detentiva breve è pressoché votata a produrre effetti antitetici alla rieducazione, e d’altra parte, quale strumento di ammonimento, può essere agevolmente surrogata da pene diverse, attinte o no all’arsenale del diritto penale classico. Quanto invece alla criminalità media, è vero che anche in questa sfera la pena detentiva fatica a produrre positivi effetti di risocializzazione e che tali effetti non potranno mai riguardare la generalità dei suoi destinatari; tuttavia risultano meno evidenti i rischi di desocializzazione del condannato; inoltre, una pena detentiva di media durata esercita un’azione di ammonimento alla quale il sistema penale non può rinunciare a cuor leggero, ma solo in quanto la privazione di libertà ceda il passo a sanzioni a loro volta dotate di tangibili e sicuri connotati afflittivi: una condizione indispensabile, quest’ultima, anche per l’adozione di pene non privative di libertà nei confronti della piccola criminalità del recidivo. Se così non fosse, il sistema penale — come ha segnalato con forza, di recente, Giorgio Marinucci (56) — rischierebbe il collasso. Nell’illustrare le diverse indicazioni politico-criminali che discendono (55) È d’obbligo il richiamo a VON LISZT, Kriminalpolitische Aufgaben (1889-1892), Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, 1905, rist. an. 1970, vol. I, p. 347. (56) Cfr. MARINUCCI, Riforma o collasso del controllo penale?, in Dir. pen. e processo, 1998, p. 1063 ss.
— 27 — dal principio costituzionale della rieducazione del condannato, ho usato intenzionalmente formule elastiche come pena detentiva ‘breve’ e ‘media’. Ora è innegabile che il confine tra pene brevi e pene medie si è spostato nel tempo, sì che nessuno oggi designerebbe come pene brevi le sole pene di poche settimane, alle quali faceva riferimento la dottrina di fine ottocento e degli inizi del novecento (57); tuttavia sembra altrettanto indiscutibile che quando la legge 27 maggio 1998, n. 165 ha aperto la strada — una vera e propria autostrada — alle misure alternative, e soprattutto all’affidamento in prova, per i condannati a pene detentive fino a tre anni, così facendo ha inciso sui contenuti di pene medie, e non soltanto di pene brevi. Ancor meno può dubitarsi che il nuovo regime interessi, accanto alla criminalità bagatellare, forme di criminalità media e anche di criminalità grave. Il limite di tre anni — fino al quale l’esecuzione della pena detentiva, a norma del nuovo art. 656 c.p.p., deve essere sospesa d’ufficio e risulta, per così dire, naturalmente incanalata verso l’affidamento in prova — è infatti riferito dalla legge anche al ‘‘residuo di maggiore pena’’ (58): i tre anni andranno dunque computati, ad esempio, ‘al netto’ dell’indulto. Ed è difficile sostenere che cinque anni di reclusione, ridotti a tre per effetto di un indulto, possano essere inflitti per un reato men che grave! Il legislatore del 1998 sembra dunque impegnato a debellare non la pena detentiva breve, in attuazione dell’imperativo costituzionale della rieducazione del condannato, bensì la pena detentiva tout court: con poche eccezioni, relative ai reati più gravi e soprattutto al crimine organizzato. 5.3. L’arretramento della pena detentiva nel quadro del sistema sanzionatorio lascerebbe d’altra parte pochi rimpianti, se a sostituirla fossero chiamate sanzioni utili al reinserimento sociale del condannato e dotate di contenuti sufficientemente afflittivi per soddisfare istanze del sistema punitivo non meno inderogabili di quelle della risocializzazione: le istanze della prevenzione generale nello stadio della comminatoria legale e quelle dell’intimidazione-ammonimento nella fase dell’esecuzione. Che tali caratteri siano presenti nelle sanzioni alle quali il legislatore del 1998 ha accordato tanta fiducia è però almeno dubbio. (57) Cfr., anche per gli essenziali riferimenti bibliografici, DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, 1989, p. 4 s. (58) Come è noto, peraltro, già prima della riforma del 1998 la legge n. 356/1992, all’art. 14-bis, aveva chiarito che il limite di tre anni, ancorché riferito dall’art. 47 comma 1 ord. penit. alla ‘‘pena inflitta’’, andava inteso ‘‘nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive’’.
— 28 — Proprio l’esperienza degli ordinamenti che per primi e più ampiamente hanno utilizzato lo strumento del probation — archetipo dell’affidamento in prova (59) — segnala il rischio che al dilatarsi del suo impiego si accompagni un progressivo svuotamento di contenuti, al punto che la misura tende a ridursi a una sorta di rinuncia condizionata a punire, in altri termini a un doppione di istituti quali la sospensione condizionale della pena. Di qui i ricorrenti tentativi, negli Stati Uniti d’America, di creare forme di ‘probation intensivo’, che recuperino almeno le componenti di controllo dell’istituto originario (60): ma allo stesso legislatore nordamericano questo risultato sembra possibile solo in quanto il nuovo tipo di probation si indirizzi a una ristretta gamma di destinatari (61). Il legislatore italiano procede invece in direzione opposta. Smantella le pur problematiche prognosi che stavano alla base dell’affidamento in prova nella sua prima configurazione, dilata i presupposti della misura e scommette sulla sua idoneità a fornire una risposta adeguata ad un’ampia fascia di criminalità: ma si tratta davvero di fiducia nelle potenzialità dell’affidamento in prova o piuttosto di una fuga incontrollata dalla pena detentiva, ispirata soltanto dalla consapevolezza del carico insopportabile che grava oggi sul sistema carcerario (62)? Analoghi interrogativi solleva il vistoso ampliamento degli spazi che la legge Simeone apre alla detenzione domiciliare, sia in relazione ai destinatari tradizionali della misura (la madre, e ora anche il padre, con prole convivente; i malati, gli anziani, i giovani adulti), che potranno scontare in (59) Cfr. TARTAGLIONE, La sospensione condizionale con probation, in Riv. pen., 1971, ora in Gli scritti di Girolamo Tartaglione, Rass. penit. e crim., 1990, p. 323 ss. (60) Cfr. PEARSON-HARPER, Contingent Intermediate Sentences: New Jersey’s Intensive Supervision Program, in Crime and Delinquency, 1990, vol. 36, p. 76. (61) Nella letteratura italiana, per la proposta di introdurre ‘‘un serio regime di sorveglianza (probation intensivo) indirizzato a una cerchia ristretta di destinatari e implementato con tutte le risorse possibili per renderlo effettivo’’, cfr. PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, p. 559. (62) È significativo che proprio una denuncia del fenomeno del sovraffollamento degli istituti di pena sia collocata in apertura della Relazione che accompagna la versione originaria del Progetto di quella che sarebbe diventata la l. n. 165 del 1998: anche se quel testo prevedeva la sospensione d’ufficio dell’esecuzione delle sole pene detentive non superiori ad un anno, sì che la Relazione poteva a buon diritto attribuire al Progetto la finalità di limitare ‘‘l’ambito di applicazione di pene brevi’’. In una successiva Relazione, che accompagna il testo modificato dalla Commissione Giustizia della Camera nel quale, accanto alla riforma dell’art. 656 c.p.p., si prevedevano per la prima volta anche interventi sulla disciplina sostanziale della detenzione domiciliare, si sottolinea che tali interventi costituiscono ‘‘una misura incisiva ai fini della deflazione dell’ormai intollerabile sovraffollamento carcerario’’. D’altra parte, il Ministro della Giustizia Flick, intervenendo ai lavori della Commissione Giustizia della Camera, ha affermato che la riforma si inserisce nella ‘‘tendenza volta a realizzare una riduzione della popolazione carceraria’’: cfr. Bollettino delle Giunte e delle Commissioni Parlamentari della Camera dei Deputati, 30 luglio 1996, p. 16 s.
— 29 — regime di detenzione domiciliare la reclusione fino a quattro anni, sia in relazione alla generalità dei condannati, che potranno essere ammessi alla detenzione domiciliare quando la pena detentiva non superi i due anni o addirittura qualunque sia l’ammontare della pena, ove ricorrano le condizioni per il rinvio dell’esecuzione ex artt. 146 e 147 c.p. Non sembra remoto il rischio che, applicando la detenzione domiciliare su così vasta scala, si finisca col rendere assai arduo ogni controllo sui condannati, fino ad annullare del tutto i contenuti della sanzione. Per queste ragioni rivestono notevole importanza, nel testo della l. n. 165 del 1998, gli artt. 6 e 7, che prevedono un potenziamento degli organici del personale dell’Amministrazione penitenziaria destinato alla gestione delle misure. Su questo terreno si gioca una partita decisiva (63), e difficilissima: se si dovesse perderla, la recente riforma si ridurrebbe a un nuovo, intollerabile momento di bagatellizzazione della criminalità medioalta, secondo una linea inaugurata dal codice di procedura penale del 1988, attraverso — soprattutto — quel patteggiamento di cui si vorrebbero ora allargare i confini (64). 5.4. Un ultimo rilievo. Stiamo assistendo ad un ripensamento radicale della politica sanzionatoria penale nel nostro ordinamento. Il legislatore italiano — pur senza rinnegare la sua tradizionale diffidenza nei confronti della pena pecuniaria (65) — ha messo in discussione la centralità della pena detentiva nel sistema delle sanzioni penali. Di questa svolta non vi è traccia, però, nelle comminatorie legali. (63) Già nel 1976, all’indomani dell’entrata in vigore della l. 26 luglio 1975, n. 354, sull’ordinamento penitenziario, Girolamo Tartaglione coglieva lucidamente questo problema, sottolineando l’esigenza di ‘‘strutture valide per dare’’ alle misure alternative ‘‘una reale funzionalità al fine di attuare il recupero sociale dei condannati a pene detentive’’: così TARTAGLIONE, Le misure alternative alla detenzione, in Giust. e cost., 1976, ora in Gli scritti di Girolamo Tartaglione, cit., p. 387 (corsivi aggiunti). (64) Evidenzia il ruolo che già oggi il patteggiamento riveste nella fuga incontrollata del nostro sistema dalle pene detentive più elevate, MARINUCCI, Riforma, cit., p. 1064. (65) Sulle ragioni che hanno ostacolato un più ampio utilizzo della pena pecuniaria nel nostro ordinamento, quali emergono già dalla letteratura di fine ottocento, cfr. PADOVANI, L’utopia punitiva, 1981, p. 131 ss. Obiezioni analoghe, fondate soprattutto sugli squilibri sociali ed economici presenti nel nostro Paese, sono state fra l’altro riproposte alla vigilia delle ‘‘Modifiche al sistema penale’’ (l. 24 novembre 1981, n. 689) contro un ricorso generalizzato alla pena pecuniaria come sostitutivo della pena detentiva breve: v. ad esempio VIOLANTE, in BERTONI-LATTANZI-LUPO-VIOLANTE (a cura di), Modifiche al sistema penale, III, Sanzioni sostitutive, 1982, p. 22. Sulla legge ora citata come fattore di emarginazione della pena pecuniaria nel sistema penale, cfr. le considerazioni critiche di DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative?, cit., p. 200 ss. Auspica ‘‘la costruzione di un moderno modello di pena pecuniaria da sfruttare quale principale alternativa della detenzione breve’’ (p. 559), in polemica con chi, ‘‘per inaggiornata fedeltà a scomparsi paradigmi giacobini’’, ripropone oggi la tesi dell’impraticabilità della pena pecuniaria ‘‘per manifesta diseguaglianza’’ (p. 518), PALIERO, Metodologie de lege ferenda, cit., p. 510 ss.
— 30 — Il vero contenuto della sanzione, quale potrà spesso delinearsi già prima dell’inizio dell’esecuzione, è celato, come sotto una maschera, sotto il nome di ‘reclusione’ o di ‘arresto’: nomi rassicuranti per il cittadino che chiede tutela alla norma penale e in grado di intimorire — ma fino a quando? — i potenziali trasgressori della norma. Anche il giudice, nel pronunciare la condanna, è chiamato a commisurare la pena come se si trattasse di pena detentiva. Un altro giudice, il Tribunale di sorveglianza, sulla base di conoscenze spesso evanescenti, procederà però subito dopo a rimescolare le carte, procederà cioè alla vera commisurazione della pena (66): e se il suo intervento sembrava del tutto plausibile finché si trattava di prendere atto di situazioni nuove, delineatesi nel corso dell’esecuzione, si fatica a comprendere perché oggi debba riguardare sempre più di frequente pene pronunciate solo sulla carta, e mai eseguite, neppure in parte. Si legittima tutto ciò in nome della prevenzione generale? Non credo. D’altra parte, è del tutto inaccettabile che il giudice — qualsiasi giudice — sia chiamato a compiere autonome scelte politico-criminali: e proprio di questo si tratta, allorché il tribunale di sorveglianza è chiamato a modificare quanto stabilito dal giudice di cognizione, senza disporre di elementi nuovi ed ulteriori. Ben altro è il delicatissimo ruolo del giudice: le scelte politico-criminali competono al solo legislatore. E proprio in relazione al sistema sanzionatorio il legislatore italiano è chiamato oggi — lo si segnala da tempo, ma la dottrina non dispone di altro strumento che la denuncia — a un compito non più eludibile, né procrastinabile: quello di una riforma organica, in grado fra l’altro di rimuovere le molteplici aporie — penso soprattutto ai rapporti tra sospensione condizionale, misure alternative e pene sostitutive (67) — che le miniri(66) Ben prima della legge Simeone la dottrina censurava gli smisurati spazi attribuiti alla magistratura di sorveglianza per ridisegnare ex post la pena commisurata nella sentenza di condanna: in questo senso, v. recentemente PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, p. 419 s. e MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’ nella commisurazione della pena, 1996, p. 12 ss. Addirittura nel corso dei lavori preparatori della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 Girolamo Tartaglione criticava la scelta di attribuire al giudice di sorveglianza, anziché al giudice di cognizione, il potere di disporre l’affidamento in prova, sottolineando l’omogeneità tra questa decisione e altre, relative al trattamento sanzionatorio del reato, demandate al giudice che pronuncia la condanna: cfr. TARTAGLIONE, La sospensione condizionale con probation, in Riv. pen., 1971, ora in Gli scritti di Girolamo Tartaglione, cit., p. 326 s. (67) Che l’obiettivo di razionalizzare i rapporti tra sospensione condizionale e sanzioni sostitutive sia stato ben presente ai compilatori dello Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, è sottolineato espressamente nella Relazione: v. Indice pen., 1992, p. 595. Su questa esigenza, può vedersi anche DOLCINI, Ancora una riforma della sospensione condizionale della pena?, in questa Rivista, 1985, p. 1012 ss.
— 31 — forme settoriali di questi anni hanno soltanto accentuato (68). E in quest’opera il legislatore dovrà ispirarsi non soltanto a esigenze contingenti, come quella dello sfoltimento delle carceri, ma anche a idee-guida più alte e più feconde: tra queste, secondo l’indimenticabile insegnamento di Girolamo Tartaglione (69), il principio costituzionale della rieducazione del condannato. EMILIO DOLCINI
(68) Ad esempio, è difficile comprendere a quale logica risponda la previsione della semidetenzione quale pena sostitutiva della reclusione e dell’arresto fino ad un anno, quando pene detentive di ammontare assai superiore (fino a tre anni) possono essere integralmente scontate in regime di affidamento in prova: una sanzione decisamente afflittiva soggiace dunque a limiti assai più ristretti di quelli imposti ad una misura che, nella prassi, assume contenuti quasi impalpabili. (69) Al centro del progetto di una strategia differenziata per la difesa della società Tartaglione collocava l’idea della rieducazione: si trattava infatti di ‘‘ricorrere in modo appropriato ad azioni di condizionamento psicologico destinate a stimolare la volontà di riadattamento e di recupero ed a rafforzare la capacità di resistenza contro gli impulsi criminogeni (operando anche sulle situazioni esterne che contribuiscono alla sociogenesi della criminalità)’’. Così TARTAGLIONE, Le misure alternative alla detenzione, cit., p. 388.
LA CAUSALITÀ OMISSIVA E L’IMPUTAZIONE ‘‘PER L’AUMENTO DEL RISCHIO’’. SIGNIFICATO TEORICO E PRATICO DELLE TENDENZE ATTUALI IN TEMA DI ACCERTAMENTI EZIOLOGICI PROBABILISTICI E DECORSI CAUSALI IPOTETICI
SOMMARIO: 1. L’OMISSIONE COME CONDIZIONE ‘‘EQUIVALENTE’’: UN PROBLEMA ‘‘CLASSICO’’ DELLA CAUSALITÀ GIURIDICA. - 1.1. La causalità e i sui ‘‘equivalenti’’ normativi. 1.2. La condicio sine qua non come formula dell’equivalenza. - 1.3. Le ‘‘correzioni’’ alla formula della condicio e le ‘‘diserzioni’’ da essa. — 2. VERSO UN MUTAMENTO DI PARADIGMI: DALLA CAUSALITÀ COME CRITERIO ‘‘GENERALE’’ DI IMPUTAZIONE, ALL’IMPUTAZIONE DELL’EVENTO SENZA CAUSALITÀ. - 2.1. Nascita delle teorie dell’aumento del rischio. - 2.2. Diversa portata del dubbio sull’evitabilità nei reati commissivi colposi e in quelli omissivi (la causalità della colpa e quella dell’omissione), secondo un aumento del rischio valutato ex post. - 2.3. Scenari più ampi della categoria del ‘‘rischio’’ in diritto penale. — 3. LA VALORIZZAZIONE (PIÙ CHE LA ‘‘SCOPERTA’’) DEL SIGNIFICATO PROBABILISTICO DELLA SPIEGAZIONE CAUSALE. - 3.1. Il significato dell’impiego di leggi causali di tipo statistico. - 3.2. Probabilità statistica e probabilità logica. — 4. LA GIURISPRUDENZA COME FATTORE DI MUTAMENTO SISTEMICO: DALLA RESPONSABILITÀ DEL SANITARIO ALLA TEORIA ‘‘GENERALE’’. - 4.1. L’affievolimento della causalità omissiva nella giurisprudenza prevalente, al di là del ricorso a leggi statistiche e a ricostruzioni ‘‘ipotetiche’’ o probabilistiche. - 4.2. Illustrazione della problematica attraverso i casi, ormai ‘‘consolidati’’, della responsabilità medica. - 4.2.1. Casi di sicura causalità rispetto all’hic et nunc dell’evento. - 4.2.2. Casi di apparente omissione e di reale culpa in agendo con importanza pratica relativa della distinzione. L’accertamento di ‘‘condizioni negative’’. - 4.2.3. L’interruzione ‘‘attiva’’ dei decorsi causali di salvataggio. - 4.2.4. Condizioni negative e decorsi causali ipotetici. - 4.2.5. Le ‘‘vere’’ omissioni del sanitario. — 5. LE DUE TESI FONDAMENTALI A SOSTEGNO DELLA TRASFORMAZIONE DELLA CAUSALITÀ IN MERO RAPPORTO DI RISCHIO NELL’OMISSIONE E NELLA RESPONSABILITÀ MEDICA. - 5.1. L’argomento ‘‘pratico’’: il probabilismo dei controfattuali. Insostenibilità della tesi che circoscrive alla sola ‘‘causalità omissiva’’ l’imputazione per aumento rischio. L’esigenza o di estendere l’imputazione per rischio all’interruzione dolosa di decorsi salvifici, a tutte le ‘‘condizioni negative’’ rilevanti in agendo, oppure di escluderla in ogni caso, ma senza disporre mai di certezze ‘‘universali’’. - 5.2. L’argomento ‘‘ideologico’’: ‘‘quando è in gioco la vita umana’’. L’uso di parametri eziologici differenziati ‘‘per classi’’. Critica alla settorialità dell’approccio in materia di responsabilità del medico. — 6. OLTRE L’OMESSO IMPEDIMENTO: LA ‘‘MINIMIZZAZIONE DEL RISCHIO’’ E L’ESTENDERSI DELL’ORIZZONTE PROBLEMATICO ALLA RESPONSABILITÀ NELL’IM(*) Il testo riproduce, con lievi modifiche, e integrazioni nelle note, la relazione tenuta nell’ambito dell’incontro di studio su ‘‘I reati omissivi’’ organizzato dal CSM, Frascati, 22-24 maggio 1997.
— 33 — PRESA E IN SISTEMI SOCIALI COMPLESSI. - 6.1. L’estensione del paradigma probabilistico alla responsabilità dell’imprenditore e del produttore. L’incidenza di obblighi generalizzati di ‘‘minimizzazione dei rischi’’ e gli accertamenti eziologici giurisprudenziali ‘‘di avanguardia’’: dalla probabilità dei controfattuali all’uso di leggi di copertura improbabili. - 6.2. Lo scenario della responsabilità per la perdita di una chance. — 7. VALUTAZIONE COMPLESSIVA DELLA (APPARENTE) TRASFORMAZIONE DELLA CAUSALITÀ IN AUMENTO DEL RISCHIO. - 7.1. Premessa. Discrasie tra ‘‘principi di diritto’’ enunciati in sentenza e ‘‘realtà processuali accertate’’. - 7.2. L’implementazione del precetto quale obiettivo delle ‘‘vere’’ imputazioni per l’aumento del rischio. La sicura violazione, in questi casi, dei principi di legalità (trasformazione dell’evento in condizione obiettiva di punibilità) e di responsabilità penale per fatto proprio (attribuzione come ‘‘fatto proprio’’ di un evento forse cagionato). - 7.3. Il vero ‘‘oggetto’’ del dubbio. - 7.4. Il ‘‘senso’’ dell’equivalenza tra cagionare e omettere e tra le condizioni in genere. 7.5. La soluzione dei casi problematici. Il diverso valore della probabilità nella causalità della condotta materiale e nella c.d. causalità della colpa (l’evitabilità e il dubbio sul comportamento alternativo lecito). — 8. CONCLUSIONI. - 8.1. Risultati dell’indagine. - 8.2. L’incidenza della prova sulla definizione dei concetti giuridici. Prospettive di riforma: dall’evento costitutivo e condizionale, all’evento aggravante.
1.
L’OMISSIONE COME CONDIZIONE ‘‘EQUIVALENTE’’: UN PROBLEMA ‘‘CLASSICO’’ DELLA CAUSALITÀ GIURIDICA.
1.1. La causalità e i sui ‘‘equivalenti’’ normativi. — La causalità dell’omissione rappresenta da sempre un crocevia per la ‘tenuta’ di molte categorie generali e un banco di prova per l’elaborazione di paradigmi alternativi a quelli correnti (1). Chi muove da un approccio appena un po’ normativistico, è portato a pensare che la causalità nel diritto sia comunque un criterio per imputare un evento a un soggetto come suo ‘‘autore’’: pertanto, se lo scopo è l’imputazione, non è decisivo che si tratti di causalità ‘‘effettiva’’, ‘‘reale’’, costruita su ‘‘forze’’ interagenti, su ‘‘energie’’ attive, su basi fisico-antropomorfiche di causalità ‘‘a contatto’’, oppure su relazioni meramente ‘‘logiche’’, di condizionalità ipotetica, di regolarità nomologica. Ciò che importa, in questa visione, è che per il diritto l’agire o l’omettere, in quanto ‘‘cause’’, siano funzionalmente equivalenti, trattandosi di individuare criteri, sia pur differenziati e non identici, per attribuire un evento al soggetto che ha agito in forma attiva od omissiva: che poi si voglia ancora chiamare ‘‘causa’’ il significato oggettivo della sua condotta, oppure ‘‘autoria’’, ‘‘competenza funzionale’’ per un risultato, (1)
Nella letteratura penalistica italiana cfr. per tutti, in ordine cronologico, F. ANTO-
LISEI, Il rapporto di causalità in diritto penale, Padova, 1934, ristampa, Torino, 1960, 133
ss., 222 ss.; G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, 97 ss., 385 ss. (cap. III e VI); G. FIANDACA, voce Causalità (rapporto di), in Dig. disc. pen., II, 1988, 126 s.; F. STELLA, voce Rapporto di causalità, in Enc. giur., XXV, 1991, 14 s.; C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, 821 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., Milano, 1995, Art. 40/36 ss.
— 34 — può diventare secondario. Ma ancor più in una logica ‘‘funzionalistica’’ propria dei sistemi complessi, dove plurime condizioni si mescolano in centri di imputazione di rischi ai titolari di determinati ruoli, anche l’agire attivo sarà fonte di responsabilità non soltanto per la sua causazione ‘‘reale’’, ma altresì e soprattutto per la competenza funzionale del soggetto a spiegare socialmente l’evento in ragione del suo potere di fatto e dell’approfondimento del rischio scatenato dal suo intervento volontario o colposo (2). A maggior ragione anche l’omettere dovrà avere questo significato di equivalenza rispetto all’agire, al di là della sua ‘‘staticità’’ dovuta a un’inerzia cinetica (il mancato ‘‘attivarsi’’ di condizioni salvifiche pur esistenti e disponibili), o del suo ridursi a una radicale ‘‘assenza’’ (di condizioni salvifiche, mai neppure venute a esistenza). 1.2. La condicio sine qua non come formula dell’equivalenza. — Rispetto alla lettura ‘‘unificante’’ di una causa-condizione che si adatti a condotte attive e omissive, alla partecipazione al reato e alle fattispecie più varie in termini di descrizione fattuale e significato di disvalore del risultato lesivo, si presentano come particolarmente adatte le concezioni della causalità di tipo prevalentemente ‘‘logico’’ o ‘‘nomologico’’: è causa ciò che costituisce una condizione logica o nomologica del risultato, al di là delle sue capacità ‘‘reali’’, ‘‘cinetiche’’, di essere una forza interattiva e a prescindere dalla maggiore o minore ‘‘efficienza’’ del fattore eziologico, la cui importanza causale non è decisiva in ordine all’an dell’imputazione dell’evento. Questa è la ragione per cui, nel diritto in generale, sono tutt’oggi dominanti le concezioni causali fondate sulla teoria della condicio sine qua non e sul modello di sussunzione sotto leggi scientifiche (3). (2) Sull’equivalenza funzionale tra spiegazione causale e spiegazioni probabilistiche incentrate su un mero rapporto di rischio nei sistemi complessi, N. LUHMANN, Funzione e causalità, in ID., Soziologische Aufklärung I, 1970, trad. it. Illuminismo sociologico, Milano, 1983, 3 ss., 23 ss.: ‘‘non si indaga più per sapere se A ha sempre (o con una ben determinata probabilità) per effetto B, ma per sapere se A, C, D, E sono funzionalmente equivalenti nella loro capacità di produrre l’effetto B’’ (ivi, 23); più radicalmente, sulla crisi dei parametri eziologici e dei tradizionali criteri giuridici di imputazione in una società fondata sulla prevenzione dei rischi, R. WOLF, Zur Antiquiertheit des Rechts in der Risikogesellschaft, in Leviathan, 1987, 357 ss. (3) Un altro motivo che ha avuto una certa influenza sull’affermarsi di una nozione ‘‘logica’’ della causalità nel diritto penale, discende dall’impiego per così dire analogico del termine ‘‘causa’’ in rapporto a un ‘‘evento’’ non naturalistico, ma carico di significato di disvalore, come l’evento in senso giuridico, l’offesa dell’interesse protetto: sì che la categoria stessa della lesione o messa in pericolo di un bene giuridico risente di quest’uso analogico. Di qui il pensiero che solo una nozione ‘‘logica’’ di causa (P. NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, 2a ed., Milano, 1975, 178; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, P. gen., 5a ed., Milano, 1996, 354 ss.) possa unificare concettualmente la lesione a beni come il patrimonio o la vita ben concretizzati in situazioni fisico-materiali molto afferrabili e a beni-valori meno determinati quali il buon costume, la fede pubblica, la privacy, l’amministrazione della
— 35 — Nella versione le cui radici teoriche risalgono alle impostazioni di John Stuart Mill, Julius Glaser e Maximilian von Buri (4), se la causa in senso pieno è data dalla somma delle numerose condizioni che convergono a determinare l’evento, sono giuridicamente ‘‘cause’’ le condizioni che se si ‘‘eliminano mentalmente’’ dal decorso reale fanno venir meno l’evento (poiché è la loro presenza ad averlo condizionato), così come lo sono quelle che fanno venir meno l’evento se si ‘‘aggiungono mentalmente’’ al decorso reale (perché è la loro assenza ad aver condizionato l’evento). Le une (condizioni positive) ‘‘equivalgono’’ alle altre (condizioni negative) a livello causale, né si discute più di cause ‘‘efficienti’’ quale criterio decisivo di rilevanza: trova qui una adeguata soluzione epistemologica, oltre alla ‘‘equicausalità’’ dei contributi nel concorso di persone nel reato (più o meno ‘‘efficienti’’, decisivi o agevolatorii), anche la causalità dell’omissione, che per quanto sia un ‘‘controfattuale’’, una causalità ipotetica, mentale o logica, si inquadra perfettamente nella teoria della condicio sine qua non. Infatti, questa teoria, in generale — cioè anche rispetto alla causalità commissiva e ‘‘attiva’’, mediante il c.d. procedimento di eliminazione mentale — postula il ricorso a condizionali controfattuali, a ipotesi alternative alla causalità storica, onde accertare l’effettivo valore condizionante di un fattore reale (condizioni positive e interattive) o ipotetico (condizioni negative rimosse dalla loro sede e operatività, oppure non predisposte anche se normativamente ‘‘doverose’’, e perciò mai venute ad esistenza) (5). Lo strumento conoscitivo onde verificare ‘‘che cosa sarebbe successo’’ è quindi offerto da leggi di copertura, da leggi di successione Giustizia o qualche bene funzionale o superindividuale che pur si definisce come ‘‘leso’’ o ‘‘posto in pericolo’’ in virtù di giudizi di valore, anziché di giudizi di fatto come quelli che dovrebbero caratterizzare l’accertamento eziologico in senso ‘‘naturalistico’’ (cfr. in merito i rilievi formulati in DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 245-256). (4) J. STUART MILL, A System of Logic rationative and inductive (1843), trad. it., Sistema di logica raziocinativa e induttiva, 1956, rist. Roma, 1968, 323 ss.; J. GLASER, Abhandlungen aus dem österreichischen Strafrecht, Wien, 1858, 293 ss., 298; M. v. BURI, Zur Lehre von der Teilnahme an dem Verbrechen und der Begünstigung, Gießen, 1860, 2 ss.; ID., Über Kausalzusammenhang und dessen Zurechnung, in Goldtdammer’s Archiv (Archiv für preußisches Strafrecht), Bd. 14, 1866, 608 ss., 717 ss.; ID., Über Causalität und deren Verantwortung, Leipzig, 1873, e in numerosi altri contributi. V. in sintesi il quadro tracciato da F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale in diritto penale, Milano, 1975, 1 ss. e da G. SPENDEL, Die Kausalitätsformel der Bedingungstheorie für die Handlungsdelikte, Frankfurt am Main, 1948, 14 ss. (5) K. ENGISCH, Die Kausalität als Merkmal strafrechtlicher Tatbestände, Tübingen, 1931, 13-21; ARTH. KAUFMANN, Die Bedeutung hypothetischer Erfolgsursachen im Strafrecht, in Fest. E. Schmidt, Göttingen, 1961, 207 ss.; J. RÖDIG, Die Denkform der Alternative in der Jurisprudenz, Berlin-Heidelberg, 1969, 115 ss.; E. SAMSON, Hypothetische Kausalver-
— 36 — spazio-temporale degli eventi secondo una certa regolarità, o anche solo da massime di esperienza dal valore spesso solo probabilistico: sì che la praticabilità della formula della condicio è tributaria di un apparato conoscitivo gnoseologico mutuato dal sapere scientifico del tempo (6). In ogni caso, solo concependo la ‘‘causa’’ a prescindere da immagini di forze e di energie in ‘‘reale contatto’’, sembrerebbe guadagnarsi così una concezione della causalità utile per tutti gli scopi del diritto e di tipo unitario, una concezione che sa affrancarsi da un significato (pur solitamente sottinteso nell’immaginario del giurista) ‘forte’ e ‘antropomorfico’ di realismo eziologico, e considera la sufficienza di un nesso di condizionamento accertabile mediante ipotesi ricostruttive di un divenire governato da regole di successione spazio-temporale. 1.3. Le ‘‘correzioni’’ alla formula della condicio e le ‘‘diserzioni’’ da essa. — Il punto di arrivo ora riassunto è risultato sino a oggi una premessa irrinunciabile di tutte le successive teorie generali dell’imputazione giuridica di un evento: la causalità adeguata, le teorie della ‘‘rilevanza’’ causale, la teoria della causalità umana, quella della condizione conforme a una legge di copertura (o il c.d. modello di sussunzione sotto leggi scientifiche), nonché le teorie dell’imputazione oggettiva dell’evento. Queste teoriche hanno spesso storicamente pensato se stesse come del tutto ‘‘alternative’’ alla formula della condicio. Ma il consolidarsi delle varie, ‘‘nuove’’ concezioni le ha sempre confermate come ipotesi o di correzione, oppure di integrazione, mai veramente sostitutive della teoria condizionalistica (7). Ciononostante, proprio all’interno delle teorie dell’imputazione ogläufe im Strafrecht. Zugleich ein Beitrag zur Kausalität der Beihilfe, Frankfurt a.M., 1972, passim. (6) K. ENGISCH, op. loc. ult. cit.; ulteriormente, unificando c.s.q.n. e modello di spiegazione mediante sussunzione sotto leggi, F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., 1 ss. (7) Così è stato per le concezioni dell’adeguatezza causale, che si presentarono, con il loro punto di vista ex ante, come risolute oppositrici dei rigori applicativi della teoria dell’equivalenza, che appariva un vero nemico da sconfiggere, mentre in realtà non si faceva altro che selezionare come irrilevanti solo alcune fra tutte le condiciones sine quibus non (essenziali riferimenti in F. ANTOLISEI, Il rapporto, cit., 105 ss.; P. TRIMARCHI, Causalità e danno, 1967, 32 ss.; F. STELLA, La descrizione dell’evento. I. L’offesa. Il nesso causale, Milano, 1970, 7 ss.; E. DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante, in questa Rivista, 1979, 779 ss.). Così è stato per la teoria della condizione conforme a una legge di copertura nella celebre versione di Karl Engisch, che ha dimostrato come la c.s.q.n. presupponga una causalità nomologica senza la quale non è mai possibile sapere che cosa sarebbe successo in assenza di un qualche fattore, e si proponeva di sostituire del tutto la formula della condicio come teoria causale, oltre che di predisporre criteri decisivi (la adeguatezza generica della condotta pericolosa e l’adeguatezza specifica del realizzarsi nell’evento il rischio non consentito) per assicurare al momento causale anche un fondante significato di imputazione giuridica (K. ENGISCH, Die Kausalität, cit., 46 ss., 62 ss. e passim). Così è stato, in tempi più recenti, per le concezioni dell’imputazione oggettiva dell’evento (v. la parte storico-ricostruttiva illu-
— 37 — gettiva dell’evento, che pure oggi affermano in larga maggioranza che causalità e imputazione dell’evento sono due momenti distinti ma congiuntamente irrinunciabili per la ricostruzione della tipicità dell’elemento oggettivo del reato di evento, si sono ramificate impostazioni dottrinali capaci di presentarsi come ipotesi ricostruttive generali alternative non tanto alla c.s.q.n. quanto, più radicalmente, all’imputazione fondata sulla causalità. Anziché una causalità ‘‘normativa’’ a fini di imputazione, con l’aggiunta di altri criteri di selezione delle concause, è l’imputazione che si sostituisce alla causalità, che elabora parametri fondati su una ratio diversa dalla verifica che un certo risultato sia veramente la ‘‘conseguenza’’ della condotta illecita. È questo un percorso battuto soprattutto da correnti di minoranza della letteratura di lingua tedesca, ma esso può oggi vantare a suo sostegno importanti settori della giurisprudenza civile e penale che, a livello internazionale, offre un panorama molto vario dove emerge l’esigenza della prassi di attribuire un evento a un soggetto solo per avere egli diminuito le chances di salvezza del bene protetto: senza cioè la prova che l’evento, tenendo la condotta lecita (via via doverosa o comunque diligente, a seconda dei casi), con certezza o con una probabilità confinante con una persuasiva certezza processuale (indiziaria), non si sarebbe verificato (infra, par. 2.1, 2.2, 4.1 ss., 6.1, 6.2). Questa giurisprudenza, a tutt’oggi, ‘‘ragiona’’ spesso ancora in termini causali — perché lo impone il codice penale, o comunque la tradizione consolidata — ma contiene in sé spinte teoriche o politico-criminali, capaci di porsi come fonti di una spiegazione del tutto alternativa all’approccio causale-eziologico quale momento fondante la responsabilità a livello di elemento oggettivo. Vediamo in rapida sintesi alcune tappe che hanno prodotto questo mutamento. 2.
VERSO UN MUTAMENTO DI PARADIGMI: DALLA CAUSALITÀ COME CRITERIO ‘‘GENERALE’’ DI IMPUTAZIONE, ALL’IMPUTAZIONE DELL’EVENTO SENZA CAUSALITÀ.
2.1. Nascita delle teorie dell’aumento del rischio. — Nel diritto penale del Novecento le teorie causali sono state teorie dell’imputazione delstrata in M. DONINI, Lettura sistematica delle teorie dell’imputazione oggettiva dell’evento, parte I, in questa Rivista, 1989, 588 ss.) che molto devono alle ricerche di Engisch, fondate su una pluralità di criteri di imputazione che, presso alcuni loro autorevoli esponenti, sembravano mirare alla costruzione di un nuovo sistema non più ancorato a parametri eziologici, ma anzi ‘‘completamente affrancato dal dogma causale’’ (così, in un abbozzo di ‘‘programma’’ all’inizio degli anni Settanta, in seguito peraltro abbandonato sul punto della rinuncia alla causalità, C. ROXIN, Gedanken zur Problematik der Zurechnung im Strafrecht, in Fest. Honig, Göttingen, 1970, 135 s.).
— 38 — l’evento: si diceva causalità, ma con tale locuzione non si restava al piano dell’essere, perché contava anche se non soprattutto quello del dover essere; non si intendeva semplicemente ‘‘spiegare’’ un fatto naturalistico o sociale, ma esprimere un concetto orientato a scopi di imputazione giuridica. Questa loro ‘‘proiezione funzionale’’ ha fatto sì che le varie teorie causali abbiano sempre sofferto momenti di ‘crisi’ in alcuni settori nevralgici dove l’accertamento causale emergeva ‘‘come problema’’ non perché fosse in discussione la responsabilità, ma solo perché l’impianto culturale dominante imponeva di ragionare sempre ‘‘in termini eziologici’’, mentre era palese che si trattava solo del dominio linguistico-concettuale di una categoria (la causalità, appunto) alla quale, nei fatti, si sostituivano spesso altri parametri di identica valenza funzionale. Si diceva ‘‘causa’’, ma si intendeva ‘‘qualcos’altro’’ di corrispondente significato giuridico, altrettanto utile per attribuire l’evento a un soggetto, anche se l’operazione continuava a essere impropriamente mascherata sotto concetti eziologici. A molti giuristi è parso spesso che quella ora descritta rappresentasse la situazione tipica della causalità omissiva: una causalità ipotetica e irreale, un ‘‘equivalente normativo’’ della causalità efficiente della condotta positiva (8). Un altro settore molto importante dove spessissimo si è discusso dell’opportunità di continuare a ragionare in termini eziologici, anziché secondo categorie più aderenti alla tipicità socio-normativa di contributi non solo di secondaria importanza, è stato quello del concorso di persone nel reato: con particolare riguardo al contributo ‘‘agevolatore’’, ovvero ‘‘di minima importanza’’, oppure in relazione al contributo collegiale ininfluente, a quello non utilizzato, rivelatosi inutile, oppure ancora — per alcuni — con riferimento alla causalità psichica, di mero ‘‘rafforzamento’’, alla partecipazione ‘‘circostanziale’’, ecc.: apporti che sono apparsi insuscettibili di essere ricompresi in una nozione forte di ‘‘condizione indispensabile’’ (sine qua non) (9), se non con riferimento a modalità differenziate, spesso secondarie, della realizzazione storica del fatto (il c.d. hic et nunc dell’evento), ovvero con riguardo a un evento diverso da (8) Su questo aspetto della causalità omissiva, secondo l’impostazione dominante, per tutti G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 385 ss. (9) Per approfondimenti successivi, A. CASSIA, Rapporto di causalità e concorso di persone nel reato, Roma, 1968, 204 ss., 233 ss.; F. ALBEGGIANI, Imputazione dell’evento e struttura obiettiva della partecipazione criminosa, in Indice pen., 1977, 403 ss.; L. VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, 1358 ss.; M. DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in questa Rivista, 1984, 192 ss. e passim. Per un quadro di sintesi v. più di recente G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, 2a ed., Milano, 1996, Pre-Art. 110; Art. 110/1 ss. e Art. 114; R. GUERRINI, Il contributo concorsuale di minima importanza, Milano, 1997.
— 39 — quello tipico, come la c.d. organizzazione del piano criminoso (10), o la condotta di un altro compartecipe a sua volta causale rispetto all’evento tipico. Ma le situazioni che più hanno contribuito a scardinare gli assi portanti dell’edificio non riguardano un istituto giuridico determinato e comunque ricostruibile in termini eziologici, sia pur con alcuni ‘‘aggiustamenti’’ — ciò che vale, stando alle impostazioni tuttora maggioritarie, per omissione e concorso di persone nel reato —, ma le ipotesi dove lo stesso impiego di parametri eziologici non discende dagli adattamenti di categorie extragiuridiche (v. la nozione epistemologica di ‘‘causa’’) che il diritto compie per meglio utilizzarle a fini di imputazione, quanto dal fatto che quell’utilizzo soffre una crisi di legittimazione scientifica per l’incertezza epistemologica sulla stessa causazione, sul suo statuto nomologico, sulla validità delle ‘‘leggi di copertura’’ dell’accertamento — si tratti di causalità commissiva od omissiva, ovvero psichica o di partecipazione al reato, non importa — o per la palese faticosità processuale di impostazioni incentrate sulla prova rigorosa della causazione, al punto da suggerire che in questi casi una risposta dell’ordinamento giuridico a fatti ritenuti comunque intollerabili possa ricostruirsi solo mediante parametri alternativi a quelli eziologici, e in particolare in forza di criteri di mero rischio, ovvero di tipizzazione legale della condotta illecita ‘‘competente’’ all’accollo della responsabilità per l’evento. Il problema vero, però, non sorge (o è molto diverso) quando il legislatore rinunci all’imputazione dell’evento, per incentrare la responsabilità sulla sola condotta pericolosa (es. reati di pericolo astratto, contravvenzioni, fattispecie a tutela anticipata, reati di mero accordo, associativi, ecc.), ma quando con la responsabilità ‘‘per rischio’’ sia il giudice ad accollare ‘‘come fatto proprio’’ un evento che a stretto rigore non è stato cagionato: perché in questo caso la soluzione politico-criminale (che potrebbe apparire anche accettabile in certa misura e a determinate condizioni) passa attraverso la rottura del principio di legalità o, come vedremo, la messa in crisi di una lettura del principio di responsabilità penale per fatto proprio mediata da parametri causali quali requisiti minimi di imputazione di un evento. Nasce in tale contesto di problemi l’aumento del rischio quale categoria di imputazione nuova, che progressivamente tende ad affiancarsi a quella causale, fino a sostituirla quanto meno in singoli settori, o rispetto a talune fattispecie concrete (11). (10) G. INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., III, 1988, 458 ss., 462 ss. (11) Restando alla letteratura italiana (che l’ha ‘‘importata’’, con note ora critiche, ora di accoglimento, dalla Germania), v. per tutti, con i necessari richiami, G. GRASSO, Il reato omissivo, cit., 405 ss.; M. DONINI, Lettura sistematica, cit., parte II, in questa Rivista, 1989, 1118 ss.; A. CASTALDO, La teoria dell’aumento del rischio e l’illecito colposo, in Studi
— 40 — Così intesa — si noti — questa teoria non è affatto riconducibile a talune impostazioni del primo Novecento che l’hanno preceduta con analoghe espressioni linguistico-concettuali: anche le teorie della causalità adeguata, a cominciare da von Kries, parlavano dell’aumento del rischio (Risikoerhöhung o Erhöhung der Gefahr, o des Risikos, o Vermehrung der Möglichkeiten) quale caratteristica che deve presentare la ‘‘causa’’ giuridicamente rilevante (12). Ma con tale concetto esse si riferivano alla caratteristica della causa, oltre che di essere una vera condicio sine qua non (con accertamento ex post), di avere nello stesso tempo anche l’attitudine, valutata obiettivamente al tempo in cui il soggetto stava per agire (punto di vista ex ante) a innalzare le probabilità del verificarsi dell’evento. Le moderne teorie dell’aumento del rischio, piuttosto, si suddividono in due orientamenti di fondo, ma entrambi — a mio avviso — conducono a una accentuazione del disvalore della condotta rispetto al disvalore di evento (13). Secondo un primo orientamento — sicuramente minoritario in termini ‘‘generali’’, ma frammentariamente rappresentato con posizioni consistenti rispetto a singole materie —, esse si presentano varie volte come teorie dell’imputazione dell’evento fondate su un esclusivo punto di vista ex ante, ormai affrancato dall’impiego di effettivi parametri causali (che sono solo eventuali e attengono comunque a un altro piano): e nelle loro espressioni dottrinali più significative si sono estese non solo al concorso di persone (basterebbe un contributo idoneo ex ante a rafforzare l’altrui proposito o idoneo ex ante a facilitare l’esecuzione, senza la prova che l’esecuzione del reato sia stata resa effettivamente più pronta, efficace, sicura, ecc.) e ai reati omissivi impropri (basterebbe una omissione ‘‘pericolosa’’, o meglio più pericolosa, sempre ex ante, di quanto apparisse l’inosurbinati, 1985-86/1986-87/1987-88, 127 ss.; ID., L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, 93-174 (cap. II); G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, spec. 690 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico, vol. I, cit., 2a ed., Art. 41/36 ss. (12) Per i necessari richiami, M. DONINI, Lettura sistematica, parte I, cit., 596 ss., 603. (13) Questa tendenza è già insita nello stesso vocabolario usato, che privilegia il concetto di ‘‘rischio’’ rispetto a quello, tradizionale, di ‘‘pericolo’’. Mentre il pericolo è nozione ancora collegata a fatti naturali e risulta predicabile non solo della condotta dell’uomo (condotta pericolosa), ma anche dei risultati di essa, e quindi dell’evento (evento dannoso o pericoloso), il rischio caratterizza la sola condotta, ovvero una situazione posta sotto il controllo della condotta, dell’uomo (per es. l’organizzazione del lavoro, di un’impresa) secondo un punto di vista esclusivamente ex ante. Il pericolo, invece, è notoriamente suscettibile di essere accertato, se si configuri come evento di pericolo concreto, anche con l’ingresso, nella ‘base’ del giudizio, di nozioni non acquisibili al tempo della realizzazione della condotta. Sull’uso della categoria del rischio, rispetto a quella del pericolo, basti qui ricordare V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, 4 ss., 17 ss., 30 ss.; N. LUHMANN, Soziologie des Risikos (1991), trad. it. Sociologia del rischio, Milano, 1996, 31 ss.
— 41 — servanza, anche qui a prescindere da una valutazione a posteriori), ma alla causalità nei reati colposi in generale, sino ad assurgere a ‘modello’ per una rilettura dello stesso rapporto fra dolo ed evento (il dolo come rischio, o consapevolezza del rischio, anziché come volizione dell’evento: si pensi agli indirizzi della dominante giurisprudenza circa il concetto e l’accertamento del ‘‘dolo diretto’’ equiparato alla prova di un’oggettiva alta probabilità dell’evento) e quindi, in ultima istanza, anche fra condotta dolosa ed evento verificatosi: se tutto viene valutato in termini di rischio ex ante, alla fine anche il nesso di condizionamento oggettivo in generale dovrà volatilizzarsi e l’evento assomigliare (v. infra) alle condizioni di punibilità. C’è peraltro un secondo orientamento, che intende la categoria ‘‘aumento del rischio’’ in una accezione diversa, incentrata su un accertamento anche ex post dell’« aumento »: ed è questa, come subito si vedrà, l’accezione ricorrente in tema di evitabilità dell’evento da parte del comportamento alternativo lecito, nella colpa (la c.d. causalità della colpa) e nell’omissione (la causalità dell’omissione). Vediamolo con più attenzione. 2.2. Diversa portata del dubbio sull’evitabilità nei reati commissivi colposi e in quelli omissivi (la causalità della colpa e quella dell’omissione), secondo un ‘‘aumento del rischio’’ valutato ex post. — Occorre distinguere fra responsabilità commissiva colposa e responsabilità per omesso impedimento di un evento. Nel caso di condotta commissiva colposa, si deve a sua volta differenziare tra causalità della condotta reale e causalità della colpa. Le correnti in oggetto pongono a raffronto il decorso causale reale con quello che, sempre in una ricostruzione a posteriori, si sarebbe verificato nell’ipotesi di condotta ‘‘osservante’’. Se la condotta ha comunque determinato l’evento nel suo hic et nunc (ad es. l’incidente è stato cagionato dalla condotta di guida di Tizio, la morte è conseguita all’operazione chirurgica, ecc.), esse imputano l’evento a prescindere dalla certezza che l’osservanza sarebbe stata ‘‘salvifica’’ per il bene protetto: per l’imputazione dell’evento a titolo di colpa è sufficiente, secondo tale impostazione, che la condotta inosservante abbia ‘‘aumentato’’ le probabilità della lesione. La conclusione pratica che solitamente se ne trae, però, non è che si avrà imputazione dell’evento solo qualora si raggiunga almeno la prova che la ipotetica condotta osservante avrebbe avuto più del 50%, del 70% o del 90% di probabilità di evitare l’evento lesivo — cioè la prova della probabile o sicura evitabilità dell’evento (che non significa certezza di evitarlo) —, ma invece che l’imputazione è giustificata dal mero dato dell’esistenza di qualche maggiore possibilità di salvare il bene in caso di con-
— 42 — dotta osservante/dovuta, stante comunque la sicura causalità della condotta reale (14). Assumiamo il caso di chi abbia cagionato lesioni personali alla guida avendo proceduto irregolarmente alla velocità di 75 Km/h e si supponga che consti che a quella velocità era sicuramente impossibile (o altamente improbabile) evitare l’evento lesivo al momento in cui il soggetto poteva percepire l’improvviso ostacolo che gli si parava davanti. In questo caso, basta che si abbia una persuasiva dimostrazione che in ipotesi di velocità consentita di 50 Km/h la lesione avesse qualche possibilità di essere evitata per accedere all’imputazione dell’evento. Infatti: l’inosservanza era ‘‘destinata’’ alla lesione, mentre l’osservanza no, pur in presenza di poche, non irrisorie chances di salvezza. Naturalmente, se ci si colloca veramente in una prospettiva ex post, in questo raffronto non è possibile ‘‘modificare’’ certi comportamenti storici, ad es. della vittima, per come si sono effettivamente verificati rispetto al decorso reale (per cui, anche se la violazione consumata non rendeva ‘‘inevitabile’’ l’evento in assoluto, questo è stato contingentemente reso inevitabile dalla reale condotta della vittima). Viceversa, è possibile ipotizzare un diverso comportamento dei vari ‘‘attori’’ in presenza di un decorso causale diverso da quello reale: ad es. una differente ‘‘reazione’’ tanto del soggetto attivo che del soggetto passivo in caso di velocità lecita da parte del contravventore. Risultano problematici, in questo quadro ricostruttivo, molti meno casi di quelli dove vi sia un mero ‘‘dubbio’’ sull’evitabilità: giacché il problema del dubbio è risolto alla radice dal semplice aumento del rischio (qualche apprezzabile probabilità in più). E allora è solo la questione della ‘‘descrizione dell’evento’’ e dello ‘‘scopo di tutela della norma violata’’ a porre i maggiori interrogativi: allorché, ad es., si sappia con certezza che la salvezza del bene era ormai preclusa anche in caso di condotta osservante, salvo un procrastinarsi temporalmente poco significativo del tempo della morte: come nel celebre caso della miocardite, o del cloretile, deciso dal Landesgericht di Colonia e quindi dalla Cassazione tedesca (15), dove il chirurgo dentista praticò un’anestesia totale per un intervento, senza effettuare le previe, doverose analisi: peraltro anche in ipotesi di condotta regolare, la morte sarebbe sopraggiunta egualmente, ma probabilmente un giorno o due più tardi a seguito delle analisi, che per come (regolarmente) impostate di routine non avrebbero rivelato la miocardite della paziente, consentendo così un uso del tutto ‘‘legittimo’’ dell’anestetico con(14) Cfr. in dettaglio le opere di GRASSO, FORTI e CASTALDO cit. alla nota 11. (15) Cfr. Landesgericht Köln, 22 novembre 1966, in Juristenzeitung, 1967, 450, e BGH-Strafsachen 21, 59 ss. Il caso, nella letteratura italiana, è commentato, ad es., da A. CASTALDO, L’imputazione oggettiva, cit., 172 s.; G. FORTI, Colpa ed evento, cit., 685 s.; A. CRESPI, voce Medico-chirurgo, in Dig. disc. pen., VII, 1993, 598.
— 43 — tingentemente letale: senza che la violazione della regola, finalizzata a prevenire l’insorgenza di complicazioni dipendenti dall’uso dell’anestetico, abbia prodotto una conseguenza significativa, e dato che scopo della regola stessa, appunto, non era quello di procrastinare l’evento mortale di un giorno. È chiaro, comunque, che ci stiamo muovendo nell’ambito di una problematica interna al fatto tipico colposo, alla colpa come elemento di tipicità, anziché alla causalità ‘‘oggettiva’’ tra condotta ed evento (indipendente da dolo o colpa) ai sensi dell’art. 40, comma 1, c.p. La situazione muta sensibilmente (in punto di causalità) in caso di condotta realmente omissiva (colposa, oppure no). Si ipotizzi un rifiuto di cure da parte di un sanitario addetto a un presidio ospedaliero, nel presupposto che egli si sia ritenuto pretestuosamente incompetente a intervenire e si supponga che il paziente, deceduto molte ore più tardi, abbia avuto significative perdite di chances di salvezza a seguito del ritardo nell’intervento cagionato dall’omissione de qua (16). In questo caso la condotta naturalistica ‘‘reale’’ — l’aliud facere — non ha spiegato cineticamente conseguenze rilevanti sul piano penale, mentre ha avuto conseguenze l’omissione ‘‘reale’’, perché l’assenza dell’intervento è stata condizione negativa dell’evento, in quanto un tempestivo e doveroso intervento, che non c’è stato, avrebbe avuto possibilità di successo. Orbene, mentre nelle condotte commissive colpose che hanno naturalisticamente condizionato il verificarsi dell’evento, quest’ultimo è attribuibile come ‘‘fatto proprio’’ al soggetto che l’ha causato anche se non vi sia completa certezza della sua evitabilità in caso di condotta diligente, nelle ipotesi di vera omissione non è possibile attribuire al soggetto come ‘‘fatto proprio’’ il decorso causale effettivo se non ricostruendolo come omissione, e quindi attraverso il suo ipotetico comportamento alternativo lecito: perché c’è una sola condotta illecita, che si definisce come tale in virtù di un giudizio controfattuale, mentre il giudizio fattuale si riduce alla valutazione del verificarsi dell’evento, senza causazione alcuna da parte del soggetto che ha rifiutato l’intervento. Pertanto, qualora consti che la condotta doverosa avrebbe avuto significative probabilità di salvare il bene giuridico, si ha un ‘‘aumento del rischio’’ a fronte del dubbio sulla causazione: non è infatti possibile affermare che la diminuzione di chances risultante a contrario dall’omissione equivalga (art. 40 cpv. c.p.!) alla diminuzione della condotta colposa commissiva, giacché in quest’ultima il soggetto ha comunque cagionato l’evento oltre ad aumentarne il rischio, mentre nell’omissione no. (16) Per un caso di rifiuto da parte dell’anestesista di accompagnare il paziente sull’ambulanza, con applicazione degli artt. 328, comma 1, 40 cpv. e 586 c.p., cfr. Cass., Sez. III, 6 dicembre 1995, Sonderegger, in Giust. pen., 1996, II, 682 ss.
— 44 — In altri termini: nella colpa commissiva il dubbio sull’evitabilità non esclude che la causazione dell’evento sia ‘‘fatto proprio’’ del soggetto, se si tratta di un caso in cui la condotta materiale (prima di essere ‘‘colposa’’) ha comunque determinato con certezza l’evento o un evento peggiorativo, in termini di lesività. Non così nell’omissione, dove il dubbio sull’evitabilità è nello stesso tempo un’incertezza sulla attribuibilità dell’evento come ‘‘fatto causalmente proprio’’: giacché fatto proprio è sicuramente solo la condotta omissiva. Vedremo peraltro in seguito (par. 4.2.2, 4.2.3, 4.2.4) che anche in ipotesi di sicura culpa in agendo (ad es. perché si tratta di comportamenti che non contravvengono a un dovere di intervenire, ma adempiono soltanto ‘‘male’’ tale dovere, con condotte imperite o negligenti nell’esecuzione di un’attività pericolosa o di un’obbligazione di mezzi), accade che l’accertamento della causalità della condotta ai sensi dell’art. 40, comma 1, c.p. si ‘‘converta’’, si ‘‘traduca’’ subito nello stesso tempo in accertamento della causalità della colpa (evitabilità, nesso tra colpa ed evento, ecc.): ciò perché la rilevanza giuridica della spiegazione causale si incentra su condizioni negative, cioè su comportamenti ‘‘impeditivi’’ che non ci sono stati (un’esecuzione ‘‘perita’’, l’impiego di una certa misura preventiva, ecc.) e che in tanto hanno ‘‘determinato’’ l’evento, in quanto solo l’attuazione della condizione impeditiva l’avrebbe neutralizzato. In queste ipotesi — come nell’omissione vera e propria — il dubbio sulla causalità della colpa (cioè su ciò che sarebbe successo se ci fosse stata la condizione impeditiva, negativa dell’evento, ‘‘osservante’’ e diligente a un tempo) è contemporaneamente un dubbio su un momento giuridicamente decisivo della causalità ‘‘naturalistica’’: che se pure c’è stata, perché comunque Tizio è morto ‘‘a seguito’’ dell’operazione o del trattamento terapeutico, oppure a seguito dell’impiego di uno strumento di lavoro in un’attività pericolosa organizzata dall’imprenditore, ciononostante la rilevanza giuridica di quel condizionamento (Tizio è deceduto il giorno x e nel luogo y e il sanitario o l’imprenditore hanno comunque violato un precetto cautelare o una regola di sicurezza) trova il suo momento più qualificante nella valutazione della condizione impeditiva o negativa, rappresentata dalla mancata attivazione della misura precauzionale e dalla sua ‘‘rilevanza causale’’ rispetto all’evento storico: solo chiedendoci davvero ‘‘che cosa sarebbe successo’’ nell’ipotesi di comportamento lecito possiamo stabilire che ciò che è accaduto è comunque un fatto ‘‘peggiorativo’’: la morte è avvenuta sì a seguito dell’operazione (salvo ipotizzare situazioni in cui il soggetto sarebbe morto comunque nello stesso istante, anche in assenza di intervento chirurgico), ma è avvenuta significativamente prima di quanto sarebbe altrimenti accaduto in caso di operazione corretta, è avvenuta sì a seguito del lavoro pericoloso organizzato dal datore di lavoro, ma in caso di osservanza dei doveri di sicurezza non ci sarebbe stata, o sarebbe avvenuta molto più tardi.
— 45 — Anche in questi casi, perciò, il dubbio sulla causalità della colpa, se non è un dubbio sulla causalità naturalistica della condotta reale, è tuttavia, nello stesso tempo, un dubbio sulla rilevanza giuridica del condizionamento causale: ciò che ‘‘spiega’’ perché la giurisprudenza ‘‘confonda’’ spesso causalità della colpa (art. 43 c.p.) e causalità della condotta (art. 40 c.p.). 2.3. Scenari più ampi della categoria del ‘‘rischio’’ in diritto penale. — In talune espressioni à la page, infine, la categoria del rischio plasma importanti istituti della teoria del reato (17): la condotta e la colpa, perché appare giuridicamente rilevante solo l’azione od omissione che superi il ‘‘rischio consentito’’ (18), o che non abbia minimizzato il rischio (infra, par. 6.1); il dolo, perché il suo oggetto viene spesso circoscritto alla consapevolezza (e volizione) di un rischio più o meno grave attivato con la condotta (anziché rappresentazione e volizione dell’evento) (19); l’imputazione ‘‘oggettiva’’ dell’evento, perché si afferma come ascrivibile in genere solo l’evento nel quale si sia realizzato il ‘‘rischio’’ illecito specificamente attivato con la condotta tipica (20); le scriminanti, dove accresce la sensibilità verso le ipotesi (anche colpose) nelle quali la condotta potenzialmente illecita, essendo ‘‘consentita’’ dalla vittima, o essendo bilanciata da fattori che ne compensano socialmente il rischio, può risultare legittima (21); la contravvenzione, che è vista come tipica figura di illecito che (17) Ampio quadro di sintesi di questi percorsi della letteratura di lingua tedesca in C. PRITTWITZ, Strafrecht und Risiko, Frankfurt a.M., 1993. (18) Sviluppi e richiami essenziali in V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, cit., 55 ss., 152 ss., 231 ss., 252 ss.; A. CASTALDO, Aids e diritto penale: tra dommatica e politica criminale, in Studi urbinati, 1988-89/1989-90, 95 ss.; G. FORTI, Colpa ed evento, cit., 453 ss. (19) Cfr. il quadro della problematica tratteggiato da L. EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, 63 ss. (20) M. DONINI, Lettura sistematica, cit., passim. (21) Quanto al rapporto fra consenso dell’avente diritto e reati colposi, dopo il risalente, ma ancora attuale scritto di F. BRICOLA, Aspetti problematici del c.d. rischio consentito nei reati colposi, in Bollettino dell’Istituto di diritto e procedura penale dell’Università degli studi di Pavia, A. Acc. 1960/61, 89 ss., cfr. da ult. F. ALBEGGIANI, Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Milano, 1995, 105 ss.; la questione appare giuridicamente molto più ‘‘aperta’’ in quegli ordinamenti (come quello tedesco) che non puniscono l’istigazione al suicidio, né conoscono (mere) attenuanti per il concorso del fatto doloso del soggetto passivo (art. 62, n. 5, c.p.): sì da permettere l’elaborazione di limiti generali all’imputazione come quello fondato sul principio di autoresponsabilità (in merito, V. MILITELLO, La responsabilità penale dello spacciatore per la morte del tossicodipendente, Milano, 1984, 135 ss.; D. STERNBERG-LIEBEN, Die objektiven Schranken der Einwilligung im Strafrecht, Tübingen, 1997, 213 ss.). Quanto ai problemi di ‘‘bilanciamento’’ consentiti al giudice in sede di valutazione delle scriminanti con riferimento alle soglie di rischio autorizzabili ex ante — prospettiva incentrata sul disvalore di azione — si tratta di prospettive relativamente nuove nella nostra letteratura, ma da sempre scandagliate in ordinamenti, come quello tedesco,
— 46 — introduce una forma di responsabilità ‘‘per rischio’’ (22); la partecipazione al reato, che diviene contributo di mero pericolo, per la sufficienza di un apporto significativo in termini di mero rafforzamento valutato ex ante (23): sono tutte manifestazioni di un concetto unificante azione e omissione, dolo, colpa e contributo di concorso, assai più di una causalità fra la condotta illecita e l’evento che — come subito si vedrà — presenta tanti problemi di accertamento da risultare spesso un ingombrante fardello probatorio: come ben testimonia il ‘‘successo’’ contemporaneo delle fattispecie di pericolo astratto (ma anche delle fattispecie preventive a struttura contravvenzionale), solitamente argomentato, fra l’altro, in forza dei limiti probatori insiti nell’utilizzo della tecnica del pericolo concreto o del pericolo come ‘‘evento’’ (24). 3.
LA VALORIZZAZIONE (PIÙ CHE LA ‘‘SCOPERTA’’) DEL SIGNIFICATO PROBABILISTICO DELLA SPIEGAZIONE CAUSALE.
3.1. Il significato dell’impiego di leggi causali di tipo statistico. — Un fattore di decisivo impatto sulla problematica che ci occupa, è offerto dalla valorizzazione sempre più accentuata del significato ‘‘meramente’’ probabilistico e induttivo della spiegazione causale in genere: un dato che la giurisprudenza accentua fortemente quando si tratta di accertare profili strettamente ipotetici di un decorso causale — come nell’omissione o come nell’accertamento dell’evitabilità nel reato colposo (la c.d. causalità della colpa) —, al punto da postulare, in questi casi, un impiego meno ‘‘rigoroso’’ dei comuni canoni di certezza processuale. La vicenda è nota. Lo statuto logico delle leggi causali, secondo l’epistemologia scientifica contemporanea, è riducibile al carattere deduttivo così attratti dal punto di vista ex ante, dal disvalore di azione quale momento centrale dell’illecito: basti qui ricordare tutta la problematica del rischio consentito, e la tendenza a risolverne le implicazioni all’interno della tipicità, cioè innanzitutto della ‘‘condotta’’ (legittimata a prescindere dall’evento), anziché all’interno delle scriminanti. Basti qui rinviare a W. FRISCH, Tatbestandsmäßiges Verhalten und Zurechnung des Erfolgs, Heidelberg, 1988, passim; C. ROXIN, Strafrecht, AT, Bd. I, 3. Aufl., München, 1997, par. 11/39 ss., 59 ss. (22) M. DONINI, Il delitto contravvenzionale. Culpa iuris e oggetto del dolo nei reati a condotta neutra, Milano, 1993, 146 ss. (23) Cfr. le opere cit. a nota 9. (24) Per tutti G. FIANDACA, Note sui reati di pericolo, in Il Tommaso Natale, 1977, 175 ss.; 184 ss.; ID., La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, 441 ss.,; G. GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, 710 ss.; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Milano, 1995, 196 ss.; v. anche il bilancio compiuto da M. PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, 371 ss., 378 ss. Sui percorsi di legittimazione compiuti dalla dottrina in ordine alle ‘‘nuove’’ oggettività giuridiche emergenti dagli anni Settanta e riconducibili spesso al pericolo astratto cfr. altresì M. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, 130-158.
— 47 — (assoluto), ovvero induttivo (probabilistico) della spiegazione. Tale carattere, a sua volta, discende dal tipo di leggi impiegate nell’accertamento. La stessa formula della c.s.q.n. è formula ‘‘vuota’’ finché non venga riempita con leggi scientifiche (o almeno con massime di esperienza) in forza delle quali appurare se, effettivamente, l’assenza o la presenza di una condizione da un certo iter, sia in grado di determinare un mutamento nel decorso degli eventi (25). La spiegazione causale è di tipo deduttivo quando essa impiega una legge di copertura di valore universale o assoluto, perché sempre — poste certe condizioni iniziali — dato x, si verifica y con una successione di regolarità che non ammette eccezioni. La spiegazione causale è di tipo induttivo o (logicamente) probabilistico quando essa impiega una legge di copertura di valore statistico, fondata su basi empiriche le quali attestano una regolarità, nella successione eziologica, che presenta un certo valore percentuale, via via collaudato in concreto con riferimento all’indagine sull’incidenza di altre possibili cause esclusive. Lo statuto epistemologico della spiegazione presenta valore scientifico solo quando il coefficiente percentuale, unito al permanere di determinate condizioni iniziali sulla base delle quali mantiene validità l’impiego della legge stessa (coeteris paribus), presenta un’alta credibilità razionale (26). 3.2. Probabilità statistica e probabilità logica. — Si distingue qui opportunamente fra probabilità statistica e probabilità logica (27): mentre la prima contiene una verifica empirica percentuale sulla successione degli eventi, la seconda contiene la verifica aggiuntiva della credibilità dell’impiego della legge statistica nel caso concreto: una percentuale statistica alta (es. 90%) può non aver nessun valore eziologico effettivo qualora consti che, in realtà, un certo evento è stato cagionato da una diversa condizione; e viceversa una percentuale statistica medio-bassa (es. 40%) potrebbe risultare persuasivamente suffragata in concreto dalla verifica del(25) Per tutti K. ENGISCH, Die Kausalität, cit., 13 ss.; STELLA, Leggi scientifiche, cit., 1 ss. e passim. (26) F. STELLA, Leggi scientifiche, 278 ss. e la letteratura scientifica ivi cit. (Nagel, Carnap, Hempel, Popper, Pap, Braithwaite, Pasquinelli, ecc.); più in sintesi ID., voce Rapporto di causalità, cit., 1 ss. Il modello ‘‘neopositivistico’’ di spiegazione utilizzato da Stella, per quanto siano controverse molte sue ‘‘fondazioni epistemologiche’’ (una rassegna fortemente critica, ora, in G. LICCI, Teorie causali e rapporto di imputazione, Napoli, 1996, spec. 35-167, la cui pars construens, peraltro, poco intende aggiungere al libro di Antolisei del 1934), resta quello più affidabile nell’accertamento delle eziologie naturalistiche che più ricorrono in aule di Tribunale, anche se si tratta di un modello che ha capacità ‘‘parziale’’ di leggere la causalità giuridicamente rilevante, e altresì di ‘‘coprire’’ tutte le relazioni causali che interessano il diritto, a cominciare dalla spiegazione delle azioni umane. (27) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., 311 ss., 315 ss.; ID., voce Rapporto di causalità, cit., 10.
— 48 — l’insussistenza di altre cause esclusive, sul presupposto che si conoscano tutte le possibili cause di un certo effetto e se ne possa escludere storicamente l’incidenza o l’operatività nell’accertamento di specie. La realtà dell’accertamento processuale, nei settori più disparati, fa emergere con evidenza che la regola è costituita dall’impiego di leggi causali di tipo statistico. La stessa validità dell’accertamento in giudizio, pertanto, mantiene una forza conoscitiva soltanto probabilistica (probabilità logica, credibilità razionale, certezza induttiva), e non la forza logica di una proposizione analitico-deduttiva fondata su premesse vere (verità deduttiva). Ciò che avvicina il valore della stessa perizia sulla causalità al significato epistemologico della ricostruzione storica (28): e che il giudice compia molti accertamenti comuni allo storico — si pensi al ventaglio amplissimo delle ipotesi di causalità psichica — questo lo sa da sempre e non costituisce certo una ‘‘scoperta’’ delle correnti neopositivistiche sulla base delle cui ricerche anche i giuristi hanno valorizzato il significato ‘‘probabilistico’’ della spiegazione causale. Questo valore probabilistico della spiegazione, peraltro, non significa che il convincimento processuale del giudice, solo perché egli impiega leggi di tipo statistico o anche massime di esperienza, debba essere meno rigoroso di quanto le regole probatorie e il suo libero convincimento non impongano sempre: probabilistico o deduttivo che sia il valore della legge di copertura, il giudice deve sempre pervenire a un accertamento processuale rigoroso. Il rigore, anzi, dovrebbe se mai crescere a fronte di leggi di copertura dal valore epistemologico meno pronunciato. In particolare, in presenza di una legge di copertura di valore statistico — ad es. l’incidenza dell’uso, senza protezioni, di amianto o suoi derivati in un ciclo produttivo rispetto all’insorgere di asbestosi e mesotelioma pleurico (29) — è del tutto decisivo, per la persuasività dell’accertamento, che si escluda l’intervento di altri fattori causali di rischio effettivamente interagenti in via concorrente o esclusiva (c.d. exceptio ex pluribus causis): perché solo questa prova negativa consente di avvicinare l’accertamento concreto alle (28) Letteratura amplissima, e sicuramente divisa tra modelli di spiegazione neopositivistici e ‘‘nomologico-generalizzanti’’ (cfr. F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., 231 ss., 248 ss. e gli AA. ivi cit.: ad es. Danto, Nagel, v. Mises, ecc.) e modelli non neopositivistici o ‘‘teleologico-individualizzanti’’ (per es. G.H. VON WRIGHT, Explanation and Understanding, 1971, trad. it., Spiegazione e comprensione, Bologna, 1977, spec. cap. II e cap. IV; W. DRAY, Laws and Explanation in History, Oxford, 1957, trad. it., Leggi e spiegazioni in storia, Milano, 1974, passim; D. DAVIDSON, Essays on Actions and Events, New York, 1980, trad. it., Azioni ed eventi, Bologna, 1992, passim; cfr. anche APEL-MANNINEN-TUOMELA, Neue Versuche über Erklären und Verstehen, Frankfurt a.M., 1978). (29) Su questa tipologia ‘‘eziologica’’ ormai molto nota nei procedimenti per omicidio colposo e lesioni colpose conseguenti a patologie tumorali ‘‘da amianto’’ e asbestosi, cfr. AA.VV., Rischio amianto, a cura di L. SPAGNUOLO VIGORITA, Milano, 1997, spec. 33 ss., 196 ss.
— 49 — ‘‘condizioni ideali’’ (le ‘‘assunzioni tacite’’) sotto le quali è stata costruita la legge statistica (c.d. clausola coeteris paribus). Ma d’altro canto la validità di un accertamento negativo circa l’incidenza di fattori causali sostitutivi e diversi non rende migliore l’accertamento positivo dell’incidenza di un singolo fattore eziologico, se tale accertamento positivo non si fondi su leggi scientifiche collaudate, se la stessa legge di copertura sia troppo ‘‘incerta’’ alla luce delle conoscenze scientifiche del tempo (30). La distinzione fra probabilità statistica e probabilità logica (o ‘‘credibilità razionale’’) rinvia infine alla differenza fondamentale, sulla quale si dovrà fare luce in seguito (par. 8.2) fra oggetto e accertamento della causalità, fra concetto di causa e verificabilità processuale (o probatoria in genere) del concetto: non dovendosi credere che le difficoltà probatorie di un concetto (es. dolo diretto o eventuale), che impongono strumenti probatori indiziari e criteri di rischio (es. alta probabilità del verificarsi dell’evento) identifichino ormai il concetto stesso mediante il ricorso esaustivo alle regole probatorie (es. dolo = rischio). Vedremo in tal modo che anche l’impiego di leggi statistiche nella spiegazione causale non deve condurre a identificare il concetto stesso di causalità con un rapporto di rischio: perché quelle stesse regolarità statistiche in tanto sono di tipo ‘‘causale’’ (anziché ad es., ‘‘leggi di sviluppo’’ biologico, evolutivo, psicologico, ecc.; oppure leggi statistiche sul numero delle probabilità e le frequenze relative invariabili nel gioco dei dadi e della roulette o nel ripetersi di certi fenomeni politici e sociali) in quanto presuppongono l’idea inespressa di un ‘nesso’ più significativo di incidenza tra fattori che interagiscono, di cui chiariscono le ‘‘condizioni sufficienti’’ per la spiegazione: la regolarità statistica, quindi, non esaurisce il significato descrittivo della spiegazione causale, ma lo esprime soltanto in una forma comune ad altre spiegazioni non causali (31). 4.
LA GIURISPRUDENZA COME FATTORE DI MUTAMENTO SISTEMICO: DALLA RESPONSABILITÀ DEL SANITARIO ALLA TEORIA ‘‘GENERALE’’.
4.1. L’affievolimento della causalità omissiva nella giurisprudenza prevalente, al di là del ricorso a leggi statistiche e a ricostruzioni ‘‘ipotetiche’’ o probabilistiche. — La distinzione fra probabilità statistica e proba(30) Su tale specifico aspetto, v. i rilievi di K. VOLK, Kausalität im Strafrecht, in NStZ, 1996, 108 s. (31) Sull’esistenza di leggi scientifiche e di valore statistico con significato non causale della spiegazione, per tutti E. NAGEL, The Structure of Science, 1961, trad. it., La struttura della scienza, 4a ed., Milano, 1984, 81 ss. Sull’irriducibilità del concetto di causa a quello generico di spiegazione mediante leggi scientifiche — che come tali, appunto, possono non essere di tipo ‘‘causale’’ — da ultimo C. PIZZI, Eventi e cause. Una prospettiva condizionalista, Milano, 1997, 27 ss.
— 50 — bilità logica (par. prec.) viene assai spesso dimenticata. E se nella prassi giurisprudenziale si registra una discreta confusione, a tratti persino intenzionale (se ne vedranno le ragioni: par. 4.2.2, 5.1, 6.1) nel giustificare una sovrapposizione di concetti fra il livello (e il valore probabilistico) delle leggi di copertura (nesso di condizionamento in genere), il livello (e il valore probabilistico) dell’accertamento dei decorsi causali ipotetici (colpa e omissione), e il valore probabilistico (indiziario) dell’accertamento processuale in generale, regna comunque una ripetuta uniformità di massime (per lo più relative alla ‘‘causalità omissiva’’ in generale) in merito alle incertezze costitutive degli accertamenti causali ipotetici (32). L’evoluzione della giurisprudenza italiana in materia prende l’avvio dai reati omissivi: ma più esattamente si dovrebbe dire dalle fattispecie che varie decisioni hanno preferito qualificare come omissive, anche quando si trattava di normalissimi reati commissivi colposi di evento, la cui assimilazione alle fattispecie omissive dipende talora dalla circostanza che il soggetto sia contemporaneamente un ‘‘garante’’, con compiti specifici di neutralizzare fonti di rischio o di danno, sì che il momento omissivo della colpa e l’inosservanza di obblighi di protezione si sovrappongono. Un’altra caratteristica di questa evoluzione è data dalla sua (almeno apparente) settorialità: atteso che la giurisprudenza italiana in oggetto si è affermata e sviluppata soprattutto, se non esclusivamente, in tema di responsabilità penale del medico-chirurgo. Solo di recente si registrano, almeno a livello di sentenze pubblicate, e con raggio internazionale di tendenza, espansioni — teoricamente del tutto ‘‘conseguenti’’, come si vedrà — degli indirizzi in oggetto a settori diversi da quello medico e anche a ipotesi sempre più evidenti di culpa in agendo, con particolare attenzione alla responsabilità dell’imprenditore, del produttore e ad alcune significative ‘‘posizioni di garanzia’’ in attività pericolose. La premessa centrale di tutto il discorso è costituita dall’osservazione che la causalità omissiva — a differenza di quella commissiva — è una causalità ipotetica, e per ciò solo ‘‘più probabilistica’’ di quanto non sia la (32) Ad es., Cass., Sez. IV, 31 ottobre 1991, n. 191806-08-09-10, Rezza, in Cass. pen., 1994, m. 691, p. 1204 s. (probabilità vicina alla certezza); Cass., Sez. IV, 12 luglio 1991, Silvestri, in Foro it., 1992, II, 362, con nota di I. GIACONA (30% di probabilità); Cass., Sez. IV, 13 giugno 1990, D’Erme, in Giust. pen., 1991, II, 157 (‘‘serie e apprezzabili possibilità di successo’’); Cass., Sez. IV, 23 novembre 1990, Oria, in Cass. pen., 1992, 2102; Cass., Sez. IV, 7 marzo 1989, Prinzivalli, n. 181334, in Giust. pen., 1990, II, 103 (quantificazione della probabilità al 50%); Cass., Sez. IV, 10 luglio 1987, Ziliotto, n. 176402, in Riv. it. med. leg., 1989, 668 (‘‘serie e apprezzabili probabilità’’, nella fattispecie 70-80%); Cass., 7 gennaio 1983, Melis, in Foro it., 1986, II, 351, con nota di L. RENDA (basterebbero ‘‘solo poche probabilità di successo’’). Senza distinguere fra colpa e omissione, ma anzi riferendosi in particolare alla colpa professionale medica nel suo complesso, Cass., Sez. IV, 7 luglio 1993, De Giovanni, n. 195482, C.E.D.; nel senso della sufficienza di una ‘‘probabilità, anche limitata di successo’’, Sez. III, 22 febbraio 1993, C.E.D. n. 193052.
— 51 — causalità commissiva, che peraltro — come sappiamo — presenta anch’essa un valore epistemologico di tipo statistico e probabilistico (33). Una valenza doppiamente probabilistica (probabilità logica del valore delle leggi di copertura e probabilità storica della ricostruzione controfattuale) pertanto, caratterizzerebbe l’omissione come condizione di significato eziologico. La conseguenza di tale premessa pare scontata alle decisioni che si commentano, e trova in alcune elaborazioni dottrinali un supporto argomentativo autorevole (34): trattandosi di un accertamento probabilistico e ipotetico, non è possibile richiedere una certezza probatoria veramente ‘‘identica’’ o corrispondente a quella che si può esigere dalla prova della causalità ‘‘reale’’ delle condotte attive. Questo asserito dato di fatto, quindi, suggerisce subito una proposizione prescrittiva, o meglio autorizzativa: il giudice — prosegue la tesi che si commenta — nella causalità dell’omissione può ‘‘accontentarsi’’ legittimamente di qualcosa di meno sul piano delle garanzie probatorie, perché la causalità omissiva è meno ‘‘certa’’ (35). Non solo. Il punto di vista ex post (che è quello della causalità) viene progressivamente dimenticato in ragione degli scopi di tutela perseguiti dalla norma penale in queste ipotesi. Quando sono ‘‘in gioco’’ beni giuridici di primaria importanza come la vita — prosegue un’argomentazione ricorrente — il destinatario del precetto, il ‘‘garante’’, non può ritenere di essere esente dall’intervento salvifico solo perché ex ante appaiono modeste le probabilità di successo della sua condotta positiva (36). Egli ha l’ob(33) Sul carattere probabilistico e ipotetico della causalità omissiva, peraltro senza accentuarne un minor significato di ‘‘certezza’’ causale rispetto alle condotte attive, v. per tutti in dottrina G. GRASSO, Il reato omissivo, cit., 385 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico, vol. I, 2a ed., cit., Art. 40/36 ss.; con approccio epistemologico e nomologico (nominalismo causale) che tende ad accomunare del tutto la spiegazione teorica della causalità attiva rispetto a quella omissiva, F. STELLA, voce Rapporto di causalità, cit., 15 s.; C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione, cit., 836 ss. (34) Ad es. G. FIANDACA, voce Causalità (rapporto di), cit., 127; G. FIANDACA-E. MUa SCO, Diritto penale, P. gen., 3 ed., Bologna, 1995, 542, e nella letteratura tedesca, H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, 5. Aufl., Berlin, 1996, 620 (par. 59 III,4). (35) Su tale assunto v. i rilievi di C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione, cit., 823 ss. e di E. GIMBERNAT ORDEIG, Causalidad, omisión e imprudencia, in Anuario de der. pen. y ciencias pen., 1994, 27-29, 56 s. (36) Espressamente in tal senso, ad es., le citate sent. Cass., 12 maggio 1983, Melis e 7 marzo 1989, Prinzivalli; v. già da tempo, nella letteratura di lingua tedesca, G. STRATENWERTH, Bemerkungen zum Prinzip der Risikoerhöhung, in Fest. Gallas, Berlin, 1973, 238 s., nel segno delle teorie dell’aumento del rischio, fondandosi specificamente sull’assunto secondo il quale, se si esigesse la certezza della salvezza del bene giuridico in caso di condotta osservante, si dovrebbe concludere nel senso della legittimità di non intervenire in caso di dubbio, ex ante, circa le possibilità di evitare l’evento, quanto meno in caso di chances non elevatissime e ancor più se modeste. Non dissimili le considerazioni di A. CASTALDO, La teoria dell’aumento del rischio, cit., 135, 148. Su queste basi tali AA., e in generale chi adotta la teoria dell’aumento del rischio, fondano infine la tesi — che da quelle premesse non di-
— 52 — bligo di intervenire anche quando le chances siano basse (purché apprezzabili, non inconsistenti). A questo assunto ineccepibile, peraltro, viene subito collegata una conclusione che logicamente e giuridicamente costituisce un chiaro non sequitur, un ‘‘salto’’ nella logica dell’imputazione, non distinguendosi più fra il momento antiprecettivo della condotta, l’imputazione dell’evento e il momento sanzionatorio del fatto realizzato: dovendo il garante (ma anche chi abbia semplicemente un dovere di precauzione) intervenire anche a fronte di modeste probabilità di salvare il bene protetto, in caso di mancato intervento egli dovrà rispondere — si conclude — non solo (ciò che è incontestabile) dell’omissione sul piano comportamentale — quale violazione di mera condotta, sia essa un illecito amministrativo-disciplinare, oppure penale (es. artt. 328, 437 c.p., ipotesi contravvenzionali in materia antinfortunistica, violazioni al codice della strada, ecc.) — ma altresì dell’evento che si sia ‘‘verificato’’. E questo anche qualora consti, a posteriori, che adempiendo l’obbligo l’evento infausto si sarebbe verificato con probabilità maggiori (es. 80%) di quelle che si avevano di salvare il bene giuridico (es. 20%). 4.2. Illustrazione della problematica attraverso i casi, ormai ‘‘consolidati’’, della responsabilità medica. — La giurisprudenza più nota in ambito nazionale, sul tema che ci occupa, è quella riguardante la responsabilità medica. Sul punto esistono già eccellenti contributi (37), ai quali è qui doveroso e sufficiente fare rinvio. Mi limito a riassumere — semplificando le possibili ‘‘classificazioni’’ delle numerose sentenze in materia — il ‘senso’ fondamentale di questo trend, e a svolgere alcune precisazioni di momento forse non secondario, attorno a profili giuridici sino a oggi non sufficientemente evidenziati. Per come è stato presentato e concepito da alcune decisioni, e da altre meramente ‘‘recepito’’, si tratterebbe di un indirizzo che concerne la responsabilità omissiva del sanitario per la ‘‘causazione’’ (cioè per il contributo, di fatto sempre concorrente con altri fattori eziologici, alla causazione) di eventi lesivi o mortali nell’esercizio della propria attività professionale: una responsabilità ‘‘omissiva’’ in quanto incentrata sull’omesso riscende necessariamente — che basti un aumento minimale del rischio per aversi (non già violazione di un precetto, ed eventuale responsabilità per un illecito di pericolo, ma) imputazione dell’evento. (37) V. soprattutto C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione, cit.; C. PARODI-V. NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, Torino, 1996, 180-199; M. BARNI, Il giudizio medico-legale della condotta sanitaria omissiva, in Riv. it. med. leg., 1994, 3 ss.; I. GIACONA, Sull’accertamento del nesso di causalità tra la colposa omissione di terapia e la morte del paziente, in Foro it., 1992, II, 363 ss.; A. CRESPI, voce Medico-chirurgo, cit., 597 ss.; A. FIORI, Il criterio della probabilità nella valutazione medico-legale del nesso causale, in Riv. it. med. leg., 1991, 29 ss.
— 53 — spetto delle leges artis, e quindi, in realtà, fondata su una componente omissiva della colpa professionale. Sono emblematici, fra gli altri, vari casi di ‘‘omessa diagnosi’’ — ad es. del tetano, di tumore, di patologie cardiovascolari (38) — la cui tempestiva scoperta avrebbe consentito l’impiego di cure adeguate e quindi la salvezza possibile o probabile o quasi certa (a seconda dei casi) della persona, oppure situazioni di ‘‘omesso tempestivo intervento’’ (es. da parte del medico ‘‘di turno’’), la cui effettuazione avrebbe potuto salvare il paziente, sino alle ipotesi di ‘‘omessa terapia adeguata’’, dove cioè l’intervento terapeutico del sanitario ci fu e avvenne tempestivamente, ma si rivelò tecnicamente errato, per imperizia, negligenza, ecc. 4.2.1. Casi di sicura causalità rispetto all’hic et nunc dell’evento. — Alcune sentenze che pure hanno espresso principi di diritto apparentemente paghi di un piccolo aumento del rischio, in realtà avevano di fronte ipotesi nelle quali l’omissione aveva sicuramente condizionato l’hic et nunc dell’evento: anzi, è lecito dubitare che molte decisioni ‘‘motivate’’ un po’ sbrigativamente sull’aumento del rischio non abbiano sufficientemente delibato la questione relativa al ‘‘peggioramento’’ del momento o dell’intensità dell’offesa (morte o lesioni personali): sì che anche la lettura della sentenza non illumina più di tanto perché è solo attraverso gli atti del processo che si sarebbe dovuto valorizzare una causalità certa rispetto all’intensificazione o ai tempi dell’offesa. Dobbiamo in effetti escludere del tutto dai momenti ‘‘problematici’’ di questa indagine (almeno con riguardo alla causalità della condotta) le ipotesi in cui consti, a posteriori, che l’evento, in caso di diagnosi esatta e cure adeguate, si sarebbe certamente (o pressoché certamente) verificato in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (39): perché sotto queste condizioni è del tutto (o pressoché certamente) dimostrato che la ‘‘colpa’’ e l’omissione hanno condizionato l’evento reale nel suo hic et nunc, e quindi sono state sicuramente causali rispetto alla le(38) Cfr. per tutti la rassegna critica di C. PARODI-V. NIZZA, cit. alla nota prec. (39) Espressamente e correttamente in tal senso alcune sentenze sulla responsabilità penale del medico riportate da C. PARODI-V. NIZZA, La responsabilità penale, cit., 198 s. Le sentenze, peraltro, non sottolineano a sufficienza che l’incidenza spazio-temporale deve avere un qualche significato sociale rispetto al bene giuridico protetto: sul ‘‘peggioramento del bene giuridico’’ e sulla ‘‘intensificazione della lesione’’ quale momento qualificante dell’accertamento causale, del rapporto fra evento naturalistico ed evento lesivo, v. E. SAMSON, Hypotetische Kausalverläufe, cit., 96 ss., 108 ss., 164 ss.; A. CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, cit., 139 ss., e più in generale tutto l’indirizzo che fa leva sullo ‘‘scopo di protezione della norma’’ (o della regola cautelare) per escludere imputazioni di un evento pur cagionato, ma in maniera occasionale e avventurosa rispetto al senso del rispetto della cautela doverosa, che o non avrebbe modificato in sostanza l’andamento delle cose, o non aveva per finalità la prevenzione dello specifico rischio realizzatosi in concreto: sul punto ampiamente G. FORTI, Colpa ed evento, cit. 423 ss., 575 ss., 659 ss.
— 54 — sione storica giuridicamente rilevante: il vero punctum dolens di questa tematica ‘‘di confine’’ è dato dalla significatività dell’accelerazione o dell’intensificazione dell’offesa, non potendo certo appagare, per un giudizio di condanna per l’evento, uno spostamento temporale di minuti, di ore o poco di più. Pertanto dal novero delle sentenze che assumono di avere accertato qualcosa di meno della causalità attiva, ‘‘commissiva’’, per appagarsi di un nesso di condizionamento più ‘‘probabilistico’’, vanno espunte quelle dove il medico, ‘‘sbagliando diagnosi o terapia’’, ha condizionato l’esito infausto (e le modalità spazio-temporali dell’evento) quale sicuro effetto della stessa diagnosi o terapia erronea (anziché solo per il confronto con gli esiti migliori e forse salvifici che ‘‘avrebbe potuto avere’’ un trattamento corretto), giacché, in ogni caso, la terapia e la diagnosi corrette avrebbero quanto meno inciso diversamente (non in senso peggiorativo, ma significativamente migliorativo) sui tempi e sui modi dell’evento, pur senza salvare con sicurezza o alta probabilità la vittima. Una attenta analisi dei casi concreti e una attenta ‘‘descrizione dell’evento’’, conduce con apprezzabile frequenza al convincimento processuale che l’offesa evitabile o non si sarebbe verificata, oppure si sarebbe certamente o molto probabilmente verificata in un contesto spazio-temporale diverso: anche se — va pur detto — di volta in volta con differenze molto o poco significative in termini di valutazione sociale del disvalore di evento, immutato il solo disvalore della condotta colposa. Il ‘‘peso’’ del disvalore di evento — del ‘‘materializzarsi’’ della colpa o dell’omissione nell’evento —, in tali ipotesi, cresce proporzionalmente alla significatività dell’intensificazione della lesione o del prolungarsi della vita in caso di condotta diligente e perita. 4.2.2. Casi di apparente omissione e di reale culpa in agendo con importanza pratica relativa della distinzione. L’accertamento di ‘‘condizioni negative’’. — Esistono altre ipotesi sicuramente colpose e commissive, nelle quali peraltro l’accertamento eziologico non diverge da quello che si avrebbe qualificando come omissiva la condotta tipica. Si pensi ancora a un trattamento inadeguato da parte del sanitario che abbia assunto in terapia il paziente, affetto da sintomatologia tipica dell’infezione da tetano (trisma e rigidità dei muscoli mandibolari, irrequietezza), e lo abbia rimandato a casa con semplice prescrizione di un tranquillante; si assuma che consti, a posteriori, che la prescrizione di una terapia con siero antitetanico (previe verifiche, omesse, circa l’effettiva esistenza di lesioni cutanee recenti) avrebbe avuto discrete, ma non altissime, probabilità di evitare l’evento (40). (40) Il caso è modellato su quello giudicato da Cass., 12 luglio 1991, Silvestri, cit. (nota 32).
— 55 — Si può correttamente assumere che sia questo un tipico caso di culpa in agendo, perché non ricorre nessun ‘‘omesso impedimento dell’evento’’ nella condotta dei sanitari che hanno sbagliato diagnosi e terapia. Questi medici non hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto: il divieto di cagionare (o contribuire a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza, e quindi per effetto di un comportamento negligente o imperito nell’esercizio dell’attività professionale. Sono situazioni normalissime in cui emerge il c.d. momento omissivo della colpa (41). La tendenza a considerare omissive le condotte stesse — quasi che il soggetto contravvenisse a un precetto penale di intervenire, e quindi a un comando, mentre in realtà sta solo male adempiendo i suoi doveri — non è tuttavia stravagante. Essa dipende qui dal fatto che il sanitario (come ogni professionista chiamato a intervenire in una situazione ‘‘di rischio’’) compie comportamenti per loro natura ‘‘impeditivi’’ rispetto a eventi dannosi. Chi sbaglia cure è ‘‘in colpa’’ e sul piano causale pone condizioni positive dell’evento lesivo (che altrimenti non si sarebbe mai verificato, oppure che è stato determinato nell’hic et nunc in tempi e modi peggiorativi rispetto a quanto era possibile e doveroso), e a un tempo non attiva condizioni negative dell’evento, cioè condizioni la cui assenza (dovuta alla presenza di condizioni impeditive inutili: le terapie errate) è ‘‘concausa’’, in senso giuridico, dell’evento. La sua ‘‘azione’’, quindi, è condizione dell’evento non solo perché lo condiziona storicamente quanto meno accelerando i tempi del decesso, ma anche perché non attiva condizioni negative (impeditive) dello stesso, e anzi proprio per questo il condizionamento è giuridicamente assai più interessante: nel caso in cui, cioè, la vita stessa — non meramente prolungabile di qualche ora, di un giorno o una settimana — avrebbe potuto verosimilmente o probabilmente essere salvata. È quindi vero che la ‘‘rilevanza giuridica’’ di questa condizione discende dalla circostanza che si tratta di un medico, ed è perciò dipendente dall’esistenza di doveri di cura e tutela, nonché da obblighi cautelari. Questo rende chiaro a tutti che in vari casi di reati commissivi colposi, ‘‘colpa’’ e ‘‘causalità’’ si sovrappongono (42). Ogni decorso causale, come è noto, mette in gioco numerose condi(41) V. da ultimo, con i necessari richiami anche comparati, M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, 139 ss., 144 ss.; F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, 90 ss. (42) V. anche, sulla ‘‘confusione’’ fra omissione e momento ‘‘omissivo’’ della negligenza, imprudenza di condotte attive, le conformi riflessioni, in campo civilistico, di G. ALPA, Colpa omissiva e principi di responsabilità civile, in Giur. it., I, 1, 1979, 1366; analogamente L. GAUDINO, Gli interessi protetti nell’art. 2043 c.c., in P. CENDON, a cura di, La responsabilità extracontrattuale. Le nuove figure di risarcimento del danno nella giurisprudenza, Milano, 1994, 216 s.
— 56 — zioni di un evento. Sono condizioni positive quelle (43) la cui presenza (segno +) determina (secondo una legge di successione causale) l’evento; sono condizioni negative quelle che impediscono (che ‘‘negano’’) l’evento, e perciò condizioni la cui assenza (segno −) determina (secondo una legge di successione causale) l’evento. Orbene, la caratteristica di queste condizioni è che se pur definiamo ‘‘causale’’ e altresì ‘‘attiva’’ la condotta del sanitario, nondimeno occorrerà accertare il nesso di condizionamento esattamente come se si trattasse di una vera omissione: ciò discende dal fatto che nella spiegazione il punto di vista del diritto, la sua ‘‘valutazione’’ rende decisiva la presenza o l’assenza di condizioni negative (nel caso di specie: l’adozione di una terapia adeguata): e quindi, come meglio si dirà, è necessario che ad ogni livello (dove causalità e colpa si trovano teleologicamente ‘‘confuse’’) si richieda un accertamento ipotetico con probabilità tanto più ‘‘confinante con la certezza’’, quanto meno significativo è il condizionamento ‘‘attivo’’ (es. con sicurezza sappiamo soltanto che la terapia erronea ha condizionato il tempo della morte di almeno un giorno; per il resto, la terapia corretta avrebbe forse, probabilmente o molto probabilmente salvato il paziente). 4.2.3. L’interruzione ‘‘attiva’’ dei decorsi causali di salvataggio. — Non porre in essere (o rendere inoperante) una condizione negativa dell’evento, non equivale automaticamente a ‘‘omettere’’ in senso penalistico, perché ciò può dar luogo a omissione solo in presenza di un obbligo giuridico, mentre il comportamento riguardante le condizioni negative (o ‘‘impeditive’’) può comunque innescare anche una responsabilità in agendo, attiva: ciò accade tutte le volte che si neutralizza la condizione negativa, interrompendo ‘‘attivamente’’ un decorso causale di salvataggio già operativo (44). Esempio. Il killer che dolosamente stacca il respiratore automatico interrompe un decorso causale salvifico, neutralizza una condizione impeditiva, e quindi dà corso al mancato verificarsi (all’assenza) di una condizione negativa, perché l’assenza del respiratore determinerà l’evento. Ma è a ognuno evidente che egli ha agito con condotta attiva, senza ‘‘omettere’’ alcunché (ma anche senza ‘‘innescare’’ un processo di intera(43) Le condizioni positive sono più vicine all’immagine di senso comune di una causalità ‘reale’, ‘efficiente’, ‘a contatto’, a una interazione di forze ed energie, all’immagine di una causalità ‘cinetica’, ‘produttiva’, unidirezionale, asimmetrica, ecc.: al di là dei nominalismi (ricorrenti nel neopositivismo ispirato a certe correnti del Circolo di Vienna) propri di un’epistemologia che abbia ridotto la realtà a linguaggio, a epifenomeno di strutture linguistiche esprimibili in termini matematici o di logica formale o simbolica, e la verità a coerenza convenzionale di segni e significati. (44) Sull’interruzione dei decorsi causali salvifici cfr. G. GRASSO, Il reato omissivo, cit., 416 s.; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, P. gen., 3a ed., cit., 558; M. ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., Pre Art. 39/36-41 ma soprattutto E. SAMSON, Hypotetische Kausalverläufe, cit., 30 ss., 86 ss., 94 ss. Cfr. altresì quanto osservato in M. DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., 435-444 e nota 187.
— 57 — zione di forze o energie derivanti dal suo fare, essendo l’autonomo decorso patologico della vittima a produrre ‘‘da sé’’ l’evento: analogamente al caso di scuola di chi impedisca al bagnino di soccorrere l’inesperto nuotatore in difficoltà). Occorrerà anche qui (v. sempre infra, par. 7.5), una probabilità vicina alla certezza sul condizionale congiuntivo riferito all’hic et nunc dell’evento, vertendosi in tema di accertamento ‘‘basico’’ del nesso di condizionamento ai sensi dell’art. 40, comma 1, c.p. La medesima conclusione sembrerebbe doversi trarre nel caso del sanitario ‘‘garante’’ della terapia che abbia staccato il respiratore (in presenza di una situazione non di morte clinica ai sensi della legge 29 dicembre 1993, n. 578). Che in una situazione di tal genere si possa peraltro affermare che il sanitario ha ‘‘omesso la terapia’’ (rectius: ‘‘interrotto’’ le cure) discende dal fatto che il medico ha una posizione di garanzia, che lo obbliga sempre (salva la morte clinica già sopravvenuta) ad attivarsi con mezzi idonei a impedire l’evento. È questa un’ipotesi, comunque, dove il ‘‘significato sociale’’ del fatto è davvero di così incontestabile ‘‘equivalenza’’ tra fare e omettere che, anche in assenza di un obbligo giuridico di intervenire, si può tranquillamente affermare la causalità ‘‘attiva’’: e se in assenza di posizioni di protezione c’è nesso di condizionamento dovuto a un’azione, ‘‘non occorre’’ cercare il supporto di un’imputazione ‘‘per equivalente’’ a un’identica azione solo perché, in concreto, c’era anche una posizione di garanzia: qui il ‘‘garante’’ ha cagionato prima ancora di omettere, sì che non sarà l’obbligo di intervenire a trasformare d’incanto il significato dell’azione in causalità omissiva (45). 4.2.4. Condizioni negative e decorsi causali ipotetici. — Quando il nesso di condizionamento ‘‘oggettivo’’ (art. 40 c.p.) deve necessariamente ‘‘passare’’ attraverso la costruzione di condizioni negative affinché se ne apprezzi la compiuta rilevanza giuridica, allora è indispensabile costruire decorsi causali ipotetici per la verifica dello stesso nesso di condizionamento ‘basico’ ex art. 40 , comma 1, c.p., esattamente come avviene in tema di causalità ex art. 40, comma 2, c.p. Nel caso del sanitario ipotizzato al paragrafo precedente, infatti, non è possibile accertare una causalità del trattamento imperito che sia ‘‘interessante’’ per il diritto, se non accertando contestualmente che cosa sarebbe successo in caso di esatta diagnosi e terapia: o perché l’evento si sarebbe verificato più tardi, o perché non si sarebbe verificato affatto, oppure, quanto meno, perché avrebbe avuto significative, minori probabilità di verificarsi. Una condizione positiva (es. colpo di arma da fuoco mortale) può sempre essere ‘‘spiegata’’ (o convertita) in termini condizionalistici negativi (senza lo sparo il soggetto sarebbe in vita): ma in questi casi, se non si (45) Analoga argomentazione in H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch, 5. Aufl., cit., par. 58 II 2, (p. 603).
— 58 — verte in ipotesi di interruzioni di decorsi causali di salvataggio (par. prec.), l’uso dei termini condizionalistici non è che la traduzione linguistica in espressioni ipotetico-congiuntive di un decorso causale comunque certo: è ovvio, nell’esempio ora formulato, che la vittima è morta a seguito del colpo di arma da fuoco; e appunto per questo, se non gli avessero sparato, sarebbe viva. Nelle ipotesi di condizioni negative, invece, l’accertamento del decorso ipotetico ha un valore costitutivo rispetto alla verifica della causalità. Si capisce allora che quando la giurisprudenza e (una parte del)la dottrina discutono dell’esigenza ‘‘pratica’’ di appagarsi di una certezza ‘‘più probabilistica’’ nella causalità ‘‘omissiva’’, in realtà il loro rilievo riguarda allo stesso modo la causalità dell’omissione come la causalità delle condotte attive, dolose o colpose che siano, allorché nella ‘‘spiegazione’’ eziologica entrino in gioco condizioni negative: perché le condizioni negative — essenziali per la causalità dell’omissione, per le ipotesi di causalità materiale della condotta commissiva colposa che non si realizzi con modalità direttamente lesive per effetto di interazioni tra forze ed energie attivate, nonché per la causalità dei fatti dolosi posti in essere con neutralizzazione di condizioni impeditive — impongono sempre l’utilizzo di condizionali controfattuali, e quindi di decorsi causali ipotetici aventi tutti la medesima struttura gnoseologica di spiegazione causale (prima ancora che di accertamento del c.d. comportamento alternativo lecito, che ad es. nel dolo è del tutto irrilevante) e la stessa validità probabilistica di accertamento processuale. Non può dirsi altrettanto delle condizioni positive, dove la verifica della causazione ex art. 40, comma 1, c.p. può prescindere dall’indagine sui controfattuali, nel senso che la ‘‘traduzione’’ dell’accertamento reale in termini controfattuali non ha valore conoscitivo, ma è puramente esplicativa, tautologica. Ciò che la giurisprudenza non chiarisce è che la valenza probabilistica dei controfattuali in genere, tollera graduazioni diverse a seconda che riguardi la causalità omissiva o le condizioni negative decisive per il condizionamento rilevante ex art. 40 cp., oppure la evitabilità nel reato colposo a fronte di una previa, sicura causazione ex art. 40 c.p. (v. infra, par. 7.5). 4.2.5. Le ‘‘vere’’ omissioni del sanitario. — In linea di principio l’omissione in senso giuridico va ricostruita alla luce del precetto penale violato: se si tratta di un comando, la sua violazione integra un reato omissivo; se si tratta di un divieto, la sua violazione integra un reato commissivo (46). In realtà, come accennato, la distinzione tra ‘‘fare’’ e ‘‘omettere’’ si (46) Per questo consolidato criterio distintivo, M. ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., Pre Art. 39/31-34; H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch, cit., 601 ss. (par. 58 II 1-
— 59 — presenta in vari casi molto problematica, e di valore anche assai relativo allorché la presenza di un’omissione si ‘‘innesti’’ su un comportamento ricostruibile come causale in senso ‘‘attivo’’ e ‘‘colposo’’ per l’omessa adozione di cautele doverose, specificamente ‘‘impeditive’’ dell’evento (47). E anche qualora si accerti una sicura colpa commissiva con causalità ‘‘naturalistica’’ che prescinde da accertamenti ipotetici (es. aver cagionato l’incidente mortale procedendo a velocità eccessiva), gli accertamenti ipotetici si imporranno a un altro, successivo livello: e precisamente al livello dell’accertamento della evitabilità dell’evento da parte del comportamento alternativo lecito, perché se risultasse che la velocità corretta e adeguata non avrebbe consentito tempi di reazione capaci di salvare la vittima, con esiti verosimilmente identici, non potrebbe conseguire l’imputazione dell’evento — pur cagionato — alla colpa del soggetto — pur soggettivamente integrata nell’inosservanza. Raccogliendo le precedenti riflessioni, pertanto, si può concludere che il sanitario che sbaglia diagnosi o terapia, ‘‘omette’’ solo di utilizzare le conoscenze che ha, se le possiede: ed è un caso di colpa per imperizia; oppure ‘‘omette’’ di impiegare le conoscenze che non ha, per non averle mai apprese: ed è anche questa una sicura forma di colpa per imperizia. Il senso sociale e giuridico del suo comportamento, in entrambi i casi, è di essersi attivato male, non di non aver neppure tentato di impedire il verificarsi di un evento: di qui la ricostruzione della sua responsabilità, nella maggior parte delle ipotesi sin qui richiamate, ai sensi degli artt. 40, comma 1, e 43 c.p. Le numerose condizioni negative dell’evento che non ha attivato, altro non sono che la contestuale definizione in termini di colpa del significato illecito del suo modo di adempiere l’obbligo di impedire l’evento o di adempiere un’obbligazione di mezzi finalizzata ad assicurare o ripristinare il bene della salute. Ma appunto la stessa ricostruzione della causalità del suo agire colposo, in questi casi, non potrà prescindere dai condizionali controfattuali che strutturano l’accertamento della causalità omissiva in senso stretto. Viceversa, ‘‘omette’’ sicuramente il sanitario che rifiuta di intervenire o interviene con colpevole ritardo; ‘‘omette’’ sicuramente il sanitario che non dispone delle necessarie attrezzature, medicine, ecc. che abbia l’obbligo di procurarsi. E parimenti ‘‘omettono’’ i genitori che, per motivi reli3); approfondimenti in A. CADOPPI, Il reato omissivo proprio, Padova, 1988, vol. I, 151 ss., 172 ss.; vol. II, 999 ss., 1012 ss.; F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 94-110. (47) Valorizza il significato ‘‘relativo’’ e anzi l’inutilità pratica di molte distinzioni (non però di tutte) nei casi problematici, K. VOLK, Zur Abgrenzung von Tun und Unterlassen, in Fest. Tröndle, Berlin-New York, 1989, 219 ss. V. sinteticamente sull’argomento M. ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., Pre Art. 39/36 ss. Conseguenze praticamente rilevanti si riscontrano anche in tema di disciplina applicabile nella desistenza volontaria o nel recesso attivo, a seconda che si riconosca un attivo impedimento dell’evento o una interruzione della condotta ‘‘causante’’: v. sempre M. ROMANO, Commentario, cit., Art. 56/57-60.
— 60 — giosi, negano il consenso alla trasfusione del figlio talassemico grave, sì che il loro dissenso preclude un intervento sanitario salvifico. È in questi casi che trova applicazione l’art. 40 cpv. c.p. Orbene, se è corretta l’impostazione si qui adottata, ne conseguono esiti significativi per la verifica della fondatezza degli assunti ‘‘teorici’’ enunciati dalla giurisprudenza in materia. 5.
LE DUE TESI FONDAMENTALI A SOSTEGNO DELLA TRASFORMAZIONE DELLA CAUSALITÀ IN MERO RAPPORTO DI RISCHIO NELL’OMISSIONE E NELLA RESPONSABILITÀ MEDICA.
5.1. L’argomento ‘‘pratico’’: il probabilismo dei controfattuali. Insostenibilità della tesi che circoscrive alla sola ‘‘causalità omissiva’’ l’imputazione per aumento rischio. L’esigenza o di estendere l’imputazione per rischio all’interruzione dolosa di decorsi salvifici, a tutte le ‘‘condizioni negative’’ rilevanti in agendo, oppure di escluderla in ogni caso, ma senza disporre mai di certezze ‘‘universali’’. — Si è assodato che non solo nelle ‘‘vere’’ omissioni, ma anche in varie ipotesi di reati commissivi colposi con evento ricostruibile mediante l’impiego di condizioni negative (e prima ancora di interrogarsi su un secondo, più specifico rapporto di rischio fra colpa ed evento già sicuramente cagionato: la c.d. causalità della colpa e del comportamento alternativo lecito) e altresì in taluni casi di condotte attive dolose, è indispensabile un accertamento ipotetico per verificare la rilevanza giuridica dello stesso nesso di condizionamento ai sensi dell’art. 40 c.p.: a un livello antecedente, perciò, gli accertamenti più approfonditi in tema di criteri ‘‘normativi’’ di imputazione della colpa (principio di affidamento, ratio di tutela della regola cautelare, esigibilità soggettiva della cautela obiettivamente doverosa), di dolo, colpevolezza, ecc. Risulta pertanto in parte convalidata la tesi (48) che dichiara l’indispensabilità del ricorso a giudizi controfattuali nell’accertamento della causalità ‘‘in genere’’: ma ciò sul presupposto, appunto, che quando si tratta di colpa, omissione, interruzione di decorsi casuali di salvataggio, annientamento di condizioni negative, o di accertare la rilevanza o l’importanza di un contributo rispetto a un altro, è lo specifico punto di vista del diritto che impone una ricostruzione causale ‘‘controfattuale’’, ipotetica. Non perché l’uso di controfattuali sia indispensabile all’accertamento della causalità di tutte le condizioni positive. Prendere coscienza di ciò non è di piccolo momento, perché impone un atteggiamento coerente rispetto a tutti i casi menzionati di ricorso a giudizi ipotetici. (48)
Per tutti F. STELLA, voce Rapporto di causalità, cit., 5.
— 61 — O diremo che essi consentono sempre — in quanto ipotetici — un convincimento ‘‘solo’’ probabilistico, di ‘‘certezza’’ processuale a fondamento molto induttivo e indiziario — salvo accordarsi su ‘‘che cosa basti’’ per il livello minimo di certezza accettabile — e allora non si potrà distinguere tra i controfattuali in uso nei reati omissivi o in quelli colposi commissivi (49). Oppure, definita una soglia minima di affidabilità di questo tipo di giudizi, saremo costretti a dichiarare l’inutilizzabilità dei controfattuali ‘‘in genere’’, perché non possono condurre a conclusioni veramente ‘‘certe’’: con pedissequo abbandono di un’impostazione a base causale, eventualmente in favore di incriminazioni di mera condotta (ma è una scelta che spetta al legislatore), ovvero in favore di teorie dell’imputazione dell’evento meno pretenziose ma più sicure perché fondate sul ‘‘mero rischio’’. Se invece (e nella misura in cui) si converrà che anche con l’uso di condizionali congiuntivi è comunque possibile pervenire a risultati accettabili di ‘‘certezza processuale’’ (salva la regola del dubbio), allora resteremo fedeli alla logica ‘‘causale’’ dell’accertamento, sia pur definendo postulativamente quale sia il livello ‘‘minimo’’ e basico per accogliere la validità dell’accertamento, che rimane in ogni caso a struttura probabilistica. Chi segue la strada dell’abbandono di parametri causali dà per scontata una valenza molto, anzi troppo garantistica, dell’accertamento causale in genere, preferendo alla difficoltà definitoria dei livelli di probabilità sufficienti, la certezza della verifica di un quantum maggiore o minore di rischio: non sapendo veramente che cosa sarebbe successo, basterà chiarire che si aveva qualche probabilità in più di evitare l’evento in caso di attivazione della condizione negativa o impeditiva (che sia un caso di omissione, di colpa o di dolo, non importa). Le teorie fondate sul mero ‘‘aumento’’ del rischio, le quali condividono questo punto di vista, sono sicuramente molto più tassative delle teorie che richiedono la prova di una ‘‘rilevante’’, ‘‘apprezzabile’’, ‘‘significativa’’, ‘‘credibile’’, ‘‘probabile’’ evitabilità. Si tratterà di verificare, peraltro, se siano conformi alla legge positiva vigente. Chi segue la soluzione di un accertamento comunque rispondente ai parametri della causalità, mette in conto più proscioglimenti in caso di dubbio processuale: ma per rendere davvero credibile e praticabile la sua prospettiva, deve impegnarsi in una più rigorosa definizione dei limiti di ciò che è ‘‘rilevante’’: quando la condizione di ciò che forse si sarebbe verificato egualmente, è comunque ‘‘causalmente’’ rilevante perché sareb(49) Significative, in effetti, al riguardo, le decisioni in tema di colpa medica, le quali ammettono la necessità del ricorso a criteri probabilistici nella ‘‘colpa professionale medica’’ in genere, a prescindere dal fatto che si versi in ipotesi commissive od omissive (v. le citate Cass., Sez. IV, 7 luglio 1993, n. 195482 e Cass., Sez. III, 22 febbraio 1993, n. 193052 (ante, nota 32).
— 62 — bero state ‘‘significative’’ le probabilità di evitare l’evento? Basta una probabilità maggiore del 50-60%, o si richiede molto di più? In effetti, come si vedrà, queste impostazioni appaiono tendenzialmente più ‘‘fedeli’’ al diritto positivo vigente, perché continuano a ragionare in una logica effettivamente ‘‘causale’’ — ‘b’ deve essere stato realmente o molto probabilmente la conseguenza di ‘a’, non un mero fattore di rischio —, ma sono tuttora condizionate da una forte componente di empirismo e di intuizionismo. 5.2. L’argomento ‘‘ideologico’’: ‘‘quando è in gioco la vita umana’’. L’uso di parametri eziologici differenziati ‘‘per classi’’. Critica alla settorialità dell’approccio in materia di responsabilità del medico. — Varie decisioni della Suprema Corte argomentano il richiamo a una causalità dimidiata con specifico riferimento alla responsabilità medica e all’importanza degli interessi in gioco in questa attività (50). Si tratta — occorre essere chiari sul punto — di un argomento destituito di ogni fondamento logicogiuridico: se la causalità dell’omissione fosse, o dovesse diventare, qualcosa di assai meno sicuro e garantito della causalità c.d. attiva, ciò non potrebbe riguardare un solo settore, o addirittura una ‘‘classe’’ di destinatari. E questo per due ragioni fondamentali. La prima ragione è che la causalità — se di causalità veramente si tratta — è nozione con contorni e limiti sicuramente normativi, ma resta comunque nozione oggettiva non manipolabile dall’interprete al mutare delle fattispecie e degli interessi in gioco. Il giudice, oltre a restare un consumatore, e non un produttore di leggi causali (51), le deve recepire in un concetto di causalità giuridica legalmente uniforme, e in ciò egli è soggetto alla legge (art. 101 Cost.) che gli impone un utilizzo generale e unitario del concetto di causa (artt. 40 e 41 c.p.): quando anche ci si ‘‘accordasse’’ che in diritto penale è ‘‘causa’’ (o equivale alla causa) l’aver diminuito le chances di salvezza del bene giuridico oltre la soglia del 5%, ciò dovrebbe comunque valere in ogni caso (salva diversa disposizione di legge), e non solo per la classe medica. La seconda ragione — che ci avvicina a comprendere che più che di causalità naturalistica la giurisprudenza sta parlando di colpa e di inosservanza colposa di obblighi di garanzia — è che non è vero affatto che solo la classe medica sia destinataria di precetti e responsabilità attinenti alla salvaguardia dei beni vita e integrità fisica: perché tutte le principali regole (50) La premessa per cui ‘‘quando è in gioco la vita umana’’ si impone un accertamento causale meno sicuro, peraltro già condizionato in senso probabilistico dal riferimento a decorsi ipotetici, si trova ad es. in alcune note sentenze sulla responsabilità medica: Cass., Sez. IV, 12 maggio 1983, Melis, cit.; Cass., Sez. IV, 7 marzo 1989, Prinzivalli, cit. (51) Per tutti F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., cap. II.
— 63 — cautelari riguardanti la prevenzione di eventi lesivi e la cui violazione sia sanzionata penalmente a livello di reato di evento, sono geneticamente programmate a neutralizzare rischi per l’integrità fisica e la vita: dalle regole del codice della strada a quelle in materia antinfortunistica, ai precetti penali e cautelari insieme contenuti in moltissimi delitti aggravati dall’evento o con eventi circostanziali aggravanti (in tema di reati contro l’incolumità pubblica, maltrattamenti, lesioni personali, ecc.). Anche in questo caso, delle due l’una: o si richiede in tutte queste ipotesi l’accertamento sicuro, o altamente probabilistico (processualmente certo) dell’evitabilità dell’evento da parte della c.d. condotta alternativa lecita, cioè sul presupposto di (ipotetica) osservanza della regola di cautela ‘‘doverosa’’ ed esigibile; oppure ci si accontenta di un nesso probabilistico attenuato, dell’aumento del rischio o della mancata diminuzione di chances di salvezza: ma anche in tal caso ciò non potrà che valere per tutte le cennate ipotesi. E in effetti, sia pur con percorsi argomentativi ambigui, di cui subito si dirà (per ss.), la giurisprudenza mostra di cogliere bene che lo schema dell’aumento del rischio — sia esso valutato ex ante oppure ex post — non può ‘‘reggere’’ solo in alcuni ambiti settoriali dove sia in gioco la garanzia per il bene-vita: perché le ragioni che sostengono quelle teorie, buone o cattive che siano, riguardano egualmente altre e altrettanto importanti situazioni pericolose parimenti nevralgiche per la tutela dell’integrità fisica e per la vita stessa: a cominciare dalla responsabilità dell’imprenditore per la violazione dell’obbligo di sicurezza nella prevenzione antinfortunistica o per i danni da prodotti, per finire alla responsabilità in materia di circolazione stradale. Circoscrivere un criterio di imputazione a un settore professionale soltanto significa operare, in realtà, una scelta di politica criminale arbitraria che la divisione dei poteri preclude al giudice, tenuto ad applicare la legge secondo i parametri unitari che questa gli ha prefissato in materia di causalità. È sì vero che il medico, se non viene chiamato a rispondere dell’evento, non sarà soggetto a nessuna responsabilità per la sua condotta sicuramente colposa (disvalore d’azione, incompetenza professionale, incapacità soggettiva, ecc.): a differenza, ad es., dell’imprenditore che è soggetto a numerose sanzioni penali per contravvenzioni (ad es. antinfortunistiche) o delitti (es. art. 437 c.p.) che sanzionano illeciti di mera condotta, soltanto ‘‘aggravati’’ in caso di evento conseguente (es. art. 589 cpv., 590 cpv. e 437 cpv. c.p.). Ma ciò ‘‘spiega’’, e non ‘‘giustifica’’, gli indirizzi che si commentano. 6.
OLTRE L’OMESSO IMPEDIMENTO: LA ‘‘MINIMIZZAZIONE DEL RISCHIO’’ E L’ESTENDERSI DELL’ORIZZONTE PROBLEMATICO ALLA RESPONSABILITÀ NELL’IMPRESA E IN SISTEMI SOCIALI COMPLESSI. 6.1.
L’estensione del paradigma probabilistico alla responsabilità
— 64 — dell’imprenditore e del produttore. L’incidenza di obblighi generalizzati di ‘‘minimizzazione dei rischi’’ e gli accertamenti eziologici giurisprudenziali ‘‘di avanguardia’’: dalla probabilità dei controfattuali all’uso di leggi di copertura improbabili. — L’evidenziata insostenibilità di soluzioni ‘‘per settore’’ trova riconoscimento in altri indirizzi della giurisprudenza pubblicata (e non), che ha mostrato di rendersi perfettamente conto che, da un lato, la causalità ‘‘ipotetica’’ (più che omissiva soltanto) presenta dovunque problemi analoghi, e che d’altro canto la tutela della vita è in gioco in diversissime attività pericolose consentite, non meno nevralgiche dell’attività medico-chirurgica. Si pensi alla responsabilità del datore di lavoro e dell’imprenditore (o di altri soggetti funzionalmente competenti) in ordine al mancato adempimento degli obblighi di sicurezza e prevenzione contro infortuni e malattie professionali. Si pensi ancora alla responsabilità per danno da prodotti. In questa sede, evidentemente, non interessa il rischio professionale a fini risarcitori e assicurativi, né la responsabilità civile non colpevole, ma ‘‘per rischio’’ ecc. Senza poter pensare all’importazione diretta di categorie civilistiche inconciliabili con il principio di responsabilità penale personale, interessa tuttavia la competenza per rischi inerenti all’impresa a fini di imputazione di un evento come ‘‘conseguenza’’, in primo luogo, della condotta di un determinato soggetto, e di una condotta individuale almeno colposa, in seconda battuta. Interessano, ancor più, i limiti estremi sino ai quali si può spingere l’imputazione penale di un evento a una persona fisica, senza che ciò realizzi una violazione dell’art. 27, comma 1, Cost. Il diritto penale dell’impresa pare in effetti un ‘‘terreno di coltura’’ privilegiato per le moderne teorie dell’aumento del rischio. L’imprenditore, infatti, è naturale destinatario di un obbligo di minimizzazione dei rischi per la salute e l’integrità fisica dei lavoratori (art. 2087 c.c. e art. 3, comma 1, lett. b), 35, comma 2, d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 e succ. mod.) (52). La violazione di tale obbligo preventivo a contenuto cautelare può integrare la ‘‘colpa specifica’’ in caso di concausalità ‘‘omissiva’’ rispetto al verificarsi di un evento lesivo. Che si tratti di vera omissione o di negligenza e imperizia con contenuti omissivi, poco importa, come si è visto. La ripartizione degli obblighi, sia pur in quote differenti, tra più ‘‘garanti’’ (dirigenti, preposti, rappresentanti per la sicurezza, medici compe(52) Cfr. da ultimo al riguardo L. GALANTINO, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza, in ID., a cura di, La sicurezza del lavoro, 2a ed., Milano, 1996, 22 ss.; e con particolare riferimento alla responsabilità del produttore, C. PIERGALLINI, La responsabilità del produttore: avamposto o Sackgasse del diritto penale?, in questa Rivista, 1996, 361 ss. Sui profili di possibile illegittimità costituzionale per violazione della tassatività, della normativa che imponga generici obblighi di riduzione al minimo dei rischi, per un caso particolare in materia di tutela contro il rumore (art. 41, comma 1, d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277), cfr. C. cost., 18 luglio-25 luglio 1996, n. 312, in Giur. cost., 1996, 2575 ss.
— 65 — tenti, progettisti, fabbricanti, installatori, fornitori, ecc.) moltiplica le potenzialità repressive di un criterio come quello che sia fondato solo sull’aumento del rischio. Un’indagine ‘‘mirata’’ del pubblico ministero, che argomenti su basi giuridiche come l’aumento del rischio o la sua omessa diminuzione (‘‘minimizzazione’’), schiude la strada a possibilità enormi di responsabilizzazione per l’evento, pur in assenza della prova della sua causazione nel significato tradizionale della c.s.q.n. Oltre a ciò, non è davvero un caso che, a livello internazionale, sia questo un settore privilegiato per accertamenti causali ‘‘di avanguardia’’: dai vecchi processi del Vajont, del talidomide e delle macchie blu (53), ai loro gemelli contemporanei della giurisprudenza tedesca e spagnola, riguardanti i casi dello spray per pelli, del « prodotto per la protezione del legno » e dell’« olio di colza » (54). La magistratura, in queste e analoghe ipotesi, a livello nazionale e internazionale, conosce un ruolo primario, perché alcuni episodi di vittimizzazione di massa sollecitano richieste di risarcimento e di responsabilizza(53) Su tali processi, diffusamente, F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., 33 ss., 39 ss., 47 ss., 75 ss., 82 ss. (54) Si tratta delle seguenti decisioni: la prima, sul caso c.d. ‘‘Lederspray’’ (spray per pelli) della Cassazione tedesca, BGH 6 luglio 1990, in BGH Strafsachen 37, 106 (anche in Juristenzeitung, 1992, 253); la seconda sul caso dell’olio di colza, pronunciata dal Tribunal Supremo spagnolo il 23 aprile 1992, su cui v. ampiamente J.M. PAREDES CASTAÑON-T. RODRIGUEZ MONTAÑES, El caso de la colza: responsabilidad penal por productos adulterados o defetuosos, Valencia, 1995; e la terza, sul lucido per legno (c.d. ‘‘Holzschutzmittel’’), decisa dalla Cassazione tedesca il 2 agosto 1995 (in NStZ, 1995, 590). V. (fra i numerosi commenti) rispettivamente a favore L. KUHLEN, Grundfragen der strafrechtlichen Produkthaftung, in Juristenzeitung, 1994, 1142 ss.; e già ID., Fragen einer strafrechtlichen Produkthaftung, Heidelberg, 1989, passim; e in senso critico, W. HASSEMER, Produktverantwortung im modernen Strafrecht, Heidelberg, 1994, 31 ss. e passim; I. PUPPE, ‘‘Naturgesetze’’ vor Gericht, in Juristenzeitung, 1994, 1147 ss.; K. VOLK, Kausalität im Strafrecht, cit., 105 ss. Nella letteratura italiana richiama criticamente queste decisioni C. PIERGALLINI, La responsabilità del produttore, cit., 358 ss.; in quella spagnola e in quella tedesca più recente, oltre ai lavori sopra citati, S. MIR PUIG-D.M. LUZON PEÑA, Responsabilidad penal de las empresas y sus organos y responsabilidad por el producto, Barcelona, 1996; B. BOCK, Produktkriminalität und Unterlassen, Aachen, 1997, 59 ss. e passim. Sull’olio di colza, è interessante segnalare, nella giurisprudenza italiana, Pret. Treviso, 2 aprile 1974, in Giust. pen., I, 443 e II, 649, poi riformata da Trib. Treviso, 14 aprile 1975, ivi, 1976, III, 516, con nota di DEVOTO, con riconoscimento di responsabilità, in primo grado, per una contestata fattispecie di mero pericolo (art. 444 c.p.), sul presupposto delle capacità lesive dei componenti dell’olio di colza (v. anche in merito A. NAPPI, I delitti contro l’incolumità pubblica, in F. BRICOLA-V. ZAGREBELSKY, Codice penale, vol. IV, 2a ed., Torino, 1996, 666): presupposto che, anziché fondare una responsabilità a livello di mero pericolo, ha viceversa sorretto ‘‘probabilisticamente’’ la decisione del Tribunale Supremo spagnolo sull’olio di colza (e la Cassazione tedesca nei casi analoghi dello spray per pelli e del prodotto per il legno) nel ritenere affermata la stessa causalità rispetto alle lesioni verificatesi, pur in assenza dell’identificazione delle sostanze ‘‘produttrici’’ delle lesioni.
— 66 — zione penale anticipate rispetto ai collaudi scientifici consolidati relativi all’efficacia teratogenetica, lesiva, cancerogena, epidemiologica delle sostanze via via impiegate in un ciclo produttivo o contenute in prodotti alimentari apparentemente genuini. Gli eventi sono spesso caratterizzati, in tali materie, da concentrazioni massicce di episodi lesivi simili o identici in una determinata azienda e/o località geografica dove ha sede l’impresa o il contatto con la sostanza (o con un gruppo di sostanze), con picchi statistici enormemente superiori rispetto ai coefficienti di incidenza delle stesse malattie in quei luoghi o in altre situazioni altrimenti analoghe, prima e a prescindere dall’uso delle sostanze sospette. E le risposte delle magistrature giudicanti, talvolta convalidate dalla ricerca scientifica solo a posteriori, a distanza di anni, talvolta mai, sono state positive nell’escludere l’esistenza di altri fattori eziologici concorrenti o sostitutivi, e parimenti positive nell’individuare nelle sostanze sospette un’efficienza causale di tipo ‘‘individualizzante’’ (55), cioè non basata sull’impiego di leggi di copertura, ma sull’osservazione empirica del singolo caso, che è stato ritenuto impossibile a spiegarsi se non — escluse altre condizioni positive — individuando come ‘‘causa’’ un fattore rispetto al quale si possedevano solo sperimentazioni provvisorie e non univoche in campo scientifico. In taluni processi, peraltro, si è accertato il nesso di condizionamento senza neppure individuare la sostanza causalmente lesiva all’interno di un novero di elementi chimici o naturali ‘‘sospetti’’ (56). La dottrina, al riguardo, ha parlato di una sorta di ‘‘scatola nera’’ con riferimento a un complesso di fattori (es. i componenti dello spray per pelli o dell’olio di colza) all’interno dei quali, per le sentenze di merito, ‘‘deve’’ trovarsi il fattore causale: induttivamente accertabile anche mediante l’esclusione di altre possibili concause (57). Il giudice, in questi casi, anziché ‘‘consumatore’’ del patrimonio scientifico del suo tempo, rischia di non assurgere più neppure a un ‘‘produttore’’ di leggi causali, giacché prescinde dalla stessa possibilità di conoscere una ‘‘legge’’ di copertura — un criterio generalizzante impiegabile in un numero indefinito di ipotesi ripetibili, di cui offre una spiegazione sufficiente —, la quale presupporrebbe quanto meno l’individuazione del fattore eziologico ‘‘determinante’’ (per gli scopi della spiegazione), anche (55) Sulle spiegazioni causali di tipo individualizzante (peraltro in parte ineludibili nella ricostruzione del comportamento umano, anche se questa spiegazione avviene pure tramite ‘‘generalizzazioni’’ di valenza causale) F. STELLA, Leggi scientifiche, 231 ss.; G. FIANa DACA-E. MUSCO, Diritto penale, P. gen., 3 ed., cit., 201 s. (56) Era questa la situazione delle citate sentenze tedesche e spagnole, rispettivamente relative allo spray per pelli e all’olio di colza. (57) Su questo meccanismo di spiegazione causale c.d. della ‘‘black box’’, cfr. W. HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 33 ss., 38 ss., 41 ss.; C. PIERGALLINI, La responsabilità del produttore, cit., 539 s.
— 67 — se non implica la verifica concreta di tutti i fattori antecedenti e concomitanti che vengono ‘‘tacitamente assunti’’ nella spiegazione stessa (58). A queste spinte forti verso un ‘‘affievolimento’’ dei parametri causali nel diritto penale dell’impresa, si aggiungono argomentazioni peculiari che discendono dai canoni già conosciuti della giurisprudenza in tema di causalità omissiva in genere, i quali vengono talvolta singolarmente estesi a situazioni dove è certo che non ricorre nessuna omissione in senso penale, anche se il valore probabilistico della spiegazione è determinato dall’impiego di leggi statistiche e di condizionali controfattuali propri dell’accertamento della c.d. causalità, nella colpa, del comportamento alternativo lecito. Esemplare una interessante sentenza della Pretura di Torino in tema di responsabilità del datore di lavoro per l’uso di amianto senza protezioni, con conseguente produzione di mesotelioma pleurico nel dipendente e morte avvenuta oltre un ventennio dall’assunzione di polveri di amianto nelle vie respiratorie, peraltro protrattasi per quasi un decennio (59). L’argomentazione del Pretore è molto interessante — oltre che estremamente informata sullo stato della letteratura scientifica e penalistica in tema di causalità — perché mira a costruire in termini omissivi una causalità sicuramente commissiva. E la ragione di questa costruzione ‘‘rovesciata’’, par di comprendere, deriva dalla tendenza della giurisprudenza a spiegare la colpa in termini omissivi (= ‘‘omessa diligenza’’, ‘‘omessa osservanza di cautele’’, ecc.), e dal fatto che la ‘‘causalità omissiva’’ sarebbe legittimamente ‘‘meno certa’’ e ‘‘più probabilistica’’. Di qui l’esigenza di accentuare il momento omissivo della violazione dell’imprenditore, onde assicurare al giudizio di condanna anche una più forte ‘tenuta’ in materia causale, atteso che la spiegazione, nel caso di specie (mesotelioma pleurico derivante da inalazioni di fibre di amianto), era chiaramente di tipo statistico e probabilistico. Il fatto ritenuto ‘‘omissivo’’ è il seguente: il datore di lavoro aveva consegnato e fatto usare ‘‘Asbestospray’’ per un decennio. Il dipendente, a seguito di ciò, aveva impiegato in lavori di coibentazione di edifici il prodotto ‘‘Asbestospray’’ contenente polveri di amianto (amosite), respirandole sicuramente in modo continuativo e massiccio, in quanto erano state ‘‘omesse’’ le misure preventive (impianti di aspirazione, maschere idonee (58) V. infatti le critiche di HASSEMER, Produktverantwortung, cit., spec. 41 ss.; I. PUPPE, ‘‘Naturgesetze’’ vor Gericht, cit.; VOLK, Kausalität im Strafrecht, cit.; sulle c.d. assunzioni tacite, STELLA, Leggi scientifiche, cit., 280 ss. (59) Pret. Torino, 9 febbraio 1995, in Foro it., 1996, II, c. 107 ss., con nota di TERMINI. La sentenza, fra gli altri, è stata commentata anche da D. MICHELETTI, Tumori da amianto e responsabilità penale, in RTDPE, 1997, 218 ss.; B. DEIDDA, Un po’ di chiarezza sull’uso indiscriminato dell’amianto in Italia negli anni ’70, in Dir. pen. e proc., 1996, 751 ss.
— 68 — e realmente impiegate, caschi ventilati, riduzione o controllo dei tempi di esposizione, ecc.) ritenute necessarie per consentire (all’epoca: 19611970, mentre oggi l’impiego di tali sostanze è del tutto precluso) l’utilizzo di materiali contenenti amianto, amosite e fibre analoghe. Ora, a tutti deve apparire chiaro che se Tizio somministra veleno per anni a Caio, Tizio ne cagiona l’avvelenamento ai sensi dell’art. 40, comma 1, c.p. Poiché era tenuto ad avvertire l’avvelenato dell’opportunità che questi adottasse misure protettive, egli avrà cagionato l’avvelenamento mediante l’inosservanza di cautele. Le cautele, evidentemente, sono state ‘‘omesse’’: ma la condotta causale è stata sicuramente attiva, ed è stata ‘‘causale’’ non già perché vi fu imprudenza o imperizia nell’uso dell’amianto, ma prima ancora perché sappiamo (se davvero lo sappiamo) che il mesotelioma pleurico verificatosi a distanza di vent’anni deriva appunto dall’aver respirato l’amianto quale causa primaria, e solo come condizione negativa secondaria e ipotetica dal fatto che la somministrazione dell’amianto mediante le cautele aggiuntive ritenute doverose avrebbe sicuramente o verosimilmente evitato il verificarsi dell’evento. Questa osservazione elementare spiega senza ombra di dubbio che la qualificazione del reato ascritto all’imprenditore come reato ‘‘omissivo’’, cioè commissivo mediante omissione (art. 40 cpv. c.p.) è errata, così come sarebbe errato affermare che Tizio, avendo ‘‘omesso’’ di rispettare il limite di velocità e di dare la precedenza, ha ucciso Caio ‘‘per omissione’’ (omesso impedimento dell’evento) a seguito dell’incidente stradale generato anche (condizione negativa) dal mancato rispetto della precedenza e dalla velocità eccessiva. L’omissione di cui all’art. 40 cpv. c.p., infatti, non è un’omissione di cautele, ma — più radicalmente e specificamente — un omesso impedimento (se sia esso colposo o doloso, è altra e ‘successiva’ questione di imputazione soggettiva). Se è vero ciò, dobbiamo allora svelare sino in fondo le ‘‘tentazioni’’ che la giurisprudenza sull’omissione dei sanitari ormai genera in altri settori: da un lato ci si accorge che non ha nessun senso limitare quei principi probabilistici alla sola classe medica, dovendo essi valere per tutti o per nessuno — e in questo è del tutto ‘‘conseguente’’ il ragionamento del Pretore di Torino —; dall’altro, tuttavia, si è portati ad ‘‘accentuare’’ il momento omissivo della colpa e a trasformare in omissivi reati commissivi ogni qual volta l’accertamento eziologico appaia ‘‘meno sicuro’’ perché molto probabilistico alla luce delle leggi di copertura: nel caso di specie, infatti, emergeva in atti una valutazione statistica oscillante fra il 59,1% e il 90% di ricorrenza di esposizione ad amianto da parte di persone affette da mesotelioma pleurico, che è comunque una forma rara di tumore polmonare, e ancor più raro è che (come nel caso di specie) il mesotelioma non sia preceduto dall’asbestosi (60). (60)
Su tale peculiarità v. ancora Pret. Torino, cit., loc. cit., c. 132.
— 69 — L’impressione che se ne ricava, in effetti, è che — a prescindere dal problema della colpa dell’imprenditore circa l’inosservanza, negli anni Sessanta, di misure cautelari specifiche (61) — una seria indagine probabilistica come quella della sentenza in oggetto, escludente in linea di fatto anche la sussistenza o la probabilità di altre cause esclusive (ma ipotizzabili al limite solo come ‘‘concause’’ esse stesse, in aggiunta alla condotta dell’imputato), potesse ragionevolmente sorreggere l’accertamento eziologico ai sensi dell’art. 40, comma 1, c.p. anche senza il ricorso alla giurisprudenza in tema di omissione e senza l’erronea qualificazione del fatto come omissivo (62). La ragione per la quale non è stato fatto ciò, appare di mero significato ‘‘argomentativo’’: per rafforzare l’argomentazione sulla causalità probabilistica. D’altro canto, era pur sempre necessario motivare, altresì, sull’evitabilità dell’evento in caso di condotta alternativa lecita: e chiedersi quindi che cosa sarebbe successo se l’imprenditore avesse depurato l’aria, ecc. Questa spiegazione, in effetti, una volta assodata la causazione del tumore da parte dell’amianto fornito dall’impresa, riguarda la sola colpa, la ‘‘causalità della colpa’’, e non quella della condotta materiale. È quindi un problema che postula assodata, a monte, l’attribuzione dell’evento-morte come ‘‘fatto proprio’’ dell’imprenditore, e concerne l’evitabilità da parte del comportamento alternativo lecito: che è un secondo momento, o livello, di valutazione, nel quale entrano in gioco decorsi causali ipotetici in senso stretto. Ma una valutazione probabilistica più accentuata, rispetto a tale secondo profilo, appare — come già detto — meno problematica, perché non si tratta di mettere in dubbio la causalità, ma solo di dimostrare che la diligenza, segnatamente ricostruita secondo lo scopo di tutela della regola preventiva per la valutazione del ‘‘rapporto di rischio’’ fra inosservanza e lesione, aveva chances significative e realistiche di evitare l’evento lesivo. (61) V. la riforma della sentenza, sotto il profilo dell’assenza della colpa nell’imprenditore, non della carente causalità, da parte della C. App. Torino, 15 ottobre 1996, inedita, a sua volta annullata con rinvio dalla Cass., Sez. IV, 19 settembre 1997, n. 9526, inedita, per vizio di motivazione sull’assenza di colpa. (62) Per una attenta applicazione dei parametri di ‘‘ragionevole certezza’’ nell’escludere in concreto la sussistenza di altri fattori cancerogeni, in riforma della decisione della Corte d’appello di Firenze, che aveva affermato il nesso causale tra ambiente di lavoro e tumore laringo-faringeo del dipendente, Cass., 2 marzo 1990, Papini, in Cass. pen., 1991, m. 1384 (C.E.D. n. 184289), p. 1826 ss., con chiara distinzione tra una valutazione probabilistica sufficiente ‘‘in campo previdenziale e pensionistico’’ (malattie professionali tabellate) e ‘‘in campo penale’’, ‘‘dove l’affermazione di responsabilità postula certezze’’ (ivi, p. 1827). Più largamente, esigendo un « alto grado di probabilità » (senza che sia chiaro se si tratti di probabilità logica, ovvero anche statistica), in tema di tumori da amianto, Cass., Sez. IV, 28 gennaio 1997, P.C. in Cass. Giannitrapani e altri, in Dir. & prat. lav., 1997, 555 (solo massima, con nota redazionale).
— 70 — 6.2. Lo scenario della responsabilità per la perdita di una chance. — Nella responsabilità civile si ammette da tempo il risarcimento dei danni derivanti da perdita di chances (63). L’esclusione indebita da un concorso che il soggetto avrebbe avuto più del 50% di probabilità di vincere, ad es., è fonte di una responsabilità quantificabile economicamente; e così le occasioni perdute per l’indebita esclusione da una gara, per l’elevazione ingiusta di un protesto, ecc. Ma qui si tratta di valutazione delle conseguenze economiche (probabili, quantificabili ‘‘per difetto’’ con prudente apprezzamento) a fronte, almeno, della sicura (e non probabile) causazione colposa o dolosa dell’esclusione dalla vittoria o dalla gara, oppure dell’elevazione del protesto. Nei casi in oggetto, invece, dobbiamo previamente accertare l’appartenenza al soggetto dell’evento quale elemento essenziale primario dell’illecito penale (e anche civile), al di là delle conseguenze patrimoniali (evento secondario) che tale risultato abbia avuto. Una mera responsabilità per il rischio — e quindi a prescindere dall’accertamento di un nesso eziologico verificabile — è naturalmente insita nel meccanismo previdenziale riguardante malattie tabellate. Esistono tuttavia tendenze internazionali ad accollare sul piano civile la responsabiltà per un risultato (danno o illecito primario) rispetto al quale il soggetto agente (od omittente) ha solo innalzato le possibilità del verificarsi dell’evento: negando una chance al danneggiato (64). Orbene, è chiaro che quella che è stata definita la scarsa ‘‘flessibilità’’ del diritto penale (65), almeno di quello ‘‘classico’’ che ancora domina nel codice (non nella legislazione speciale), con il suo statuto di garanzie tradizionalmente fondate sulla responsabilità individuale e per fatto proprio, sull’evento, sulla causalità ecc., può subire modifiche ‘‘comprensibili’’ in forme di attribuzione di una responsabilità per rischio connesse a strategie di intervento incentrate su fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto o concreto (siano esse contravvenzionali, o delittuose), e altresì con la previsione di eventi costruiti come condizioni obiettive di punibilità; sono parimenti ipotizzabili strategie di responsabilità penale degli enti, si tratti dell’introduzione di pene ‘‘criminali’’ oppure amministrative, dove la mancata minimizzazione del rischio che si riveli essere una scelta d’impresa potrebbe sorreggere anche l’imputazione dell’evento alla per(63) Cfr. ad es. la letteratura riportata in L. GAUDINO, Gli interessi protetti nell’art. 2043, cit., 291. (64) Un significativo ‘‘spaccato’’ delle giurisprudenze inglesi, canadesi e australiane, in M. LUNNEY, What Price a Chance?, in Legal Studies, 1995, 1 ss. (65) W. HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 70 ss., 75 ss. in relaz. a 3 ss.; e sul punto, problematicamente, C.E. PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1240 s.; C. PIERGALLINI, La responsabiltà del produttore, cit., 361 s.
— 71 — sona giuridica. Ma in ogni caso si tratta di scenari che richiedono il necessario ed equilibrato intervento del legislatore. La responsabilità penale di evento per la mera perdita di una chance è oggi ancora al di fuori del diritto vigente. 7.
VALUTAZIONE
COMPLESSIVA
DELLA
(APPARENTE)
TRASFORMAZIONE
DELLA CAUSALITÀ IN AUMENTO DEL RISCHIO.
7.1. Premessa. Discrasie tra ‘‘principi di diritto’’ enunciati in sentenza e ‘‘realtà processuali accertate’’. — Come già evidenziato (ante, par. 4.2.1), non è allo stato possibile verificare con esattezza quanto all’enunciazione di principi di diritto ‘‘preoccupanti’’ corrisponda un accertamento della causalità davvero deficitario in rapporto all’hic et nunc dell’evento e al peggioramento della situazione giuridica del bene tutelato. Abbiamo cioè il sospetto che molte decisioni siano del tutto corrette sul piano sostanziale, che accertino davvero una causalità rassicurante (l’evento non era sicuramente evitabile, ma comunque la colpa accertata ne ha concretamente condizionato tempi e modi di realizzazione: senza la colpa, l’evento si sarebbe verificato più tardi, con tempi diversi, con intensità lesiva più diluita e controllabile, e forse non si sarebbe verificato neppure) e solo mal motivate in linea di principio. Ma naturalmente non ci interessa discutere solo in fatto, rispetto alle decisioni concrete, perché ci interessa l’uso reale e altresì l’uso potenziale che viene, o può essere, compiuto di principi di diritto problematici. 7.2. L’implementazione del precetto quale obiettivo delle ‘‘vere’’ imputazioni per l’aumento del rischio. La sicura violazione, in questi casi, dei principi di legalità (trasformazione dell’evento in condizione obiettiva di punibilità) e di responsabilità penale per fatto proprio (attribuzione come ‘‘fatto proprio’’ di un evento forse cagionato). — Se si ‘‘prendono sul serio’’ alcune massime correnti, in effetti, l’affievolimento delle categorie causali verso parametri di mero rischio per l’imputazione di un evento verificatosi pare mirato a ‘‘rafforzare’’ politicamente, sul piano della mera prevenzione generale, l’osservanza di precetti finalizzati anche soltanto alla diminuzione del rischio illecito (come avviene in molte regole cautelari): affinché il destinatario dei precetti cautelari (che tendono a funzionare come veri e propri ‘‘obblighi’’, soprattutto di sicurezza, di salvataggio, ecc.) non pensi di poter ‘‘omettere’’ le cautele in presenza di rischi statisticamente bassi del verificarsi della lesione, e non pensi di poter accampare a suo vantaggio, a posteriori, esenzioni da responsabilità fondate su incerte valutazioni probabilistiche relative a ipotesi ricostruttive ipotetiche. Una finalità di questo tipo intensifica la domanda di pena, o comunque di controllo giudiziario, rispetto a settori — come quello medico — dove
— 72 — solo la responsabilità per l’evento consente di stigmatizzare una violazione certa; mentre altri ambiti ricchi di illeciti contravvenzionali o amministrativi per la sola condotta — come il diritto penale dell’impresa — offrono già un ventaglio di risposte più ricco e calibrato fra disvalore di azione e disvalore di evento. Il risultato pratico di un’azione giudiziaria fondata sulla responsabilità per il risultato, tuttavia, non è affatto sicuro che si traduca in un vero rafforzamento della c.d. implementazione del precetto — maggiore responsabilità penale non è equivalente a maggiore osservanza degli obblighi di legge, tanto più quando l’omittente può valutare solo ex ante i rischi del proprio comportamento: e se i rischi, a priori, appaiono modesti, il soggetto metterà ‘‘in conto’’ più la possibilità di una sanzione per la condotta inosservante (questo tipo di tutela, in effetti, dovrebbe essere rafforzato) che non l’incombere di un evento improbabile e ‘‘fortuito’’ — mentre è certo il risultato di ridurre l’evento di reati colposi (commissivi od omissivi, non importa) a una condizione obiettiva di punibilità, per il peso sempre maggiore che si attribuisce a componenti ‘‘fortuite’’ nel verificarsi dell’evento, rispetto alla verifica che il risultato lesivo, anziché ‘‘seguire’’ l’inosservanza, sia realmente la ‘‘conseguenza’’ della violazione, della omissione o della colpa (66). La valutazione giuridica di tutto l’indirizzo può sembrare prematura, perché si tratta di tendenze ancora equivoche, per nulla consolidate in principi unitari: brecce aperte nei principi tradizionali di responsabilità penale personale. Ma sin da ora si intravedono chiari segnali di preoccupante trasformazione degli stessi fatti di reato (della loro tipicità) in fatti diversi da quelli tipici: non c’è solo il rischio della violazione del principio di legalità (art. 25 cpv. Cost. e 1 c.p.), ma anche — come vedremo — della violazione del principio di responsabilità penale per fatto proprio (art. 27, comma 1, Cost. e 40 c.p.). Ciò, si intende, nelle ipotesi in cui veramente non sussiste una causalità attiva e in cui l’omissione o la colpa non abbiano condizionato almeno l’hic et nunc dell’evento o un peggioramento della lesione del bene concretamente verificatasi: sono infatti questi i casi, così rigorosamente delimitati, in cui appagarsi dell’aumento del rischio trasforma l’evento in condizione obiettiva di punibilità. 7.3. Il vero ‘‘oggetto’’ del dubbio. — Per rendere comprensibili le gravi riserve critiche espresse, occorre chiarire quale sia il vero ‘‘oggetto’’ del dubbio processuale negli accertamenti più problematici. Non si tratta, invero — ed è un punto decisivo — di negare la causa(66) Sulla trasformazione in via ermeneutica, con specifico riferimento anche ai reati colposi, dell’evento ‘‘da cui dipende l’esistenza del reato’’ (art. 40, 43 c.p.) in evento condizionale (art. 44 c.p.), v. quanto osservato in M. DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., 447, nota 196, e più ampiamente in ID., Teoria del reato, cit., 410-418.
— 73 — lità perché le leggi scientifiche di copertura sono solo di tipo statistico, perché ciò sarebbe sicuramente sbagliato (67). Se la legge di copertura, per quanto statisticamente valida in un 30-40% dei casi, si potesse accompagnare alla esclusione sicura o altamente probabile di altri fattori che avrebbero potuto neutralizzare l’intervento salvifico doveroso, il suo impiego condurrebbe a un accertamento in concreto per nulla aleatorio, ma confinante con la certezza (processuale): ad es. è di quotidiana esperienza l’accertamento di un nesso di condizionamento psichico fra comportamenti umani, in assenza di leggi statistiche rigorosamente esprimibili in ‘‘leggi’’. Nelle ipotesi critiche, invece, si tratta piuttosto di riconoscere che la risposta alla ‘‘causalità dell’omissione’’ (o alla causalità della colpa, di chi ha annientato condizioni negative o non le ha attivate) è storicamente incerta perché il valore statistico della legge di copertura — ad es. la capacità del siero antitetanico di salvare l’infetto o la capacità della chemioterapia di salvare l’ammalato di tumore (imperitamente non diagnosticato) in presenza di certe condizioni, ovvero la capacità salvifica dell’emotrasfusione il consenso alla quale era stato negato, o dell’intervento tempestivo dell’anestesista che abbia rifiutato di accompagnare il paziente durante il trasporto in ambulanza in altro presidio ospedaliero — è comunque ‘‘condizionato’’ da tanti fattori operanti in concreto da rendere impossibile la verifica positiva della causalità, se non come valutazione approssimativa di un rischio e di una quota di chances. Qui, secondo le teorie del puro aumento del rischio, l’omissione — in caso di ‘‘vera’’ omissione e salvo che (si sottolinea ancora una volta) essa non abbia almeno condizionato un peggioramento dell’offesa — non è stata affatto sicuramente causale, ma solo probabilmente causale, per la semplice ragione che qualunque sia la legge di copertura impiegata (dal valore statistico alto, medio, basso, altissimo, ecc.), comunque la giurisprudenza esprime una valutazione che non riguarda la ‘‘probabilità’’ come valore della legge di copertura, ma come valore dell’accertamento storico sulla causalità di una ricostruzione ipotetica: non si sa esattamente che cosa sarebbe successo, sia che si utilizzi una legge di copertura dai coefficienti statistici vicini o superiori al 90% che vicini al 20-40%, perché nel caso concreto, vuoi per la presenza di altre concause difficilmente valutabili, vuoi per l’impossibilità che ricorrano varie ‘‘assunzioni tacite’’ che dovrebbero essere presupposte affinché la legge di copertura conservi il suo valore statistico standard, la credibilità razionale (la ‘‘probabilità logica’’) della spiegazione si attenua. La soluzione corretta, in tutti questi casi, può essere adottata soltanto (67) Critica giustamente approcci di questo tipo C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione, cit.
— 74 — restando fedeli e ‘‘aderenti’’ al significato causale dell’equiparazione tra fare e omettere, tra le varie condizioni ‘‘equivalenti’’, e quindi più in generale tra ‘‘condizioni positive’’ (che non implicano necessariamente controfattuali) e ‘‘condizioni negative’’ (che implicano necessariamente controfattuali). 7.4. Il ‘‘senso’’ dell’equivalenza tra cagionare e omettere e tra le ‘‘condizioni’’ in genere. — Un ricevuto insegnamento dell’epistemologia scientifica costruita sul modello hempeliano-carnapiano nella determinazione del nesso di condizionamento, rendendo evidente la necessità dell’impiego di leggi causali anche solo ‘‘statistiche’’ (esistendo, come si è visto, anche leggi scientifiche statistiche di tipo non causale, oltre a leggi di tipo ‘‘universale’’), affida la scientificità dell’accertamento — e quindi la plausibilità del riconoscimento di un rapporto di ‘‘causa ed effetto’’ — all’alta credibilità razionale dell’accertamento stesso. Ora, sappiamo che l’accertamento non è razionalmente credibile solo perché il coefficiente statistico è più o meno elevato. L’accertamento è credibile perché alla resa dei conti possiamo affermare con tranquillizzante sicurezza che senza la condizione l’evento non si sarebbe verificato nelle contingenze date (o si sarebbe verificato in altri tempi e modi, o per effetto di altri fattori del tutto ipotetici, di condotte illecite di terzi, ecc.): e ciò è compatibile sia con l’impiego di una legge statistica dal valore altissimo, e sia anche con una dal valore medio, purché in concreto si possano escludere altri fattori di condizionamento esclusivi. Ciò significa che l’impostazione epistemologica in uso resta inadempiente rispetto alla definizione della causalità: il modello di sussunzione sotto leggi scientifiche ci dice quando una legge di successione spaziotemporale fra eventi ha valore scientifico, ma allorché deve addentrarsi in una definizione ‘‘sostanzialistica’’ della causalità, mostra gravi incertezze: perché ‘‘l’alta credibilità razionale’’ del condizionamento, postulata da quel modello di spiegazione, non è definita dalla legge scientifica stessa, e tuttavia pare decisiva per l’identificazione della stessa causalità. Quindi: la spiegazione mediante leggi è scientifica quando la ricostruzione del nesso mediante una legge statistica, premesse certe assunzioni tacite, ha un alto valore di credibilità razionale. Ma la legge scientifica non chiarisce quando la spiegazione abbia un’alta credibilità razionale per l’accertamento di ciò che a noi interessa come ‘‘causa’’: non è capace di definire se stessa in termini di probabilità logica, perché ci dà solo una probabilità statistica, appunto. A questo punto è evidente che la soluzione al nostro problema, altrimenti ‘‘circolare’’, può rinvenirsi solo partendo dallo specifico punto di vista che interessa il diritto (68). (68)
Sui deficit di un subappalto del giurista all’epistemologia contemporanea nella
— 75 — Per il biologo o per il medico legale può essere ‘‘causa’’ anche un fattore di rischio, del tutto ‘‘equivalente’’ ad altre condizioni in una ‘‘lettura’’ preventiva costruita su frequenze: una spiegazione rigorosamente statistica come quella, ad es., riguardante le capacità cancerogene di certe sostanze o la frequenza salvifica di un determinato dosaggio chemioterapico in presenza di certi markers. Sono leggi causali statistiche, che però nulla dicono di rilevante rispetto all’imputazione giuridica concreta di un evento a un soggetto, sino a quando non sappiano chiarirci che, comunque, quell’evento quanto meno si sarebbe verificato pressoché certamente più tardi (se la regola violata mirava anche a scopi di questo tipo), salva anche la possibilità di condizioni sostanzialmente più favorevoli di quantità e qualità di vita. L’alta credibilità razionale rinvia quindi a ciò che è ‘‘causa’’ per il diritto. Se ‘‘causa’’ (condizione rilevante) è la c.s.q.n., allora l’alta credibilità razionale equivale a certezza processuale sulla sussistenza di una c.s.q.n. E il condizionamento dovrà collegarsi al tipo di offesa e di bene giuridico. Ogni volta che verifichiamo condizionamenti ‘‘probabilistici’’, non possiamo che ritornare al significato ultimo dell’equivalenza tra fare e omettere e tra condizioni positive e negative: si tratta di condotte ‘‘equivalenti’’ perché parimenti decisive (anche se alcune ‘‘più importanti’’ di altre) nella spiegazione di ciò che è contingentemente accaduto: e quando di una condizione non si sappia se la sua assenza (o presenza) avrebbe escluso certamente o con probabilità vicina alla certezza processuale il verificarsi dell’evento, allora questa condizione — per quanto colposa e colpevole — non equivale alle condotte rilevanti ai sensi dell’art. 40, comma 1, c.p.: la ‘‘colpa’’ soggettiva potrà essere ‘‘equivalente’’ (o anche molto grave), e perciò meritevole di una risposta giuridica confacente (reato di azione o di mera omissione), ma non sarà equivalente il significato eziologico della condotta colposa. Altrimenti la sovrapposizione tra causalità dell’azione e causalità della colpa si tradurrebbe in una sostituzione della responsabilità per l’evento ‘‘come fatto proprio’’ (art. 40 c.p.) con una responsabilità per la condotta ‘‘in caso del verificarsi dell’evento’’ (art. 44 c.p.). 7.5. La soluzione dei casi problematici. Il diverso valore della probabilità nella causalità della condotta materiale e nella c.d. causalità della colpa (l’evitabilità e il dubbio sul comportamento alternativo lecito). — È purtroppo di quotidiana esperienza che accertamenti di mero valore definizione della causalità, v. ora G. LICCI, Teorie causali, cit., 162 ss. (al di là del rifiuto delle moderne teorie dell’imputazione oggettiva dell’evento — ivi, 169 ss., 221 ss. —, e quindi anche del loro apporto a un’impostazione più moderna nel concretizzare il significato e la portata degli artt. 41 e 45 c.p.).
— 76 — statistico ‘‘generico’’ — dove il perito-settore assume una ‘‘causalità statistica’’ di valore medio: es. 40%, 60% — sono frequentissimi in ambito epidemiologico, biologico, sanitario in genere (69): le ‘‘ragioni’’ della giurisprudenza ‘‘settoriale’’ in subiecta materia trovano perciò una sicura spiegazione aggiuntiva, pratica, nelle peculiari difficoltà di accertamento, al cospetto delle quali un atteggiamento di rigore probatorio estremo condurrebbe a troppe assoluzioni avvertite come intollerabili a fronte della colpa sicuramente dimostrata e di un evento lesivo probabilmente ‘‘condizionato’’ dall’errore sanitario, quanto meno nel senso che tale errore ha oggettivamente diminuito le chances di salvezza della persona offesa. Ma poiché, come si è visto, in molti casi di controfattuali, di condizionali irreali, di decorsi causali ipotetici, la prova consente solo approssimazioni probabilistiche, resta incomprensibile e gravemente discriminatorio un atteggiamento più rigoroso (contra reum) in campo medico, al punto da apparire una ingiustificata disparità di trattamento che, in effetti, contiene in sé — salva la remota possibilità di un regresso dell’orientamento — il seme di una potenziale espansione a trecentosessanta gradi in tutto l’universo della causalità della colpa e delle omissioni colpose (o dolose). La soluzione teorica e pratica che, allo stato della legislazione vigente, consente di rendere accettabile l’attribuzione non solo di una colpa, ma di un evento come conseguenza ‘‘probabile’’ di una condotta, deve rigorosamente differenziare tra la causazione in senso stretto (art. 40 c.p.), e il problema del dubbio sull’evitabilità (e il rapporto di rischio) in caso di comportamento lecito, allorché già consti, tuttavia, la causazione effettiva dell’evento da parte della condotta illecita reale (art. 43 c.p.), a prescindere dal suo essere o meno colposa. In caso di accertamento della causazione ex art. 40 c.p., a mio avviso, si deve ribadire l’accoglimento delle formule (in realtà equipollenti) della ‘‘alta credibilità razionale’’ o ‘‘probabilità confinante con la certezza’’ processuale relativa non già alla salvezza del bene in senso assoluto, ma al verificarsi comunque della lesione in tempi e modi peggiorativi per effetto della condotta storica. Esempio commissivo colposo: verificata l’assunzione costante da parte del lavoratore per un decennio di fibre di amianto, si accerta, mediante l’utilizzo di una legge solo statistica di copertura (60-90% circa di probabilità), e con esclusione di plausibili fattori di incidenza alternativi ed esclusivi, che la condotta ha almeno sicuramente accelerato in modo decisivo i tempi di latenza della lesione (causalità della condotta nel caso dell’amianto), e quindi di manifestazione della malattia, anche se molto probabilmente ha cagionato anche la lesione in se stessa (mesotelioma pleurico). (69)
Lo ricorda opportunamente C.E. PALIERO, La causalità, cit., 846 s., citando VI-
NEIS, Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità, Torino, 1990.
— 77 — Esempio omissivo colposo o preterintenzionale: rifiuto di assistenza sull’ambulanza da parte dell’anestesista di turno; possibilità (accertata a posteriori) di un intervento che avrebbe pressoché certamente ritardato la morte e forse potuto salvare la vita (caso del rifiuto dell’anestesista). Oppure: i genitori, testimoni di Geova, hanno rifiutato l’emotrasfusione del figlio minorenne (in assenza di emoderivati disponibili), con conseguente morte del bambino: in caso di trasfusione con sangue umano (che era disponibile) la morte sarebbe stata certamente evitata, almeno in quelle circostanze, salva comunque una prognosi complessiva più incerta sul tempo di vita, a causa della grave forma di talassemia (caso dell’emotrasfusione negata). Esempio commissivo doloso (ante, par. 4.2.3): il killer ha staccato il respiratore automatico, interrompendo un decorso causale salvifico. A posteriori risulta che la vittima aveva poche probabilità di salvarsi comunque, ma in ogni caso non era clinicamente morta e la condotta intenzionale ha almeno accorciato la vita della vittima (caso del distacco del respiratore automatico). Viceversa, in caso di accertamento del comportamento alternativo lecito (l’evitabilità rilevante ai sensi dell’art. 43 c.p.), ma in presenza di sicura incidenza causale tra condotta inosservante — significativa almeno per l’intensificarsi dell’offesa, ed evento storico —, l’accertamento ‘‘controfattuale’’ ammette valutazioni molto più probabilistiche (70): se, infatti, già sussiste la prova della causalità c.d. ‘‘materiale’’ della condotta da un lato, della colpa come inosservanza di una cautela dall’altro, e altresì la prova che comunque l’evento materialmente condizionato (almeno nell’hic et nunc) era del tipo degli eventi che lo scopo della regola precauzionale mirava a prevenire (ad es. salvare la vita, o almeno prolungarla il più possibile, minimizzando i rischi e massimizzando i tempi della sua perdita), non si può dubitare che si imputa un evento cagionato come (70) Cfr. il deciso accoglimento di impostazioni probabilistiche o di aumento del rischio, limitatamente ai casi di comportamento alternativo lecito in ipotesi colpose, in G. FORTI, Colpa ed evento, cit., 659 ss.; M. ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., Art. 41/36-43; A. CASTALDO, L’imputazione oggettiva, cit., 139 ss.; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, P. gen., 3a ed., cit., 503 s., via via con gli opportuni richiami comparati. Nella più recente letteratura tedesca v. anche F. TOEPEL, Kausalität und Pflichtwidrigkeitszusammenhang, Berlin, 1992; V. ERB, Rechtmäßiges Alternativverhalten und seine Auswirkungen auf die Erfolgszurechnung im Strafrecht, Berlin, 1991; ROXIN, Strafrecht, AT., Bd. I, 3. Aufl., cit., par. 11/76 ss.; in quella spagnola, M. MARTINEZ ESCAMILLA, La imputación objetiva del resultado, Madrid, 1992, 205 ss., 259 ss., nonché in sintesi, in traduzione dallo spagnolo, ID., Relevanz des rechtmässigen Alternativverhaltens bei der objektiven Erfolgszurechnung?, in E. GIMBERNAT-B. SCHÜNEMANN-J. WOLTER (Hrsg.), Internationale Dogmatik der objektiven Zurechnung und der Unterlassungsdelikte, Heidelberg, 1995, 37 ss.
— 78 — ‘‘fatto proprio’’, non essendovi qui nessuna surrettizia ‘‘trasformazione di un reato di evento in reato di pericolo’’ (71). ‘‘Accontentarsi’’, in questi casi, del fatto che la condotta soggettivamente colposa e causale abbia aumentato (ex post) il rischio del verificarsi dell’evento significa, è vero, non avere la ‘‘prova’’ che nell’evento si sia materializzata in modo ‘‘necessario’’ la colpa, perché le cose avrebbero anche potuto conoscere lo stesso esito. Ma in primo luogo per una condanna, se prescindiamo dalla circostanza che il medesimo evento storico hic et nunc, la medesima lesione o intensità di lesione, si sarebbero verificati ugualmente — perché in caso contrario sarebbe provata una sicura ‘‘causalità della condotta o della colpa’’ rispetto all’evento reale —, tuttavia occorre comunque provare che, anche qualora non potesse dirsi ‘‘inevitabile’’ l’evento tenendo il comportamento realmente posto in essere (di fatto, accade spesso che la violazione, una volta realizzata, abbia reso quasi inevitabile o molto probabile l’evento), in ogni caso il comportamento diligente avrebbe non solo offerto maggiori, ma rilevanti, significative probabilità di evitare l’offesa. Il dubbio sulla sussistenza di queste rilevanti probabilità, è un dubbio sulla misura dell’evitabilità dell’evento. Ma — come detto — non si richiede qui la certezza o la probabilità ‘‘confinante con la certezza’’ che la condotta osservante avrebbe salvato il bene protetto, o ne avrebbe prolungato l’integrità: perché l’evitabilità ai sensi dell’art. 43 c.p., non essendo la causalità ai sensi dell’art. 40 c.p., significa qui rilevante probabilità di evitare un evento comunque certamente cagionato. Il c.d. aumento del rischio, in questi casi, seleziona ulteriormente la responsabilità, a fronte di una condotta sicuramente colposa (in termini di inosservanza), sicuramente causale (ex art. 40 c.p.), e accerta l’effettiva evitabilità dell’evento: che non significa dunque certezza di evitarlo, ma apprezzabile, buona, effettiva probabilità. Ciò che non persuade delle teorie dell’aumento del rischio, per come applicate anche al problema dell’evitabilità, è l’idea di affermare la responsabilità in presenza di una qualsiasi probabilità ‘‘in più’’ (72): dovendosi piuttosto esigere una valutazione di maggiore probabilità veramente significativa, anche senza la possibilità di quantificare una percentuale, tanto più in assenza di una univoca indicazione legislativa, diversa dalla formulazione molto impegnativa del vigente art. 43 c.p., che sembrerebbe richiedere una vera ‘‘causalità’’ fra la colpa (e non solo fra la condotta materiale) e l’evento. Esempio commissivo colposo: si accerta che il lavoratore x, effettivamente deceduto per avere respirato per anni polveri di amianto senza pro(71) Cfr. in merito gli AA. cit. alla nota precedente, nonché, con ulteriori richiami, M. DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., 438 ss., 445 ss. (72) In questo senso, per es., parrebbero collocarsi i lavori di Forti, Romano e Castaldo cit. alla nota 70.
— 79 — tezioni (certa causalità commissiva, sia pur su basi statistiche), in ogni caso, se avesse lavorato gli stessi materiali, ma con costanti ed efficaci maschere protettive, sistemi di aspirazione, caschi ventilati, ecc.), molto probabilmente non si sarebbe ammalato affatto, ma in ogni caso avrebbe avuto la garanzia o l’elevata aspettativa di sopravvivere più a lungo (causalità della colpa nel caso dell’amianto, sul presupposto, almeno, che al tempo della lavorazione, esistesse una esigibile regola cautelare di quel tipo) (73). Altro esempio: si accerta che Tizio, la cui condotta di guida ha sicuramente cagionato l’incidente mortale con violazione dei limiti di velocità, se fosse stato rispettoso del codice della strada, avrebbe avuto tempi di reazione, al momento della percezione del veicolo antagonista, tali da consentirgli una frenata capace di diminuire sensibilmente la forza di impatto, con conseguente causazione di danni minori e ben probabile salvezza della vittima, di fatto invece deceduta durante il trasporto all’ospedale (caso dell’eccesso di velocità). Nel senso dell’esclusione della colpa — rectius: del nesso di rischio tra colpa ed evento, pur in presenza di una causazione materiale — si segnalano infine i noti esempi ripresi dalla letteratura penalistica: i casi del ciclista, della cocaina, dei peli di capra, della miocardite, ecc., nei quali l’evento si sarebbe verificato egualmente (o con differenze temporali scarsamente rilevanti) anche in ipotesi di condotta diligente, osservante — rispettivamente: distanza di sicurezza in caso di sorpasso (inutile per lo spostamento improvviso a sinistra del velocipede sorpassato); impiego della novocaina anziché della cocaina nella anestesia (con identico risultato nella situazione concreta); pulizia, comunque inutile anche con i metodi richiesti, delle pelli di capra prima della loro consegna agli operai per la lavorazione; effettuazione, prima di procedere all’anestesia, di analisi di routine omesse e doverose, ma che non avrebbero rivelato la miocardite, né quindi impedito l’uso dell’anestetico mortale (74) —. Si comprende allora il diverso valore del significato probabilistico della spiegazione nella causalità e nella colpa. Si comprende, ancora me(73) Si intende che se si volesse affermare la pericolosità della sostanza al punto da escluderne del tutto l’impiego — come avviene oggi nella vigente legislazione (l. 27 marzo 1992, n. 257, art. 1 e ss.): sull’evoluzione normativa operante in Italia, v. per tutti S. GARIBOLDI, in AA.VV., Rischio amianto, cit., 3 ss., nonché e A. MORONE, ivi, 91-114 — si dovrebbe concludere nel senso dell’illegittimità dello stesso ‘‘tipo di produzione’’: per la distinzione fra ‘‘tipo’’ e ‘‘modo’’ di produzione, cfr. l’ormai classico scritto di F. BRICOLA, Responsabilità penale per il tipo e per il modo di produzione (a proposito del ‘‘caso Seveso’’), in Quest. crim., 1978, 101 ss. In questo caso, tuttavia, particolarmente problematica si porrebbe un’applicazione ‘‘retroattiva’’ rispetto alla l. n. 257/92, atteso che poco prima di essa vennero disciplinate modalità di impiego dell’amianto ritenute (ancora) compatibili con l’uso di misure precauzionali adeguate a una riduzione soddisfacente dei rischi. (74) Su tutti questi casi v. G. FORTI, Colpa ed evento, cit., 674 ss., 690 ss.
— 80 — glio, che c’è davvero un livello ‘‘oggettivo’’ che viene prima del fatto tipico ‘‘colposo’’, della tipicità ‘‘oggettivo-soggettiva’’ riguardante i profili di imputazione ormai segnati da questioni specifiche della causalità della colpa, anziché della condotta (75). Nella causalità fra condotta materiale ed evento si verifica un primo livello di condizionamento, dove l’attribuzione dell’evento come ‘‘fatto proprio’’ al soggetto non può tollerare percentuali probabilistiche significativamente affievolite in ordine alla certezza processuale che l’evento storico sia stato realmente condizionato dalla condotta dell’imputato: limite di garanzia che non ha nulla a che vedere con l’impiego di leggi statistiche, ma solo con probabilità statistiche scientificamente non collaudate o esposte a dubbi rilevanti sulla possibile incidenza esclusiva, nel caso concreto, di altre condizioni (non mere concause esse stesse condizionali, valendo in tal caso il disposto dell’art. 41, commi 1 e 3, c.p.). A livello di verifica dell’evitabilità dell’evento in caso di condotta diligente o prudente, qualora già consti una causazione significativa rispetto alle modalità spazio-temporali dell’evento — qualora cioè la prova della causalità non si sovrapponga del tutto a quella dell’evitabilità, come avviene nell’omissione vera e propria e in certi casi di condizioni negative — un accertamento più latamente probabilistico dell’evitabilità (apprezzabile, non modesto aumento del rischio per effetto della violazione, rispetto alle chances esistenti in caso di comportamento alternativo lecito) non ha il significato di imputare come fatto proprio un evento solo ‘‘forse’’ cagionato: ma di accertare importanti chances di impedire il risultato, la sua reale evitabilità in caso di condotta osservante. 8.
CONCLUSIONI.
8.1. Risultati dell’indagine. — Volendo sintetizzare sommariamente i risultati raggiunti, possiamo condensarli in cinque acquisizioni principali, che vanno ad aggiungersi ad altre che presentano invece più il carattere di conferme di impostazioni tradizionali: 1) È ancora importante utilizzare, insieme alla formula della c.s.q.n., anche il concetto di condizioni positive e negative. Infatti, le condizioni negative presentano una autonomia non solo concettuale (ante, par. 4.2.4), ma anche di accertamento. Non è vero che la formula della condicio imponga sempre il ricorso a condizionali controfattuali, cioè all’indagine su decorsi causali ipotetici: la formula della condicio sembra richiederlo sempre, ma in realtà l’accertamento della causalità ‘passa’ attra(75) Sull’esistenza di questo livello oggettivo dell’imputazione in senso sistematico, non coincidente con la tipicità della colpa (né con quella del dolo in caso di reati dolosi), mi permetto di rinviare ancora a DONINI, Illecito, cit., 74 ss., 291 ss., 433 ss.
— 81 — verso la costruzione di condizionali congiuntivi solo nelle ipotesi di condizioni negative, o impeditive, vale a dire di condizioni la cui assenza è determinante per la spiegazione del nesso di condizionamento (omissioni, interruzioni di decorsi causali di salvataggio, e ipotesi nelle quali non sia possibile — cioè di qualche interesse giuridico — tenere distinti l’accertamento delle conseguenze di una condotta positiva dalla contestuale indagine sulla influenza delle ‘‘carenze’’ di tale condotta, e quindi dell’assenza in essa di determinati requisiti richiesti). Nelle condizioni positive, invece, l’indagine sui decorsi causali ipotetici non è indispensabile, ma — a parte il problema delle cause addizionali e di quelle meramente sostitutive ipotetiche — si risolve in una traduzione linguistica, in termini condizionali, dell’accertamento già autonomamente e previamente acclarato di un decorso reale, senza che questo abbia necessità del previo impiego di condizionali controfattuali. 2) L’impiego di leggi causali di tipo statistico impone di distinguere fra la credibilità razionale e scientifica della legge e la credibilità razionale dell’accertamento. L’accertamento del nesso di condizionamento, nel caso singolo, può essere processualmente certo e attendibile anche in presenza di una legge statistica di valore basso: purché non ricordano in concreto altre cause esclusive. Viceversa, anche l’impiego di una legge di copertura dal valore statistico altissimo non garantisce l’accertamento, allorché l’evento sia stato cagionato, in realtà, da un fattore diverso. In questa indagine concreta, il giurista deve essere guidato da una nozione giuridica, e non già epistemologica, di ciò che è causalmente rilevante, interessante, dal punto di vista del diritto. Le leggi di copertura, perciò, di cui il giudice è in linea di principio un mero consumatore, offrono al riguardo solo conoscenze strumentali. 3) L’accertamento della condizionalità di una condotta a livello causale (art. 40 c.p.) e l’accertamento della mera evitabilità dell’evento in caso di comportamento alternativo lecito, ma in presenza di sicura causazione materiale (problema dell’evitabilità nei reati colposi, ovvero della causalità della colpa: art. 43 c.p.), tollerano gradi differenziati di certezza (ante, par. 7.5). La causalità c.d. materiale, anche omissiva, suppone (a prescindere dal problema di cause addizionali o sostitutive ipotetiche) una condizionalità vicina alla certezza. Non deve ammettersi, in linea di principio, una differenza di definizione o di essenza della causalità attiva e di quella omissiva sul punto, dovendo quest’ultima (anche se ‘‘ipotetica’’) essere ‘‘equivalente’’ alla prima (art. 40 cpv. c.p.). La c.d. causalità della colpa, invece, a fronte di un condizionamento reale dell’evento da parte della condotta concreta, ammette che il comportamento alternativo lecito (irreale) potesse essere salvifico solo secondo una probabilità di casi rilevante, apprezzabile, significativa, da valutarsi ex post. 4) Il c.d. momento omissivo della colpa, che induce spesso la giuri-
— 82 — sprudenza a considerare la colpa come se fosse una ‘‘omissione’’ (di cautele doverose), non deve far perdere di vista le differenze fra reati commissivi e reati realmente omissivi, né indurre surrettiziamente a trasformare in garanti tutti coloro che, per il fatto che avrebbero potuto ‘‘fare di più’’, hanno omesso di ridurre al minimo un qualche rischio. 5) La confusione tra i due piani della causalità della condotta e della colpa — ovvero del livello della responsabilità per fatto proprio e di quello della responsabilità per fatto proprio colposo — produce una tendenziale trasformazione dell’evento, nei reati realmente omissivi, in fattispecie condizionali, tutte le volte che si applichi all’omissione impropria quel coefficiente probabilistico attenuato (un significativo ‘‘aumento del rischio’’ valutato ex post) che è ammissibile solo nella valutazione dell’evitabilità dell’evento da parte del comportamento alternativo lecito, in caso di condizionamento eziologico reale accertato. 8.2. L’incidenza della prova sulla definizione dei concetti giuridici. Prospettive di riforma: dall’evento costitutivo e condizionale, all’evento aggravante. — Di ogni concetto giuridico che definisce una realtà ed è suscettibile di verifica probatoria, dovrebbe essere possibile distinguere l’oggetto dall’accertamento. I criteri di accertamento, in particolare, non possono circoscrivere integralmente il concetto di ciò di cui consentono la verifica: siamo infatti abituati, almeno dal tempo della scomparsa delle prove legali, a distinguere, fra la prova e il mezzo di prova da un lato, e l’oggetto dell’accertamento probatorio dall’altro (76). Accade tuttavia che la verifica processuale di un concetto o di una teoria di diritto sostanziale contenga in sé gravi difficoltà per la tenuta di certe formulazioni consolidate: o si tollera realisticamente uno ‘‘scarto’’ fra la prova e il suo oggetto (ad es., in subiecta materia, la ‘‘probabilità confinante con la certezza’’, oppure ‘‘vicina alla certezza’’), oppure si rischia di dover essere troppo conseguenti, e di trasformare questioni probatorie in tentativi di sostanzializzare concetti nuovi più ‘‘adatti alla prova’’ stessa (da una spiegazione causale sempre più probabilistica, si passa direttamente a richiedere la prova di un coefficiente di rischio): ancora una volta, è il processo che domina il diritto penale sostanziale e lo piega alle sue logiche autopoietiche (77). (76) Sulle conseguenze intervenute nei rapporti fra diritto sostanziale e processuale, a seguito dell’abolizione delle prove legali, K. VOLK, Wahrheit und materielles Recht im Strafprozeß, Konstanz, 1980, 9 ss., 11 ss. Più ampiamente, sull’uso interscambiabile di nozioni sostanziali (‘‘ridotte’’ in funzione probatoria) e di criteri indiziari di prova, ID., Prozeßvoraussetzungen im Strafrecht. Zum Verhältnis von materiellem Recht und Prozeßrecht, Ebelsbach, 1978, 34 ss., 39 ss., 49 ss. Sull’uso di sostanzializzare in concetti nuovi meri problemi di prova, lungo un percorso che attraversa molti istituti del diritto penale, H. VEST, Vorsatznachweis und materielles Strafrecht, Bern-Frankfurt a.M.-New YorkParis, 1986. (77) Che le moderne teorie dell’aumento del rischio realizzino il risultato di ‘‘sostan-
— 83 — Quando, ad es., le Sezioni unite criticano l’uso estensivo della categoria del dolo eventuale, per concludere che nelle ipotesi di alta probabilità del verificarsi dell’evento il dolo deve intendersi come dolo diretto, e in quanto tale venire provato a prescindere da ‘‘accettazioni interiori’’ del rischio, seguono evidentemente percorsi oggettivizzanti, che attraverso l’uso della prova di un fatto esterno (il rischio elevato) consentirebbero omisso medio di inferire il dolo come realtà normativa (che si ‘‘imputa’’), anziché strettamente soggettiva (che si ‘‘accerta’’) (78). In questi casi l’operazione è più ‘‘scoperta’’, non volendosi più impiegare tempo per accertare qualcosa di ‘‘soggettivo’’ (79); in altri casi si procede con maggior ambiguità: si crede di definire meglio una realtà, di essere più aderenti al processo nel modificare le definizioni teoriche dottrinali o codicistiche, ma poi si scopre che è la realtà giuridica ad essere cambiata per effetto degli adattamenti suggeriti, perché il limite estremo di una prova ‘‘difficile’’ non approda mai a un concetto, ma a un dubbio, e come tale dovrebbe condurre a un proscioglimento, anziché al giudizio di responsabilità dove una nuova ‘‘sostanza’’ (l’aumento del rischio) dissimula l’incertezza su un elemento costitutivo (il dubbio sulla causalità omissiva). Tornando quindi conclusivamente al nostro tema, se è vero quanto già osservato, e cioè la immanente trasformazione di reati di evento in reati condizionali, è chiaro che l’esito di certi trends — la cui temuta realizzazione in atto va tuttavia ridimensionata (ante, par. 4.2.1 e 7.1) — non consiste in un affinamento probatorio (provare meglio nei limiti di un dubbio), ma in un mutamento di diritto sostanziale (l’eliminazione di ogni dubbio probatorio), elusivo, de lege lata, di troppi istituti di garanzia (art. 25 cpv. 27, comma 1, Cost., 1, 40, 41, 42, 43, 45, 47 c.p.): sarà anche ‘‘moderno’’, ma è illegale. C’è peraltro un’alternativa ‘‘corretta’’, di spettanza legislativa. Essa zializzare’’ (con diversa giustificazione fondativa) questioni probatorie, avevamo evidenziato in M. DONINI, Lettura sistematica, cit., parte II, 1118-1120, allora con riferimento, peraltro, solo a un dibattito dottrinale e straniero: la giurisprudenza, nel frattempo, nel latitare della dottrina maggioritaria e di vari commentari e manuali su tali questioni (come sull’imputazione oggettiva dell’evento), si è mostrata assai più ‘‘sensibile’’, in pratica, ai problemi reali sollevati da quelle teoriche. (78) Cfr. da ultimo Cass., Sez. un., 14 febbraio 1996, Mele, in Cass. pen., 1996, 2506 ss., m. 1419; e in termini già Sez. un., 12 ottobre 1993, Cassata, ivi, 1994, 1186 ss., m. 685. (79) Il tema dove l’abbandono del ‘‘soggettivo’’ è stato sistematico e generalizzato, è notoriamente quello dello studio (e della prassi) del reato colposo (riferimenti in M. DONINI, Teoria del reato, cit., 348 ss.). La logica del normativismo integrale, anche qui — con riferimento al nesso tra dolo, colpa, colpevolezza e ‘‘imputazione’’ e realizzando una riduzione « teleologica » dei primi (come realtà psichiche o pregiuridiche) alla seconda — è stata scolpita in modo insuperato da H. KELSEN, Hauptprobleme der Staatsrechtslehre entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze, 2. Aufl., 1923, Neudruck Aalen, 1984, 73 ss., 135 ss.
— 84 — consiste nella costruzione di mirate ipotesi di reati di mera condotta omissiva pericolosa (ipotesi contravvenzionali, peraltro utilizzabili anche per la culpa in agendo), opportunamente selezionate, a mio avviso, mediante il requisito della colpa grave o del dolo di pericolo (che non è dolo eventuale rispetto a un evento di danno eccentrico, ma consapevolezza di un rischio grave, quel rischio che la norma, prima ancora che l’evento, mira a prevenire) (80), con la previsione del verificarsi dell’evento-condizione non voluto, come circostanza aggravante. La categoria della circostanza, al riguardo, sembra sopportare, assai meglio dell’evento costitutivo, l’onere della costruzione della responsabilità nei casi dove si attenuano le possibilità di accertamenti rigorosi e politicamente convincenti della condicio sine qua non rispetto a eventi sovradeterminati statisticamente da concause complesse. Si tratta di un ‘‘modello’’ che si aggiungerebbe a quello già presente nel sistema in relazione ai delitti colposi di pericolo (art. 450 c.p.) o di danno (art. 449 c.p.) preveduti rispetto a varie ipotesi di reati contro l’incolumità pubblica, allorché l’evento sia esso stesso costituito da un risultato di pericolo astratto (per es. incendio, crollo di costruzioni, ecc.), e che non è tanto dissimile dal concreto operare, oggi, di circostanze aggravanti come quelle di cui all’art. 588 cpv. (sia pur riletta attraverso il novellato art. 59 cpv. c.p.), dove sia difficile determinare il concreto contributo dato all’evento dalla condotta del singolo corrissante. Ancora oggi, del resto, le singole circostanze aggravanti tipizzano di volta in volta l’esigenza che, per esempio, dalla ‘‘condotta del colpevole’’, ovvero dal fatto tipico colpevole di base derivi una determinata conseguenza. Ma c’è una maggiore libertà, al riguardo, rispetto ai parametri degli elementi essenziali del reato. Se l’evento aggravante fosse una circostanza, non sarebbe indispensabile applicargli integralmente lo statuto dell’evento ‘‘costitutivo’’ sotto il profilo della prova del realizzarsi, nel risultato, del rischio della condotta illecita in termini di piena condizionalità, pur restando indispensabile un significativo aumento del rischio e il requisito che l’evento verificatosi fosse fra quelli che la cautela mirava a prevenire: una via di mezzo fra evento costitutivo (prova della realizzazione del rischio nell’evento) ed evento condizionale (sufficienza del suo fortuito verificarsi), con responsabilizzazione già per la mera condotta, ma solo se gravemente colposa (81). Viceversa, l’imputazione ordinaria dell’evento costitutivo, per colpa, continuerebbe a esigere i livelli consueti di ‘‘certezza’’, comunque (80) Sull’esigenza di introdurre ipotesi di colpa grave/dolo di pericolo, oltre che, a medio o lungo termine, di ancorare la responsabilità penale colposa alla colpa quanto meno non lieve, v. M. DONINI, Teoria del reato, cit., 331 s., 368 s. (81) Il tema del rapporto ‘‘trilaterale’’ fra evento circostanziale, evento costitutivo ed evento condizionale, non è stato oggetto di indagini approfondite dopo che si è affermata ‘‘istituzionalmente’’ la vigenza del principio nullum crimen, nulla poena sine culpa con le sentenze n. 364/88 e 1085/88 della Corte costituzionale. L’indicazione semplicemente ab-
— 85 — differenziati a seconda che si tratti di causalità della condotta materiale (attiva od omissiva), ovvero della ulteriore (se distinguibile) evitabilità da parte della condotta diligente o prescritta. Devo comunque dare atto che la soluzione indicata presenta un rigore impegnativo per il legislatore, imponendogli scelte chiare di politica criminale che egli ha mostrato, sinora, di non voler compiere. La stessa scelta fra evento costitutivo e condizione di punibilità, non solo nel nostro ordinamento, è elusa dal legislatore, che l’affida alle incertezze interpretative di sempre, senza quell’indicazione espressa delle condizioni obiettive che si renderebbe necessaria. Nel perdurare di tale situazione, è del tutto verosimile che le cose restino come stanno: alla giurisprudenza il compito di risolvere, al di là delle discussioni accademiche, i problemi pratici e di compiere le scelte (troppe scelte) delegatele dalla legge; alla dottrina l’onere di rendere controllabili quelle scelte — non di mascherarle fingendo che non ci siano o non ci debbano essere —, prevenendone le distorsioni più forti rispetto alle categorie consolidate, non sempre duttili, dell’imputazione dell’evento, nell’attesa del maturare di soluzioni legislative più trasparenti. MASSIMO DONINI Straordinario di Diritto penale Università di Teramo
bozzata nel testo, e che necessita sicuramente di ulteriori approfondimenti, suppone la incongruità, in prospettiva di riforma, di una imputazione colposa delle condizioni di punibilità c.d. intrinseche (questa, invece, la proposta di F. ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, 1440 ss., 1497 ss., 1510 ss.): se sono imputate per colpa e assoggettate integralmente allo statuto giuridico (corrispondente a quello) degli artt. 40, 41, 43 e 45 del codice penale vigente, si tratterà di eventi costitutivi, e nulla più (v. già quanto rilevato in M. DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., 132-141 e spec. 138140, nota 27). Diverso sarebbe se, con l’imputazione colposa delle c.o.p. intrinseche (a parte le innumerevoli difficoltà di identificarle, in assenza di un’indicazione legislativa esplicita degli eventi condizionali: sia ancora consentito rinviare a M. DONINI, Condizioni obiettive di punibilità, in Studium iuris, 1997, 592 ss., 597 ss.), si volesse ‘‘sminuire’’ la condizionalità già rilevante ex art. 40 c.p. Da un lato, questa tendenza è già in atto — anche se indebitamente, settorialmente e sporadicamente — de lege lata; dall’altro, il conferirle una patente di legittimità riconoscendo che l’evento è c.o.p., anziché evento costitutivo, credo che debba essere raccordato e armonizzato con la sostanza di questa operazione, che altrimenti sarebbe di mero maquillage. La vera sostanza, invece, ritengo che vada còlta nell’esigenza di responsabilizzare già sul piano della mera condotta forme gravi di negligenza, imprudenza o imperizia, in determinati settori, almeno, dove si coglie che il verificarsi dell’evento, condizionato da fattori eziologici molto complessi, contiene in sé una quota di fortuito che dà un senso alla costruzione dell’evento solo come circostanza aggravante, con una ricostruzione più flessibile del nesso di condizionalità. La c.o.p., viceversa, è più adatta alle fattispecie dolose e presuppone un fatto penalmente non sanzionato sino al suo verificarsi, con una responsabilizzazione più segnata da componenti fortuite e quindi da una maggiore discrasia fra disvalore di evento e disvalore di azione.
LA NORMATIVITÀ DELLA COLPA PENALE. LINEAMENTI DI UNA TEORICA
SOMMARIO: 1. La normatività della colpa: una breve premessa. — 2. Regole cautelari e raggio di azione del dovere di diligenza. — 3. L’evitabilità del fatto colposo e la funzione tipizzante della regola cautelare. — 4. Le regole cautelari giuridiche. — 5. I criteri correnti di individuazione delle regole cautelari sociali: a) la teoria della prevedibilità; b) la figura dell’agente modello. — 6. Un’alternativa metodologica: il ricorso agli usi. — 7. La tipologia delle regole cautelari in relazione (a) alla tecnica di formulazione e (b) al fondamento preventivo. — 8. In particolare: la sperimentazione di nuove cautele e le cautele nelle attività sperimentali. — 9. Le regole cautelari sotto il profilo (a) dell’efficacia e (b) della finalità preventiva. — 10. La misura del dovere di diligenza. — 11. La colpevolezza dell’illecito colposo: un traguardo irraggiungibile? — 12. Postilla. La colpevolezza nella c.d. colpa per assunzione: ai confini della responsabilità da posizione.
1. L’unanimità di consensi, che raccoglie oggi la natura normativa della colpa, rischia di trasfigurare quest’importante acquisizione in un luogo comune, destinato ad alimentare nuove incomprensioni. Normatività della colpa penale, infatti, non significa solo ancoraggio della responsabilità al parametro della diligenza doverosa e possibile, ma anche coerente sviluppo dogmatico di tale doverosità e possibilità. Al centro della tematica, dunque, stanno due questioni specifiche, tra di loro connesse. La prima — e più generale — attiene all’ambito di operatività del dovere di diligenza nel diritto penale. La seconda questione riguarda l’adempibilità della pretesa di diligenza fatta valere dall’ordinamento, ovverosia l’evitabilità del fatto negligente da parte dell’agente. 2. Per la corretta impostazione della prima questione, va tenuto presente che, in relazione allo svolgimento di una qualunque attività, l’esperienza individuale e collettiva suggerisce l’osservanza di talune cautele, finalizzate alla buona riuscita dell’attività intrapresa e, non ultimo, ad evitare danni a terzi. Sia il linguaggio comune, sia quello gergale dei giuristi indicano questo fenomeno con una pluralità di espressioni tra di loro equivalenti e fungibili, che sono per lo più il frutto della combinazione di due sostantivi (norma e regola) con un’ampia gamma di aggettivazioni e specificazioni (cautelare, prudenziale, di diligenza, perizia ecc.). Sebbene la varietà terminologica si manifesti soprattutto in relazione alla funzione
— 87 — di tali norme (o regole), un certo rischio di equivocità dipende, però, dall’inadeguatezza dei concetti di norma e di regola a definire compiutamente il fenomeno. Infatti, pur mirando a orientare il comportamento umano, le cautele in questione non hanno, di per sé, la natura prescrittiva: esse si limitano a contenere dei suggerimenti (o consigli) tecnici, relativi, cioè, ai « mezzi da usarsi per conseguire un certo fine » (1). Trattandosi di mere « istruzioni per l’uso », negli studi di logica deontica (o delle norme) si preferisce parlare al riguardo di norme tecniche o di direttive (2), sottolineando così la loro fondazione su proposizioni anancastiche, ovvero enunciative di « un asserto che dica che qualcosa è (o non è) una condizione necessaria di qualcos’altro » (3). Com’è intuitivo, nel diritto penale tali cautele (che, per comodità, si continuerà a indicare con le loro più diffuse denominazioni) rilevano soprattutto, anche se non esclusivamente (4), quando si riferiscono allo svolgimento di attività pericolose. In ogni caso, proprio in quanto meramente esperienziale, una siffatta produzione « normativa » risulta strettamente collegata alla pericolosità dell’attività, non al carattere della sua liceità o meno. Dal punto di vista empirico, infatti, anche l’agire illecito è perfettamente compatibile con l’adozione di regole cautelari (5). Si passi ora a considerare il fenomeno dall’angolo visuale dell’ordinamento giuridico. Ebbene, di fronte al problema delle condotte pericolose, l’ordinamento può adottare due diverse soluzioni, la prima delle quali è quella di vietare lo svolgimento dell’attività in ragione dei suoi intrinseci coefficienti di rischio. Com’è intuitivo, in un sistema razionale di norme — è questa non solo la premessa (6), ma anche la finalità dell’interpretazione giuridica — la soluzione anzidetta si impone allorché, ai fini di (1) Cfr. G.H. VON WRIGHT, Norma e azione. Un’analisi logica, trad. it. di A. Emiliani, Bologna, 1989, p. 46 s. (2) Cfr. G.H. VON WRIGHT, op. loc. cit., che non manca altresì di osservare come il problema delle norma tecniche costituisca « una giungla concettuale addirittura più vasta e sconcertante del tema delle prescrizioni » (ivi, p. 36). (3) Così G.H. VON WRIGHT, op. loc. cit., dove, pur precisando che sarebbe un errore identificare le norme tecniche con le proposizioni anancastiche, si riconosce che tra di esse esiste una connessione logica essenziale, poiché la norma tecnica presuppone un enunciato anancastico. (4) Si pensi agli artt. 251, comma 2, e 355, comma 3, c.p., dove la doverosità delle cautele si riconnette all’adempimento degli obblighi contrattuali assunti con lo stato, con altro ente pubblico o con un’impresa esercente servizi pubblici o di pubblica utilità. (5) Sul punto, v. anche S. CANESTRARI, L’illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989, p. 130; e da ultimo, ampiamente, G.A. DE FRANCESCO, Opus illicitum. Tensioni innovatrici e pregiudizi dommatici in materia di delitti qualificati dall’evento, in questa Rivista, 1993, p. 1034 s. (6) Sulle radici filosofiche di questa premessa, senza la quale è impensabile una logica delle norme, v. G.H. VON WRIGHT, Norme, verità e logica, trad. it. di G. Pezzini, in Informatica e diritto, 1983, p. 9.
— 88 — un’efficace tutela sociale, appaia insufficiente la prevenzione offerta dall’impiego delle cautele disponibili. Di conseguenza, colui che svolge l’attività pericolosa vietata non è tenuto all’osservanza delle regole cautelari, pena la contraddizione del sistema. Se vuole, può osservarle nel suo personale interesse, per evitare cioè che la sua attività trasmodi, dando luogo a più gravi titoli di responsabilità; ma non è questa la pretesa fatta valere dal sistema normativo. Sul piano deontologico, la prescrizione di un divieto comportamentale e il suggerimento delle modalità con cui può essere proficuamente svolta l’attività vietata sono tra loro alternativi quando (e solamente quando) convergono verso uno stesso fine preventivo. A ben vedere, infatti, la norma che vieta una condotta per la sua intrinseca pericolosità, mentre nella struttura risulta prescrittiva, nella sua ratio funge già da regola cautelare, ponendosi in alternativa con la possibilità di rendere prescrittiva qualunque altra « istruzione per l’uso ». Ne consegue che le fattispecie di pericolo astratto e quelle colpose di danno possono assimilarsi sul piano delle finalità politico-criminale (7), ma sono incompatibili sotto il profilo applicativo. La seconda soluzione cui può ricorrere l’ordinamento è quella, invece, di consentire l’attività pericolosa, subordinandone lo svolgimento al rispetto di regole cautelari finalizzate a contenerne il pericolo; è in tali casi, dunque, che l’adozione della regola cautelare diventa obbligatoria. « L’istruzione per l’uso » da mera direttiva viene elevata a prescrizione. In altre parole: il dovere di diligenza rileva come pretesa comportamentale caratteristica delle sole attività pericolose lecite. Quanto all’inosservanza di tali regole cautelari doverose, essa può anche essere sanzionata di per sé. Nondimeno, quando l’evento prodotto dall’inosservanza della cautela doverosa risulta particolarmente grave, l’ordinamento prevede una fattispecie penale punita a titolo di colpa, di cui per l’appunto la regola cautelare violata diventa parte integrante. Anche dal punto di vista dell’ordinamento, dunque, le regole cautelari sono norme modali (o comportamentali), in quanto indicano il modo in cui un’attività pericolosa deve essere svolta. Quale tipica espressione delle attività pericolose lecite, le regole cautelari servono cioè a conciliare il diritto di libertà al loro svolgimento con la tutela dei terzi. Da qui, una duplice conseguenza. La prima può così riassumersi: essendo incompatibili con il dovere di diligenza, le attività vietate per la loro intrinseca pericolosità non possono dar luogo a una responsabilità penale a titolo di colpa. La seconda conseguenza riguarda la regola dell’astensione dallo svolgimento di una data attività pericolosa, quale tipologia lar(7) Ne è una conferma, del resto, la proposta di trasformazione dei reati colposi in reati dolosi di pericolo; cfr. A. PAGLIARO, Reati dolosi di pericolo e reati colposi di danno, in Atti del X Congresso internazionale di diritto penale, Roma, 1974, p. 133 s.
— 89 — gamente ammessa di norma cautelare (8), che opererebbe tutte le volte in cui l’agente non è in grado di fronteggiare adeguatamente i rischi insiti nell’attività intrapresa, dando luogo alla colpa per assunzione. Ebbene, se si conviene sul carattere modale della regola cautelare, è chiaro che essa non può consistere in un dovere di astensione, dato che altrimenti si finirebbe per trasformare la regola cautelare in un divieto, ovvero nel suo opposto logico. 3. Passando adesso alla seconda e ben più complessa questione, va ricordato che, in un sistema penale retto dal principio di stretta legalità, il giudizio di evitabilità è delimitato da quello di tipicità, che opera quale suo presupposto logico e funzionale. L’evitabilità che interessa il diritto penale, dunque, ha ad oggetto esclusivamente il comportamento descritto nella fattispecie incriminatrice. Ora, segnatamente in relazione ai reati colposi, per lungo tempo si è ritenuto che il fatto tipico fosse interamente descritto nella norma di parte speciale e, per altro verso, che il criterio di evitabilità dovesse forgiarsi in base al parametro della prevedibilità. Questa conclusione discendeva da due erronee premesse, a loro volta influenzate dalla concezione naturalistico-causale dell’azione e dalle sue ricadute sulla tipicità penale. Il riferimento è, anzitutto, all’identificazione della fattispecie penale con l’articolo di legge, che dà il nome al singolo illecito colposo e nel cui contesto la condotta tipica appare esangue, in quanto indicata attraverso le sole note che consentono di differenziarla dalle altre tipologie di reato. Oggi, l’analisi strutturale della norma penale e l’approfondimento del fenomeno dell’integrazione tra norme ha permesso di acquisire, invece, che la fattispecie penale non ha una dimensione, per così dire, meramente grafica e topografica; non coincide cioè con gli articoli, i commi e le disposizioni che contengono determinati elementi descrittivi del fatto punito. La fattispecie penale, piuttosto, è un’articolata realtà linguistica e logica, ovvero l’insieme degli enunciati normativi, da cui dipende la compiuta descrizione del fatto e delle condizioni necessarie per il suo assoggettamento a pena. È l’unità di senso, dunque, che coagula e delimita la fattispecie. In secondo luogo, va tenuto presente che il concetto di prevedibilitàevitabilità è entrato nella teoria della colpa come mero succedaneo dog(8) V. ad esempio: F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, 3 ed., Padova, 1992, p. 344; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3 ed., Bologna, 1995, p. 494 s.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2 ed., Milano, 1995, p. 429; T. PADOVANI, Diritto penale, 3 ed., Milano, 1995, p. 265; C. FIORE, Diritto penale, vol. I, Torino, 1993, p. 254. Cfr. anche G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 518. Nella letteratura tedesca, di recente, v. per tutti K. KÜHL, Strafrecht, Allg. Teil, München, 1994, p. 526 s.
— 90 — matico delle componenti volontaristiche e intellettivistiche dell’agire colposo, che, sotto il predominio delle concezioni psicologiche della colpevolezza, si ritenevano ontologicamente indefettibili e assolutamente necessarie per assicurare il coefficiente minimale di personalità dell’illecito penale. Nelle prime concezioni normative della colpa, la prevedibilità operava, cioè, come criterio di ascrizione di un comportamento naturalisticamente inteso. Così opinando, però, si trascurava — e ancora oggi, talvolta, si continua a trascurare — che in tali impostazioni la prevedibilità non funge solo da parametro normativo o di valutazione, ma a ben vedere vuol essere norma (di comportamento) essa stessa. Infatti, quando si afferma che, a causa della sua prevedibilità, un certo evento poteva essere evitato dall’agente, si intende dire che modificando il comportamento in modo da rendere non più prevedibile l’evento, quest’ultimo non si sarebbe verificato. In breve: la normatività della colpa non si esaurisce nella ricerca di un parametro di imputazione, ma soddisfa un’istanza di integrazione della norma penale nella descrizione del fatto colposo (9). Non meraviglia pertanto che la scoperta della funzione tipizzante della regola cautelare abbia determinato, nella sistematica del delitto colposo, un coerente spostamento già nell’ambito del fatto tipico dei connotati della colposità. Quale regola modale, la norma cautelare esprime un’evitabilità dell’evento in termini impersonali, ancora insufficiente a fondare un giudizio di colpevolezza del singolo agente, ma capace di (contribuire a) indicare la pretesa comportamentale fatta valere in termini oggettivi dalla fattispecie penale, ovvero il presupposto del giudizio di evitabilità personale. Attratta nell’orbita del fatto colposo, la regola cautelare condivide dunque la duplice funzione di garanzia che la tipicità svolge, in modo equidistante e simmetrico, nei confronti del bene giuridico e del favor libertatis. Da questa angolazione, si comprende allora che l’integrazione della tipicità colposa debba avvenire nel rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari. In particolare, i principi della riserva di legge e di determinatezza impongono di approfondire il problema delle fonti della regola cautelare e di affinare i criteri necessari all’individuazione del comportamento conforme a diligenza. Invero, proprio perché destinata, al pari degli altri elementi del fatto tipico, all’integrazione della fattispecie colposa, l’individuazione della regola cautelare non può essere rimessa alla discrezionalità giudiziale, ma deve risultare pre-definita e riconoscibile ex ante dall’agente quale regola comportamentale astratta. Dal punto di vista metodologico, ne consegue che l’accertamento della colpa del fatto tipico (9) Nella nostra manualistica, v. per tutti G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 487. Nella dottrina tedesca, di recente v. C. ROXIN, Strafrecht. Allg. Teil, vol. I, 2 ed., München, 1994, p. 890.
— 91 — (comprensivo, com’è ovvio, della regola cautelare astratta e impersonale) deve precedere quello della colpa del fatto storico (ovvero del comportamento negligente tenuto dall’agente concreto). Così, se si vuole affermare correttamente la sussistenza della tipicità colposa e contrastare l’odierna tendenza a fondare il giudizio di responsabilità sulla violazione di regole cautelari di produzione meramente giudiziale (10), l’interprete è tenuto, in via assolutamente preliminare, a individuare l’esistenza della norma cautelare attraverso la sua fonte di produzione, ovvero la disponibilità della regola quale presupposto della sua doverosità. 4. Come noto, sotto il profilo delle fonti, l’art. 43 c.p., cui rimandano le singole previsioni incriminatrici attraverso l’inciso « per colpa » o un suo equivalente linguistico (11), distingue le regole cautelari in sociali e giuridiche (12). Iniziando da queste ultime, la cui afferenza al piano della tipicità colposa è di più immediata percezione, va ricordato che, sempre in base all’art. 43 c.p., esse possono derivare da leggi, regolamenti, ordini e discipline. Quando è posta da leggi e regolamenti, la regola cautelare risulta incorporata in una norma giuridica e quindi dotata di una sua forza prescrittiva autonoma. Per questa ragione la verità esperienziale e l’efficacia preventiva in essa espresse passano in secondo piano, imponendosi il rispetto della regola cautelare in ragione della sua rilevanza nella gerarchia delle fonti giuridiche. Il discorso non cambia allorché la regola sia imposta da ordini o discipline. La sola particolarità che ricorre in questi ultimi casi è che gli ordini e le discipline, pur essendo fonti della regola ai sensi dell’art. 43 c.p., non sono fonti del diritto per mancanza di generalità e astrattezza. A ben vedere, infatti, l’integrazione della fattispecie colposa non dipenderà direttamente dagli ordini e dalle discipline, ma dalle fonti di produzione della regola cautelare, che il soggetto competente a emanare l’ordine e la disciplina ha trasmesso, per loro tramite, ai suoi sottoposti. (10) Per una sintetica rassegna v. D. MICHELETTI, I criteri di individuazione della regola cautelare nel delitto colposo. Una verifica sul terreno della bancarotta semplice patrimoniale, Dissertazione dottorale, Ferrara, 1998, p. 30, nota 83. Colpisce in particolare la condanna di un datore di lavoro per la morte occorsa al suo dipendente che, durante la potatura di un albero, era caduto dalla scala (Cass. pen., sez. IV, 3 luglio 1992, Zoccola, in Mass. Cass. pen., 1993, p. 75): ravvisando il comportamento negligente nel fatto che la scala fornita fosse priva di ganci o appoggi antisdrucciolevoli e trascurando, per converso che scale di tal fatta non sono in commercio, la Corte ravvisava nella sostanza la regola cautelare nell’invenzione e nella costruzione di tali scale. (11) Per un’ampia e completa panoramica delle formule utilizzate del nostro legislatore, v. G. FORTI, op. cit., p. 68 s. e, in particolare, nota 12. (12) Per questa classificazione, v., tra gli altri, A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, 5 ed., Milano, 1996, p. 299 s.
— 92 — In ogni caso, è innegabile che, a prima vista, la positivizzazione delle regole cautelari rafforzi l’idea della certezza giuridica. Sennonché, ad un più attento esame, l’identificazione tra norma cautelare giuridica e regola prudenziale certa non ha valore assoluto, ma dipende piuttosto dallo standard di determinatezza ed esaustività della regola positiva. Così, accanto a regole cautelari sufficientemente determinate, quale ad esempio l’obbligo dell’automobilista di arrestare la marcia al semaforo rosso (artt. 41, comma 2, e 146, comma, comma 3, cod. strada), vi sono norme prudenziali di fonte giuridica, che rimandano di fatto alle regole di comune esperienza ora per la determinazione del comportamento diligente, ora per l’individuazione delle condizioni fattuali di operatività della regola. Vi sono casi, anzi, in cui la regola prudenziale giuridica è indeterminata sotto entrambi i profili (si pensi al generico obbligo di « comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione », che, ai sensi dell’art. 140, comma 1, cod. strada, grava su tutti gli utenti della strada). Dire che in tali ipotesi ci si trova in presenza di una regola cautelare giuridica significa arrestarsi all’apparenza del fenomeno, poiché la fonte giuridica si limita a richiamare genericamente e indistintamente le norme cautelari sociali e il loro ambito di operatività. Ciò significa che, sotto il profilo preventivo, la norma cautelare giuridica non ha una funzione autonoma. Com’è intuitivo, ne consegue che quanto più è indeterminata la regola, tanto più la colpa specifica scolora in quella generica. Tanto premesso, le critiche, che sono state mosse alla positivizzazione delle regole cautelari (13), devono essere correttamente intese: esse si appuntano, da un lato, sul carattere patologico delle norme cautelari indeterminate e, dall’altro, sui tentativi di negare l’identità strutturale della colpa generica e di quella specifica sotto il profilo dei necessari criteri di correlazione tra l’evento e la condotta negligente. Si tratta, dunque, di critiche condivisibili, ma dalle quali non è possibile trarre argomenti per negare i vantaggi che, sul piano della certezza del diritto, possono discendere da una corretta formalizzazione del contenuto prescrittivo della diligenza doverosa. A ben vedere, infatti, la positivizzazione della norma cautelare risulta particolarmente indicata tutte le volte in cui si intende sottrarre la pretesa di diligenza alla variabilità dell’esperienza individuale, allorché quest’ultima venga utilizzata per sperimentare nuove tecniche cautelari. In modo particolare, l’esigenza di una standardizzazione del dovere di diligenza si avverte nei casi in cui, per la spiccata pericolosità dell’attività intrapresa o per l’ancora insufficiente standard di esperienza maturata al riguardo, le regole di comune esperienza disponibili non risultano idonee a orientare, con adeguati margini di efficacia, il comportamento dell’agente nel modo richiesto. (13) passim.
Cr. G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 236 e
— 93 — Non a caso, è in tale direzione che si è evoluta di recente la normativa prevenzionistica in materia di sicurezza del lavoro. Come noto, con i decreti legislativi 626/1994 e 242/1996 si è passati da un sistema antinfortunistico « aperto », sviluppato cioè su un generale dovere del datore di lavoro di assicurare la sicurezza dei lavoratori ex art. 2087 c.c., a un sistema che persegue il medesimo obiettivo imponendo al datore di lavoro il rispetto di determinate procedure di sicurezza (14), la cui violazione è sanzionata in via penale o amministrativa. Ne consegue che, nell’ipotesi di infortuni connessi alla violazione delle cautele in cui si sostanzia l’anzidetta procedura di sicurezza, un’eventuale responsabilità del datore di lavoro andrà verificata sul terreno della colpa specifica, con maggiori margini di certezza sotto il profilo dello standard di determinatezza della tipicità penale. A quest’ultimo proposito, semmai, la questione dibattuta è se, nel caso di scrupolosa osservanza delle procedure di sicurezza da parte del datore di lavoro, la nuova normativa lasci residuare o meno lo spazio per una colpa generica del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., ove l’impiego di regole cautelari possibili, ma non doverose ai sensi della disciplina speciale, avrebbero potuto ridurre le probabilità di verificazione dell’infortunio (15). Il problema è affatto significativo per i suoi riflessi operativi e, prima ancora, per le sue implicazioni ricostruttive in ordine ai rapporti tra colpa generica e colpa specifica. Non è improbabile, dunque, che, segnatamente su questo terreno, si riscontreranno forti resistenze a rinunciare alla tutela supplementare offerta dalla colpa generica (16). Si tratta di preoccupazioni, che risultano ingiustificate, se non preconcette, nella misura in cui il sistema delle cautele positivizzate risulta pienamente adeguato al contenimento dei fattori di rischio, insiti nello svolgimento di una determinata attività. Risulta condivisibile, dunque, l’orientamento, affio(14) Cfr. in argomento: A. CULOTTA, M. DI LECCE, G.C. COSTAGLIOLA, Prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, Profili teorici e aspetti pratici del sistema normativo vigente, Milano, 1996, p. 9 s. e p. 148 s.; BONFIGLIOLI A., Alcune riflessioni in tema di sicurezza del lavoro (d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, come modificato dal d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242), in Critica del diritto, 1997, p. 27. In termini più generali, v. anche T. PADOVANI, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, p. 1160 s. (15) V. Cass. pen., sez. IV, 17 aprile 1996, Amenduni e altri, in Giust. pen., 1997, II, c. 515, dove di afferma che l’art. 2087 c.c., pur non contenendo prescrizioni di dettaglio come quelle rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui costituisce norma di chiusura, peraltro comportante a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e protezione a fini individuali. In argomento, tra i primi commentatori del d.lgs. 626/1994, v. T. BAGLIONE, Nuove contravvenzioni a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, Milano, 1995, pp. 7-8. (16) V. Cass. pen., sez. IV, 17 aprile 1996, Amenduni e altri, cit. In argomento, di recente v. C. PIERGALLINI, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di « diritto penale del rischio », in questa Rivista, 1997, p. 1491 s.
— 94 — rato nella giurisprudenza (17), secondo cui i rapporti tra colpa specifica e colpa generica residuale vanno impostati muovendo dal tipo di rischio specificamente fronteggiato dalla regola cautelare positivizzata. Posto che tale operazione ermeneutica risulterà tanto più sicura, quanto più determinata ed esaustiva sarà la cautela positivizzata presa in considerazione, un residuo di responsabilità a titolo di colpa generica sarà configurabile in relazione ai soli profili di pericolosità della condotta intrapresa, non riconducibili allo spettro preventivo della norma positivizzata violata. Infatti, stante il carattere tassativo degli obblighi previsti dal sistema antinfortunistico, l’introduzione giudiziale di altri obblighi liberamente desunti dall’art. 2087 c.c. equivarrebbe alla creazione di una fattispecie colposa per analogia, espressione di un diritto penale che non incarna il limite invalicabile della politica criminale (18), ma che opera piuttosto come un suo efficace strumento nelle mani dell’interprete. 5. Il favore che, in settori come la sicurezza del lavoro, sta incontrando la positivizzazione delle regole cautelari, sotto forma di procedura vincolante per l’organizzazione e lo svolgimento delle attività lavorative pericolose, non deve far perdere di vista che il maggior problema della tipicità colposa rimane l’individuazione delle regole cautelari sociali, il cui ambito d’intervento risulta comprensibilmente ampio. Si prescinda pure dal già considerato fenomeno della colpa generica residuale; è fin troppo chiaro, infatti, che la positivizzazione di tutte le regole cautelari non risulta possibile e nemmeno auspicabile (19). Da qui l’indifferibilità di una, seppur breve, riflessione sui criteri di identificazione della regola sociale. Le soluzioni più ricorrenti elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza sono essenzialmente due. A) Come si è già visto, la prima (anche da un punto di vista cronologico) fa leva sulla prevedibilità, quale criterio di formazione della regola cautelare (20). La teoria della prevedibilità ha l’indubbio merito di cogliere il modus procedendi attraverso cui una regola cautelare viene con(17) Cfr. Pretura Brescia 18 aprile 1994, Faraglia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 377; ID., 28 gennaio 1994, Dallera, ivi, 1994, p. 1188. (18) Il riferimento è al celebre insegnamento di F. VON LISZT, Über den Einfluss der soziologischen und anthropologischen Forschungen auf die Grundbegriffe des Strafrechts, in Strefrechtliche Aufsätze und Vorträge, vol. I, Berlin, 1905, p. 80. (19) Sottolinea che se ne trarrebbero svantaggi sul piano della loro conoscibilità, cfr. G. FORTI, op. cit., p. 324, nota 13. (20) V. già F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, 4 ed., Lucca, 1971, § 83, p. 71 s. Oggi, per tutti, v.: M. GALLO, Colpa penale (dir. vig.), in Enc, dir., vol. VII, 1960, p. 638 s.; G. MARINUCCI, op. cit., p. 177 s.; F. MANTOVANI, op. cit., p. 343; G. MARINI, Lineamenti del sistema penale, 2a ed., Torino, 1996, p. 503; G. CONTENTO, Corso di diritto penale, vol. II, Bari, 1996, p. 139 s. Di recente, v. anche G. FORTI, op. cit., p. 185, nota 88, e p. 201 s., che preferisce parlare di riconoscibilità.
— 95 — cepita sotto il profilo della sua verità esperienziale e della sua efficacia preventiva. In quanto previsione potenziale, infatti, la prevedibilità funge da ponte tra le conoscenze causali disponibili e l’efficacia di un comportamento cautelare assunto in ipotesi. La prevedibilità esprime cioè il grado di fondatezza e le probabilità di successo che caratterizzano l’impiego di un dato comportamento preventivo. Proprio a causa della sua estrema relatività, il giudizio di prevedibilità risulta inidoneo a descrivere in modo determinato regole cautelari consolidate e valide erga omnes. Significative, al riguardo, sono alcune note insufficienze della teoria della prevedibilità-evitabilità, a partire dalle oscillazioni che si registrano in relazione alla misura della prevedibilità. Da qui, un primo interrogativo: occorre far riferimento al parametro della migliore scienza ed esperienza o a quello dell’agente medio? E ancora: quale deve essere il grado di accadibilità dell’evento, sufficiente a farlo ritenere prevedibile? Basta la possibilità della sua verificazione o deve richiedersi una qualche probabilità? Infine, quale regola di comportamento, il criterio della prevedibilità si infrange di fronte a quelle attività pericolose in relazione alle quali un evento dannoso è sempre prevedibile. Qui, la tesi della prevedibilità condurrebbe, di fatto, alla costante interdizione dell’attività pericolosa, posto che solo la regola dell’astensione può assicurare l’evitabilità dell’evento. In breve: la teoria della prevedibilità rischia di amplificare l’indeterminatezza della tipicità della colpa generica. Né deve meravigliare la diffusione che incontra tuttora la teoria della prevedibilità nella giurisprudenza (21). A ben vedere, essa si spiega anche con l’attitudine della prevedibilità a una ricostruzione della regola cautelare, che si presti a un’agevole motivazione della sentenza. Attraverso la modulazione del parametro di prevedibilità e del grado di accadibilità dell’evento, l’interprete può agevolmente costruire ex post la regola cautelare che, considerata ex ante, avrebbe impedito la verificazione dell’evento. B) Un altro criterio di individuazione della regola cautelare sociale, elaborato dalla dottrina e invalso anche nella giurisprudenza, passa attraverso il ricorso alla figura dell’agente modello (22). Si tratta di un parametro dalle chiare ascendenze civilistiche (23), il cui diffuso apprezza(21) Di recente Pretura di Verona, 9 giugno 1994, Ferrari, in Giust. pen., 1995, II, c. 297. V. pure Cass. pen., sez. IV, 1 luglio 1992, Boano, in Mass. Cass. pen., 1993, p. 95; ID., sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti, in Foro it., 1992, II, c. 36. (22) Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, 14 ed., Milano, 1997, p. 371. Amplius, più di recente, G. FORTI, op. cit., p. 237 s. In giurisprudenza, v. Cass. pen., sez. IV, 5 aprile 1996, Rughi, in Giust. pen., 1997, II, c. 240. (23) Culpa abest si omnia facta sunt, quae diligentissimus quisque observaturus fuisset (GAIUS l. 25 § 7 D. locati conducti 19, 2). Per un’applicazione nell’ambito dell’illecito civile extracontrattuale, v., seppure con precisazioni, G. CIAN, Antigiuridicità e colpevolezza. Saggio per una teoria dell’illecito civile, Padova, 1966, p. 236 s. In argomento cfr. anche C. SALVI, Responsabilità extracontrattuale (dir. vig.), in Enc. dir., vol. XXXIX, 1988, p. 1224.
— 96 — mento, nel campo della colpa penale, dipende dalla sua modulabilità in una pluralità di sotto-parametri, ai quali si demanda il compito di mediare tra certezza del diritto e personalità dell’illecito. In particolare, la pretesa di diligenza viene affidata al modello relativistico dell’homo eiusdem professionis et condicionis, che consente di calibrare l’aspettativa di diligenza fatta valere nei confronti dell’agente reale attraverso la previa riconduzione di quest’ultimo alla figura di agente ideale che gli è più prossima (24). In altre parole: per individuare il comportamento diligente doveroso, l’interprete si chiederà come si sarebbe comportato nella situazione concreta l’agente modello di riferimento. Vale la pena di chiarire subito che, nelle esemplificazioni della dottrina e della giurisprudenza, il parametro dell’agente modello risulta per lo più una riedizione affinata della teoria della prevedibilità-evitabilità. Ciò spiega perché i due criteri della prevedibilità e dell’agente modello vengano spesso utilizzati in modo complementare (25). In particolare, allo scopo di tracciare i confini della tipicità colposa, si ricorre alla figura dell’agente modello come parametro per la misurazione della prevedibilità dell’evento (26). In tal modo, si intende ovviare alla segnalata indeterminatezza della teoria della prevedibilità. Sennonché, nel perseguimento di un siffatto obiettivo, il ricorso alla figura dell’agente modello non è privo di inconvenienti. Il riferimento è, soprattutto, allo scarto tra l’agente reale e l’agente sociale preso a modello. In particolare, già al livello della tipicità, il carattere astratto e ideale dell’agente modello favorisce una semplificazione eccessiva dell’accertamento della colpa generica, che finisce per risolversi in una sostanziale fictio iuris. Anche a prescindere dal rischio di forgiare — così facendo — la pretesa di diligenza sul parametro estremo dell’esperto universale (27), è ben vero che, nella giurisprudenza, la figura dell’agente modello è utilizzata più per affermare la responsabilità colposa, che per escluderla, essendo davvero rarissime le sentenze che, in base alla figura (24) In dottrina ad esempio v. G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 495. Nella giurisprudenza, cfr. di recente Pretura di Crema, 12 febbraio 1996, Anele, in Giust. pen., 1996, II, c. 376; nonché: Cass. pen., sez. IV, 28 aprile 1994, Archilei, in Giust. pen., 1995, II, c. 501; ID., sez. IV, 21 ottobre 1993, De Donato, in Cass. pen., 1994, p. 2701. (25) V., del resto, anche la celeberrima definizione di colpa contenuta nel Digesto: culpa est, quod, cum a diligente provideri poterit, non esse provisum (PAU.. L. 31 ad leg. Aquil. 9, 2). (26) Cfr.: G. FIANDACA, E. MUSCO, op. loc. cit.; C. FIORE, op. cit., p. 250. Non meraviglia, dunque, la valorizzazione del criterio dell’agente modello anche da parte degli autori che aderiscono alla teoria della prevedibilità; cfr. per tutti: G. MARINUCCI, op. cit., p. 188 s. e p. 193 s., che considera l’agente modello il condensato dei parametri della prevedibilità ed evitabilità; G. FORTI, op. cit., p. 247 s. Nella giurisprudenza v., tra le prime pronunce in tal senso, Cass. pen., 6 dicembre 1990, Bonetti, in Foro it., 1992, II, c. 36 s. (27) Sul punto, v. M. ROMANO, op. cit., p. 427.
— 97 — dell’agente modello, giungono a negare la tipicità penale (28). Così facendo, la figura dell’agente modello mostra la sua inidoneità a tracciare in modo non preconcetto il discrimine tra fatti colposi tipici e fatti penalmente irrilevanti. Anche il parametro dell’agente modello appare piuttosto un discutibile strumento di politica criminale affidato al giudice, affinché possa agevolmente motivare un’affermazione di responsabilità, già decisa in base ad altri parametri, non ultimo quello che discende da una libera interpretazione del bisogno di pena espresso dal corpo sociale. Questo epilogo non deve sorprendere: a ben vedere, infatti, il parametro dell’agente modello non propone autentiche norme cautelari capaci di integrare e delimitare la tipicità colposa, né sottende una figura sociologica di riferimento, dato che altrimenti, per individuarla, il giudice dovrebbe procedere a un’impraticabile osservazione di intere classi di individui e all’enucleazione di una media comportamentale (29). Nella sua algida e distaccata dimensione normativa, l’agente modello può esprimere più semplicemente regole c.d. ideali (30), ovvero regole che riguardano l’essere (diligenti, prudenti, periti ecc.), non il fare. Ne discende uno spostamento del giudizio dal fatto all’autore, esiziale sotto il profilo penalistico, ma anche facile da spiegare. Come non si manca di osservare, infatti, per quanto dover fare (Tunsollen) e dover essere (Seinsollen) risultino tra loro concettualmente distinguibili (31), vi « è una certa somiglianza tra le regole ideali e le norme tecniche » (32), che può indurre a confonderle. 6. Le insufficienze che affliggono le impostazioni sopra considerate inducono alla ricerca di un diverso criterio di identificazione delle regole cautelari sociali, che ne assicuri la funzione tipizzante e, ancor prima, ne rispetti la natura di regole tecniche, provenienti da una fonte anonima e di per sé non obbligatorie, ma che, in presenza di determinate situazioni di pericolo, l’ordinamento eleva a norme prescrittive. Ebbene, esaminato dall’angolo visuale dell’ordinamento, questo fenomeno risulta tutt’altro che nuovo, specie se si considera che le cautele di fonte sociale sono la cristallizzazione dell’esperienza collettiva in regole comportamentali (33), (28) V. ad esempio Pretura di Caltanissetta, 3 settembre, 1995, Iacolino, in Foro it., 1996, II, c. 520 s., dove, peraltro, il riferimento all’agente modello risulta apodittico e ad abundantiam, dato che la responsabilità dell’imputato viene esclusa sulla base dell’avvenuto rispetto delle leges artis. (29) Cfr. G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urb., 1977-1978, p. 291. (30) Cfr.: G.E. MOORE, The Nature of Moral Philosophy, in Philosophical Studies, 1922, p. 320 s.; G.H. VON WRIGHT, Norma e azione, cit., p. 51. (31) N. HARTMANN, Etica. Fenomenologia dei costumi, trad. it. di V. Filippone Thaulero, Napoli, 1969, p. 227 s. e spec. p. 239 s. (32) Cfr. G.H. VON WRIGHT, op. ult. cit., p. 52. (33) Per tutti, v. G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 488.
— 98 — il cui valore non è universale, ma relativo a determinati ambienti sociali. Si tratta cioè di un tipo di normazione spontanea, che si estrinseca nella formulazione, non scritta, di regole di comportamento, rilevanti in ragione della loro affermazione nella prassi (34). Volendo descrivere il fenomeno nella sua dimensione fattuale, si può dire che, quale che sia il circuito sociale in cui viene a operare l’agente, questi ha come principale modello di riferimento il comportamento di quanti altri hanno svolto e svolgono la stessa attività. Così, il meccanismo che consente di trasmettere al singolo le regole di comportamento maturate sulla base dell’esperienza collettiva risulta funzionale, tra i suoi tanti effetti, anche al contenimento della pericolosità di determinate attività nella misura e nei modi comunemente praticati e accettati. In breve: spingendo a un atteggiamento di conformazione al comportamento della maggioranza, le regole cautelari sociali creano nei terzi l’aspettativa di una certa condotta e — nelle attività pericolose svolte da più soggetti — finanche una posizione di affidamento (35), che non sarebbe ipotizzabile ove la regola cautelare non fosse desunta da un parametro oggettivo e socialmente riconoscibile. Per l’altro verso, esse indicano un ambito di tollerabilità del pericolo che si può anche chiamare rischio (socialmente) consentito (36), ove si precisi che tale nozione non esprime valutazioni autonome e ulteriori rispetto a quelle già condensate nelle regole sociali. Com’è evidente, il fenomeno esaminato si presenta nella forma della consuetudine, ovvero quale fatto normativo spontaneo e anonimo (37), come ordinamento situato all’origine della cultura (38), che — è risaputo — a norma dell’art. 8 disp. prel. può essere fonte del diritto solo in pre(34) Amplius F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, I. La fattispecie, Padova, 1993, p. 242 s. (35) Sull’aspettativa di reciprocità insita nel concetto di consuetudine e nella sua funzione di stabilizzazione e coordinamento delle diverse attività sociali, v. B. CELANO, Consuetudine e norme sulla produzione di norme, in Struttura e dinamica dei sistemi giuridici, a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Torino, 1996, p. 185 s. Da altra angolazione, richiama di recente il profilo intersoggettivo che si accompagna al dovere di diligenza M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 3 e p. 133 s. (a proposito del nesso che intercorre tra l’aspettativa sociale ingenerata dal dovere di diligenza e il principio dell’affidamento). (36) In argomento v. V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 55 e passim. (37) Cfr. ampiamente N. BOBBIO, La consuetudine come fatto normativo, Torino, 1941, passim. V. anche SANTI ROMANO, Consuetudine, in Frammenti di un dizionario giuridico, rist. inalterata, Milano, 1953, p. 45. Per ulteriori rilievi sul carattere normativo dei costumi, quali come prescrizioni o norme anonime, in quanto poste non da un’autorità ma dalla comunità stessa (comprensiva dei suoi membri passati e presenti), cfr. G.H. VON WRIGHT, op. ult. cit., p. 44. (38) Così A. PAGLIARU, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Milano, 1959, p. 175 s., cui si rimanda anche per una disamina dei rapporti tra legge e consuetudine, sotto il profilo delle possibili tensioni esistenti tra due ordinamenti e due culture.
— 99 — senza di un espresso richiamo. Ebbene, nel campo della tipicità colposa, tale richiamo è chiaramente rinvenibile nell’art. 43 c.p., là dove si fa riferimento alla negligenza, all’imprudenza e all’imperizia, quali correlati della condotta colposa. Dal chiarimento del rapporto che intercorre tra soggetto agente e regola cautelare conseguono alcune e non secondarie implicazioni a favore di un più rigoroso metodo di accertamento della colpa generica. E precisamente: una volta acquisito che l’agente si trova in posizione di fruitore della regola cautelare, sarà agevole orientare la ricostruzione interpretativa della tipicità colposa in modo che essa risulti condizionata dalla preesistenza della regola cautelare rispetto alla condotta, quale dato capace di vincolare l’accertamento giudiziale al rispetto della legalità. Ma non è tutto. Va anche considerato che, rispecchiando le valutazioni presuntive di pericolosità effettuate dal corpo sociale, la sussistenza della regola consuetudinaria non impone all’agente il gravoso e sproporzionato compito di verificare la validità empirica della norma di comportamento elaborata attraverso la sedimentazione dell’esperienza collettiva. Infatti, diversamente opinando (39), si finirebbe per ribaltare nella forma e nei contenuti la posizione dell’agente, quale mero fruitore della norma cautelare, chiamato a conformarsi al comportamento della maggioranza e ad evitare pericolosi individualismi. In altre parole: aderendo all’opinione che qui si confuta, ne deriverebbe un’esasperazione della valenza solidaristica insita nel dovere di diligenza, dato che si pretenderebbe dall’agente, non di astenersi dall’aumentare il rischio di lesione per il bene giuridico già tollerato dagli usi, ma di incrementarne le probabilità di salvezza, migliorando l’efficacia delle regole cautelari disponibili. Per evitare tali paradossi, dunque, va riconosciuto che, non diversamente da quanto avviene in presenza di norme cautelari formalizzate, il comportamento conforme agli usi risulterà diligente anche se produttivo di eventi dannosi, la cui verificazione, pertanto, non potrà essere addossata a chi si è adeguato alle regole del corpo sociale, anche ove essa dipendesse dall’erroneità empirica della regola prudenziale. Il criterio proposto consente infine di non punire quei comportamenti puramente maldestri che, mentre risultano espressivi di un mero modo di essere, non sono riconducibili alla violazione di norme di comune prudenza, proprio per la ragione che la loro pericolosità non è fronteggiabile attraverso regole cautelari, né obiettivabile nella categoria dei fatti negligenti. Si faccia il caso di colui che, viaggiando in piedi su un autobus cittadino molto affollato, si sfila di tasca la mano e colpisce col gomito una (39) In dottrina, v. G. MARINUCCI, op. cit., p. 179; G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 489. In termini più generali v. anche D. OEHLER, Die erlaubte Gefahrsetzung und die Fahrlässigkeit, in Festschrift für Eberhard Schmidt, Göttingen, 1961, p. 235 s.
— 100 — signora anziana, fratturandole il setto nasale. L’inesistenza, nel caso specifico, di una regola cautelare, diversa dal più generale dovere di « fare attenzione », non è affatto casuale, trattandosi per l’appunto di fatti, la cui pericolosità è connessa al modo di essere dell’agente, prima ancora che al suo comportamento. Ebbene, la repressione penale di tali fatti potrebbe spiegarsi, non tanto con la necessità di prevenirli, quanto con la preoccupazione di offrire una risposta rassicurante al corpo sociale. 7. La summa divisio tra norme prudenziali positivizzate e usi non esaurisce la classificazione delle regole cautelari. Altre distinzioni si rendono necessarie non tanto per ragioni di completezza, quanto e soprattutto per le conseguenze che ne discendono sul piano della disciplina. A) Deve considerarsi, anzitutto, che, sotto il profilo della tecnica di formulazione, le norme cautelari vanno distinte, a loro volta, in relazione al modo in cui la regola è descritta. Qui vengono in rilievo due categorie di norme prudenziali. Alla prima appartengono le norme cautelari che contengono espressamente la regola di comportamento doverosa, nel senso che indicano in positivo il modo in cui una determinata attività deve essere svolta per contenerne la pericolosità. Alla seconda categoria vanno ricondotte le norme cautelari che pongono la regola modale in modo implicito, ovvero sotto forma di divieto, anche penalmente sanzionato. Almeno in parte, la problematica sottesa a questa seconda categoria di regole cautelari non è nuova. Da tempo, infatti, si discute se possa configurarsi una responsabilità colposa per violazione di una norma penale (40). E al quesito viene data una risposta positiva (41), allorché l’evento si sia verificato in conseguenza della violazione di norme penali aventi funzione preventiva (o meglio: cautelare), talché la responsabilità penale si esprimerà in termini di concorso formale di reati ex art. 81, comma 1, c.p. Il punto però richiede attenzione, dovendosi meglio precisare quand’è che la norma penale presenta un autentico contenuto cautelare. Ebbene, non vi è dubbio che tra le norme penali cautelari rientrino anzitutto le fattispecie incriminatrici, che tipizzano espressamente la violazione di un dato comportamento prudenziale. Non deve meravigliare, dunque, che tali fattispecie siano per lo più omissive. Si pensi, ad esempio, al delitto di cui all’art. 437 c.p., là dove punisce l’omessa collocazione « di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro », e alla contravvenzione di omessa custodia o malgoverno di animali prevista all’art. 672 c.p. Ma può trattarsi anche di norme che, nel momento in cui vietano un dato comportamento, contribuiscono implicitamente a in(40) Cfr. G. LEONE, Il reato aberrante (artt. 82 e 83 cod. pen.), rist. inalterata, Napoli, 1964, p. 113 s. e p. 168 s. (41) Cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 493.
— 101 — dicare il modo in cui l’ordinamento pretende che si svolga una certa attività. L’individuazione di questa tipologia di norme è certamente meno agevole e immediata, poiché si tratta di distinguere due fenomeni, che, in non pochi casi, possono risultare all’apparenza assai simili. E precisamente: da un lato, i casi in cui la norma vieta in radice lo svolgimento di una determinata attività per la sua intrinseca pericolosità, talché — come si è detto — non residua alcuno spazio autonomo per il dovere di diligenza, e dall’altro le ipotesi in cui il divieto non interdice l’attività pericolosa ma solo alcune sue modalità esecutive, con la conseguenza che il divieto può operare come norma cautelare. Com’è intuitivo, la linea di confine tra le due tipologie summenzionate non è tracciabile in base ai contenuti della fattispecie, quali risultano sotto il profilo naturalistico, dato che proprio la dimensione naturalistica accomuna entrambi i tipi di divieti nella categoria dei reati commissivi. Non resta dunque che individuare la portata del divieto in base a un’interpretazione teleologica fondata su tutti gli aspetti della fattispecie, da cui è possibile trarre indicazioni sulla sua ratio di tutela, come quelli che attengono alla struttura dell’incriminazione, alla sua collocazione sistematica, al rapporto con altri reati e all’entità della sanzione comminata, cui spetta un’importanza particolare. In breve: nel rispetto del tenore letterale della legge, l’interprete deve accertare la razionalità immanente nel sistema e, se del caso, perseguirla interpretando la singola norma alla luce dell’intero sistema e ridefinendo il sistema alla luce delle sue componenti. Così, e per fare un esempio, una corretta interpretazione dell’art. 674 c.p. porta ad escludere che il getto pericoloso di cose venga vietato allo scopo di tutelare l’integrità delle persone che possono essere offese dalla condotta tipizzata. Come non si manca di osservare (42), la fattispecie appresta una tutela mediata, nel senso che essa mira più semplicemente a prevenire l’insorgere di situazioni di pericolo per le persone. Ma ciò significa che la norma punisce condotte, già di per sé qualificabili come imprudenti. Ancora più chiaramente, l’art. 675 c.p. specifica espressamente che il collocamento pericoloso di cose è tipico se viene realizzato « senza le debite cautele »; una precisazione, questa, che conferma come la contravvenzione punisca una condotta di per sé negligente, ovvero violatrice di una regola cautelare doverosa. B) In secondo luogo, e per quanto concerne il fondamento preventivo, le regole cautelari possono distinguersi a seconda che la funzione cautelare abbia una copertura scientifico-esperienziale ovvero rifletta (42) Cfr. V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 5 ed., vol. 10, Torino, 1986, p. 458. V. anche G. LOCATELLI, in Codice penale, a cura di T. PADOVANI, Milano, 1997, sub art. 674, p. 2495.
— 102 — un’esigenza puramente organizzativa e ordinatoria (43). Un esempio del primo tipo è costituito dalle leges artis che governano l’attività medicochirurgica. In tali casi, com’è intuitivo, la copertura scientifico-esperienziale è parte integrante della regola e condizione, non solo della sua efficacia, ma anche della sua validità nel tempo. Ne consegue che l’evoluzione della legge di copertura può determinare una modificazione mediata della fattispecie colposa cui afferisce la regola cautelare, con significative ricadute operative sul piano della retroattività. Un esempio del secondo tipo di regola è costituita invece dal dovere per l’automobilista di circolare sulla parte destra della carreggiata e di utilizzare la parte sinistra per il sorpasso (artt. 143, comma 1, e 148, comma 3, cod. strada). Qui la regola cautelare ha natura convenzionale; vale a dire che essa mira a coordinare l’attività pericolosa con altre condotte analoghe, nella premessa che la loro sistematica organizzazione è di per sé un necessario fattore di contenimento della loro pericolosità. Ne consegue che le violazioni di una siffatta regola cautelare rimangono penalmente rilevanti anche se giudicate dopo la sua modificazione. 8. Le regole cautelari dotate di copertura scientifico-esperienziale sono per lo più codificate, nel senso che, proprio in ragione del loro fondamento scientifico-esperienziale, esse assurgono a usi generalizzati. Ciò non esclude, però, che la regola cautelare possa avere natura sperimentale, ovvero che la sua esistenza non origini da una prassi consolidata, ma promani direttamente dalle (superiori) conoscenze causali dall’agente reale e dalle valutazioni di rischio da questi effettuate. Premesso che il fondamento sostanziale di tali norme cautelari si riconnette all’esigenza di non scoraggiare il progresso scientifico, la loro praticabilità dipende, oltre che dalla liceità dell’attività cui esse si riferiscono, dall’assenza di altre cautele di fonte giuridica, che risultino nel caso specifico esaustive e, come tali, vincolanti (44). Last but not least, un’importanza decisiva riveste l’efficacia preventiva, che le regole sperimentali sono in grado di assicurare. A quest’ultimo proposito, per precisare a quali condizioni è consentito l’impiego di nuove regole cautelari, occorre distinguere a seconda dei rapporti intercorrenti tra la regola cautelare, che si intende sperimentare, e i coefficienti di pericolosità della condotta, che la nuova norma di diligenza è chiamata a fronteggiare. Possono verificarsi infatti due diverse situazioni. (43) In argomento v. G. MARINUCCI, op. cit., p. 230. (44) Nel campo dell’attività medico-chirurgica, il problema in esame si riconnette strettamente a quello più generale e dibattuto della libertà terapeutica. Di recente, sul punto, v. le considerazioni di V. FROSINI, Tra diritti individuali e interessi pubblici. Irrisolto il nodo della libertà terapeutica, in Guida al diritto, 31 gennaio 1998, p. 12.
— 103 — Nella prima, la nuova regola cautelare riguarda un’attività, per il cui svolgimento esistono già norme preventive consolidate (si pensi alla sperimentazione della somatostatina quale terapia antitumorale, alternativa alla chemioterapia approvata dalle leges artis). Com’è evidente, ai fini della valutazione della sua efficacia preventiva, la nuova regola trova un imprescindibile parametro di raffronto proprio nelle cautele consolidatesi nell’uso. Ebbene, stante la funzione di orientamento comportamentale che svolge la norma cautelare, si comprende che il raffronto tra regole consolidate e regole sperimentali vada necessariamente impostato in base a un giudizio ex ante. Più precisamente, la sperimentazione della nuova regola esimerà da responsabilità alla condizione che, attraverso una prognosi postuma, la cautela sperimentale offra una probabilità di successo e un’efficacia di tutela almeno pari alla probabilità di successo e all’efficacia di tutela offerte dalla regola consolidata. E perché ciò possa affermarsi, occorre che l’ipotesi cautelare da cui si muove sia stata verificata nello svolgimento di attività analoghe, talché la sua sperimentazione consisterà in definitiva nella sua trasposizione in nuovi settori, che, secondo la migliore scienza ed esperienza, risultano ragionevolmente compatibili con la sua tecnica preventiva. Ma la cautela sperimentale — è questa la seconda situazione da considerare — può riconnettersi allo svolgimento di un’attività essa stessa sperimentale (si pensi ai primi voli dell’uomo nello spazio), vale a dire non assistita da regole cautelari specifiche e consolidate (45). La questione merita però qualche precisazione. Infatti, l’affermazione che una data condotta è pericolosa, da un lato, e la formulazione di regole prudenziali atte a fronteggiare tale pericolosità, dall’altro, sono frutto di valutazioni parallele, basate sullo stesso retroterra di conoscenze. Così, per quanto quest’ultimo possa evolversi nel tempo, in uno stesso momento storico è difficile postulare un giudizio di pericolosità che, quale suo rovescio, non comporti l’enucleazione di una regola prudenziale, diversa dall’astensione. Ipotizzabile è invece il diverso fenomeno che, rispetto a certe attività pericolose, le regole prudenziali formulabili abbiano un grado di affidabilità modesto, trattandosi di attività in relazione alle quali, proprio per via del loro carattere sperimentale, le conoscenze scientifiche che ispirano la regola cautelare non sono state ancora corroborate dall’esperienza (46). In questi casi, cioè, anche le regole cautelari disponibili risul(45) Ammettono questa eventualità: M. GALLO, op. cit., p. 638; G. MARINUCCI, Consuetudine (dir. pen.), in Enc. dir., vol. IX, 1961, p. 508; ID., La colpa, cit., p. 179; G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 489. (46) Da quest’angolazione, dunque, la sperimentazione di un’attività pericolosa non è che il momento finale del controllo di una teoria scientifica. Sul punto v. K. R. PORRER, Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, trad. it. di M. Trinchero, Torino, 1970, p. 12 s.
— 104 — tano sfornite di specifiche conferme empiriche; esse sono formulabili come ipotesi di lavoro, prive di parametri di raffronto consolidati. Nondimeno, per le ragioni che si sono dette, la pericolosità della condotta non fa scattare di per sé l’obbligo dell’astensione in funzione cautelare. Ne consegue che il problema rimane ancora quello di conciliare il diritto alla sperimentazione, quale aspetto della più generale libertà di azione, con il dovere solidaristico dell’alterum non laedere. Ebbene, il punto di equilibrio tra queste due istanze è rappresentato dal protocollo di sperimentazione, che accompagna l’attività autenticamente sperimentale, distinguendola dalla condotta temeraria. Anche qui, dunque, la sperimentazione sarà lecita se risulta assistita da regole cautelari che, per quanto anch’esse sperimentali, sono state preventivamente verificate con successo in relazione ad attività pericolose analoghe a quella intrapresa (si pensi alla sperimentazione dell’attività prima in vivo e poi in homine). Sennonché, l’impossibilità di instaurare un raffronto con norme cautelari già collaudate in relazione alla specifica condotta intrapresa, fa sì che l’efficacia preventiva della cautela sperimentale vada valutata in termini di probabilità di riuscita. Di conseguenza, la sperimentazione sarà consentita nella misura in cui, in base alla migliore scienza ed esperienza del settore, la cautela sperimentale adottata dall’agente risulti ex ante altamente idonea a contenere la pericolosità della nuova attività. In ogni caso, in entrambe le situazioni sopra considerate, il ricorso a regole cautelari sperimentali non può prescindere dal rispetto di un certo tipo di leges artis. Il riferimento è agli usi procedimentali propri della sperimentazione scientifica, a cui devono rapportarsi le valutazioni di rischio effettuate dell’agente reale, in modo da consentirne la controllabilità intersoggettiva, secondo il modello di verifica delle nuove asserzioni scientifiche (47). Naturalmente, ciò non significa che tali procedure non possano essere positivizzate, come avviene, ad esempio, nel campo della sperimentazione farmacologica (48). Né può escludersi che una siffatta soluzione sia preferibile nei casi in cui, per la particolare pericolosità dell’attività, risulti insufficiente la sua sottoposizione solo al rispetto del protocollo di sperimentazione invalso nella prassi (49). Va tenuto presente, comunque, che il frequente ricorso alla regolamentazione positiva dell’attività di spe(47) Su tale profilo v. K.R. PORRER, op. cit., p. 27. In una retrospettiva storica, dedicata alle sperimentazioni di Louis Pasteur e finalizzate alla formulazione generale del principio di immunizzazione, v. anche M. BUCCHI, Gli usi di un fatto scientifico. L’esperimento di Pasteur sul carbonchio nella stampa popolare, in Rass. it. sociologia, 1997, p. 421 s. (48) V. ad esempio il recente D.M. 14 febbraio 1997, « Misure relative all’immissione in commercio e alle sperimentazioni cliniche concernenti medicinali provenienti da materiale di origine bovina ». (49) In tal senso v. F. MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, p. 635 s.; cfr. anche L. CHIEFFI, Ricerca scientifica e tutela della persona. Bioetica e garanzie costituzionali, Napoli, 1993, p. 222.
— 105 — rimentazione riflette una concezione della ricerca scientifica come settore riservato all’oligarchia degli scienziati togati. Diversamente, un atteggiamento meno interventista dell’ordinamento giuridico mira a non precludere la diffusione sociale delle iniziative di sperimentazione, fermo restando che, anche ai fini della responsabilità colposa, la validità delle regole cautelari sperimentali debba misurarsi alla stregua di un parametro scientifico obiettivo. Come si vede, dunque, anche le regole cautelari sperimentali non risultano del tutto svincolate da quei particolari tipi di leges artis, che costituiscono il protocollo di sperimentazione, ovvero il modello metodologico della loro verifica. Per contro, a differenza delle cautele stricto sensu sociali, le regole sperimentali non possono prescindere dal giudizio di prevedibilità-evitabilità, senza il quale non sarebbe ipotizzabile il consapevole trasferimento di un’esperienza maturata in un dato settore in un altro analogo. Dovrebbe esser chiaro, però, come questo procedimento non vada confuso con la mera intuizione creativa del singolo agente, che perviene alla scoperta di una nuova cautela. Infatti, come insegna la filosofia della scienza, per la ricostruzione razionale del metodo che conduce a una nuova verità, decisiva è l’impalcatura logica della procedura di controlli, che consente di affermare che l’elemento (anche irrazionale) dell’intuizione porta a una scoperta scientifica (50). Al di fuori di questo tipo di analisi, la mera ricostruzione fattuale dei « processi che entrano in gioco quando si stimola o si dà sfogo a un’ispirazione » interessano la psicologia empirica (51), non anche l’acquisizione scientifica e conseguentemente, per quel che qui più interessa, la regola cautelare che da essa si desume. Altra questione, infine, è quella che attiene al potere del soggetto, su cui si dirige il fattore di rischio insito nell’attività pericolosa, di autorizzare l’uso di regole cautelari sperimentali. Si tratta di un profilo che, presentando evidenti connessioni con il potere di disporre del proprio corpo, risulta intuitivamente complesso. È chiaro però che sensibilmente diversi saranno gli esiti del problema a seconda che si muova dal principio dell’indisponibilità dei beni della vita e dell’integrità fisica o da quello opposto del diritto di morire e di disporre della propria salute (52). Infatti, premessa la necessità del consenso del soggetto interessato, nel primo caso il consenso non potrebbe comunque spingersi fino a legittimare la sperimentazione di una regola cautelare che, ex ante, non presenta elevate probabilità di successo e un’altrettanto spiccata efficacia preventiva. (50) Cfr. K.R. PORRER, op. cit., p. 10 s. e p. 27. (51) Cfr. K.R. PORRER, op. loc. cit. (52) Per la prima soluzione v. per tutti F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona, Padova, 1995, p. 92 s. Diversamente, v. S. SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in questa Rivista, 1995, p. 727 nonché F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, ivi, 1997, p. 89 s.
— 106 — 9. Le regole cautelari vanno esaminate infine sotto altri due profili, che attengono al modo in cui esse svolgono in concreto la loro funzione preventiva. A) In relazione al grado della loro efficacia preventiva, le norme cautelari si distinguono a seconda che eliminano il rischio di verificazione dell’evento ovvero consentono soltanto di ridurlo (53). Oltre a essere più frequenti, le regole del secondo tipo possono rendere problematico il loro concorso con norme prudenziali fornite di una maggiore efficacia preventiva. Ebbene, la convergenza di più norme cautelari va risolta a favore della regola più efficace, salvo che la meno efficace sia imposta da una fonte sovraordinata. In tal caso, però, non può escludersi un residuo di responsabilità per colpa generica ove, nonostante l’osservanza della regola cautelare giuridica, sia addebitabile all’agente la violazione di una cautela sociale (avente un contenuto preventivo, non solo non contrastante con quello della regola cautelare giuridica, ma anche differente rispetto ad esso), che avrebbe potuto impedire la verificazione del fatto colposo. Ancora una volta, dunque, decisivo e prioritario — nei termini che si sono già chiariti — sarà l’esame sia del fattore di rischio preso in considerazione dalla cautela positivizzata, sia del grado di esaustività di quest’ultima nell’indicare il comportamento doveroso. B) Sotto il profilo della loro finalità preventiva, poi, le regole cautelari si distinguono a seconda che siano finalizzate a contenere la pericolosità della condotta del soggetto gravato dal dovere di diligenza o quella altrui. Quest’ultimo tipo di cautele merita particolare attenzione, anche per i riflessi che ne discendono nel campo della cooperazione colposa. Più precisamente, bisogna distinguere in relazione al modo in cui la regola cautelare mira a prevenire la pericolosità dell’altrui condotta. Ebbene, qui vengono in rilievo due tipologie di regole cautelari. La prima è quella delle regole prudenziali che intervengono direttamente a disciplinare l’altrui attività pericolosa, talché la loro violazione dà luogo alla c.d. culpa in vigilando. Si tratta di un fenomeno che tende ad assumere un’importanza crescente. Infatti, come si è avuto modo di anticipare, la recente legislazione in materia di sicurezza del lavoro ha introdotto, in capo al datore di lavoro, una dettagliata serie di obblighi cautelari di tipo antinfortunistico, finalizzati a contenere la pericolosità dell’altrui attività produttiva, e nel cui ambito è possibile distinguere ulteriormente tra regole prudenziali che attengono all’organizzazione dell’attività pericolosa e regole che si riferiscono invece solo all’esecuzione dell’attività (53) In argomento, v. G. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte della « imputazione oggettiva dell’evento » e sua trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, pp. 23-24.
— 107 — lavorativa. Com’è intuitivo, particolare interesse rivestono soprattutto le norme prudenziali del primo tipo, dato che esse impongono, al soggetto su cui grava il dovere di diligenza, il rispetto e la concretizzazione di determinate procedure preventive, imposte dalla legge. Volendo, si può parlare, in tali casi, di regole cautelari di natura procedimentale, non tanto per soddisfare un’esigenza puramente definitoria, quanto per sottolineare le conseguenze che possono derivare dalla violazione di tale tipo di cautela. Ed invero, la negligenza del datore di lavoro, che erra nella valutazione dei rischi insiti nell’attività produttiva e conseguentemente nell’individuazione delle cautele adeguate, si riflette sull’attività di quanti sono tenuti all’esecuzione del piano di sicurezza, rendendola oggettivamente contraria al dovere di diligenza. Si tratta cioè di una negligenza che, proprio in quanto destinata a sfociare in una forma di cooperazione colposa, impone di valutare i margini di sindacabilità del piano di sicurezza, elaborato dal datore di lavoro, da parte dei soggetti tenuti alla sua attuazione. La seconda tipologia di regola prudenziale riguarda invece quelle norme prudenziali che operano in un momento precedente all’inizio dell’attività pericolosa, nel senso che orientano la scelta dei soggetti ai quali è possibile affidare lo svolgimento di tali attività. Secondo una consolidata terminologia di origini civilistiche, la violazione delle regole cautelari anzidette dà luogo alla c.d. culpa in eligendo. Ebbene, considerata sotto il profilo dei suoi criteri di identificazione, questa tipologia di norme prudenziali non ha una sua autonomia: le caratteristiche che deve possedere un determinato soggetto, perché gli si possa affidare lo svolgimento di un’attività pericolosa, o sono stabilite in norme cautelari giuridiche o vanno ricavate in base agli usi che si sono consolidati, non diversamente da quanto avviene per tutte le norme cautelari di fonte sociale. In ogni caso, se il soggetto cui viene affidato lo svolgimento dell’attività pericolosa è a ciò abilitato dalla legge, non può pretendersi in capo al delegante un accertamento delle capacità del delegato, che si spinga oltre la verifica dei requisiti formali che ne attestano l’abilitazione. Qui opera, dunque, il principio dell’affidamento, come espressione dell’aspettativa dell’altrui diligenza. Diversamente la culpa in eligendo del soggetto delegante concorrerà con quella, eventuale, del soggetto delegato ai sensi dell’art. 113 c.p. 10. La violazione della regola cautelare doverosa non è tuttavia ancora sufficiente a fondare una responsabilità penale a titolo di colpa. Per opinione oramai unanime occorre altresì che il giudice determini la misura di diligenza pretendibile, nel caso concreto, dall’agente concreto. Ebbene, questo riferimento all’agente reale ha indotto la dottrina prevalente a ritenere che la modulazione del dovere di diligenza sia la strada attraverso cui vada perseguito l’obiettivo della personalità dell’illecito colposo. Non a caso il problema dell’individualizzazione del dovere di diligenza
— 108 — viene per lo più trattato a proposito della colpevolezza del delitto colposo (54). Sennonché, a ben vedere, la tematica della misura della diligenza svolge la sua funzione, più che nell’ambito della colpevolezza del delitto colposo, ancora al livello della tipicità (55). Bisogna tenere presente, infatti, che per lo svolgimento di determinate attività è l’ordinamento stesso che richiede espressamente una particolare misura di diligenza. Essendo collegata al tipo di attività intrapresa, la misura della diligenza risulta fissata in astratto, ovvero con riferimento a quanti intendono svolgere quella data attività pericolosa, e a prescindere dalle caratteristiche dell’agente concreto. Si pensi al disposto dell’art. 1618 c.c., che impone all’affittuario di una cosa produttiva una diligenza qualificata, consistente nel rispetto delle regole della « buona tecnica ». Ebbene, ove, venendo meno al proprio dovere di diligenza, l’affittuario provochi lesioni personali a terzi, la misura di diligenza, espressamente pretesa dall’ordinamento, non soggettivizza la responsabilità penale, ma fonda la tipicità colposa su una particolare misura di diligenza diversa da quella indicata dagli usi sociali e anche più rigorosa di quest’ultima. Un’analoga afferenza al piano della tipicità — in chiave però delimitativa — deve riconoscersi pure al disposto dell’art. 2236 c.c., là dove stabilisce che, in presenza di problemi tecnici di particolare difficoltà, la responsabilità del prestatore d’opera intellettuale è circoscritta al dolo e alla colpa grave (56). D’altro canto, tra i sostenitori della c.d. doppia misura della colpa non manca chi ammonisce a non sopravvalutare i risultati ottenibili sul versante della personalità dell’illecito attraverso il ricorso alla misura c.d. soggettiva della colpa (57). Si insiste infatti sui limiti logici insiti nella individualizzazione della colpa. Il riferimento è all’impossibilità di giudicare la concreta adempibilità del dovere di diligenza, assumendo come parametro di giudizio l’agente hic et nunc (58). Da qui, la necessità, da più parti segnalata, di individuare un parametro di giudizio pur sempre astratto, (54) Cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 510. Quanto alla ragione della minore gravità del rimprovero a titolo di colpa, rispetto a quello a titolo di dolo, la si collega di solito al maggior grado di dominabilità che caratterizza il fatto doloso; da un’angolazione generale, v. sul punto A. FIORELLA, Reato in genere, in Enc. dir., vol. XXXVIII, 1987, p. 800. In argomento, diffusamente v. anche M. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, p. 87 s. (55) Per una ricapitolazione del problema, v. A.R. CASTALDO, « Non intelligere quod omnes intelligunt ». Objektive Zurechnung und Maßstab der Sorgfaltswidrigkeit beim Fahrlässigkeitsdelikt, München, 1992, p. 66 e passim. (56) Sul punto, v. da ultimo A. MANNA, Questione n. 49, Colpa professionale, in Studium iuris, 1996, p. 340. (57) Cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 511. (58) Cfr. G.V. DE FRANCESCO, op. cit., p. 339.
— 109 — ma ad un tempo relativo, capace cioè di verificare se l’adempimento della misura obiettiva di diligenza era pretendibile dal modello di agente a cui è riconducibile l’agente reale. Come si è anticipato, in tale prospettiva, la dottrina ricorre alla figura dell’homo eiusdem condicionis et professionis allo scopo precipuo di introdurre nel sistema un secondo livello di analisi, destinato alla individualizzazione del giudizio di responsabilità penale, che è già stato fondato sulla base della pretesa di diligenza, espressa in termini impersonali al livello della tipicità. È chiaro, però, che, così opinando, si finisce per proporre un confronto tra due parametri pur sempre astratti e oggettivi: l’uno imposto erga omnes dalla regola cautelare, l’altro relativo, valido cioè per classi di soggetti, aventi determinate caratteristiche. Non a caso, il parametro di raffronto è costituito ancora una volta dalla figura dell’agente modello, che, sul versante della colpevolezza, amplifica gli inconvenienti connessi alla sua difficile predeterminabilità, e già esaminati sul terreno della tipicità, consentendo di costruire sui meriti dell’agente ideale la colpevolezza dell’agente reale. Non resta, dunque, che constatare come l’efficacia individualizzante della c.d. misura soggettiva si esaurisca in una relativizzazione della pretesa comportamentale, talché, anche ove la si accogliesse, essa opererebbe in definitiva come correttivo della tipicità colposa. 11. Sulla scorta delle considerazioni che precedono, è giocoforza chiedersi se, nell’ambito della responsabilità colposa, esista uno spazio per un autentico giudizio di colpevolezza o se, come non si è mancato di osservare con estremo disincanto (59), la personalità dell’illecito colposo sia destinata a restare, almeno per il momento, null’altro che una nobile aspirazione. Il problema è tutt’altro che semplice e risulta amplificato dalla difficoltà di far penetrare nella struttura normativa della colpa le caratteristiche e le capacità dell’agente hic et nunc, e non quelle di un suo simulacro. Com’è intuitivo, infatti, se si vogliono scongiurare sia esiziali presunzioni di evitabilità del fatto colposo, sia ingiustificate esenzioni da responsabilità, non potrà non tenersi conto di tutti i parametri desumibili dal quadro di vita dell’agente reale, come le conoscenze di cui disponeva al momento del fatto, il livello di istruzione nonché la sua esperienza in relazione al tipo di attività intrapresa o ad una analoga. Ebbene, i parametri che, in tal modo, possono desumersi dall’anamnesi delle effettive conoscenze ed esperienze dell’agente sono essenziali ai fini di una triplice valutazione. (59) Così G. FIANDACA, Evoluzione e profili attuali della responsabilità per colpa, relazione svolta all’Incontro di studio, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, sul tema « La responsabilità penale per colpa professionale » (Frascati, 21-23 aprile 1997). Nello stesso senso, già H. MANNHEIM, Der Maßstab der Fahrlässigkeit im Strafrecht, Breslau, 1912, p. 41 s.
— 110 — La prima riguarda la conoscenza della regola cautelare doverosa o almeno la sua conoscibilità. L’importanza di questa verifica è di tutta evidenza, essendo indubbio che là dove, per ignoranza della regola prudenziale, il dovere di diligenza non può avere efficacia motivante, anche la comminatoria di pena, che si riconnette all’inosservanza della cautela doverosa, non è in grado di svolgere la sua funzione preventiva. Ne consegue che, nel delitto colposo, l’ancoraggio della colpevolezza al requisito della scientia iuris non può avere come raggio di azione la sola norma incriminatrice di parte speciale, che delinea l’ossatura della fattispecie colposa, ma deve estendersi anche alla regola cautelare (sia essa giuridica o sociale). Vale a dire che, sul piano del diritto positivo vigente, l’errore e l’ignoranza che interessano la regola cautelare si risolvono, ai sensi dell’art. 5 c.p., in un error iuris, che investe la fattispecie colposa nel suo complesso. Ma non è tutto: richiamare l’importanza del quadro di vita dell’agente reale, quale parametro di valutazione della conoscibilità della regola cautelare, significa escludere che in questo campo possa riproporsi la figura dell’agente modello come criterio di accertamento dell’evitabilità dell’error iuris, secondo l’orientamento invalso nella giurisprudenza (60). Per una corretta impostazione del problema, dovrà distinguersi piuttosto a seconda che la regola prudenziale sia posta in essere da una fonte giuridica esaustiva ovvero abbia natura sociale. Nel primo caso, infatti, i criteri di evitabilità dell’ignorantia legis non potranno essere diversi da quelli che decidono della conoscibilità della norma penale, nel cui ambito viene incorporata la norma cautelare. In particolare, dovrà considerarsi se l’agente concreto era in grado di superare i possibili ostacoli, che possono impedire o rendere più difficoltose l’individuazione e la comprensione della fonte produttiva della regola cautelare. Nel caso di norme prudenziali di fonte sociale, si tratterà invece di accertare la conoscibilità della consuetudine cautelare come fonte di cognizione giuridica (61): ovvero se le cautele doverose rientravano o meno nel bagaglio conoscitivo dell’agente reale, o quantomeno nell’ambito delle conoscenze cui questi poteva pervenire sulla base della trasposizione delle esperienze preventive maturate nello svolgimento di attività consimili. La seconda valutazione attiene al riconoscimento, da parte dell’agente concreto, della situazione di pericolo, che rende attuale il dovere di (60) Cfr. Cass. Sez. Un., 10 giugno 1994, Calzetta, in Foro it., 1995, II, c. 154 s, con nota di E. BELFIORE, Brevi note sul problema della scusabilità dell’« ignorantia legis »; da ultimo Cass. pen., sez. III, 27 maggio 1996, Gatto, in Cass. pen., 1997, p. 1725, con nota di M.G. ROSA, Ignoranza scusabile della legge penale. In argomento, volendo, v. F. GIUNTA, in Codice penale, a cura di T. Padovani, Milano, 1997, p. 43 s. (61) Su questa funzione della consuetudine, riconosciuta, peraltro, anche da chi nega che la consuetudine sia una fonte di produzione del diritto, cfr., per tutti, N. BOBBIO, Consuetudine (teoria gen.), in Enc. dir., vol. IX, 1961, p. 127.
— 111 — diligenza. Com’è intuitivo, questo accertamento si impone tanto nei casi in cui la norma cautelare contenga la descrizione dei suoi presupposti operativi, quanto nelle ipotesi in cui la regola prudenziale si limiti a indicare solo il comportamento doveroso. In entrambi i casi è sempre e soltanto l’esperienza individuale, che consente ad ogni consociato di riconoscere la sussistenza dei requisiti di pericolo, che, descritti dalla norma prudenziale o in essa impliciti, ne rendono obbligatorio l’impiego. Invero, le capacità di percezione dell’operatività della regola cautelare esprimono un grado di evitabilità del fatto colposo, che varia da soggetto a soggetto e funge da presupposto al divieto espresso nella fattispecie incriminatrice, quale risulta anche dal contributo descrittivo offerto dalla regola oggettiva di diligenza violata. Discendendo direttamente dal principio dell’alterum non laedere, che informa l’intero ordinamento e trova una formulazione generale nell’art. 2043 c.c., la prima condizione di evitabilità del fatto colposo ha dunque una dimensione pretipica, nel senso che rileva in un momento logicamente e cronologicamente precedente a quello in cui la regola cautelare svolge la sua funzione preventiva. In altre parole: il riconoscimento della situazione di pericolo, che rende doverosa la regola cautelare, costituisce il presupposto soggettivo dell’evitabilità oggettiva espressa per l’appunto dalla norma prudenziale. Si comprende dunque che, nell’individuazione dei presupposti operativi della regola cautelare, l’agente ha l’obbligo di utilizzare, nella massima misura e quali risultano dall’anamnesi del suo quadro di vita, tutte le conoscenze di cui dispone, anche quelle che, attenendo alla sua scienza privata, non sono generalizzabili. Così, e per fare un esempio, se un automobilista sa che, in prossimità della strada dove sta transitando, dei bambini sono soliti giocare a pallone, tale consapevolezza è sufficiente a far scattare la doverosità della regola cautelare, che nella specie impone di rallentare l’andatura in modo da poter frenare in tempo, ove uno dei bambini attraversi d’improvviso la strada per rincorrere il pallone (62). La terza valutazione, da effettuarsi in relazione alle caratteristiche dell’agente concreto, mira invece ad appurare se l’agente era in grado di corrispondere all’aspettativa di comportamento espressa dalla regola cautelare. È a questo proposito che, di solito, la dottrina pone il problema delle capacità superiori dell’agente. A ben vedere, però, la questione non ha ragion d’essere. Infatti, ai fini del giudizio di colpevolezza, ciò che importa appurare sono le capacità sufficienti ad adempiere, non quelle superiori, come tali irrilevanti in misura della loro eccedenza rispetto alla pretesa comportamentale fatta valere dalla norma cautelare. Il dovere di solidarietà che grava sull’agente, infatti, è quello di dare il meglio di sé nei li(62) Cfr. per tutti: H.H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, Allg. Teil, 5 ed., Berlin, 1996, p. 579; K. KÜHL, op. cit., p. 525 s.
— 112 — miti, non oltre, della misura fissata nella regola. Ne consegue che, come fattore di esclusione della colpevolezza, rileverà semmai la mancanza nell’agente proprio delle capacità di adempiere al tipo di comportamento preventivo imposto dalla regola cautelare. D’altro canto, se con il riferimento alle capacità superiori dell’agente si alludesse alla circostanza che l’agente concreto possiede conoscenze precauzionali maggiori e più efficaci di quelle contenute nella regola cautelare, a ben vedere si finisce per ritornare a un profilo di cui si è già detto. E precisamente: nell’ambito della tipicità colposa le norme cautelari sono regulae iuris, che l’agente ha l’obbligo di osservare, ma non di verificare, né di potenziare sotto il profilo della loro efficacia preventiva. Pertanto, l’agente dotato di conoscenze e capacità superiori ha certamente la facoltà di utilizzarle, discostandosi dagli usi consolidati e sempre nel rispetto del protocollo di sperimentazione, ma non è obbligato a farlo sotto la minaccia della pena (63). Se così non fosse, infatti, si negherebbe il senso profondo dell’acquisita afferenza della diligenza oggettiva al livello della tipicità: ovverosia la sua funzione di mediazione tra l’istanza di tutela del bene e il principio del favor libertatis. Va anche detto, però, che vi sono casi-limite in cui questa impostazione dell’evitabilità soggettiva del fatto colposo, attenta alle capacità reali dell’agente hic et nunc, non riesce a soddisfare compiutamente un’autentica istanza di colpevolezza. Di per sé, infatti, il quadro di vita dell’agente non consente di dare rilievo a situazioni contingenti, che incidono sensibilmente sull’evitabilità in concreto del fatto. In particolare, vengono qui in rilievo due ipotesi, la prima delle quali si caratterizza per l’improvvisa insorgenza di fattori di sconvolgimento emotivo, che possono determinare una comprensibile incapacità di adeguarsi alla pretesa di diligenza, ma che — è noto — nel nostro ordinamento non hanno rilevanza per via dello sbarramento contenuto nell’art. 90 c.p. Si pensi alla madre che, sconvolta dalla notizia del figlio morente, accorre al suo capezzale scordando di legare alla catena il cane mordace, che più tardi assalirà nel cortile condominiale la vicina di casa. Com’è intuitivo, siamo in un campo dove solo un giudizio di inesigibilità in concreto, avente ad oggetto il comportamento doveroso e certamente possibile, può sottrarre l’agente alla sanzione. Non a caso l’inesigibilità viene indicata come uno dei contenuti emergenti del giudizio di colpevolezza nel reato colposo, anche se su un siffatto epilogo pesano le note riserve (63) fiche.
Così anche M. ROMANO, op. cit., pp. 427-428 con ulteriori indicazioni bibliogra-
— 113 — che originano dalla natura di scusante extralegale, propria dell’inesigibilità (64). Una seconda ipotesi problematica attiene a quel complesso di disturbi lato sensu psichici, che, non assurgendo a infermità, non escludono l’imputabilità, ma che di fatto possono ridurre l’evitabilità del fatto colposo, nella misura in cui incidono soprattutto sulla capacità di percezione dei presupposti operativi del dovere di diligenza (si pensi agli stati nevrotici e depressivi non gravi). È questo un profilo della personalità dell’illecito colposo sacrificato, oggi, da una concezione legislativa e dogmatica dell’imputabilità costruita sul tipo di evitabilità che caratterizza l’illecito doloso, ovvero su un modello di evitabilità che si fonda sulla semplice non-volontà del fatto tipico. 12. Resta da considerare un ultimo profilo della tematica: quello che comunemente va sotto il nome di colpa per assunzione (65). Come noto, con questa espressione si fa riferimento all’ipotesi in cui l’agente affronti un’attività pericolosa, che non è in grado di svolgere nel rispetto del dovere di diligenza. Da qui — secondo la dottrina dominante — la responsabilità dell’agente, una volta che si produca l’evento tipico; nella sostanza, gli si rimprovera di aver violato la regola (cautelare) dell’astensione. Muovendo, per lo più, dal tradizionale ancoraggio della responsabilità colposa alla teoria della prevedibilità, si imputa cioè all’agente di aver intrapreso l’attività pericolosa senza rendersi conto della propria inadeguatezza, o peggio, nella consapevolezza di ciò, ma confidando nella buona sorte. Ebbene, così ragionando, si perviene all’affermazione della responsabilità penale sulla sola base del confronto tra la pretesa comportamentale fatta valere dall’ordinamento e l’incapacità dell’agente di soddisfarla. Sennonché, anche le ipotesi di colpa per assunzione possono essere correttamente affrontate senza ricorrere all’artificio della regola dell’astensione, e per altro verso, senza creare pericolosi e ingiustificati ambiti di impunità per chi, dopo aver agito temerariamente, eccepisca pretestuosamente, a sua discolpa, proprio l’incapacità di adeguarsi al dovere di diligenza. Ed invero, per una corretta impostazione del problema, deve considerarsi che nei casi di colpa per assunzione è agevole scorgere nel comportamento dell’agente un vizio di presunzione in ordine alle proprie capacità, nel senso di un’eccessiva stima di sé. Per essere giuridicamente rilevante, è sufficiente che un siffatto errore di valutazione si manifesti in relazione (64) In argomento, v. G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, p. 157 s. (65) Cfr. per tutti F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 347. Nella manualistica tedesca, v. di recente K. KÜHL, op. cit., p. 526.
— 114 — a uno dei tre requisiti, da cui dipende il giudizio di colpevolezza nel delitto colposo: la conoscenza della regola cautelare, la riconoscibilità della situazione di pericolo, la capacità di soddisfare la pretesa comportamentale (o — nelle attività sperimentali — di formulare la regola cautelare). Ebbene, decisivo, ai fini di un’affermazione della responsabilità, sarà ancora una volta il quadro di vita dell’agente reale: solo se le sue conoscenze, maturate nello svolgimento di attività analoghe, gli avrebbero consentito di comprendere la propria inettitudine, allora la scelta di svolgere l’attività pericolosa costituisce un abuso del diritto di libertà, evitabile dall’agente e dunque a lui ascrivibile come colpevole. Se, invece, l’agente non era in grado di rendersi conto della propria incapacità, la pericolosità della condotta risulta il riflesso di una pericolosità puramente soggettiva, non limitabile attraverso il dovere di osservanza di norme cautelari, ma contenibile solamente attraverso strumenti di neutralizzazione della pericolosità per il modo di essere, estranei a un diritto penale del fatto. Questa conclusione, però, non ha un valore assoluto. Deve considerarsi, infatti, che esistono attività pericolose, che presentano una duplice caratteristica, la prima delle quali è che il loro svolgimento è subordinato alla previa esistenza di un atto di abilitazione o di autorizzazione. Evidentemente, si tratta di attività, che, per importanza e grado di pericolosità, l’ordinamento non rimette esclusivamente alla libera determinazione del soggetto agente. Ai fini di un eventuale giudizio di colposità, ciò non significa, però, che chi si accinge a tali attività deve essere necessariamente abilitato o autorizzato, ma più semplicemente che lo svolgimento delle attività in questione debba avvenire nel rispetto di quelle leges artis, cui l’abilitazione o l’autorizzazione fanno riferimento, anche in modo solamente indiretto. Passando alla seconda caratteristica delle attività in esame, va anche detto che esse possono risultare doverose, nella misura in cui il loro svolgimento rientra nel fascio degli obblighi, che derivano dall’esistenza di una determinata posizione di garanzia. Ebbene, in questi casi, per via del rapporto che si instaura tra il dovere di azione e quello di diligenza, si viene a delineare una situazione del tutto particolare. Infatti, mentre nello svolgimento delle attività pericolose lecite, il rispetto del dovere di diligenza è la condizione cui è subordinato l’esercizio della libertà di azione, nelle attività pericolose doverose, che presentano i caratteri anzidetti, il rispetto del dovere di diligenza è una delle condizioni che consente di ritenere adempiuto l’obbligo di agire. In breve: in queste situazioni l’ordinamento crea le premesse per una responsabilità da posizione, alla quale il soggetto, che viene a trovarsi nel ruolo di garante, non può sottrarsi avvalendosi della facoltà di non agire, né eccependo la propria incapacità di conformarsi alle leges artis, ma solo agendo diligentemente in modo da impedire l’evento. Vi è da chiedersi, però, se e come una siffatta responsabilità da posizione, frutto del connubio solidaristico tra il dovere di agire e
— 115 — quello di diligenza, si concili con il principio di colpevolezza. La risposta, intuitivamente problematica, non sembra dipendere soltanto dall’elaborazione di particolari e ulteriori parametri in base ai quali misurare l’adempibilità della pretesa di diligenza nelle attività doverose. Un ruolo decisivo va riconosciuto all’assenza — tanto nell’assunzione della posizione di garanzia, quanto nel momento dell’adempimento della pretesa di diligenza — di situazioni obiettivamente impeditive o condizionanti, tali da escludere la stessa configurabilità dei presupposti di una responsabilità da posizione. FAUSTO GIUNTA Straordinario di Diritto penale nell’Università di Ferrara
CORRUZIONE E FINANZIAMENTO ILLEGALE AI PARTITI (*)
SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. Il delitto di corruzione nella sua configurazione tradizionale: il ‘‘perno’’ dell’atto dell’ufficio. - 2.1. Da ciò la distinzione tra corruzione propria ed impropria, antecedente e susseguente. - 2.2. Progressiva, recente erosione dell’oggetto del pactum sceleris, con riguardo alla sufficienza del riferimento alla ‘‘funzione’’ esercitata dal pubblico agente. - 2.3. Singolare analogia con alcune recenti esperienze normative straniere: in particolare, il nuovo c.p. francese, ove è prevista soltanto la distinzione tra corruzione attiva e passiva ed il c.p. tedesco riformato nel ’97, ove l’indebita accettazione di utilità in relazione al servizio ha ‘‘integrato’’ il riferimento all’atto di ufficio nell’ambito della corruzione impropria. - 2.4. Il punto di arrivo di tale ‘‘evoluzione’’: il Progetto del ‘‘Pool Mani Pulite’’, con la proposta di introduzione di un’unica fattispecie di corruzione, ed il possibile contrasto con il principio di uguaglianza. - 2.5. Riflessi sul bene giuridico tutelato: dall’art. 97 Cost. alla violazione del rapporto di fiducia dei cittadini verso la P.A. - 2.6. Il risultato ultimo di tale ‘‘evoluzione’’: verso il c.d. delitto di infedeltà. — 3. Il delitto di illegale finanziamento ai partiti nella sua evoluzione storica. - 3.1. Rapporti tra il bene giuridico protetto e la struttura della fattispecie criminosa. - 3.2. Le perplessità di ordine costituzionale, in relazione soprattutto ai principi di uguaglianza ed offensività. - 3.3. La questione relativa alla sua opinata abolitio. - 3.4. Le prospettive di depenalizzazione e le loro ‘‘controindicazioni’’, derivanti sia dal rango del bene protetto che, soprattutto, da preoccupazioni di tipo ‘‘processuale’’. — 4. Corruzione e finanziamento illegale: concorso di reati o di norme? — 5. Conclusioni.
1. Introduzione. — Le fattispecie di corruzione (1), disciplinate dagli articoli dal 318 al 322 del c.p. come modificati ed integrati dalla legge 86 del 1990 (2), e quelle di illecito finanziamento ai partiti politici, rego(*) Il presente saggio, che costituisce uno frutti di una ricerca collettiva franco-italiana sul ‘‘Prezzo della corruzione’’ diretta dai Proff. Ducóulóux Favard e Caraccioli, è destinato agli Studi in memoria del Prof. Gian Domenico Pisapia. (1) Sul delitto di corruzione, dopo la riforma del 1990, cfr., tra gli altri, DUPUIS, La corruzione, Padova, 1995; FORTI, La corruzione del pubblico amministratore. Linee di un’indagine interdisciplinare, Milano, 1992; SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in questa Rivista, 1993, p. 951; GROSSO, Corruzione, in Dig. Disc. pen., III, Torino, 1993, p. 153; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la pubblica amministrazione, 8a ed., Milano, 1998, p. 143; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, I, 2a ed., Bologna, 1997, p. 211; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, 11a ed., Milano, 1995, p. 301. (2) Sulla riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, cfr., AA.VV., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, a cura di Padovani, Torino, 1996; AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di Coppi,
— 117 — late dal combinato disposto della legge 195 del 1974 e della legge 659 del 1981 (3), sono state quelle poste ad oggetto (insieme alla concussione) delle indagini giudiziarie che a partire dai primi anni ’90 (4), hanno consentito l’esplorazione del fenomeno di ‘‘Tangentopoli’’, ovverossia di un sistema di corruttela degli apparati pubblici così generalizzato da divenire prassi consolidata, al punto che il suo disvelamento e le conseguenze dello stesso, tanto in termini giuridici quanto politici (un intero ceto dirigente è stato rimosso dalla scena politica nazionale) sono stati qualificati come una autentica, ed originale ‘‘rivoluzione giudiziaria’’. L’applicazione di queste disposizioni incriminatrici negli ultimi anni ha così assunto caratteri di ‘‘straordinarietà’’, sotto il profilo delle conseguenze sociali, tali da evidenziare, a parere di una parte consistente della magistratura inquirente, di alcuni settori della dottrina e di certe forze politiche, l’esigenza di una radicale modifica delle norme in esame, al fine di adeguarle al reale disvalore dei fenomeni scoperti e di assicurarne una maggiore efficacia, in modo da evitare che, nel futuro, si ripetano le incresciose degenerazioni della vita pubblica che hanno caratterizzato il recente passato. Tali proposte sono state, peraltro, fatte oggetto di una serie imponente di critiche da parte, oltre che di alcune forze politiche (aspetto che, in questa sede, certo non interessa approfondire se non nei limiti di ciò che risulti utile per conoscere il probabile esito del processo riformatore), di autorevole dottrina, la quale ha ad esse mosso l’addebito di risultare incompatibili con alcuni degli stessi princìpi generali del diritto penale, od addirittura, con la medesima ‘‘autonomia’’ del diritto penale sostanziale, il quale si vedrebbe assegnata una funzione servente al processo penale, percorrendo così all’inverso quel cammino di emancipazione che inizia, in epoca illuministica, coll’affermazione del principio di legalità (5). Torino, 1993; SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1991; PALAZZO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo d’insieme, in questa Rivista, 1990, p. 815. (3) Sull’illecito finanziamento ai partiti politici, le uniche due opere monografiche presenti nella nostra dottrina che ne ricostruiscono, in linea generale, le dimensioni e la portata sono di SPAGNOLO, I reati di illegale finanziamento dei partiti politici, Padova, 1990, e di FORZATI, Il finanziamento illecito ai partiti politici - Tecniche di tutela ed esigenze di riforma, Napoli, 1998; cfr., altresì, GREVI, Davvero da depenalizzare il delitto di finanziamento illecito dei partiti?, in Gazzetta giuridica, 1997, n. 30, p. 1; FIORELLA, Sull finanziamento occulto dei partiti politici, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 181; LOZZI, L’ambito di operatività del divieto di finanziamento ai partiti, in questa Rivista, 1985, p. 345. (4) Convenzionalmente (e giornalisticamente), si fa risalire l’inizio di ‘‘Mani Pulite’’, cioè di quella serie di indagini giudiziarie che hanno determinato l’emersione di ‘‘Tangentopoli’’, al 14 febbraio 1992, data in cui fu arrestato Mario Chiesa, amministratore di un ente pubblico di assistenza accusato di concussione. (5) Queste critiche radicali sono state avanzate da PADOVANI, Il problema di ‘‘Tangentopoli’’ tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in questa Rivista, 1996, p. 448.
— 118 — Le osservazioni relative ai vari progetti di riforma dei reati di corruzione e di illecito finanziamento ai partiti politici non hanno colto, però, appieno, uno degli aspetti fondamentali delle suggerite modifiche, le quali, ben lungi dal costituire un unicum, un che di proprio della esperienza e della riflessione giuridica italiana, si inseriscono, al contrario, nel solco di un processo riformatore delle fattispecie in esame che è già in avanzata fase di realizzazione presso altri ordinamenti vicini al nostro per tradizione e cultura. Questa constatazione induce alla conclusione che, quale che sia il giudizio (di opportunità, di sensatezza, di legittimità) che si vorrà fornire delle ‘‘nuove’’ (6) prospettive in tema di corruzione e finanziamento illecito ai partiti, questo non potrà prescindere dalla previa individuazione delle esigenze che hanno motivato la recente tendenza ‘‘revisionistica’’, esigenze tanto più meritevoli di essere a pieno comprese in quanto non proprie della nostra sola esperienza giuridica, ma anche altrove avvertite. Questa analisi, peraltro, non potrà che essere condotta disgiuntamente per le due figure di illecito oggetto di essa, atteso che diverse sono, per l’appunto, le esigenze, i bisogni, gli interessi, che tramite esse si tutelano. 2. Il delitto di corruzione nella sua configurazione tradizionale: il ‘‘perno’’ dell’atto di ufficio. — I delitti di corruzione (7) costituiscono, secondo la tesi dominante nella moderna dottrina, delle fattispecie a concorso necessario, figura che ricorre quando è la stessa disposizione incriminatrice di parte speciale a prevedere la presenza e l’operato di più soggetti per l’integrazione di un reato (8). L’analisi puntuale dei progetti di riforma e delle obiezioni ad essi mosse sarà svolta nel prosieguo della presente trattazione. (6) In realtà, come risulterà chiaro al termine della presente analisi, molte delle ‘‘moderne’’ impostazioni dei reati in questione, specie per quanto concerne il delitto di corruzione, non costituiscono altro che una ‘‘aggiornata’’ riproposizione, mutatis mutandis, di una delle due tradizionali concezione di tale figura, quella romanistica, che incentra il disvalore della fattispecie sull’indebita accettazione di doni da parte del pubblico agente, al contrario di quella germanica che ricostruisce il reato in termini di mercanteggiamento dell’atto di ufficio. (7) Circa i delitti di corruzione cfr., gli AA.VV., citati supra alla nota n. 1. (8) Cfr., GRISPIGNI, Il reato plurisoggettivo, in Ann. dir. proc. pen., 1942, p. 377; DELL’ANDRO, La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale, Milano, 1956, p. 141; LATAGLIATA, Concorso di persone nel reato, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 568; FIANDACAMUSCO, Dir. pen., cit., p. 212. La contraria opinione, che, fondandosi sul rilievo che il legislatore ha utilizzato termini diversi per descrivere le condotte del corrotto o del corruttore (ricevere od accettare in ordine al pubblico agente, dare o promettere in riferimento al privato), individua nelle fattispecie in esame autonomi titoli di reato per il corrotto ed il corruttore, giungendo a contarne sino a dodici, non risulta, invero, condivisibile. In primo luogo, si deve rilevare che ‘‘la differenza è puramente apparente, perché un
— 119 — Il reato di corruzione è, dunque, integrato dall’accordo tra il pubblico agente ed il privato relativo ad un atto di ufficio del primo: con tale ‘‘patto’’ il privato ‘‘compra’’ l’atto del soggetto pubblico, si ha una compravendita relativa ad una data modalità di estrinsecazione delle pubbliche funzioni. Che la corruzione, nel nostro ordinamento, sia da intendersi come negozio (ovviamente, per quel che concerne il diritto civile, nullo in quanto contrario a norme imperative) avente per oggetto lo scambio tra il denaro od altra utilità ed un atto del pubblico agente conforme o contrario ai doveri di ufficio, si desume indubitabilmente alla luce della littera legis degli art. 318 e 319 c.p., che ricollega la promessa o la dazione di denaro od altra utilità al compimento di un atto conforme o contrario ai doveri di ufficio (9). Nel delineare in tal modo il delitto di corruzione, si è accolta una delle tradizionali concezioni di tale figura, quella propria del diritto germanico. L’illecito in esame, può essere, infatti, inteso secondo due diverse accezioni: quella romanistica, che si fonda sul rigido divieto di accettare doni in qualsiasi modo collegati alle attività funzionali rientranti nella sfera dei pubblici poteri, e quella germanica, per la quale l’essenza della figura si identifica con la compravendita di uno specifico atto di ufficio (10). Che quest’ultima sia la concezione posta a fondamento del nostro attuale assetto codicistico si desume dal ruolo centrale che, nelle disposizioni incriminatrici, assume l’elemento dell’atto di ufficio: la consumadare ed un ricevere esistono da entrambe le parti. Il pubblico ufficiale riceve la dazione o la promessa e dà in cambio l’atto di ufficio o l’atto contrario ai doveri di ufficio; il privato, per parte sua, riceve l’atto e dà in cambio denaro od altra utililà’’ (VENDITTI, Corruzione (delitti di), in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 214). In secondo luogo, accogliendo la tesi criticata non si comprenderebbe la ragione per la quale il legislatore ha avvertito la necessità di apprestare un’apposita norma incriminatrice dell’istigazione: la punibililà di tale comportamento discenderebbe dalla disciplina generale in tema di delitto tentato se le condotte del corrotto e del corruttore dessero luogo a titoli autonomi di reato. (9) Secondo la prevalente dottrina, si dovrebbe parlare di un vero e proprio nesso di sinallagmaticità tra le due prestazioni pattuite, di modo ché lo squilibrio, l’evidente sproporzione tra le stesse escluda il configurarsi dell’accordo e, quindi, la punibilità a titolo di corruzione. Cfr., in questo senso, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 220; PAGLIARO, Principi, cit., p. 171. La giurisprudenza, a volte, si orienta, invece, nel senso di richiedere la proporzionalità quale requisito di punibilità solo nei casi riconducibili all’art. 318 c.p., il cui testo qualifica espressamente come retribuzione la promessa o la dazione del privato, mentre non ritiene indispensabile tale connotato delle prestazioni nell’ipotesi più grave di cui all’art. 319 c.p., cfr., in questo senso, Cass. pen., sez. VI, 13 febbraio 1995, in Giust. pen., 1995, II, p. 629; Cass. pen., sez. VI, 30 novembre 1994, in Riv. pen., 1995, p. 906. (10) Per una ricostruzione storica del reato in esame e delle sue diverse concezioni cfr., BINDING, Lerbuch des gemeinen deutschen Strafrechts, B.T., Leipzig, 1905, p. 712.
— 120 — zione dei reati di corruzione richiede che la promessa o la dazione di denaro o di altra utilità sia collegata ad un determinato o determinabile atto, conforme o contrario ai doveri di ufficio. Tale concetto è il perno su cui ruotano le varie fattispecie di corruzione. Certo, la locuzione ‘‘atto d’ufficio’’ non deve essere ridotta restrittivamente all’‘‘atto amministrativo’’, ma deve intendersi in senso ampio, ricomprendente anche le operazioni, i comportamenti materiali, il silenzio, gli atti posti in essere dai notai e che non possano qualificarsi ‘‘atti amministrativi’’, gli atti di diritto privato e, in definitiva, ogni esercizio dei poteri inerenti all’ufficio (11), ma, comunque, è indispensabile per il perfezionarsi del delitto di corruzione che la condotta del privato sia in rapporto con una determinata, o determinabile, modalità di estrinsecazione delle attività pubbliche. 2.1. Da ciò la distinzione tra corruzione propria ed impropria, antecedente e susseguente. — L’elemento dell’atto di ufficio spiega un ruolo centrale nell’ambito della ricostruzione del Tatbestand delle varie fattispecie di corruzione, e non soltanto perché attesta inequivocabilmente come esso debba essere inteso quale compravendita di una data modalità di esercizio dei pubblici poteri (risultando, pertanto, insufficiente la prova dell’immotivata ricezione di utilità per ritenersi integrato il delitto in esame), ma, altresì poiché è il suo diverso relazionarsi nei confronti dei doveri di ufficio cui era tenuto il pubblico agente che permette di distinguere tra le varie ipotesi in cui il reato in questione viene ad articolarsi nel nostro codice. È dato, infatti, individuare chiaramente una summa divisio tra la corruzione propria, e la corruzione impropria, dove il criterio distintivo tra le due figure è costituito dal diverso oggetto del pactum sceleris, che nel primo caso è un atto contrario ai doveri di ufficio, e nel secondo, un atto conforme agli stessi. Un’altra fondamentale distinzione tra due figure di corruzione, quella c.d. antecedente e quella susseguente, ha la sua ragion d’essere nella diversa scansione temporale che intercorre tra la promessa o la dazione e l’atto d’ufficio che, nel primo caso segue l’accordo raggiunto tra i soggetti attivi, laddove, nella seconda ipotesi, precede tale momento. La quadripartizione appena delineata non è il risultato di un mero estro dogmatico-classificatorio, ma corrisponde a fondamentali distinzioni della nostra disciplina codicistica, che disegna, in riferimento all’elemento dell’atto di ufficio, diverse norme incriminatrici, poste a tutela di interessi, (11) Il punto è assolutamente pacifico in dottrina ed in giurisprudenza, cfr., a proposito, PAGLIARO, Principi, cit., p. 183; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 221; CACCIAVILLANI, Sulla corruzione passiva in atti amministrativi, in Giust. pen., 1978, II, p. 306; VENDITTI, Corruzione, cit., p. 757.
— 121 — almeno parzialmente, diversi, con un differente disvalore penale e carico sanzionatorio. Così, l’art. 319 c.p. prevede l’ipotesi in cui l’oggetto del pactum sceleris sia un atto contrario ai doveri di ufficio. Quando, per la precisione, ricorrerà l’ipotesi di contrarietà ai doveri di ufficio? Una volta chiarito che non è certo sufficiente la violazione di un dovere che gravi sulla generalità dei consociati, si deduce che occorre che vi sia la trasgressione di un dovere cui il pubblico agente è tenuto in ragione del suo ufficio, cioè in quanto preposto alla cura di certi interessi pubblici, risultando poi indifferente la fonte di tale obbligo, potendo questa essere costituita non solo dalla legge, ma altresì dai regolamenti, dalle circolari, dalle istruzioni, e perfino dalla consuetudine (12). La ‘‘contrarietà ai doveri di ufficio’’ che caratterizza l’art. 319 c.p. spiega poi un ruolo fondamentale nell’individuazione dell’oggetto di tutela cui è preposta tale fattispecie: l’essere essa incentrata su un atto che viola un dovere che ha la sua ragion d’essere nella cura dell’interesse pubblico cui è preposto questo o quel ramo della P.A. fa intravvedere, come bene protetto, l’attività funzionale della stessa. La disposizione incriminatrice di cui all’art. 319 c.p. deve, quindi, essere intesa come finalizzata alla tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione, i principi cardine cui deve orientarsi l’organizzazione e l’agire di quest’ultima ai sensi dell’art. 97 Cost. (13), in conformità a quell’indirizzo dottrinale che ricostruisce in quest’ottica tutti, tendenzialmente, i reati contro la P.A. (14). (12) Cfr., Cass. pen., sez. VI, 7 dicembre 1994, in Cass. pen., 1996, p. 1418; Cass. pen., sez. VI, 15 marzo 1993, ivi, 1994, p. 1519. Per quanto concerne la delicata questione relativa ai parametri di valutazione della contrarietà ai doveri di ufficio dell’atto ‘‘discrezionale’’, il concetto cui deve farsi riferimento per dirimere le controversie relative ai casi di dubbio inquadramento, è quello relativo alle regole che disciplinano il potere discrezionale della P.A. In forza del principio di legalità, che caratterizza pure l’agire dei pubblici poteri, anche le potestà della pubblica amministrazione connotate da discrezionalità risultano disciplinate da alcune regole (precetti di logica, di imparzialità), le quali, in definitiva, ricostruiscono l’autonomia di cui gode in questi settori la P.A. come vincolata allo scopo: la realizzazione dell’interesse pubblico cui è preposto quel ramo dell’amministrazione. Ogni qual volta risulti accertato che il pubblico agente ha operato in vista del raggiungimento di interessi privati e non già di quelli pubblici vi sarà un uso distorto del potere discrezionale, in quanto contrastante con la norma fondamentale che lo regola, e, dunque, si sarà integrato un atto ‘‘discrezionale’’ contrario ai doveri di ufficio. In questo senso, cfr., VASSALLI, Corruzione propria e corruzione impropria, in Giust. pen., 1978, p. 355; MIRRI, Corruzione, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, 1992; PAGLIARO, Principi, cit., p. 195. (13) Cfr., in questo senso, VASSALLI, Corruzione, cit., p. 56; MIRRI, Corruzione, cit., p. 433; FIANDACA-MUSCO, Dir. pen., cit., p. 218. Non condivisibile è la tesi tradizionale che identifica il bene protetto nel prestigio della P.A., atteso che, questo interesse, nell’attuale società democratica e pluralista, non sembra
— 122 — L’art. 319 c.p. non distingue più, invece, dopo la riforma dettata dalla legge 86 del 1990, tra corruzione propria antecedente e susseguente, come era previsto dalla formulazione originaria della disposizione incriminatrice, nel senso che assoggetta entrambe le ipotesi al medesimo carico sanzionatorio della reclusione da due a cinque anni. L’equiparazione tra la corruzione antecedente e quella susseguente è stata effettuata in un’ottica di facilitazione probatoria, atteso che, sotto il vigore della precedente formulazione dell’art. 319 c.p., era ben difficile accertare se il pactum sceleris si fosse concluso prima o dopo la realizzazione dell’atto contrario ai doveri di ufficio e che su questo punto si concentravano i maggiori sforzi della difesa e della accusa nei procedimenti penali relativi ad una ormai dimostrata corruzione propria. Per superare, in radice, tali difficoltà probatorie, si è preferito eliminare del tutto, quoad poenam, la distinzione in questione per quanto concerne la corruzione propria. La soluzione cui si è pervenuti con la legge 86 del 1990, che ha sancito l’irrilevanza del momento in cui sia raggiunto l’accordo tra il privato ed il pubblico agente in ordine all’atto contrario ai doveri di ufficio, non risulta, peraltro, pienamente appagante e desta alcune perplessità in ordine alla ragionevolezza della avvenuta parificazione, data la diversità strutturale, ontologica, verrebbe quasi da dire, tra le due figure. La corruzione antecedente e quella susseguente sono caratterizzate da un diverso grado di offensività e di riprovevolezza dei soggetti agenti, ed assoggettarle al medesimo trattamento sanzionatorio da luogo a motivati dubbi sul rispetto del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impone di assoggettare a disciplina diversa situazioni che non sono equiparabili. Per quanto riguarda, invece, la corruzione impropria (cioè quella connotata da un atto conforme ai doveri di ufficio), disegnata dall’art. 318 c.p., è mantenuta la distinzione, anche quoad poenam, in due fattispecie a seconda del momento in cui fu raggiunto l’accordo delittuoso. Così, il primo comma dell’art. 318 sancisce la pena della reclusione da sei mesi a tre anni nel caso di corruzione impropria antecedente, ladpiù essere dotato di quella preminente rilevanza che, all’epoca, e sotto il regime in cui il codice fu elaborato, lo faceva ritenere meritevole di tutela penale. (14) Cfr., BRICOLA, Tutela della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Studi in onore di Santoro Passarelli, VI, 1970, p. 123. Ritiene, viceversa, che l’esperienza recente abbia sufficientemente dimostrato come « il danno prodotto dalla corruzione non possa essere ristretto alle anguste categorie del ‘‘buon andamento’’ e dell’‘‘imparzialità’’ della pubblica amministrazione, ma sia tale da investire l’integrità dell’economia nazionale e internazionale, le regole della concorrenza, lo stesso funzionamento e credibilità delle istituzioni democratiche », FORTI, Unicità o ripetibilità della corruzione sistemica? Il ruolo della sanzione penale in una prevenzione « sostenibile » dei crimini politico-amministrativi, in Riv. trim. dir. pen. cc., 1997, p. 1069 ss. e, quivi, 1092.
— 123 — dove il suo secondo comma prevede la reclusione sino ad un anno per la corrispondente figura di corruzione susseguente. Le differenti conseguenze sanzionatorie tra le due norme incriminatrici contenute nell’art. 318 c.p. sono dovute alla differente oggettività giuridica che esse tutelano. La corruzione impropria antecedente può, infatti, anch’essa essere intesa come preposta al buon andamento della P.A., atteso che compiere un atto cui il pubblico agente era tenuto solo dopo aver ricevuto od essersi fatto promettere un ‘‘corrispettivo’’ dal privato integra un pregiudizio al regolare funzionamento della Amministrazione. Così non è nell’ipotesi in cui la promessa o la dazione di utilità sopraggiungano alla realizzazione dell’atto d’ufficio. In questo caso non può certo considerarsi leso il buon andamento della P.A., dato che al momento in cui l’atto fu posto in essere, ciò avvenne in maniera assolutamente ‘‘gratuita’’ e del tutto conforme alle norme che disciplinano l’agire della P.A. La corruzione impropria susseguente non può, quindi, essere intesa come finalizzata alla tutela del buon andamento dell’Amministrazione ma la sua oggettività giuridica deve essere identificata, conformemente alla tradizione, col ‘‘prestigio’’ della P.A. In ordine a tale bene giuridico, ci si deve domandare se esso, ai giorni nostri, in una società non più fortemente permeata dal principio di autorità, sia da reputarsi ancora meritevole di tutela penale o se, invece, conformemente alle esigenze di riduzione dell’area del penalmente rilevante solo alle offese più gravi nei confronti degli interessi di maggior rilievo sociale (15), non sia opportuno prevedere, a sua difesa, una semplice sanzione amministrativa (16). Alla luce delle appena esposte ragioni, si comprende, dunque, come non possano suscitare che perplessità, sul punto, le recenti proposte di riforma dei delitti di corruzione, che, ben lungi dall’estromettere dall’area delle fattispecie penalmente sanzionate la corruzione impropria susseguente, la equiparano, invece, alle forme più gravi di corruzione, assoggettandola in tal modo ad un carico sanzionatorio che, per di più, appare oggettivamente sproporzionato alla gravità del fatto. 2.2. Progressiva erosione dell’oggetto del pactum sceleris, con riguardo alla sufficienza del riferimento alla ‘‘funzione’’ esercitata dal pub(15) A fondamento dell’auspicata depenalizzazione della corruzione impropria susseguente può anche essere richiamata la nota teoria che propone di ridurre l’area delle incriminazioni solo a quelle che tutelino beni dotati di rilevanza costituzionale (BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, Torino, 1973, p. 15 ss.), in quanto unicamente in tal caso sarebbe legittimata la limitazione della libertà personale, anch’essa dotata di rilevanza costituzionale. (16) Cfr., in questo senso, BRICOLA, Tutela penale, cit., p. 148; MIRRI, Corruzione, cit., p. 442.
— 124 — blico agente. — Le moderne proposte di riforma dei delitti di corruzione (che saranno successivamente analizzate nel dettaglio), prevedenti, nella gran parte dei casi, l’equiparazione tra le diverse fattispecie di corruzione, non possono che fondarsi su una ‘‘svalutazione’’ del requisito dell’atto di ufficio. È soltanto quest’ultimo, ed il suo diverso atteggiarsi nei confronti dei doveri d’ufficio e del momento in cui si è raggiunto l’accordo delittuoso, che ci permette di distinguere tra corruzione propria ed impropria, antecedente e susseguente. La suggerita parificazione tra queste figure non può che postulare una minore rilevanza di quello che, sinora, è stato il vero e proprio architrave centrale del disegno codicistico in tema di corruzione. Un punto fondamentale merita ora di essere chiarito: la prospettiva appena delineata non è esclusivamente dottrinaria o frutto delle isolate proposte di questa o quella forza politica, ma, al contrario, trae la propria origine dalla prassi giurisprudenziale, e trova nelle esigenze che connotano quest’ultima (in ispecie di esemplificazione probatoria) la sua ratio ultima. La giurisprudenza della Corte di Cassazione, a partire dai primi anni ’90 (17), ha ritenuto, infatti, non indispensabile la individuazione o l’individuabilità dell’atto di ufficio oggetto di mercimonio al fine di ritenere consumato il delitto di cui all’art. 319 c.p. (18). Si è così affermato che ‘‘in tema di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio si deve ritenere che la mancata individuazione in concreto del singolo atto che avrebbe dovuto essere omesso, ritardato o compiuto dal pubblico ufficiale contro i doveri del proprio ufficio, non faccia (17) La prima sentenza che ha dato il via all’orientamento giurisprudenziale in esame è Cass. pen., sez. VI, 29 ottobre 1992, in Cass. pen., 1994, p. 1518, m. 893. (18) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 30 novembre 1995, in Cass. pen., 1996, p. 2184, m. 1218, con nota di CIANI, ed in Foro it., II, 1996, p. 414, con nota di GROSSO,Dazione o promessa di denaro al pubblico ufficiale « in ragione delle funzioni esercitate »: corruzione punibile o fatto penalmente atipico?. Quest’ultimo Autore rileva come, de iure condito, non appare ammissibile la ricostruzione dei delitti di corruzione, non in rapporto ad uno specifico atto, ma in ragione delle funzioni esercitate dal pubblico agente, se non nell’ipotesi-limite, in cui la controprestazione sia costituita ‘‘da un comportamento del pubblico ufficiale ben determinato nel suo contenuto, anche se suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non specificamente previsti o programmati’’. Solo de iure condendo, sarebbe invece possibile giungere al risultato cui è pervenuta la Cassazione, mediante, però, una previa modifica degli artt. 318 e 319 c.p. e, ciò che più rileva, conseguentemente, della stessa ‘‘struttura’’ dei delitti di corruzione. Si deve, peraltro, osservare, per comprendere la rilevanza dell’orientamento in questione nell’ambito del c.d. diritto vivente, che esso, oltre ad affiorare nelle citate decisioni del giudice di legittimità è posto a fondamento di moltissimi capi di imputazione. Per quest’ultima constatazione cfr., SGUBBI, La semplificazione ed unificazione delle norme sulla concussione e corruzione nel progetto di riforma, in AA.VV., Revisione e riformulazione delle norme in tema di corruzione e concussione, Atti del Convegno di Studi di diritto penale, Bari, 21-22 aprile 1995, Bari, 1996, p. 61.
— 125 — venire meno il delitto ove venga accertato che la consegna del denaro al pubblico ufficiale sia stata effettuata in ragione delle funzioni dallo stesso esercitate’’ (19). La giurisprudenza appena richiamata ha affermato quanto riportato per evidenti ragioni di carattere probatorio: la individuazione dello specifico atto di ufficio cui si ricollega la dazione o la promessa di utilità costituisce da sempre l’elemento della fattispecie maggiormente difficile da dimostrare da parte della pubblica accusa, tenuto anche conto del fatto che, nei delitti di corruzione, sussiste una comunanza di interessi tra il privato e l’intraneus che induce a tenere un comune atteggiamento di non collaborazione, che ostacola incisivamente la piena scoperta del fatto. Per superare tali difficoltà, l’orientamento giurisprudenziale in esame ha reputato sufficiente, ai fini della consumazione del delitto di corruzione propria, la prova dell’accettazione di indebite utilità da parte del pubblico agente che si ricolleghino, in qualche modo, alle funzioni da lui svolte. Tale indirizzo interpretativo non appare, in verità, condivisibile, dato che esso si risolve nella sostituzione della relatio all’atto di ufficio, che è espressamente statuita nella littera legis delle disposizioni incriminatrici, con quella relativa alle funzioni esercitate, della quale, invece, non vi è traccia nelle norme in esame (20). Le esigenze di accertamento probatorio non possono giustificare una tale ‘‘forzatura’’ del dettato normativo, poiché, così operando, si rischia di violare il principio di stretta legalità, che è diretto a limitare le pretese punitive dello Stato restringendole nell’ambito di ciò che rientra nel Tatbestand, come è delineato dalla previsione letterale delle disposizioni incriminatrici. Ritenendo irrilevante l’individuazione dell’atto di ufficio oggetto del pactum sceleris, (fondamentale architrave delle fattispecie di corruzione così come disegnate dal legislatore), l’orientamento giurisprudenziale qui criticato perviene ad un inammissibile superamento dei limiti della tutela penale stabiliti legislativamente. Certo, le ragioni che hanno indotto la Corte di Cassazione allo ‘‘ampliamento’’ interpretativo illustrato, (il quale, peraltro, non si è tradotto nel consolidarsi di un nuovo orientamento giurisprudenziale (21)), pos(19) Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 1996, in Cass. pen., 1997, m. 806. (20) Cfr., in questo le note a commento delle sentenze in questione citate sub nota 18. (21) È da rimarcarsi, infatti, come nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione si ‘‘alternino’’ due impostazioni: quella ‘‘tradizionale’’, richiedente pur sempre un collegamento con l’atto di ufficio ai fini del perfezionamento del delitto di corruzione (cfr. Cass. pen., sez. VI, 9 dicembre 1996, in Studium Iuris, 1997, n. 10, p. 1104), e quella che si è venuta formando a partire dai primi anni ’90, cfr., da ultimo, in questo senso, Cass. pen., sez. VI, 5 febbraio 1998, ric. Lombardi e altro, in Guida al Diritto-Il Sole 24 Ore, 25
— 126 — sono apparire meritevoli di considerazione, ma non possono dar luogo a condanne per corruzione fin tanto che le norme in questione rimarranno quelle che sono attualmente. Occorrerebbe, per punire a titolo di corruzione la semplice accettazione indebita di utilità che si ricolleghi alle funzioni svolte dal pubblico agente, una diversa formulazione dei delitti in questione, quale quella contenuta in diversi progetti di riforma attualmente al vaglio del Parlamento e quale quella che, in altri ordinamenti, ha già integrato la classificazione dei reati di corruzione imperniata sul concetto di ‘‘atto d’ufficio’’. 2.3 Singolare analogia con alcune recenti esperienze normative straniere: in particolare, il c p. francese, ove è prevista soltanto la distinzione tra corruzione attiva e passiva ed il c.p. tedesco riformato nel ’97, ove l’indebita accettazione di utilità in relazione al servizio ha ‘‘integrato’’ il riferimento all’atto di ufficio nell’ambito della corruzione impropria. — La tradizionale differenziazione delle figure di corruzione, incardinata sull’atto di ufficio (che rimanda, a sua volta, alla c.d. concezione germanica della corruzione), dà luogo a notevoli difficoltà di ordine probatorio, al fine di sussumere in questa od in quella fattispecie astratta il fatto concreto posto in essere. Per ovviare a tali problemi, si è tentato di ‘‘ridimensionare’’, di ‘‘svalutare’’ il fondamentale ruolo di tale elemento, eliminando la sua essenzialità dalla fattispecie. Tale operazione è destinata inevitabilmente a concludersi in un fallimento qualora sia condotta surrettiziamente sul piano della interpretazione giurisprudenziale, in ragione del principio di stretta legalità vigente in materia penale (ed infatti, nel nostro ordinamento, dove è stata tentata questa via, la Corte di Cassazione è dovuta tornare sui suoi passi, come appena visto). Le cose si pongono in maniera diversa qualora, invece, le disposizioni incriminatrici in tema di corruzione siano formulate diversamente. Questa è la via che è stata seguita in Francia con l’approvazione del nuovo codice penale nel 1995. Questo distingue soltanto tra corruption passive et trafic d’influence aprile 1998, n. 16, p. 141, ove si afferma che ‘‘neppure la mancata individuazione in concreto dell’atto (che avrebbe dovuto essere omesso, ritardato o compiuto contro i doveri del proprio ufficio o servizio) fa venir meno il delitto di cui all’art. 319 c.p., ove venga accertato che la consegna del denaro al pubblico ufficiale od all’incaricato del pubblico servizio sia stata effettuata in ragione delle funzioni dallo stesso esercitate e per retribuirne i favori’’. (La sentenza trovasi altresì pubblicata, per intero, in ibid., 13 giugno 1998, n. 23, p. 79 ss., con nota di AMATO G., La prova della dazione o promessa di denaro è sufficiente per configurare il reato). In tal modo, peraltro, viene a delinearsi, nell’ambito della giurisprudenza (di una stessa sezione) della Suprema Corte, un netto divario interpretativo, che induce a ritenere quanto mai opportuno un intervento delle Sezioni Riunite per risolvere tale contrasto esegetico.
— 127 — commis par des personnes exercant une fonction publique, delineata dall’art. 432-11, e corruption active et trafic d’influence commis par les particuliers, disciplinata dall’art. 433-1. Certo, nella littera legis di queste disposizioni si rinviene un riferimento allo ‘‘acte de sa fonction, de sa mission ou de son mandat’’, ma ad esso si accompagna l’‘‘abuse de son influence rèelle ou supposèe en vue de fabre obtenir d’une autoritè ou d’une administration publique des distinctions, des emplois, des marchès ou toute autre dècision favorable’’. Le norme in questione delineano, quindi, delle fattispecie a condotte alternative, integrando una delle quali è commesso il reato, ed una di queste condotte è descritta senza riferimento alcuno all’acte, statuendo in tal modo la sufficienza della relatio della indebita promessa di utilità con il traffico di influenze relativo alla funzione, la missione od il mandato del pubblico ufficiale affinché si possa considerare perfezionato il delitto di corruzione. In tal modo l’atto di ufficio perde la sua essenzialità nella figura in questione (22), per divenire elemento caratterizzante solo una delle modalità di realizzazione del reato in esame. Ne consegue che sarà punibile a titolo di ‘‘corruzione o traffico di influenze’’ (ed anche tale rubrica è indicativa del fatto che il nucleo del disvalore penale non si identifichi con la compravendita dell’atto ma viene individuata nel pericolo di distorsione della funzione pubblica) tanto il pubblico ufficiale quanto il privato (con pene diverse, più gravose per il primo che per il secondo), purché tra loro vi sia stato un accordo o la dazione di indebite utilità che sia, in qualche modo, in relazione con le pubbliche funzioni svolte dal primo. L’aver incentrato la fattispecie sulla relazione ‘‘perturbatrice’’ delle pubbliche funzioni che si viene a creare tra intraneus e privato fa perdere qualsiasi rilievo alla distinzione tra corruzione propria ed impropria, tant’è che essa è del tutto assente nella normativa francese, non assumendo qui alcuna rilevanza la circostanza che l’atto sia conforme o contrario ai doveri di ufficio (23). (22) Che aveva, invece, sotto il vigore del precedente codice, in cui gli articoli dal 177 al 179 delineavano un pactum sceleris avente per oggetto il faire ou s’abstenir de faire un acte de ses fonctions ou de son emploi, juste ou non, mais non sujet à salaire. (23) Su questa disciplina codicistica cfr., GATTEGNO, Droit pénal spécial, Paris, 1995; VERON, Droit pénal spécial, 4a ed., Paris, 1995; VITU, Juris-Classeur pénal, art. 43211, corruption passive et trafic d’influence commis par des personnes exerçant une fonctione publique, Stand 5/1995; ID., Juris-Classeur pénal, art. 432-11, Corruption de salariés, Stand 5/1995; ID., Juris-Classeur pénal, art. 433-1 e 433-2, Corruption active et trafic d’influence commis par des particuliers, Stand 2/1995; LARGUIER, Droit pénal spécial, 8a ed., Paris, 1994; e, nella dottrina germanica, BARTH, Frankreich, in ESER-ÜBERHOFEN-HUBER Korruptionsbekämpfung durch Strafrecht, Freiburg i. Br., 1997, p. 99 ss. Da ultimo, sulla corruzione in Francia, v. BARBE, « Mani pulite » e la Francia, in VIOLANTE (a cura di), Legge diritto giustizia, in Storia d’Italia, Annali, 14, Torino, 1998, p. 633 ss.
— 128 — Pur senza pervenire all’estrema conclusione di unificare in una sola fattispecie la corruzione propria ed impropria, anche nell’ordinamento della Repubblica Federale Tedesca, che conosceva anch’esso una quadripartizione dei delitti di corruzione, si è assistito di recente ad una significativa ‘‘svalutazione’’ dell’elemento dell’atto di ufficio. La legge del 13 agosto 1997 (24) ha modificato i §§331 e 333 dello StGB disciplinanti, rispettivamente, la corruzione impropria passiva ed attiva, aggiungendo, come ipotesi alternativa, all’elemento dell’atto conforme ai doveri di ufficio, cui deve essere collegata come ricompensa l’utilità indebita, anche ‘‘l’esercizio del servizio’’ cui quest’ultima può essere ora, anche, finalizzata (25). In tal modo la fattispecie di corruzione impropria si è trasformata, venendo ora a punire anche l’indebita promessa od accettazione di utilità che si ricolleghi allo svolgimento del servizio, residuando rilevanza esclusiva all’atto di ufficio unicamente per quanto attiene alla corruzione propria. 2.4. Il punto di arrivo di tale ‘‘evoluzione’’: il progetto del ‘‘Pool Mani Pulite’’ con la proposta di introduzione di un’unica fattispecie di corruzione, ed il possibile contrasto con il principio di uguaglianza. — È emerso, dunque, dall’analisi condotta sin qui come vi sia una tendenza, in atto non solo nel nostro ordinamento, ma altresì in quelli di altri Paesi a noi vicini per tradizione e cultura giuridica, a ridefinire i reati di corruzione eliminando il riferimento all’atto di ufficio, o per lo meno, facendogli perdere la sua centralità nella ricostruzione delle fattispecie, in modo da conseguire lo scopo di accorpare le varie figure avvertite, nella loro diversità, non più rispondenti al loro presunto oggettivo disvalore unitario, e causa di un eccessivamente gravoso carico probatorio relativo all’inquadramento del fatto concreto in una delle varie categorie in cui si articola attualmente il delitto di corruzione. (24) Tale provvedimento normativo è il risultato di un compromesso tra il disegno di legge del Bundesrat (Entwurf eines Gesetzes zur Änderung des Strafgesetzbuches, des Gesetzes gegen den unlauteren Wettbewerb, der Strafprozessordnung und anderen Gesetze-Korruptionsbekämpfungs-gesetz, in Drucksache 13/3353 del 18 dicembre 1995) in maggioranza socialdemocratico, tra le cui proposte di modificazione non accolte vanno annoverate l’incentivazione, tramite cause di non punibilità, della collaborazione processuale e l’istituzione di un registro anti-corruzione, ed il disegno di legge governativo (Entwurf eines Gesetzes zur Bekämpfung der Korruption, in Drucksache 553/1996) del 16 agosto 1996. Su tale compromesso, e sull’iter parlamenlare che l’ha preceduto, cfr., KORTE, Kampfaussage an die Korruption, in NJW, 1997, p. 2556 ss.; LITTWEIN, Massnahmen zur Bekämpfung der national und international Korruption, in ZRP, 1996, p. 308 ss. (25) Su tale modifica normativa, cfr., KÖNIG, Neues Strafrecht gegen die Korruption, in Juristiche Rundschau, 1997, p. 397 ss. Sulla corruzione in Germania, v. anche, di recente, KRIEGER, La Germania e « Tangentopoli », in VIOLANTE (a cura di), Legge, etc., cit., p. 669 ss.; nella letteratura italiana, per un’approfondita indagine comparatistica, estesa anche ad ulteriori ordinamenti, v., da ultimo, STORTONI, La disciplina penale della corruzione: spunti e suggerimenti di diritto comparato, in Indice pen., 1999, p. 1051 ss.
— 129 — Questa è un’esigenza che emerge dalla stessa prassi giudiziaria, come attesta il già ricordato orientamento giurisprudenziale teso a negare che l’individuabilità dell’atto oggetto del pactum sceleris sia un ineliminabile requisito di punibilità. Non è un caso, pertanto, che una delle prime proposte organiche (e senza dubbio la più rilevante in termini di eco e clamore anche presso l’opinione pubblica (26)) di riforma dell’impianto codicistico in tema di delitti di corruzione sia stata elaborata, oltre che da alcuni eminenti giuristi (quali i professori Dominioni, Stella, Pulitanò), dal ‘‘Pool Mani Pulite’’ (i magistrati Greco, Colombo, Davigo, Di Pietro), cioè dai procuratori presso il Tribunale di Milano, che primi hanno iniziato quell’insieme di indagini ‘‘non più occasionali, ma programmate all’esplorazione sistematica di Tangentopoli, avvalendosi degli strumenti più energici’’ (27). Il c.d. progetto del Pool (28), sul presupposto del multiforme contenuto offensivo dei fatti di corruzione che pongono in pericolo ‘‘la stessa tenuta della compagine istituzionale’’ (29) nonché l’economia pubblica, in quanto escludono dal mercato le imprese ligie alla regole (30), ed in base alla constatazione che in tutte le ipotesi di corruzione e concussione vi è un aspetto di eguale gravità identificato nella strumentalizzazione del ruolo pubblico per il conseguimento di compensi indebiti (31), procede alla unificazione di tutte le ipotesi di corruzione e di quella di concussione per induzione in due sole fattispecie, l’una di corruzione passiva, punita con la reclusione da quattro a dodici anni e con la interdizione perpetua dai pubblici uffici, e l’altra di corruzione attiva, sanzionata con la reclusione da tre ad otto anni. La condotta attiva incriminata non si incentra più sull’atto dell’ufficio, ma sulla relazione tra la promessa o l’accettazione di utilità indebite e la ‘‘qualità, le funzioni o l’attività’’ del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio. Come si vede, non si opera più alcuna distinzione tra corruzione propria ed impropria, antecedente e susseguente, e nel concetto di corruzione inteso in senso così ampio viene inclusa altresì la concussione per induzione laddove quella per costrizione viene ad essere punita come estorsione aggravata in ragione della qualifica di pubblico agente. Tale diminuzione di fattispecie astratte, che risponde ad evidenti ra(26) Anche nel mondo politico la proposta in questione ha avuto un ampio riflesso, tanto da essere quasi integralmente oggetto di alcuni disegni di legge. Cfr., a questo proposito, Proposta Ayala ed altri (C1239), Proposta Salvi ed altri (S1043), presentate nella XII legislatura, e la Proposta Piscitello ed altri (C2610), presentata nell’ultima. (27) PULITANÒ, La giustizia penale alla prova del fuoco, in questa Rivista, 1997, p. 4. (28) Pubblicato integralmente insieme alle Note illustrative di proposte in tema di corruzione e di illecito finanziamento di partiti in questa Rivista, 1994, p. 1025. (29) Note illustrative, cit., p. 1031; analogamente FORTI, Unicità, etc., loc. ult. cit. (30) Cfr., Note illustrative, cit., p. 1032. (31) Cfr., Note illustrative, cit., p. 1033.
— 130 — gioni di esemplificazione probatoria, si fonda sul venir meno del rilievo centrale attribuito all’atto di ufficio (32). Alle medesime esigenze processuali è dovuta l’unificazione con la corruzione della ipotesi di concussione per comportamento induttivo. Quest’ultima è sempre stata la fattispecie di più difficile distinzione rispetto a quelle di cui agli 318 e ss. del codice: ‘‘il problema di differenziare la corruzione e la concussione, segnatamente nella forma delae induzione, resta uno dei più tradizionali e tenaci nodi della discussione dogmatica (...), che ha visto generazioni di studiosi mobilitare ingenti risorse creative, senza che le soluzioni a tutt’oggi prospettate possano considerarsi veramente adeguate’’ (33). E tale problema non è di poco momento, atteso che nell’ipotesi di cui all’art. 317 c.p. il privato non è penalmente responsabile, al contrario di quanto accade per i delitti di corruzione. Il vero è che l’induzione rende la fattispecie di concussione (che costituisce, del resto, un unicum nel panorama giuridico internazionale), troppo generica ed indeterminata, consentendo disinvolti ‘‘passaggi’’ tra i delitti di corruzione e concussione in ragione degli specifici interessi dell’accusa e della difesa (34). Per risolvere in radice il problema della distinzione tra corruzione e concussione, definito espressamente nella relazione illustrativa del pro(32) Lo stesso PULITANÒ, riconosce (La giustizia penale, cit., p. 24) che in ciò è da ricercare la motivazione del venir meno del riferimento all’atto di ufficio, per quanto ciò possa destare fondati timori in ordine al rispetto del principio di tassatività. A tal proposito, si è obiettato, peraltro (MUSCO, Le attuali proposte individuate in tema di corruzione e concussione, in Revisione e riformulazione, cit., p. 47), che le argomentazioni di natura processuale non sono da sole sufficienti a motivare modificazioni normative di tale portata, dato che le difficoltà probatorie costituiscono la vita stessa del processo e che, se, per ogni difficoltà di qualificazione si dovesse procedere alla semplificazione delle fattispecie saremmo costretti a modificare parti rilevanti del sistema penale. Va infine registrata, de iure condendo, una singolare coincidenza, sotto il profilo dell’eliminazione del riferimento all’atto dell’ufficio nel delitto in esame, fra uno dei più convinti sostenitori del progetto del Pool, cioè FORTI, Unicità, etc., cit., p. 1086 e, viceversa, uno dei più autorevoli critici, come PAGLIARO, La lotta contro la corruzione e la recente esperienza italiana « Mani Pulite », in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, p. 1109 s. e, quivi, p. 1128, il quale ricorda come nel Progetto 1992 la corruzione impropria è stata denominata ‘‘indebita accettazione di utilità’’, che potrebbe essere svincolata ‘‘da ogni preciso rapporto di retribuzione verso un atto specifico dell’ufficio’’. Il funzionario dovrebbe, cioè, essere punibile ‘‘tutte le volte che accetti indebitamente doni comunque collegati con l’attività di ufficio’’, dando luogo, così, ad un’importante sorta di ‘‘delitto-ostacolo’’, limitato, però, alla corruzione impropria. (33) FORTI, Sulla distinzione tra i reati di corruzione e concussione, in Studium Iuris, 1997, n. 7, p. 725; dello stesso v. anche ID., L’insostenibile pesantezza della « tangente ambientale »: inattualità di disciplina e disagi applicativi nei rapporti corruzione-concussione, in questa Rivista, 1996, p. 476 ss. (34) Per questi rilievi, sia consentito il rinvio a MANNA, Relazione introduttiva, in MANNA (a cura di) Falso in bilancio, corruzione e concussione: esperienze a confronto (aspetti sostanziali e processuali), Bari, 1998, p. 7 ss.
— 131 — getto in esame una ‘‘questione nebulosa’’ (35), si propone di abrogare il delitto di concussione, facendo rifluire le fattispecie punite sinora a titolo di concussione per induzione nel ridisegnato delitto di corruzione. Un altro dei peculiari elementi caratterizzanti la proposta di riforma in questione consiste in un elevato aggravio sanzionatorio (la pena massima per la corruzione passiva verrebbe aumentata dagli attuali cinque anni a dodici anni, al pari di quanto oggi accade per la concussione, ed inoltre si sancirebbe la interdizione perpetua dai pubblici uffici), ritenuto ‘‘necessario per ripristinare la percezione della giustizia’’ (36), dato che, ora, fatti così gravi sono puniti con pene di ‘‘media gravità’’ (37). Al di là delle altisonanti dichiarazioni di principio, il vero è che il notevole aggravio sanzionatorio previsto è funzionale all’incentivazione della collaborazione processuale, e si raccorda, in tal senso, con quella che costituisce la ‘‘vera novità della proposta’’ (38): la previsione di una clausola di non punibilità per chi, prima che la notizia di reato sia stata iscritta a suo carico nel registro generale, e comunque entro tre mesi dalla commissione del fatto, spontaneamente lo denunci, fornendo indicazioni utili per l’individuazione degli altri responsabili. L’estremo rigore repressivo ‘‘di gravità complessiva inusitata, più che avere una giustificazione in sé trova la sua spiegazione alla luce dell’incentivo al pentimento perseguito attraverso la introduzione della causa speciale di non punibilità’’ (39), la quale trova a sua volta giustificazione nella esigenza di rompere la solidarietà interna tra corrotto e corruttore, derivante dalla loro comunanza di interessi, che è la causa principale dell’alta cifra oscura che caratterizza tali delitti (40). La riforma suggerita dal Pool Mani Pulite prevede poi, tra le altre principali novità, la confisca di una somma pari a quanto ricevuto o versato dal pubblico agente, delineando così un tipo di confisca diversa da quella tradizionale (disciplinata dall’art. 240 c.p. e che ha per oggetto esclusivamente le cose destinate a commettere il reato o che ne sono state il prezzo, il profitto, il prodotto). Essa è una confisca c.d. per equivalente, modellata sull’istituto tedesco del Verfall (41). (35) Note illustrative, cit., p. 1034. (36) Note illustrative, cit., p. 1035. (37) Note illustrative, cit., p. 1035. (38) Così STELLA, La filosofia della proposta anticorruzione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1994, p. 937; in argomento, v. anche FORTI, Unicità, etc., cit., p. 1082 ss. (39) GROSSO, L’iniziativa di Di Pietro su Tangentopoli - Il progetto anticorruzione di Mani Pulite tra utopia punitiva e suggestione premiale, in Cass. pen., 1994, p. 2344. (40) Cfr., Note illustrative, cit., p. 1038; PULITANÒ, La giustizia penale, cit., p. 30. (41) È degno di nota che anche la recente riforma dei §§ 331 e 333 dello StGB già ricordata ha esteso l’operatività di tale istituto alle fattispecie da essi disciplinate (per una indagine comparatistica sull’istituto della confisca cfr., FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, 1997). L’applicabilità di tale tipo di confisca ai soggetti attivi dei delitti di corruzione è, del resto, prevista, dalla gran parte dei disegni di legge che si pro-
— 132 — Questa ‘‘innovazione’’ è l’unica, tra quelle del progetto in esame, ad avere suscitato pressoché unanimi consensi in dottrina (42), il che evidenzia, ancora una volta, come l’utilizzo delle sanzioni patrimoniali nell’ambito del diritto penale sia una delle vie più foriere di favorevoli sviluppi (43). Più in generale, deve rilevarsi positivamente come l’apparato sanzionatorio disegnato dalla riforma in questione, nel suo insieme (al di là dell’aggravio della ‘‘canonica’’ pena detentiva previsto in funzione incentivante della collaborazione processuale), sia caratterizzato da una significativa accentuazione delle misure patrimoniali, quali la già ricordata confisca ‘‘per equivalente’’, e di quelle interdittive (44), collocandosi, per tale aspetto, nell’ambito delle più moderne prospettive evolutive del diritto penale. Sul progetto, qui sinteticamente ricostruito, si è appuntata una vera e propria messe di critiche dottrinali, le quali vertono, in primo luogo sulla clausola di non punibilità per chi collabora, che costituisce, per quanto non una novità assoluta, pur sempre una rilevante eccezione nel nostro sistema penale. Si è così da più parti affermato che essa, in realtà, conseguirebbe scopi opposti a quelli auspicati risultando criminogena, in quanto idonea ad essere strumentalizata come arma di ricatto tra i compartecipi del pactum sceleris (45), divenendo un mezzo di cementificazione del sodalizio criminoso (46). Ancor più radicalmente, si è affermato che la proposta in questione, utilizzando tecniche premiali, segna un ritorno ad un’epoca pre-illuministica, in cui il diritto penale svolgeva una funzione servente del sistema pongono di modificare tali norme. Cfr., oltre quelle citate sub nota 24, Proposta Galdelli ed altri (C623), Proposta Cento (C2606), presentate nell’ultima legislatura. (42) Su di essa cfr., ampiamente, FIANDACA, Legge penale e corruzione, Relazione al Convegno sul tema: ‘‘Interventi legislativi contro la corruzione’’, presso la Camera dei Deputati, Roma, 20 novembre 1997, in Foro it.. 1998, V, 1 ss., e, quivi, 4 ss. (43) Sia consentito, a questo proposito, il rinvio a MANNA, La tutela penale della personalità, Bologna, 1993, p. 157 ss. (44) Perplessità di ordine costituzionale suscita, peraltro, la prevista perpetuità dell’interdizione dai pubblici uffici, la quale sembra contrastare sia con il principio di uguaglianza (nel senso di una parificazione di situazioni tra loro diverse), che con la funzione rieducativa ‘‘consustanziale’’ alla pena ai sensi dell’art. 27, 3o comma, Cost. In argomento, sia consentito il rinvio a MANNA, Sull’illegittimità delle pene accessorie fisse - L’art. 2641 del codice civile, in Giur. cost., 1980, I, p. 910 ss. (45) Cfr.: GROSSO, L’iniziativa di Di Pietro, cit., p. 2345; FIANDACA, Legge penale, etc., cit., p. 3 s.; SGUBBI, La semplificazione ed unificazione, cit., p. 64; MUSCO, Le attuali proposte individuate in tema di corruzione e concussione, cit., p. 52; CERQUETTI, Tutela penale della pubblica amministrazione e tangenti, Napoli, 1996, p. 174. (46) PADOVANI, Il problema Tangentopoli, cit., p. 462, afferma che ‘‘essa diverrebbe una sorta di condizione sospensiva legalmente imposta atta a rafforzare il vincolo in quanto destinata a moltiplicare le garanzie di fedeltà’’.
— 133 — processuale, e non risultava ancora portatore di quelle esigenze antagonistiche alle istanze di controllo sociale che si esprimono nel processo penale (47). Anche al di là di tali osservazioni, analizzando le norme in tema di corruzione così come delineate nel progetto prescindendo dagli aspetti più propriamente processualistici, emergono profili di perplessità in ordine al rispetto del fondamentale principio di uguaglianza. In primo luogo, deve evidenziarsi come la parificazione della concussione per induzione con la corruzione sia stata da alcuni tacciata di irragionevolezza in quanto rischierebbe di obliterare la fondamentale differenza intercorrente tra le due figure: l’essere la libertà morale del privato pregiudicata nel primo caso al contrario di quanto accade nel secondo (48). Certo, tale distinzione nei casi dubbi, è di difficile accertamento probatorio, e la proposta unificazione mira ad eliminare tutta quella fase processuale vertente sulle qualificazioni giuridiche del fatto, ma a queste argomentazioni è stato obiettato che ‘‘il lavoro del magistrato sulla qualificazione giuridica del fatto è l’ineludibile risvolto tecnico dei principi (costituzionali) di frammentarietà e tassatività del diritto penale e che il tempo a ciò dedicato non è sprecato’’ (49). (47) Cfr.: PADOVANI, Il problema Tangentopoli, p. 453. Analoghe preoccupazioni sono presenti in MOCCIA, Il ritorno alla legalità come condizione per uscire a testa alta da Tangentopoli, in questa Rivista, 1996, p. 468; FLICK, Come uscire da Tangentopoli, ritorno al futuro o cronicizzazione dell’emergenza, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1994, p. 946, per il quale, ‘‘le regole proposte dal Pool, nonostante l’apparenza di diritto sostanziale, sono regole sui processi’’; ARDIZZONE, La proposta di semplificazione in tema di corruzione ed i rischi di erosione della concezione di diritto penale del fatto, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 7, nonché MANNA, Rifiuto di atti di ufficio. Omissione, in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, a cura di Padovani, cit., p. 380. Per PAGLIARO, Relazione introduttiva, in Revisione e riformulazione delle norme in tema di concussione e corruzione, cit., p. 29, il rischio delineato è tanto maggiore in quanto la causa di non punibilità è del tutto avulsa da qualsiasi profilo di offensività, al contrario di quanto avviene per i reati di mafia e di terrorismo che, essendo reati permanenti, vedono, nella collaborazione di uno dei membri, un fattore di disgregazione dell’associazione e, dunque, di cessazione del reato. Dello stesso v. anche ID., La lotta, etc., cit., p. 1121 ss. Va però, di contro anche riconosciuto come, senza ricorrere a forme di collaborazione processuale, risulti assai più difficile la scoperta dei reati in esame, atteso lo stretto vincolo di ‘‘omertà’’ che lega il pubblico agente ed il privato. (48) Cfr.: CERQUETTI, Tutela penale, cit., p. 169; GROSSO, L’iniziativa di Di Pietro, cit., p. 2342. C’è chi ha osservato (SGUBBI, Considerazioni critiche sulla proposta anticorruzione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1994, p. 944) che, in base al progetto, il privato che paga il pubblico agente in quanto soggetto al metus publicae potestatis, è obbligato penalmente a denunciare il fatto all’autorità giudiziaria. In tal modo la legge imporrebbe al cittadini di divenire un militante della giustizia, prescrivendogli un obbligo penalmente sanzionato di eroismo(!). (49) SGUBBI, Considerazioni critiche, cit., p. 943.
— 134 — Si è, inoltre, rilevato come la proposta abolizione della forma induttiva della concussione non tenga appieno conto delle ragioni che indussero il legislatore del ’30 a prevedere tale figura, la quale ha la sua ragion d’essere ultima nella convinzione che i pubblici ufficiali di grado maggiore, quelli posti al vertice della burocrazia amministrativa, non hanno bisogno di avvalersi, per conseguire utilità indebite, di mezzi ‘‘brutali’’ quali la violenza e la minaccia, ma che è, ad essi, sufficiente far ricorso ad ‘‘ambigue fraseologie, comportamenti surrettizi, velate allusioni, maliziose previsioni di danni futuri’’ (50), dal che discende l’opportunità di preservare una autonoma fattispecie che incrimini tali modalità della condotta concussiva (51). Per quanto fondate siano queste considerazioni, non sembra che le ‘‘controindicazioni’’ alla proposta abrogazione della forma induttiva della concussione ed alla sua riconduzione alla fattispecie di corruzione siano di tale spessore e rilievo da sopravanzare gli indubbi guadagni che, invece, si otterrebbero in termini di determinatezza della fattispecie e, dunque, di certezza del diritto. È stata proprio l’intrinseca ‘‘vaghezza’’ della condotta induttiva che ha permesso, sinora, quegli ‘‘spregiudicati’’ passaggi tra i delitti di cui agli art. 317 e 318 e ss., in ragione degli interessi delle parti processuali, che danno sempre luogo al rischio di quella strumentalizzazione in chiave processualistica delle norme incriminatrici già, a giusta ragione, lamentata. L’opportunità di eliminare, dal nostro ordinamento, una fattispecie fonte di tante indeterminatezze è ulteriormente attestata alla luce di quello che è il naturale esito ultimo del tentativo di elaborare figure che A queste si è obiettato replicando (PULITANÒ, La giustizia penale, cit., p. 15) che ‘‘l’idea di frammentarietà del diritto penale è del tutto dottrinaria’’. Tale critica non tiene, peraltro, pienamente conto del fatto che i principi di frammentarietà e tassatività della fattispecie sono dei corollari di immediata derivazione da quello di stretta legalità, non sono altro che quest’ultimo principio generalissimo espresso in altra forma. (50) Cass. pen., sez. VI, 11 aprile 1979, in Riv. pen., 1980, p. 322. (51) Per queste considerazioni, cfr.: E. GALLO, La proposta del Pool, in La Repubblica, 30 settembre 1994, p. 10; da ultimo, appare altrettanto critico in relazione alla proposta di eliminare la concussione per induzione PALOMBI, La concussione, Torino, 1998, p. 34 ss.; ID., Relazione al V Congresso Nazionale di Diritto Penale: ‘‘Corruzione e concussione: una riforma improcrastinabile’’, Caserta, 22-23-24 aprile 1999; SGUBBI, Relazione al V Congresso, etc., cit.; BOVIO, Intervento alla Tavola Rotonda: ‘‘I processi di Tangentopoli’’, del V Congresso, etc., cit.; a favore, invece, SAVONA, Relazione al V Congresso, etc., cit.; G. CALVI, Intervento alla Tavola Rotonda, etc., cit.; T. MADIA, Intervento programmato al V Congresso, etc., cit., S. MANACORDA, Intervento programmato al V Congresso, etc., cit. In particolare, sia Savona, che Manacorda, rilevano come in sede internazionale l’induzione, intesa come « sollecitazione » sia qualificata come condotta di corruzione, anziché di concussione, per cui, anche sotto questo profilo, sarebbe opportuno che il nostro ordinamento si uniformasse al trend espresso sia in ambito comparatistico, che comunitario. Degli ultimi due autori citati v. anche, più ampiamente, MANACORDA, La corruzione internazionale del pubblico agente. Linee dell’indagine penalistica, Napoli, 1999; e SAVONA-MEZZANOTTE, La corruzione in Europa, Roma, 1998.
— 135 — sanzionino tutte le ipotesi in cui la libertà morale del privato venga condizionata non già da una attività costrittiva da parte del pubblico agente, ma dall’avvalersi questi di condotte allusive e di comportamenti suggestivi. Ci riferiamo, naturalmente, alla c.d. concussione ambientale. È questa una fattispecie incriminatrice il ‘‘fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, danaro od altra utilità patrimoniale, sfruttando l’altrui convinzione determinata da situazioni ambientali, reali o supposte, di non poter altrimenti contare su un trattamento imparziale’’ (52). Alla proposta di introdurre un tale delitto nel nostro ordinamento è stato obiettato che esso risulterebbe inficiato da un grado di soggettivizzazione e di psicologizazione che ‘‘lo rende incompatibile con quel minimo di descrizione oggettiva che costituisce l’insuperabile garanzia dei diritti di libertà’’ (53), e da cui discenderebbe, inevitabilmente, il rimettersi alla mera discrezionalità del giudice per individuare i casi in cui questo reato sia commesso (54). Questo tipo di rilievi, peraltro, non costituiscono che l’accentuazione estrema di quelli che è possibile muovere alla concussione per induzione, la ‘‘progenitrice’’ di quella ‘‘ambientale’’. Al pari di quest’ultima, anch’essa risulta viziata da quel difetto di tassatività che ne consentono facili strumentalizzazioni processuali. Per queste ragioni, e nonostante i pur fondati rilievi critici, riteniamo si debba valutare positivamente la proposta di abolire la previsione autonoma di concussione per induzione e di unificarla con la corruzione. Diversamente si pongono, invece, le cose in ordine alla suggerita parificazione delle fattispecie di corruzione, la quale non risulta pienamente in armonia col principio costituzionale di uguaglianza. Infatti, in tal modo, si rischia di trattare unitariamente situazioni molto diverse tra di loro sotto il profilo della eterogeneità delle condotte attive e sin anco delle oggettività giuridiche, che, come visto, non sono le medesime in tutte le ipotesi di corruzione. Ma vi è di più. L’estrema diversificazione delle situazioni concrete sussumibili sotto la nuova figura unificata di corruzione, una vera fattispecie omnibus, darebbe luogo, è facile prevedere, a carichi sanzionatori estremamente diversificati tra loro (si ricordi che i limiti edittali di pena (52) Art. 138 n. 5 del Progetto di un nuovo codice penale, elaborato dalla commissione ministeriale presieduta dal prof. PAGLIARO, e pubblicato in Indice penale, 1992, p. 669. (53) MUSCO, Le attuali proposte individuate in tema di corruzione e concussione, cit., p. 46. (54) Cfr.: MUSCO, Le attuali proposte individuate in tema di corruzione e concussione, cit., p. 46; sulla concussione ambientale, parimenti in senso critico, da ultimo MANES, La ‘‘concussione ambientale’’ da fenomenologia a fattispecie ‘‘extra legem’’, di prossima pubbl. su Foro it., spec. 15 ss. (del dattil.).
— 136 — sono molto ampi, andando da quattro a dodici anni di reclusione) in ragione dell’essere la corruzione propria od impropria, antecedente o susseguente, cioè delle attuali partizioni legislative. Vi sarebbe, però, una differenza fondamentale: mentre tali distinzioni attualmente sono legislative, un domani la loro rilevanza ed incidenza ai fini della commisurazione della pena sarebbe demandata esclusivamente alla discrezionalità del giudice, con il pericolo di uno ‘‘svuotamento dall’interno’’ del principio di legalità, che richiede che il giudizio sul disvalore penale del fatto sia di competenza esclusiva del legisiatore (55). 2.5. Riflessi sul bene giuridico tutelato: dall’art. 97 Cost. alla violazione del rapporto di fiducia dei cittadini verso la P.A. — L’unificazione della fattispecie in tema di corruzione proposta dal Pool Mani Pulite, ben lungi dall’esaurirsi in alcune semplificazioni probatorie, produce delle modificazioni anche in ordine al bene giuridico protetto. Le quattro figure di corruzione attualmente delineate nel codice penale (e quella di concussione per induzione che verrebbe ad esse parificata) sanzionano diverse modalità e gravità di lesione a beni giuridici che non sono gli stessi per tutte le disposizioni incriminatrici (si rammenti della corruzione impropria susseguente con la sua tutela del prestigio della P.A.). La loro riconduzione ad una unica fattispecie astratta non può che riverberarsi anche sulla loro oggettività giuridica, nel senso che il loro percepito disvalore unitario postula una unitarietà dell’interesse protetto. Si assiste in tal modo a quella che potrebbe definirsi una autentica ‘‘rivoluzione copernicana’’ dei delitti di corruzione, che perdono il loro referente nei principi di buon andamento ed imparzialità di cui all’art. 97 Cost. (come attesta altresì il venir meno dell’incardinarsi della fattispecie sulla compravendita dell’atto di ufficio (56)) per essere preposti alla tutela del ‘‘rapporto di fiducia’’ che deve intercorrere tra cittadini e Pubblica Amministrazione e che viene leso ogni qual volta un pubblico agente accetti la promessa o la dazione di utilità indebita in qualsiasi modo collegate alla sue funzioni. Il progetto del Pool è, infatti, incentrato sulla tutela delle ‘‘aspettative’’ (di corretto comportamento) del cittadino verso la Pubblica Amministrazione (57). Tale concezione dei delitti di corruzione, che è sottesa alla riforma auspicata, non è certo una assoluta novità, ma la riproposizione di quella tradizionale interpretazione della figura della corruzione che la intendeva (55) In ordine a tali preoccupazioni, sia consentito il rinvio a MANNA, Relazione, cit., p. 15. Per non dissimili considerazioni cfr.: ARDIZZONE, La proposta di semplificazione, cit., p. 4; GROSSO, L’iniziativa di Di Pietro, cit., p. 2343; PAGLIARO, Relazione, cit., p. 28. (56) Cfr.: ARDIZZONE, La proposta di semplificazione, cit., p. 2. (57) Cfr.: PULITANÒ, La giustizia penale, cit., p. 26.
— 137 — come preposta alla tutela del rapporto di fiducia tra cittadini e pubblici poteri (58). Del resto, questa non è certo una singolare e curiosa coincidenza, dato che la suggerita unificazione delle figure di corruzione in una sola fattispecie incardinata sull’accettazione di indebite utilità non è altro che il ritorno al concetto romanistico della corruzione, una delle due tradizionali impostazioni che da sempre si contendono il campo in ordine alla ricostruzione del delitto in esame (59). 2.6. Il risultato ultimo di tale ‘‘evoluzione’’: verso il c.d. delitto di infedeltà. — La semplificazione delle disposizioni incriminatrici in tema di corruzione, con la unificazione delle varie figure in una sola fattispecie ricostruita sul modello romanistico (cioè incentrata non più sulla vendita dell’atto d’ufficio ma sulla accettazione di utilità indebite in qualche modo in rapporto con le funzionl del pubblico agente) determina, come visto, una modificazione del bene giuridico protetto che viene ora ad essere identificato, in un’ottica unitaria, con il rapporto di fiducia che deve intercorrere tra cittadini e P.A. Tale evoluzione comporta il rischio, però, che si pervenga non già all’individuazione di una nuova oggettività giuridica in luogo delle attuali (buon andamento, imparzialità e prestigio della P.A.), ma ad una ‘‘svalutazione’’ di quel fondamentale elemento che è, in ogni fattispecie, il bene protetto. Le medesime ragioni che avevano sconsigliato di identificare con il rapporto di fiducia l’oggettività giuridica delle attuali disposizioni incriminatrici, come pure sostenuto da autorevole dottrina (60), inducono a ritenere che tale concetto sia di portata talmente ampia da correre il rischio di risultare un ‘‘contenitore vuoto’’. Il rapporto di fiducia, infatti, viene ad essere leso da ogni comportamento men che onorevole del pubblico agente, anche da quelli puniti in forza di un titolo diverso dalla corruzione, pure da quelli soggetti soltanto ad una sanzione amministrativa o ad un generico biasimo sociale. Il vero è che, in ragione della asserita massima gravità dei fatti di corruzione, ed in un’ottica di semplificazione probatoria, si è voluta delineare una fattispecie amplissima, ma, proprio per questo, dotata di una oggetti(58) Cfr.: WELZEL, Das deutsche Strafrecht, Berlin, 1967, p. 515. Sul punto, nella dottrina italiana, cfr.: SEMINARA, Gli interessi tutelati, cit., p. 976. Tale teorica non è, però, ritenuta, dalla prevalente dottrina, in grado di illustrare compiutamente l’operatività delle attuali disposizioni incriminatrici in tema di corruzione in base all’argomentazione che il rapporto di fiducia intercorrente tra cittadini e P.A. viene leso da ogni comportamento disdicevole del pubblico agente, anche da quello criminalizzato a titolo diverso dalla corruzione ed infine, pure da quello che fuoriesce dall’area del penalmente illecito (PAGLIARO, Principi, cit., p. 145). (59) Cfr.: ARDIZZONE, Le proposte di semplificazione, cit., p. 2. (60) Cfr. nota 59.
— 138 — vità giuridica a contenuto quanto mai generico, ed in quanto tale priva della funzione selettiva delle condotte punibili, limitatrice delle pretese punitive dello Stato, che è la funzione di garanzia propria della categoria del bene giuridico nel diritto penale. Le macrodimensioni del bene protetto, che si ricollegano pure all’aver inteso la corruzione come offensiva degli interessi fondamentali dello Stato, pericolosa per la stessa tenuta della compagine istituzionale (61), determinano una sovrapposizione tra il piano del fine ultimo della tutela penale e quello dell’interesse protetto in via immediata (62). Ogni qual volta l’obiettivo ultimo della tutela penale, preservare le condizioni minime della pacifica coesistenza sociale, diviene l’oggetto giuridico di singole disposizioni incriminatrici, la stessa categoria del bene giuridico, con la sua essenziale funzione di selezione delle condotte punibili, rischia di scomparire, con la conseguenza di spostare il baricentro del disvalore penale dal fatto alla figura soggettiva dell’autore (63). Questo è un pericolo insito nelle proposte avanzate dal Pool Mani Pulite: l’unificazione delle varie figure di corruzione in una unica fattispecie di amplissima portata, l’individuazione di una oggettività giuridica dal contenuto indeterminato e generico, il centrare il nuovo delitto sulla condotta di accettazione di utilità indebite, significa ricostruire l’illecito in esame come un delitto contro la sicurezza dello Stato, contro la sicurezza collettiva (64), facendolo così divenire un ‘‘reato di infedeltà’’ (65), dove il nucleo del disvalore risiede nel comportamento infedele, in quanto venale, del pubblico agente. I delitti di infedeltà sono, infatti, incentrati su un giudizio di disvalore, relativo soprattutto alla figura soggettiva dell’autore, rispetto ad un fatto penalmente rilevante. Che cosa si rimprovera, in definitiva, al pubblico agente nella concezione romanistica della corruzione (che, come visto, è quella posto a fondamento della proposta in esame) ove non è necessario, ai fini della punibilità, che vi sia un rapporto di scambio tra una utilità ed un atto dell’ufficio? La sua natura venale, in un’ottica marcatamente soggettivistica (66), che non può non destare preoccupazioni per chi ritiene, invece, di fondamentale importanza rimanere ancorati ai postulati di un diritto penale del (61) Cfr.: Note illustrative cit., p. 1031; nello stesso senso, anche FORTI, Unicità, etc., cit., p. 1092. (62) Cfr.: SGUBBI, Considerazioni critiche, cit., p. 942. (63) Cfr.: ARDIZZONE, Le proposte di semplificazione, cit., p. 3. (64) Per queste considerazioni sia consentito il rinvio a MANNA, Relazione, cit., p. 36. (65) Lo stesso Pulitanò fa espressamente riferimento al dovere di fedeltà del pubblico agente per giustificare il maggior carico sanzionatorio previsto per l’intraneus rispetto al privato (PULITANÒ, La giustizia penale, cit., p. 27). (66) Cfr.: SGUBBI, Semplificazione ed unificazione, cit., p. 60.
— 139 — fatto, quali baluardi a presidio dell’offensività e della meritevolezza di pena della condotta che si va ad incriminare (67). Che l’esito ultimo della proposta del Pool e di quelle analoghe che sono state presentate sia la ricostruzione del reato di corruzione come un mero delitto di infedeltà risulta confermato alla luce di quella che è la sua versione ‘‘aggiornata’’, come illustrata dall’allora Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, dott. Borrelli, innanzi alla commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica (68), e che risulta oggetto di un disegno di legge all’esame del Parlamento (69). Questi, sul presupposto del venir meno della soggezione del privato nei confronti della P.A., al contrario di quanto accadeva nel passato, propone di non continuare più a distinguere tra le diverse forme di concussione (anche quella per costrizione?) e corruzione, unificandole in una nuova ipotesi di reato incentrata sul passaggio non motivato delle utilità dal privato all’amministratore. Prescindendo, qui, dai rilievi in ordine all’osservanza del principio di uguaglianza (sotto il profilo, e nel senso di una dubbia equiparazione tra la situazione del privato che paga in quanto costretto dal pubblico agente e quella di chi tratta con quest’ultimo in una posizione di parità) e di quello di legalità (sotto il profilo di un ampliamento eccessivo della discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena in ragione della rilevante diversità di disvalore tra le eterogenee fattispecie riconducibili alla nuova disposizione incriminatrice), si deve rimarcare come tale ultima versione della proposta di riforma dei delitti di corruzione accentui ancor di più il carattere di reato di infedeltà della unificata e ridisegnata norma incriminatrice, non richiedendo nemmeno più, tra i requisiti di punibilità, il legame con una pubblica funzione (come previsto nella sua prima formulazione e come dispone il c.p. francese), reputandosi sufficiente la ricezione, da parte del pubblico agente, di utilità non motivate. Non è possibile esimersi dal rilevare come la proposta appena delineata accentui ancor di più i profili di soggettivizazione della fattispecie, pervenendo ad adombrare il rischio di una vera e propria inversione dell’onere della prova, in contrasto col principio di presunzione di non colpevolezza, di cui all’art. 27, comma 2 Cost. (70). Infatti, è facile prevedere che, introdotta la suggerita disposizione, (67) CONTENTO, Altre soluzioni di previsioni normative della corruzione e concussione, in Revisione e riformulazione delle norme, cit., p. 68, rileva il pericolo che una norma incriminatrice come quella proposta dal Pool rischia di rendere punibile anche un rapporto di amicizia magari ‘‘incauto’’ ed ‘‘inopportuno’’, ma che non merita di essere penalmente stigmatizzato. (68) Cfr. le dichiarazioni riportate da La Repubblica, in data 28 marzo 1998. (69) Cfr. le dichiarazioni rese a La Repubblica in data 29 marzo 1998 dall’on. Pisapia, Presidente della Commissione Giustizia della Camera. (70) Non va, infatti, a tal proposito sottovalutato l’atteggiamento della Corte costituzionale che, con la sentenza 17 febbraio 1994, n. 48 (in Cass. pen.. 1994 p. 1445 ss.) ha di-
— 140 — nella prassi giudiziaria ci si orienterà nel senso di ritenere sufficiente la prova del ricevimento di utilità provenienti da chi non è, notoriamente e pubblicamente, in rapporti d’affari col pubblico agente per qualificare come ‘‘immotivato’’ tale passaggio, a meno che quest’ultimo non sia in grado di fornire la prova contraria. Appare allora chiaro come, una volta che si siano tratte le estreme conseguenze dall’esigenza di riunificare le fattispecie di corruzione e di eliminare il riferimento all’atto di ufficio quale architrave delle figure delittuose in vista del conseguimento di obiettivi di esemplificazione probatoria, si corra il rischio di pervenire a disegnare un delitto di mera infedeltà, ricostruito in chiave strettamente soggettivistica sino al punto di prefigurare quasi fattispecie di ‘‘mero sospetto’’, con un’inammissibile inversione dell’onus probandi. Ciò non significa, tuttavia, misconoscere le esigenze espresse dalla giurisprudenza, e molto acutamente interpretate, in chiave di riforma, di recente da autorevole dottrina (71), con l’opportunità d’introdurre due nuove fattispecie criminose, relative, l’una, alla c.d. ‘‘corruzione sistemica’’, ove cioè il pubblico agente risulti, come suol dirsi, ‘‘a libro paga’’ del privato (72), e l’altra, attinente al c.d. ‘‘traffico d’influenze’’, laddove il privato prometta o elargisca donativi al pubblico funzionario, affinché costui intervenga su altri. In entrambi i casi sarà però, a nostro avviso, necessario che il futuro legislatore faccia esplicito riferimento alla pluralità di atti, anche futuri, o, addirittura, all’intiera funzione, oggetto del mercimonio, onde evitare di ricadere in toto nella concezione più risalente della corruzione e, quindi, di incorrere in quelle perplessità, anche di ordine costituzionale, evidenziate sinora. 3. Il delitto di illegale finanziamento ai partiti nella sua evoluzione storica. — Quanto al delitto di illegale finanziamento ai partiti politici, la prima normativa risale al 2 maggio 1974, quando fu approvata la legge n. 195 (73). chiarato l’illegittimità costituzionale del delitto di possesso ingiustificato di denaro, beni od altre utilità di valore sproporzionato al reddito (art. 12-quinquies L. 7 agosto 1992, n. 356) e, con la sentenza 17 ottobre 1996, n. 370, ha proseguito per la strada intrapresa, dichiarando l’illegittimità anche dell’art. 708 c.p., che incriminava il possesso ingiustificato di valori: per maggiori approfondimenti, sia consentito il rinvio a MANNA, La nuova legge sull’usura, Torino, 1997, p. 111 ss. Rileva del pari, seppure con riferimento all’orientamento più « estensivo » del Supremo Collegio, da cui abbiamo preso le mosse, come in tal modo la corruzione rischi appunto di trasformarsi in un reato di sospetto, RUSSO, Il « nuovo » abuso di ufficio e gli altri reati contro la Pubblica Amministrazione, Napoli, 1998, p. 153. (71) FIANDACA, Relazione al V Congresso, etc., cit.; PADOVANI, Relazione al V Congresso, etc., cit.; e GROSSO, Relazione al V Congresso, etc., cit. (72) In argomento v. anche DAVIGO, Intervento alla Tavola Rotonda: ‘‘I processi di Tangentopoli’’, etc., cit. (73) Per una completa ed analitica ricostruzione della situazione precedente tale disciplina, nonché delle ragioni che hanno presieduto la sua approvazione e del dibattito poli-
— 141 — In precedenza, l’attività di ‘‘approvvigionamento’’ di risorse economiche da parte delle formazioni politiche non era soggetta ad alcuna specifica disciplina, nonostante le ingenti somme che pure erano necessarie per sostenere il loro operato (74). Tale situazione era dovuta alle preoccupazioni della classe politica che un finanziamento pubblico avrebbe comportato un rigido sistema di controlli, così come, d’altronde, prevedevano le uniche due proposte di legge presentate in materia nei primi venticinque anni di regime repubblicano (75). Il crescente fabbisogno economico delle forze politiche aveva, però, indotto esponenti di queste ultime a ‘‘sollecitare’’ ed ottenere finanziamenti da parte di enti pubblici o, comunque, soggetti alla direzione ed alla vigilanza dei pubblici poteri, con notevole clamore e scandalo presso l’opinione pubblica in ragione della ‘‘strumentalizzazione’’ dell’apparato pubblico nonché per il crearsi di legami ‘‘ambigui e distorti’’ rispetto a quelli cui dovrebbero improntarsi i rapporti tra potere politico e l’alta dirigenza degli enti pubblici (76). Problemi non minori, relativi al condizionamento delle libere scelte dei partiti, comportava il finanziamento proveniente da parte di società private. D’innanzi a tale situazione, si decise di istituire a carico dello Stato l’obbligo di finanziare le formazioni politiche. Le remore che sino ad allora avevano impedito che si giungesse a tico che le ha avute per oggetto cfr.: SPAGNOLO, I reati di illegale finanziamento, cit., p. 1 ss.; CRESPI R., Lo stato deve pagare i partiti? Il problema del finanziamento dei partiti politici in Italia, Firenze, 1971. (74) Nel 1971 il fabbisogno annuo del sistema politico veniva stimato in 65 miliardi (CRESPI R., Lo stato deve pagare i partiti?, cit., p. 61). (75) Il disegno di legge presentato dall’on. Bertoldi alla Camera in data 29 settembre 1971 prevedeva a fronte della concessione di un finanziamento pubblico, il riconoscimento della personalità giuridica con obbligo di registrazione dei partiti politici ed un profondo ed incisivo controllo sulla loro gestione finanziaria e sulle condizioni minime di democraticità della vita interna dei partiti. In precedenza deve essere ricordato il disegno di legge del sen. Sturzo, presentato in Senato il 16 settembre 1958, che, ben lungi dall’istituire qualsiasi forma di finanziamento pubblico, prevedeva l’obbligo della registrazione con il contemporaneo acquisto della personalità giuridica, l’obbligo di presentazione di un rendiconto annuale, il divieto penalmente sanzionato di accettare contributi da enti e soggetti pubblici nonché da ‘‘centri di potere’’ privati, riducendo in tal modo l’area del lecito finanziamento ai contributi degli iscritti. (76) Celebre è rimasta nell’aneddotica politica e giornalistica italiana la frase con cui Enrico Mattei (1906-1962), primo presidente dell’ENI, descriveva i suoi rapporti con i partiti politici, affermando di ‘‘utilizzarli come taxi, salendovi e scendendovi a piacimento’’, con ciò alludendo alla sua capacità di orientare la politica energetica dei vari partiti utilizzando le ingenti risorse dell’ente da lui diretto per finanziare questi ultimi. Il disegno di legge del sen. Sturzo (illustrato nella nota precedente), risoluto avversario di Mattei, era diretto ad evitare tali pratiche degenerative.
— 142 — questa conclusione furono superate allorché si chiarì che, con la normativa in questione, non si sarebbe previsto alcun controllo sulla democraticità della vita interna dei partiti. Si pervenne, così, all’approvazione della legge n. 195 del 1974 (77). Tale disposizione prevedeva due forme di finanziamento: una costituiva un rimborso delle spese sostenute in occasione delle elezioni politiche generali, l’altra un contributo ordinario annuo, erogato attraverso i gruppi parlamentari (78). La disciplina in questione dettava, poi, una serie di divieti penalmente sanzionati, contenuti nell’art. 7. L’assetto normativo ivi delineato ha subìto profonde modificazioni alla luce della legge 659 del 1981 la quale, oltre ad estendere il finanziamento pubblico alle elezioni per i rinnovi dei Consigli Regionali e per il Parlamento Europeo, ha ridefinito incisivamente l’area dei divieti penalmente rilevanti. Le innovazioni più significative sono state, da un lato l’ampliamento del novero dei destinatari dei divieti in questione, che ora ricomprende espressamente i membri del Parlamento nazionale e di quello europeo, dei consigli regionali, provinciali, comunali, dei candidati alle predette cariche, dei raggruppamenti interni dei partiti politici (le c.d. correnti, prima del tutto escluse dell’area di operatività della legge e per ciò divenute lo strumento utilizzato per compiere le operazioni più scandalose (79)) nonché di coloro che vi rivestono cariche di presidenza, di segreteria e direzione politica ed amministrativa a livello nazionale, regionale, provinciale e comunale, e dall’altro, la previsione di un obbligo penalmente sanzionato, a carico dell’accipiens e del solvens, di denunziare, tramite dichiarazione congiunta da presentarsi alla Presidenza della Camera dei Deputati, il finanziamento che superi i cinque milioni annui, rivalutati secondi gli indici ISTAT. Tale ultima disposizione, in quanto punita con la sola pena della multa da due a sei volte l’ammontare non dichiarato, nonché con la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici prevista dal (77) Sulla quale, per considerazioni anche di ordine civilistico, cfr.: OPPO, Finanziamento dei partiti e diritto privato, in Riv. it. dir. civ., 1974, p. 574. (78) Quest’ultimo tipo di finanziamento è stato oggetto di una storia travagliata, essendo stato sottoposto due volte ad un referendum abrogativo, nel ’78 e nel ’93, la prima volta con esito negativo e la seconda con esito positivo, risultando quindi abrogato solo per poi essere ripristinato nel ’96 con un meccanismo imperniato sulla volontaria assegnazione da parte dei singoli contribuenti di una quota pari al quattro per mille del gettito IRPEF. Tale complicato sistema non è ancora entrato a regime, ragione per la quale sono stati legislativamente assegnati ai partiti per il biennio 1996-1997 110 miliardi annui a titolo di anticipazione. (79) Cfr.: SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. 59.
— 143 — terzo comma dell’art. 28 c.p., deve ritenersi oggi depenalizzata ai sensi dell’art. 32 della legge 689 del 1981 (80). L’insieme dei divieti penalmente sanzionati risultanti dal combinato disposto della legge 195 del 1974 e della legge 659 del 1981 è quindi il seguente: ‘‘Sono vietati i finanziamenti ed i contributi sotto qualsiasi forma ed in qualsiasi modo erogati, anche indirettamente (81), da parte di organi della pubblica amministrazione, di enti pubblici, di società con partecipazione al capitale pubblico superiore al 20% o di società controllate da queste ultime, ferma restando la loro natura privatistica, a favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative, di gruppi parlamentari, di membri del Parlamento nazionale, di membri italiani del Parlamento europeo, dei consiglieri regionali, provinciali e comunali, dei candidati alle predette cariche, dei raggruppamenti interni dei partiti politici, nonché di coloro che rivestono cariche di presidenza, di segreteria, di direzione politica ed amministrativa a livello nazionale, regionale, provinciale, comunale nei partiti politici. Sono vietati altresì i finanziamenti ed i contributi sotto qualsiasi forma, diretta od indiretta, da parte di società non comprese tra quelle previste nel comma precedente in favore dei soggetti di cui al primo comma, salvo che tali finanziamenti o contributi siano stati deliberati dall’organo sociale e regolarmente iscritti in bilancio e sempre che non siano comunque vietati dalla legge. Chiunque corrisponde o riceve contributi in violazione dei divieti previsti nei commi precedenti, ovvero, trattandosi delle società di cui al secondo comma, senza che sia intervenuta la deliberazione dell’organo so(80) Cfr.: GREVI, Davvero da depenalizzare, cit., p. 2; NAPPI, Nessuna depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti, in Cass. pen., 1994, p. 247. (81) L’amplissima portata dei termini utilizzati in tale disposizione (che consente di ricondurvi anche le condotte omissive) induce a chiedersi se non sia stato qui violato il principio di tassatività. Si è tentato di fugare tale dubbio affermando che le clausole generali ivi utilizzate danno luogo ad una c.d. analogia interna, la quale non confliggerebbe coll’art. 25, 2o comma, Cost., dato che, in questi casi, è la medesima norma incriminatrice ad autorizzare l’interprete alla sua applicazione ‘‘analogica’’ (SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. 55). Tale argomentazione non appare, però, del tutto persuasiva, atteso che il principio di determinatezza è relativo proprio alla littera legis della norma penale ed è diretto ad evitare che essa sia formulata in maniera tale da potervi includere le più svariate condotte, in base alla mera discrezionalità dell’interprete, e questo pericolo non sembra affatto eluso dall’incerta distinzione tra analogia ‘‘interna’’, da ritenersi compatibile con il principio di tassatività e quella ‘‘esterna’’, che lo violerebbe. Essa, inoltre, sembra viziata da una sorta di ‘‘Inversions methode’’, nel senso che pone un limite all’applicazione dell’art. 25, comma 2, Cost., alla luce della legge ordinaria e non viceversa, come invece sarebbe stato corretto. La questione, per quanto meritevole di ampia riflessione, non risulta essere stata in alcun modo ripresa negli anni successivi, in cui, probabilmente, l’urgenza delle problematiche relative alla prassi giudiziaria ha fatto premio sulla pur indispensabile esigenza di approfondimento dogmatico.
— 144 — cietario o senza che il contributo od il finanziamento siano stati regolarmente iscritti nel bilancio della società stessa, è punito, per ciò solo, con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa fino al triplo delle somme versate in violazione delia presente legge’’. A queste disposizioni va aggiunta la previsione di cui all’art. 4 della legge 659/1981 che, nel caso di finanziamento vietato a partiti o loro articolazioni politico-organizzative o loro gruppi parlamentari, stabilisce la sanzione amministrativa della decurtazione del contributo statale in misura pari al doppio delle somme illegittimamente percepite. La disciplina qui delineata è stata, per molti anni, sostanzialmente disapplicata, al punto che, ancora nel 1990, poteva affermarsi che ‘‘le riviste giuridiche segnalano una sola iniziativa giudiziaria’’ (82). Le cose sono radicalmente mutate a seguito della inchiesta ‘‘Mani Pulite’’ che ha individuato in tale reato uno dei contrassegni tipici di ‘‘Tangentopoli’’. Assurta in maniera così eclatante alle cronache, la fattispecie in questione è stata oggetto di svariate proposte di modifica, abrogazione (non mancando chi la ritiene già abrogata) (83), depenalizzazione, per comprendere appieno le quali e le esigenze che le hanno ispirate è indispensabile una previa analisi dettagliata di tali disposizioni. 3.1. Rapporti fra il bene giuridico protetto e la struttura della fattispecie criminosa. — La disciplina in tema di illecito finanziamento ai partiti politici prevede, dunque, due fattispecie, la prima delle quali pone un divieto assoluto ad organi della pubblica amministrazione, ad enti pubblici, a società con capitale pubblico superiore al 20% o da queste ultime controllate, di finanziare formazioni politiche e la seconda che prevede determinate modalità (la deliberazione dell’organo competente e la iscrizione in bilancio), affinché ciò avvenga da parte di società diverse dalle prime. L’oggettività giuridica protetta da tali disposizioni non può ritenersi la medesima, attesa la loro profonda differenza strutturale, in quanto la prima è una norma-divieto, sancente cioè un obbligo di astensione penalmente sanzionato e la seconda una norma-comando, che impone un obbligo a contenuto positivo, quello di effettuare con determinate modalità i finanziamenti. Mentre, per alcune figure rientranti nella sfera del ‘‘pubblico’’, è stabilito un generale divieto di dar luogo ad erogazioni di favore nei confronti delle formazioni politiche (84), tale comportamento, se posto in es(82) SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. VII. (83) Cfr.: TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti e depenalizzazione, in Giust. pen., II, 1994, p. 353. Il punto sarà ampiamente discusso nel paragrafo 3.3. (84) I termini ‘‘finanziamenti e contributi’’, presenti nella littera legis, devono essere intesi in senso ‘‘atecnico’’, come sinonimi di erogazioni di favore, e non già, più propria-
— 145 — sere da soggetti privati è certamente lecito, ma costituisce un fatto penalmente rilevante unicamente nell’ipotesl in cui alcuni di questi soggetti privati (le società di capitali) non si avvalgano della procedura prescritta (85). La diversità delle disposizioni incriminatrici è il più rilevante indice di una eterogeneità degli interessi protetti. L’assolutezza del divieto di finanziamenti pubblici è preposta ad evitare che si creino delle ‘‘sperequazioni’’ tra le varie formazioni politiche di maggioranza e di opposizione, e cioè ad impedire che solo le prime si avvalgano di risorse ulteriori a quelle previste dalla disciplina generale, facendosele assegnare dall’apparato pubblico il cui ceto dirigente è da esse espresso (86). La norma in esame è stata posta, quindi, al fine dl evitare che le risorse pubbliche venissero distribuite in base a criteri diversi da quelli stabiliti dalla legge 195/1974 e successive modifiche, le quali, in definitiva, fanno riferimento, tramite il rinvio ai gruppi parlamentari (e, dunque, alla loro consistenza) ai risultati delle competizioni elettorali. Nel disegno del legislatore, stabilito che il finanziamento pubblico alle varie formazioni politiche fosse da quantificarsi in ragione dei loro consensi, il divieto in esame assumeva la funzione di evitare che tale fondamentale parametro venisse ‘‘eluso’’ e che, pertanto, un partito potesse ricevere risorse economiche in misura maggiore di quella che meritava alla luce dei propri suffragi elettorali. Il bene giuridico protetto dalla disposizione incriminatrice in questione è dunque rappresentato dal ‘‘rispetto delle regole del gioco’’ stabilite dalla legge ed, in ultima istanza, dal pluralismo politico che verrebbe ad essere falsato ed alterato se si consentisse ad alcune formazioni politimente, secondo la terminologia giuridica, come ‘‘mutuo di scopo’’ il primo ed ‘‘erogazione a fondo perduto’’ il secondo. Questa conclusione è necessitata poiché la contraria condurrebbe all’estremo di ritenere che anche l’apertura di credito da parte di banca organizzata in forma societaria in cui sia presente capitale pubblico in misura superiore al venti per cento integri gli estremi del delitto in esame. Sul punto vi è una sostanziale concordia, al di là di differenze meramente terminologiche. Cfr., a questo proposito, SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. 47; LOZZI, L’ambito di operatività, cit., p. 345; ALAGNA, Finanziamento dei partiti politici e contratti bancari, in Giur. it., 1980, IV, p. 383; Trib. Napoli, 5 novembre 1978, in Banca, borsa, tit. cred., 1979, II, p. 361. (85) Per OPPO, Finanziamento dei partiti, cit., p. 579, la l. n. 195/1974, ben lungi dal limitarsi a prevedere semplici modalità di effettuazione del finanziamento da parte di società, ha avuto invece il significato di renderle per la prima volta giuridicamente lecite, dato che, in precedenza, esse dovevano ritenersi illecite in quanto contrarie all’oggetto sociale. (86) L’esperienza di Tangentopoli ha pienamente confermato tale timore, risultando, dalle inchieste svolte, che condizione di permanenza dei pubblici amministratori nei loro incarichi fosse il procurare finanziamenti al partito di provenienza avvalendosi del ruolo pubblico ricoperto. Cfr.: Trib. Milano, 28 aprile 1994, in Foro it., 1995, II, p. 66.
— 146 — che di conseguire risorse sproporzionate rispetto al loro consenso elettorale (87). È stato, però, rilevato come tale ricostruzione dell’oggettività giuridica della norma in esame non riesca a rendere ragione del perché siano vietati i finanziamenti da parte di società in cui il capitale pubblico superi il 20% ma che, ciò nonostante, non siano controllate da quest’ultimo, laddove, invece, società controllate dallo Stato o da altri enti pubblici con una partecipazione azionaria inferiore a tale soglia siano escluse dal suo ambito di operatività. Alla luce di questa considerazione, si è dedotto che alla prima fattispecie delineata dall’art. 7 della legge 195/1974, come modificata dalla legge 659/1981, sia sottesa la preoccupazione di evitare ‘‘la perdita di denaro pubblico al di là di una certa misura o proporzione’’ (88). La seconda norma incriminatrice sanziona penalmente chi corrisponde o riceve contributi erogati da società diverse da quelle di cui al primo comma dell’art. 7, qualora non sia intervenuta la deliberazione del competente organo societario o senza che si sia proceduto alla regolare iscrizione nel bilancio della società stessa. Questa norma, restringendo l’area della punibilità alle erogazioni effettuate senza le prescritte modalità da parte di alcuni determinati soggetti, sancisce, implicitamente, il principio della generale liceità del finanziamento privato alle formazioni politiche (89), e da ciò si deduce che la disciplina legislativa di tale finanziamento non è finalizata ad evitare ‘‘condizionamenti’’ della politica da parte di potentati economici (90), ma ad assicurare la ‘‘trasparenza’’ dei rapporti tra economia e politica (91). Il legislatore non ha inteso evitare che l’attività di una formazione politica venisse ‘‘orientata’’ verso la cura di certi interessi in quanto ‘‘sollecitata’’ da questa o da quella categoria di privati finanziatori, ma ha voluto che tali rapporti, quando riguardino soggetti economicamente ‘‘forti’’, vengano alla luce, tramite un sistema che potremmo definire di ‘‘pubblicità-notizia’’, in modo che il cittadino possieda tutti gli elementi utili per formarsi un proprio convincimento e determinare nella massima consapevolezza le sue scelte politiche. (87) Cfr.: GREVI, Davvero da depenalizzare, cit., p. 2; SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. 34. (88) OPPO, Finanziamento dei partiti, cit., p. 578. (89) Cfr.: SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. 36; ALAGNA, Finanziamento dei partiti, cit., p. 379. (90) In questo senso si esprime, invece, la relazione al disegno di legge che è alla base della l. n. 195/74. Cfr.: Atti parlamentari, Camera dei Deputati, VI Legislatura, Disegni e proposte di legge, LIII, n. 2860-39 A, p. 8. (91) Sul punto la dottrina è unanime. Cfr.: GREVI, Davvero da depenalizzare, cit., p. 2; TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti, cit., p. 358; SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. 38.
— 147 — L’aver penalizzato non già il finanziamento privato in sé, ma solo quello ‘‘occulto’’, attesta indubitabilmente come ratio della norma in esame sia la tutela della ‘‘trasparenza’’ dei rapporti tra politica ed economia. 3.2. Le perplessità di ordine costituzionale, in relazione soprattutto ai principi di uguaglianza ed offensività. — L’essere la ‘‘trasparenza’’ il bene protetto dalle norme incriminatrici in tema di finanziamento privato ai partiti politici ha indotto taluni a ritenere che la fattispecie in questione sia sostanzialmente priva di un contenuto proprio di reale ‘‘offensività’’ e risulti, per questa via, incostituzionale (92). Sul presupposto che la ‘‘trasparenza’’, così come il suo opposto concettuale, la ‘‘riservatezza’’, non sono beni o valori in sé, ma solo strumenti per assicurare la tutela di altri interessi che costituiscono il vero bene protetto, si è affermato che la fattispecie di finanziamento ‘‘occulto’’ alle formazioni politiche non sia preposta alla tutela di un valore avente rilevanza tale nella gerarchia costituzionale da legittimare la irrogazione di sanzioni penali, e se ne è pertanto dedotta la sua illegittimità costituzionale, in quanto reato ‘‘meramente formale’’ (93). Tale dubbio di legittimità costituzionale della disposizione in esame non appare appieno condivisibile, atteso che la norma incriminatrice del finanziamento societario ‘‘occulto’’ tutela, sì, la ‘‘trasparenza’’, ma come bene ‘‘strumentale’’, la cui protezione è funzionale a quella di uno dei più alti valori concepibili nell’ambito di qualsiasi ordinamento liberaldemocratico: il diritto di partecipazione democratica alla vita politica, bene ‘‘finale’’ (94). È quest’ultimo, infatti, il vero oggetto giuridico delle norme che criminalizzano il finanziamento non deliberato e non iscritto a bilancio. Con esse si vuol garantire che il cittadino-elettore sia pienamente consapevole dei rapporti intercorrenti tra una certa forza politica ed un soggetto economico al fine di maturare un proprio giudizio sull’attività di tale partito e quindi decidere se apprestare o meno il suo consenso a quest’ultimo, tenuto conto di tutte le ragioni che possano aver ispirato il suo indirizzo politico. (92) Cfr.: FIORELLA, Sul finanziamento occulto dei partiti politici, cit., p. 181. (93) Cfr.: FIORELLA, Sul finanziamento occulto dei partiti politici, cit., p. 185. (94) Sulla diffusione, nell’ambito del moderno diritto penale economico, di tecniche di tutela incentrate sull’anticipazione della stessa tramite la protezione assicurata a beni ‘‘strumentali’’ rispetto agli interessi finali protetti, cfr., di recente, PULITANÒ, L’anticipazione dell’intervento penale in materia economica, in Atti del IV Congresso nazionale di diritto penale: ‘‘Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario’’, Torino, 1996, p. 9 ss.; nonché, sia consentito il rinvio pure a MANNA, La nuova legge, etc., cit., p. 69. Da ultimo, sui beni giuridici tutelati dalle figure d’illegale finanziamento ai partiti politici, in chiave plurioffensiva, cfr. FORZATI, op. cit., p. 63 ss., e, spec., 79 ss.
— 148 — La disposizione incriminatrice in questione, ben lungi dall’essere posta a protezione soltanto di una ‘‘astratta trasparenza’’, risulta invece finalizzata alla tutela di uno dei più importanti valori costituzionali, quali il diritto di partecipazione democratica alla vita del paese, che si fonda sulla formazione di un libero giudizio politico. Ed è proprio questa libertà di valutazione politica che la norma tutela, poiché, come di tutta evidenza, soltanto una valutazione pienamente consapevole (in quanto fondata sulla conoscenza di tutti i fattori che possano avere influenzato l’indirizzo politico di un certo partito) è una valutazione che possa definirsi del tutto libera (95). Maggiormente fondate appaiono, invece, le perplessità di ordine costituzionale relative al mancato rispetto del principio di uguaglianza da parte della disciplina sul finanziamento dei partiti politici. Si è rilevato come non risultino appieno comprensibili le ragioni che hanno indotto a criminalizzare il solo finanziamento societario ‘‘occulto’’ e non già (dopo la depenalizzazione operata dalla legge 689 del 1981 dell’obbligo di depositarne comunicazione presso la presidenza della Camera dei Deputati) quello di altri soggetti privati, quali persone fisiche, società di persone (96), associazioni e fondazioni. Anche questi soggetti possono assumere un importante ruolo economico ed orientare, tramite i finanziamenti da loro erogati, le scelte dei partiti politici. Pure in ordine ai contributi provenienti da queste figure sussistono dunque, le medesime ragioni di pubblicizzazione che presiedono alla criminalizzazione del finanziamento societario ‘‘occulto’’, e non si vede la ragione, pertanto, della attuale diversificazione normativa. Questa differenziazione del trattamento tra fattispecie che presentano il medesimo tasso di ‘‘pericolosità’’ nei confronti dell’interesse a che vi siano libere (poiché consapevoli) scelte politiche risulta irragionevole e (95) Non condivisibile è pertanto l’argomento di chi rinviene l’illegittimità costituzionale della disposizione in esame nella norma costituzionale che assicura la segretezza del voto, da cui dovrebbe dedursi una generale garanzia costituzionale di ‘‘riservatezza’’ delle scelte attinenti alla propria sfera politica, tra cui quella di finanziare un certo partito (FIORELLA, Sul finanziamento, cit., p. 186). Il vero è, come visto, che la segretezza del voto risponde alle medesime esigenza cui è finalizzata la ‘‘pubblicità’’ dei finanziamenti societari: l’assicurare il libero formarsi del convincimento politico del cittadino-elettore, che ora è tale (per il voto segreto) in quanto sottratto a coazioni esterne, ora è tale (per la ‘‘trasparenza’’ dei finanziamenti) in quanto pienamente consapevole. (96) Cfr.: SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. 75, il quale rileva come l’obbligo di iscrizione a bilancio del finanziamento, funzionale alla sua pubblicizzazione, presupponga l’obbligo di rendere pubblico il bilancio tamite la sua iscrizione al registro delle imprese e la sua pubblicazione sul bollettino ufficiale e deduce, dalla circostanza per cui tale obbligo non grava sulle società di persone, che i finanziamenti da queste erogate sono soggetti unicamente alla disciplina dettata per le persone fisiche.
— 149 — pertanto, contraria al principio di uguaglianza, con violazione, quindi, dell’art. 3 Cost. (97). Le perplessità, da ultimo illustrate sul rispetto del principio di uguaglianza da parte della normativa in esame, vengono ad essere poi avvalorate da preoccupazioni analoghe relative non soltanto al finanziamento ‘‘privato’’ e cioè alla seconda fattispecie di cui all’art. 7 della legge 195 del 1974, ma altresì a quello ‘‘pubblico’’, disciplinato dal primo comma di tale articolo. Anche in ordine al divieto, apparentemente assoluto, di finanziare i partiti politici da parte di enti ed organismi rientranti nell’ambito dell’apparato pubblico, nonché di società con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20% si è assistito ad una fuoriuscita dall’ambito di operatività di tale norma di un numero sempre più ampio di soggetti, pur se di tale fenomeno non si è ancora addivenuti ad una piena consapevolezza né da parte della dottrina né da quella del legislatore. Una delle più recenti tendenze evolutive del nostro ordinamento consiste, infatti, nell’attribuire la patente ‘‘privatistica’’ e nell’assoggettare al relativo regime tutta una serie di enti in precedenza definiti pubblici, e tutto ciò al fine di consentire loro un operare maggiormente agevole e celere, senza soggiacere più alle eccessive rigidità e limitazioni proprie del regime dei controlli amministrativi. Così è avvenuto che si trasformassero in soggetti formalmente ‘‘privati’’, per quanto il capitale e la nomina dei gruppi dirigenti rimanessero saldamente in mano pubblica, gli enti teatrali ed altri importanti enti culturali quali la Biennale di Venezia (98). Una conseguenza di tale trasformazione, della quale non ci si è probabilmente avveduti in pieno, consiste nel fatto che questi soggetti, i quali, in precedenza, rientravano senza dubbio alcuno nell’ambito di operatività del divieto assoluto di finanziare partiti politici relativo agli enti pubblici, ne sono oggi fuoriusciti, e che, per di più, devono ora considerarsi del tutto al di là del campo di applicazione delle norme in esame, atteso che, non essendo divenuti società, non rientrano neanche sotto il vigore della disposizione che incrimina il finanziamento societario ‘‘occulto’’. Si delinea, in tal modo, un’ulteriore differenziazione tra enti che sono ancora formalmente pubblici ed enti che non lo sono più, per quanto permangano tutte le ragioni che presiedettero alla criminalizzazione dei finanziamenti provenienti da questi soggetti, dato che il capitale rimane ancora in mani pubbliche (e continua pertanto a sussistere il pericolo di ‘‘sperequazione’’ nella distribuzione di risorse di origine pubblica tra le varie formazioni politiche). (97) Cfr.: FIORELLA, Sul finanziamento, cit., p. 182. (98) Su tale tipo di ‘‘privatizzazione’’ degli enti pubblici, cfr., in senso nettamente critico, CASSESE, Lo Stato introvabile, in Liberal, 1998, n. 3, p. 66.
— 150 — Il fenomeno appena descritto non è ancora emerso alla piena consapevoleza della riflessione giuridica probabilmente perché, sinora ha riguardato enti che certamente non possono ritenersi in ‘‘floride’’ condizioni economiche e che risulta, dunque, difficile immaginare possano erogare finanziamenti a partiti politici. Ma la questione è destinata a porsi in tutta la sua drammaticità allorché andrà in porto la progettata ‘‘privatizzazione’’ (anche qui solo formale, cioè relativa al regime giuridico e non già agli assetti proprietari e dunque ai criteri di nomina dei vertici) delle fondazioni bancarie (99), cioè degli enti, sinora pubblici, che possiedono i pacchetti di controllo delle maggiori imprese creditizie italiane. Una volta che questa sarà compiuta, ci troveremo innanzi a degli autentici potentati economici (i cui gruppi dirigenti continueranno ad essere di nomina pubblica) che, non avendo forma societaria, potranno erogare qualsiasi tipo di finanziamento ‘‘occulto’’ alle formazioni politiche senza soggiacere ad alcuna sanzione penale. A quel punto, diverrà appieno evidente la ‘‘irragionevolezza’’ di una disciplina che criminalizza il finanziamento occulto erogato da società creditizie e considera, invece, penalmente lecito quello proveniente dai soggetti che possiedono le maggiori imprese creditizie. 3.3 La questione relativa alla sua opinata abolitio. — I dubbi di legittimità costituzionale relativi alla disciplina del finanziamento illecito dei partiti politici, insieme alla altre tematiche ad essa relative cesserebbero di essere avvertite nella urgente problematicità che accompagna la loro analisi qualora si accogliesse la tesi della avvenuta abrogazione della normativa in questione. Si è, infatti, autorevolmente sostenuto che le leggi 195 del 1974 e 659 del 1981 sono state tacitamente abrogate dalla legge 515 del 1993, la quale ha predisposto una organica disciplina del finanziamento ai candidati durante la campagna elettorale precedente le elezioni politiche ed ha previsto, in caso di violazione delle sue prescrizioni, una serie di sanzioni amministrative che sono state ritenute sostitutive di quelle precedenti dettate dalle norme sin ora esaminate (100). L’abrogazione tacita delle disposizioni incriminatrici in tema di finanziamento illecito ai partiti è motivata in ragione di una ‘‘incompatibilità di fondo’’ tra la logica ispiratrice della disciplina che si afferma essere stata ‘‘sostituita’’, finalizzata a rendere pubbliche le erogazioni private ai partiti determinandone le modalità, e quella che sottende la legge 515 del 1993, la quale è, invece, diretta a porre un limite quantitativo (di 20 milioni) ai (99) Sul relativo disegno di legge, e sul suo iter parlamentare, cfr.: Liberal, 1998. n. 4, p. 62. (100) Cfr.: TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti, cit., p. 360.
— 151 — finanziamenti che ciascun candidato può ricevere da un singolo durante la campagna elettorale. Da questa radicale diversità dei criteri ispiratori delle due normative si è dedotto che il combinato disposto delle leggi 195/74 e 659/81 è stato abrogato tacitamente per incompatibilità rispetto alla legge 515 del 1993, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi (101). L’impostazione appena delineata è rimasta isolata in dottrina e non ha trovato alcun riscontro giurisprudenziale, continuando a trovare applicazione le disposizioni incriminatrici in esame. A tale orientamento giurisprudenziale non sembra possano, in verità, muoversi critiche, dato che la legge 515/93 ha un oggetto diverso da quello delle leggi 195/74 e 659/81, e che, pertanto, non può, fondatamente, sostenersi che vi sia stata una abrogazione tacita per incompatibilità. Quest’ultima può verificarsi, come è noto, soltanto laddove due normative regolino la medesima materia e siano ispirate da logiche di fondo tra loro incompatibili. Ma non è certo questo il caso delle norme in questione dato che la legge 515 del 1993 ha per oggetto esclusivamente i finanziamenti erogati in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche e non affronta certo il problema di dettare una disciplina generale relativa al finanziamento delle formazioni politiche (102). Ne è possibile ritenere che tale disciplina generale sia delineata dalla legge del ’93, la quale, nel consentire il finanziamento entro certi limiti quantitativi durante la campagna elettorale, sancirebbe, implicitamente, il divieto assoluto di effettuarne al di fuori di essa, divieto la cui violazione comporterebbe solo la sanzione amministrativa da essa prevista (103). A quest’ultima argomentazione può facilmente obiettarsi come la normativa del ’93, ben lungi dal dettare (in via implicita, per di più) un principio generale del tutto sostitutivo di quanto previsto dalle leggi 195/74 e 659/81, le presuppone, al contrario, pienamente valide ed operanti, dato che vi apporta alcune modifiche (104). Da quanto esposto si desume, quindi, come le norme penali in tema di illecito finanziamento ai partiti politici siano pienamente vigenti il che, del resto, rende ragione del dibattito sviluppatosi in questi ultimi anni sulla loro modifica e/o depenalizzazione. 3.4.
Le prospettive di depenalizzazione e le loro ‘‘controindicazio-
(101) Cfr.: TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti, cit., p. 360. (102) Per questi rilievi cfr.: NAPPI, Nessuna depenalizzazione, cit., p. 247. (103) Cfr., in questo senso, TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti, cit., p. 361. (104) Per questo argomento, cfr.: Trib. Milano, 28 aprile 1994, cit., p. 94, ribadito, di recente, in relazione allo stesso caso giudiziario, dall’intervento della Cass. pen., sez. V, sent. 21-31 gennaio 1998, n. 1245, ric. Cusani, in Guida al Diritto-Il Sole 24 Ore, n. 8, 28 febbraio 1998, p. 25 ss., e spec. p. 94.
— 152 — ni’’, derivanti sia dal rango del bene protetto che, soprattutto, da preoccupazioni di tipo ‘‘processuale’’. — Le disposizioni incriminatrici dell’illecito finanziamento alle forze politiche sono state, negli ultimi anni, in corrispondenza della loro ‘‘riscoperta’’ in occasione di Tangentopoli, al centro di un dibattito politico-parlamentare relativo alla utilità del mantenimento delle stesse. Si è affermata, da più parti e ripetutamente, la opportunità di trasferire la tutela della ‘‘trasparenza’’ del finanziamento ai partiti dall’ambito del diritto penale a quello delle semplici sanzioni amministrative. Svariate sono state le proposte in tal senso, al punto che quella della depenalizazione è stata definita ‘‘una sorta di idea fissa per buona parte del mondo politico’’ (105). Le motivazioni che vengono addotte a fondamento di tali suggerite modificazioni vertono principalmente sul carattere ‘‘meramente formale’’ delle irregolarità sanzionate dal combinato disposto delle leggi 195/74 e 659/81 e, dunque, sulla opportunità, nell’alveo di un più generale processo di depenalizzazione delle numerose fattispecie ‘‘bagatellari’’ presenti nel nostro ordinamento (che sono causa non ultima di quel sovraccarico di pendenze giudiziarie che è uno dei grandi mali che affliggono l’amministrazione della giustizia nel nostro paese), di ricondurle nell’ambito del mero illecito amministrativo. Tuttavia, per quanto, indubitabilmente, sussistano fondate esigenze di riduzione, in maniera incisiva, del numero delle disposizioni incriminatrici, non sembra che la proposta depenalizzazione di quelle in tema di illecito finanziamento ai partiti politici sia destinata ad andare in porto, come attesta il fallimento dei progetti sinora presentati alle Camere (106). Il vero è che, in favore del mantenimento nell’area del penalmente rilevante delle fattispecie in questione, militano ragioni di indubbia rilevanza. Queste ultime sono attinenti, in primo luogo, al rango del bene protetto, la ‘‘trasparenza’’ delle fonti di finanziamento della vita politica, bene strumentale che assicura tutela indiretta ad uno dei più alti valori di qualsiasi ordinamento democratico, la libertà di formazione del giudizio politico da parte del cittadino, come in precedenza ricordato. L’argomento relativo al rango del bene protetto non è, peraltro, quello decisivo a sfavore delle proposte di depenalizzazione delle norme in esame, atteso che è un risultato ormai da tempo acquisito nella mo(105) GREVI, Davvero da depenalizzare, cit., p. 1, al quale pure si rinvia per una dettagliata ricostruzione delle proposte di depenalizzazione esaminate negli ultimi anni dal Parlamento. (106) Cfr.: GREVI, Davvero da depenalizzare, cit., p. 2.
— 153 — derna riflessione giuridica quello relativo all’inesistenza di obblighi costituzionali di tutela penale (107). Per quanto sia elevata la posizione di un bene nella ideale gerarchia costituzionale dei valori, non può, infatti, affermarsi che, automaticamente, agli interessi di maggiore rilevanza si debba apprestare sempre tutela penale. Nell’ambito di una moderna concezione del diritto penale, in cui esso venga ‘‘laicamente’’ inteso quale strumento di riduzione delle offese agli interessi di maggiore rilievo sociale, la cui scelta non è mai necessitata, ma compiuta unicamente in funzione della sua dimostrata efficacia, si devono ad esso preferire altri strumenti di tutela, meno gravosi, (in quanto non sacrifichino il bene della libertà personale), ogni qual volta questi ultimi assicurino una protezione altrettanto adeguata (108). Alla luce di queste considerazioni, la principale ragione che milita a sfavore della proposta depenalizzazione dell’illecito finanziamento ai partiti non risiede, quindi, soltanto, nel rango del bene protetto (109), ma anche nella minore efficacia che nella lotta a tale fenomeno ed a quelli che ad esso si collegano conseguirebbe al ricorso a strumenti extrapenali di tutela. Deve, infatti, rilevarsi che il ridurre ad illecito amministrativo le ipotesi in questione significherebbe demandarne l’accertamento non più ad organi indipendenti dal potere politico, quali quelli giudiziari, ma ad apparati ad esso subordinati, quali quelli amministrativi. Evidente è il rischio che i pubblici funzionari preposti a tali compiti siano, perlomeno, poco ‘‘sollecitati’’ a svolgerli con solerzia, qualora i sospetti di illecito finanziamento riguardino le formazioni politiche che esprimono gli organi di vertice dell’amministrazione cui essi appartengono (110). Tali preoccupazioni, per quanto condivisibili, non sono, in verità, totalmente insuperabili, dato che l’accertamento e l’irrogazione di sanzioni relative al finanziamento illecito dei partiti politici potrebbero essere demandate ad una di quelle autorità amministrative indipendenti dal potere (107) Cfr.: PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, p. 484. (108) Sui principi di proporzione di sussidiarietà, come i più accreditati criteri che dovrebbero orientare le scelte di polilica criminale, sia consentito anche per un esame della ricca bibliografia sull’argomento, il rinvio a MANNA, Tutela penale della personalità, cit., p. 11 ss. (109) Anche in precedenza, avevamo, infatti, rilevato, in proposito, come soltanto il rango del bene protetto non costituisse ragione sufficiente a legittimare la tutela penale. Sia consentito, sul punto, di nuovo il rinvio a MANNA, Tutela penale della personalità, cit., p. 52 ss. (110) Cfr.: GREVI, Davvero da depenalizzare, cit., p. 3.
— 154 — politico che, sempre più numerose, vengono istituite nel nostro ordinamento (111). Ma, al di là di tali considerazioni, l’ostacolo maggiore che si frappone alla proposta depenalizzazione viene a fondarsi, di nuovo, su ragioni di natura ‘‘processuale’’. Come attesta l’esperienza dell’inchiesta ‘‘Mani Pulite’’, il delitto di illecito finanziamento ai partiti politici si accompagna, il più delle volte, a gravi reati contro la Pubblica Amministrazione, quali la corruzione e la concussione, di modo che la possibilità di indagare su di esso si è rivelata, in tanti casi, l’occasione di venire a conoscenza, da parte della Autorità giudiziaria, di questi altri delitti. Le disposizioni sull’illecito finanziamento sono state utilizzate, dagli organi inquirenti, quali vere e proprie ‘‘norme-civetta’’, che hanno permesso la scoperta di molti gravi fenomeni di degenerazione della vita amministrativa e politica. La proposta depenalizzazione presenta, pertanto, il rischio di ridurre in misura rilevante l’efficacia del controllo di legalità sull’operato della Amministrazione svolto sinora dalla Autorità giudiziaria (112). La trasformazione di tali fattispecie in semplici illeciti amministrativi presenta, quindi, quale ‘‘controindicazione’’, il pericolo di abbassare sotto il livello di guardia l’efficacia di quegli strumenti che hanno permesso, negli ultimi anni, l’emersione di quella degradazione patologica dei rapporti (111) Questa è, del resto, la via seguita in Francia, dove è stata prevista, nell’ipotesi di violazione delle norme sul finanziamento ai candidati ed alle forze politiche, oltre ad una pena detentiva che non supera, nel massimo, un anno d’emprisonnement, un’organica serie di sanzioni amministrative, tra cui alcune molto incisive, quali la perdita per un anno del finanziamento pubblico e la decadenza dalla carica elettiva ricoperta, che sono demandate alla Commissione nationale des comptes de campagne et des financiamentes politiques, istituita e regolamentata dalla leggi 90-55 del 1990, 93-122 del 1993, organismo indipendente dal potere politico in quanto i suoi membri non sono nominati da organi politici ma giudiziari, quali il Conseil d’Etat, la Cour de cassation, e la Cour des comptes. In Germania, invece, la Parteiefinanzierungsgesetz del 1o gennaio 1984 non contiene specifiche fattispecie incriminatrici l’illecito finanziamento dei partiti politici, per il quale, al contrario, trovano applicazione le disposizioni del diritto penale tributario. Cfr., sul punto, HOFMANN, Die staatliche Teilfinanzierung der Parteien-Finanzpolitische und Steurrechtliche Aspekte des neuen Finanzierunsgssystem, in NJW, 1994, p. 691 ss.; v. ARNIM, Verfassungsfrasgen der Parteiefinanzierung, in Juristiche Arbeitsblätter, 1985, Teil 1, p. 122 ss., Teil 2, p. 207 ss. (112) Cfr.: GREVI, Davvero da depenalizzare, cit., p. 3, il quale aggiunge che l’abbassamento del livello del controllo di legalità è, in effetti, l’obiettivo ultimo perseguito da chi auspica la depenalizzazione dei delitti di illecito finanziamento ai partiti, come si evince da quelle proposte parlamentari in cui si richiede la depenalizzazione, altresì, delle attività teleologicamente connesse in materia di finanziamenti e contributi, tra le quali vengono espressamente inclusi delitti di notevole gravità quali il falso in bilancio (cfr.: Atti Parlamentari, Camera, XIII Legislatura, seduta 11 giugno 1997, emendamenti 8.12, 8.13 e 8.16 presentati dagli on. Bruno e Rebuffa).
— 155 — tra potere politico ed economico, che ha caratterizzato la recente vita pubblica italiana. 4. Corruzione e finanziamento illegale: concorso di reati o di norme? — I delitti di corruzione e di illecito finanziamento ai partiti politici sono stati due reati ‘‘tipici’’ del malaffare politico-amministrativo che le inchieste giudiziarie degli ultimi anni hanno posto in luce. Tali figure sono coesistite nell’ambito di quei patologici rapporti tra potere politico, amministrazione ed imprenditoria privata che va sotto il nome di ‘‘Tangentopoli’’. Il legame tra tali reati, lungi dall’essere casuale, è risultato invece, una costante, al punto che, come appena visto, la principale ragione che si frappone alla depenalizzazione del delitto di illecito finanziamento ai partiti risiede nella sua utilità a fini investigativi, nella possibilità, cioè, che indagando su di esso, si venga a conoscenza di ben più gravi reati che, usualmente, vi si accompagnano. Stando così le cose, sorge naturale il quesito relativo a quali siano i rapporti tra le due figure oggetto della presente analisi, qualora un medesimo fatto storico sia sussumibile sotto ciascuna delle due previsioni incriminatrici. Ci si dovrà chiedere, in tali casi, se ci si trovi d’innanzi ad un concorso apparente di norme, e, quindi, se si debba applicare soltanto una di esse, o ad un concorso di reati. Quest’ultima soluzione appare, senza dubbio, quella preferibile, atteso che tra le disposizioni incriminatrici in esame non intercorre alcuno di quei rapporti che ci consente di individuare un concorso apparente di norme. Come è noto, tre sono i criteri di cui si avvalgono la dottrina e la giurisprudenza per acclarare l’esistenza di tale fenomeno e distinguerlo dal concorso di reati, quando una certa situazione concreta rientra nell’ambito di operatività di più fattispecie incriminatrici: quello di specialità, quello di sussidiarietà e quello di assorbimento. In forza del criterio di specialità, l’unico tipizzato espressamente dal nostro legislatore nella parte generale del codice, all’art. 15 c.p., tra due norme che regolano la medesima materia dovrà applicarsi quella speciale rispetto all’altra, cioè quella che contiene gli stessi requisiti di punibilità di quella generale più alcuni altri suoi propri e, per ciò, ‘‘specializzanti’’. Non è certo questo il caso dei rapporti tra il delitto di illecito finanziamento ai partiti e quello di corruzione, dato che nessuna delle norme in questione contiene tutti i requisiti di punibilità dell’altra, più alcuni suoi propri (113). (113) Una parte della dottrina ritiene che il criterio di specialità debba essere inteso in senso più ampio, tale da ricomprendervi non soltanto le ipotesi in cui un medesimo fatto
— 156 — Né è possibile individuare tra le due fattispecie un rapporto di sussidiarietà, atteso che questo sussiste tra norme che sanzionano gradi diversi di offesa ad un medesimo bene giuridico o, perlomeno, a beni giuridici diversi ma omogenei tra loro, il che qui non si verifica, dato che gli articoli dal 318 in poi del codice tutelano il buon andamento, l’imparzialità, o (nel caso della corruzione impropria susseguente), il prestigio della Pubblica Amministrazione, laddove il combinato disposto della 195/74 e della 659/81 assicurano la tutela di una ben differente oggettività giuridica, la ‘‘trasparenza’’ dei finanziamenti ai partiti politici, quale bene strumentale rispetto alla libera (poiché consapevole) maturazione del giudizio politico. Neppure è individuabile, nei loro rapporti, un’ipotesi di assorbimento che ricorre quando, tra due norme, si deve ritenere che, in base ad un giudizio valutativo, il disvalore di una delle due ricomprenda quello dell’altra che ad essa si accompagna nell’id quod plerumque accidit, di modo che la pena stabilita per la prima deve ritenersi dettata dal legislatore anche in riferimento alla seconda. Non appare essere questo il caso dei rapporti tra corruzione e finanziamento illecito dei partiti, dato che la loro coesistenza, per quanto frequente, resta una mera eventualità del caso concreto e non risulta essere stata presa in considerazione dal legislatore né in occasione della formulazione del delitto di cui all’art 318 c.p. e ss. (nel 1930, in Italia, non esisteva alcun sistema pluralistico di partiti) né in quella del reato di cui all’art. 7 della legge 195/74, come si evince dal fatto che è stata prevista una pena inferiore a quella dettata in tema di corruzione, e come tale certo inidonea a ricomprendere ed a sanzionare il disvalore che si accompagna a quella. Emerge, dunque, che nell’ipotesi in cui venga occultamente erogato un contributo finalizzato all’acquisto di un atto dell’ufficio ad un soggetto rientri nella previsione di disposizioni incriminatrici delle quali la prima contenga tutti i requisiti di punibilità della seconda oltre ad alcuni altri (specialità c.d. in astratto), ma anche, in generale, tutti i casi in cui ad una medesima situazione siano applicabili più norme, qualora sia la mediazione dello stesso fatto in concreto ad evidenziare la sussistenza di un rapporto di specialità (c.d. in concreto). Cfr., in questo senso, ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 138; CONTI, Concorso apparente di norme, in Noviss. Dig. it., II, Torino, 1958, p. 1013; SINISCALCO, II concorso apparente di norme nell’ordinamento penale italiano, Milano, 1961. La teorica appena illustrata non è condivisibile dato che è illogico far dipendere da un fatto concreto l’instaurarsi di un rapporto tra genere a specie tra due norme, il quale, invece, esiste o non esiste unicamente in ragione di una comparazione astratta ed ex ante tra la struttura delle stesse. Il vero è che il criterio della specialità in concreto è stato elaborato da quella dottrina che tenta di dirimere il problema del conflitto apparente di norme alla luce del solo parametro tipizzato espressamente dal legislatore, quello di specialità, dilatandone oltre misura i confini, cioè ricomprendendo surrettiziamente in esso gli altri criteri configurati per risolvere tale problematica: quello di sussidiarietà e di consunzione. Una volta chiarito, dunque, che la c.d. specialità in concreto non è altro che uno di questi due ultimi criteri proposto in altro modo, si desume che la sua applicabilità o no all’ipotesi in esame discende da quanto si dirà in ordine al principio di sussidiarietà ed a quello di assorbimento.
— 157 — che rivesta una doppia qualifica, partitica e di pubblico agente, si devono ritenere integrati entrambi i reati, di corruzione e di illecito finanziamento ai partiti (114). Qualora, invece, l’erogazione ‘‘occulta’’ al pubblico ufficiale che sia anche uomo politico non sia collegabile ad un ben determinato atto dell’ufficio, non si potrà che ritenerlo responsabile solo di tale ultimo reato (115). Come si vede, la distinzione tra finanziamento illecito ai partiti politici e corruzione viene a risolversi, nei casi dubbi, in forza di quello che è il perno di tale ultima figura nell’attuale disegno codicistico: l’atto di ufficio. Deve allora segnalarsi una ulteriore conseguenza delle proposte di ‘‘eliminazione’’ di tale elemento dalle norme in tema di corruzione (116), che consiste nel rendere ‘‘nebulosa’’, di ambigua individuazione la linea di demarcazione tra le fattispecie in esame. Se, infatti, la possibilità di imputare ad un pubblico agente che ricopra anche una carica politica tanto il delitto di corruzione quanto quello di illecito finanziamento riposa sul collegamento tra un determinato atto del suo ufficio (l’essenza del primo reato) e la prestazione occultamente ricevuta (l’essenza del secondo), è evidente il pericolo che essa rischi di sfumare qualora l’elemento dell’atto di ufficio perda la sua centralità nel delitto di cui all’art. 318 c.p. 5. Conclusioni. — Le analisi sin qui svolte attestano chiaramente come la evoluzione e/o la involuzione delle fattispecie di corruzione e di illecito finanziamento ai partiti derivino dalla prassi giurisprudenziale (nonché dal clamore suscitato, in vari Paesi, dalla scoperta di fenomeni generalizzati di corrutela nella vita pubblica), tanto è vero che le proposte di modifica traggono la loro origine ultima da problematiche di carattere probatorio. Il rischio che tipicamente si ricollega ad ogni ipotesi di ‘‘normativizzazione della prassi giudiziaria’’ è quello di addivenire ad una sorta di ‘‘procedimentalizzazione’’ del diritto penale sostanziale, nel senso di assegnargli una funzione ‘‘servente’’ alle esigenze processuali (117). Tale processo ha in sé il pericolo di ‘‘snaturare’’ i reati che ve ne (114) Cfr.: SPAGNOLO, I reati di illegale, cit., p. 97. (115) Cfr.: Trib. Milano, 28 aprile 1994, cit., p. 71. (116) Esaminate sub paragrafi 2.4, 2.5, 2.6; giunge ad analoghe conclusioni anche CORRIAS LUCENTE, Finanziamento illecito e corruzione, testo dell’Intervento programmato al V Congresso Nazionale di Diritto Penale, etc., cit., p. 1 ss. (del dattiloscritto). (117) Si noti che l’analisi condotta ha dimostrato come le esigenze processuali che si tenta di soddisfare tramite le modifiche proposte possano essere tanto quelle dell’accusa (come avviene per la suggerita unificazione delle varie figure di corruzione, che allevierebbe di molto le difficoltà probatorie di cui questa deve farsi carico), quanto quelle della difesa
— 158 — siano coinvolti, alterandone la struttura, ed è questo il rischio che si correrebbe qualora fossero accolte in toto le modifiche suggerite in ordine alla corruzione ed al finanziamento ai partiti politici. Ciò non significa, però, che le proposte in esame debbano essere oggetto di un giudizio del tutto negativo. A questa conclusione non può certo addivenirsi, dato che esse sono il frutto di esigenze fortemente avvertite nel concreto operare del diritto (e non solo in Italia, ma anche in altri Paesi a noi vicini per tradizione e cultura giuridica), il che sta a significare che la moderna coscienza sociale percepisce gli interessi connessi ai delitti in esame come meritevoli di una rafforzata tutela. È da chiedersi, però, se non sia più opportuno, per soddisfare queste esigenze, intervenire anche sul quadro sanzionatorio, oltre che a livello di fattispecie. Del resto questo è un sentiero già percorso, almeno in parte, dalle proposte riforme, le quali sono caratterizate da un apparato punitivo che affianca, alla tradizionale pena detentiva, altri strumenti, quali la confisca ‘‘per equivalente’’ (la c.d. restituzione del maltolto), la interdizione dai pubblici uffici, l’ineleggibilità a cariche politiche, misure a carico delle persone giuridiche (118). Sono questi i ‘‘tipi’’ di sanzione che la più avveduta riflessione penalistica individua quali gli strumenti maggiormente idonei (insieme od alternativamente alla pena detentiva) a rispondere ai bisogni di tutela delle moderne società ‘‘opulente’’, e non è un caso, pertanto, che di essi si trovi traccia nelle proposte relative ai delitti offensivi degli interessi che in tali società sono, oggi, avvertiti come meritevoli di una tutela rafforzata. Risulta, quindi, opportuno dar luogo ad una maggiore ‘‘incisività’’ della tutela penale avvalendosi di tali ‘‘nuovi’’, ‘‘moderni’’ strumenti sanzionatori, anziché procedere ad una modifica generalizzata delle fattispe(con la proposta depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti, che priverebbe le procure di un formidabile mezzo di indagine sui rapporti tra politica ed economia). (118) Nell’ottica di un progressivo superamento del tradizionale principio societas delinquere non potest, va salutata con favore, nonostante alcune perplessità già avanzate in dottrina, la proposta finale della Commissione anticorruzione nella parte in cui sancisce la responsabilità solidale del partito per i danni arrecati alla P.A. dal soggetto titolare di cariche elettive che abbia commesso uno dei reati di cui al capo I, titolo II del codice penale in ragione o nell’esercizio delle funzioni relative alla sua carica, o dal soggetto che abbia commesso tali delitti per finanziare l’attività politica dei partiti. La formazione politica può liberarsi da responsabilità solo fornendo la prova di non aver potuto impedire il fatto. Questo, peraltro, è l’unico elemento di significativa novità che presenti la proposta della Commissione anticorruzione, la quale, per il resto, non fa che ribadire l’attuale assetto normativo sul finanziamento dei partiti politici. Su tale progetto cfr.: PADOVANI, Sul finanziamento illecito ai partiti scelta la strada della responsabilità solidale, in Guida al Diritto-Sole 24 Ore, n. 15, 18 aprile 1998, p. 10. Circa l’opportunità d’introdurre ipotesi di responsabilità penale delle persone giuridiche anche per la corruzione, v., da ultimo, N. ROSSI, I disegni di legge, Relazione al V Congresso Nazionale, etc., cit.
— 159 — cie incriminatrici che, soprattutto se mossa da esigenze di carattere probatorio, comporta il rischio di ‘‘snaturare’’ il modello di illecito sinora preso in considerazione dal legislatore, per un non opportuno ritorno all’antico (119). Prof. ADELMO MANNA Associato di Diritto penale Facoltà di Giurisprudenza di Foggia Università di Bari
(119) Va da ultimo segnalato lo ‘‘Schema delle misure proposte dal Governo in materia di Giustizia’’, presentato a Roma il 10 settembre 1998 (cfr. Anche la soluzione per Tangentopoli nella « Piattaforma - Giustizia » del Governo, in Guida al Diritto - Il Sole-24 Ore, n. 36, 19 settembre 1998, 106 ss.), ove: a) la concussione per induzione viene ricompresa nella corruzione; b) la corruzione, riformulata, va a sanzionare le condotte di indebita accettazione di utilità in relazione alla funzione o all’ufficio ricoperto, recependo così l’indirizzo giurisprudenziale da noi analizzato e criticato nel testo; c) viene prevista la c.d. confisca per equivalente; d) per il finanziamento illecito ai partiti, si configura la depenalizzazione, ma solo al di sotto di una soglia quantitativa prefissata, che potrebbe essere al massimo di cento milioni di lire; e) si prevede, infine, un’attenuante speciale, per i reati in discorso, collegata: 1) all’ammissione dei fatti contestati; 2) alla corresponsione, a titolo di riparazione pecuniaria dell’offesa all’interesse pubblico, di una somma commisurata al ragguaglio della pena detentiva edittalmente prevista. La concessione di tale attenuante renderebbe più agevole il ricorso al patteggiamento, mentre il non aver attivato detto meccanismo dovrebbe — sempre nell’intenzione dei fautori della proposta — rendere più difficoltoso l’ottenimento delle attenuanti generiche, che è invece assai importante anche per giungere alla prescrizione, in quanto spesso determina il dimezzamento dei relativi termini. Tale Schema, che, per il momento, ha trovato tiepida accoglienza tra le forze politiche, dimostra comunque un’ulteriore presa di coscienza ‘‘ufficiale’’ della necessità di introdurre modifiche ai reati in esame, pur se, come può agevolmente evincersi da quanto sinora esposto, alcune appaiono da condividersi ed altre meno.
LE NUOVE REGOLE SULLA CIRCOLAZIONE PROBATORIA (LE MODIFICHE APPORTATE ALL’ART. 238 C.P.P. DALL’ART. 3 DELLA LEGGE 7 AGOSTO 1997, N. 267).
SOMMARIO: 1. La disciplina originaria. — 2. Le modifiche apportate dalla Corte costituzionale e dalla legge 8 giugno 1992, n. 308. — 3. Le innovazioni introdotte dalla legge 8 agosto 1997, n. 267. — 4. Il disposto del comma 2-bis dell’art. 238 c.p.p. — 5. Il regime delle dichiarazioni irripetibili. — 6. L’esercizio del diritto di non rispondere. — 7. Il valore probatorio delle dichiarazioni adoperate per le contestazioni. — 8. La sede di applicazione. — 9. Considerazioni conclusive.
1. La disciplina originaria. — Fra i diversi obiettivi che ogni legislatore persegue in materia processuale penale, in posizione primaria si colloca l’attendibilità del materiale di convinzione: la quale tanto è insita nel concetto stesso di prova, che la sua mancanza ne comporta la negazione. Tale obbiettivo non può essere mai pretermesso, neppure quando la disciplina legislativa miri ad assicurare altri valori, ritenuti dall’ordinamento meritevoli di tutela. Emblematica sotto questo aspetto è la prova dichiarativa. Già di per sé oggettivamente insicura — fondata, come essa è, sulla soggettività delle percezioni, della loro fissazione nella memoria e della relativa evocazione e manifestazione — soffre anche delle deformazioni, volontarie ed involontarie, che gli impone il dichiarante, le quali diventano particolarmente preoccupanti qualora dalla prova offerta possa derivare per lui il pericolo di incorrere in una sanzione di natura penale. Negli ultimi trent’anni (1) l’attenzione del legislatore si è polarizzata sul pericolo di autoincriminarsi, che incombe su alcune categorie di dichiaranti, perdendo di vista l’altro aspetto, non meno rilevante, della questione, che attiene alla sicurezza della prova da esse offerta. Per quanto riguarda le dichiarazioni di coloro che risultano gravati da una medesima imputazione o da imputazioni connesse o collegate proba(1) Risale al 1969 l’introduzione, nell’art. 304 c.p.p. 1930 (art. 8, legge 5 dicembre 1969, n. 932), di disposizioni analoghe a quelle contenute nell’attuale art. 63 c.p.p., con le quali il legislatore recepiva le istanze degli studiosi volte ad ottenere la protezione dal pericolo di autoincriminazione di dichiaranti che non fossero consapevoli del proprio diritto di non collaborare con gli organi di giustizia (secondo quanto esplicitato dal terzo comma dell’art. 78 c.p.p. 1930, introdotto dall’art. 1 legge cit.).
— 161 — toriamente, il codice, già nel suo impianto originario, predisponeva una disciplina (contenuta nel terzo e nel quarto comma dell’art. 192 c.p.p.) che mirava a renderle più sicure, limitando il libero convincimento del giudice. Tale disciplina (2) assumeva portata generale, in quanto destinata ad operare nei confronti delle dichiarazioni suddette, qualunque fosse la qualifica processuale di coloro che stavano offrendo prova (3). L’esame incrociato, ritenuto negli ordinamenti di common law (4) lo strumento più utile per accertare la verità, non era escluso. Tuttavia non si svolgeva necessariamente (5), e, in ogni caso, se ne limitava l’efficacia (2) La disciplina, codificazione di regole di valutazione probatoria, frutto di un’annosa elaborazione giurisprudenziale, resta in vigore, e non ha subito modificazioni, se si esclude quella introdotta dall’art. 6 della legge 7 agosto 1997, n. 267; il quale, disponendo, in via transitoria, nelle situazioni specificamente previste, esclude (al quinto comma) che possano costituire conferma della prova offerta dalle persone imputate in procedimenti connessi o collegati probatoriamente le dichiarazioni da altri rese al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell’art. 513 c.p.p., nel testo anteriore a quello introdotto dalla legge di cui si parla. Sulla posizione della giurisprudenza prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale v., per tutti, G. BARONE, La chiamata di correo (analisi e prospettive), in Riv. proc., 1987, 105 ss. In relazione all’attuale disciplina, fra i molti che si sono occupati dell’argomento, cfr. V. GREVI, Le dichiarazioni rese dal coimputato nel nuovo processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 1173; e, da ultimo, G. TRANCHINA, I canoni di valutazione probatoria della chiamata di correo, in Dir. pen. proc., 1995, 644. In chiave comparativa v. V. FANCHIOTTI, Corroboration, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1988. (3) I quali, come è noto, possono essere stati sentiti come indagati o imputati nel procedimento congiunto; oppure come indagati o imputati in procedimenti connessi o collegati; oppure (secondo la tesi qui seguita, per cui v. postea, par. 4) anche come testi, qualora se ne acquisiscano i verbali in un diverso procedimento. (4) Per una dettagliata analisi della disciplina, introdotta in Inghilterra sin dal 1898, che esclude possano costituire prova a favore o contro il coimputato le dichiarazioni non giurate dell’accusato, v. ARCHBOLD, Criminal pleading evidence and practice, London, Sweet and Maxwell, 1997, p. 388 ss.; p. 999 ss.; p. 1446 ss., esposta, in Italia, da I. CALAMANDREI, Le dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, in Giust. pen., 1985, 428 ss.: EAD., La collaborazione processuale di imputati e testimoni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 240 ss. Sulla sua genesi cfr., di recente, C. VETTORI, Diritto dell’imputato a confrontarsi con colui che lo accusa e diritto al silenzio: l’ordinamento inglese, in Le nuove leggi penali, Cedam, Padova, 1998, 273. Auspicano l’introduzione nel nostro ordinamento di un sistema analogo a quello anglosassone A. GIARDA, sub art. 210 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato (a cura di A. GIARDA e G. SPANGHER), Ipsoa, Milano, 1997, 786; P. TONINI, Diritto dell’imputato ad interrogare colui che lo accusa e diritto di non rispondere, in Dir. pen. e proc., 1997, 353. Sul punto v. pure M. GIACCA, L’esame dell’imputato nell’esperienza comparatistica: spunti problematici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 171. (5) L’imputato vi era assoggettato solo con il suo consenso (art. 208 c.p.p.), diversamente dall’imputato in procedimenti connessi o collegati, contro il quale si procedesse separatamente, che non lo poteva rifiutare (art. 210.1 c.p.p.). Era tuttavia previsto che l’uno e l’altro potessero sottrarvisi, di diritto (art. 513.1 c.p.p.) o di fatto (art. 513.2 c.p.p.): in tal
— 162 — riconoscendo al dichiarante il diritto di non rispondere alle singole domande (6). A fronte di tali disposizioni, che disciplinavano la ordinaria acquisizione delle dichiarazioni di cui si tratta, l’art. 513 c.p.p., nei casi codificati di impossibilità di reiterazione dell’esame orale, consentiva il recupero caso divenivano prova precedenti dichiarazioni, raccolte, senza esame incrociato, dal pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria da esso delegata o dal giudice delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare. La dottrina (v., da ultimo, S. CIANI, L’esame delle parti: profili strutturali e valenza probatoria, in Cass. pen., 1994, n. 1457, 2868; A. SANNA, Il contributo dell’imputato in un diverso procedimento: forme acquisitive e garanzie di attendibilità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 506) non aveva mancato di sottolineare la virtualità di un diritto di non collaborare così strutturato. Per la diversa situazione in Inghilterra (in cui solo le precedenti dichiarazioni confessorie sfuggono alle usuali regole di dimostrazione, essendo ammissibili come eccezione alla hearsay rule, secondo quanto esposto da chi scrive in L’inammissibilità della prova di ‘‘sentito dire’’, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 791), v. ARCHBOLD, Criminal pleading, cit., 1188. (6) Il diritto di non rispondere era (ed è) esplicitamente riconosciuto dall’art. 210.4 c.p.p. nell’esame di colui che è imputato in procedimenti connessi o collegati probatoriamente, sentito nel processo parallelo. La mancanza di una sanzione penale per il silenzio dell’imputato che avesse accettato l’esame a norma dell’art. 208 c.p.p. induceva allora (ed induce ora) a ritenere l’esistenza di tale diritto anche nei confronti di questo soggetto: in proposito v. da ultimo P. TONINI, La prova penale, 2a ed., Cedam, Padova, 1998, 56; cfr. pure O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura e di efficacia probatoria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 834. Non appare conclusiva, al fine della negazione di tale assunto, la tesi di coloro (v. L. D’AMBROSIO, sub art. 210 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale — a cura di M. CHIAVARIO — , II, Utet, Torino, 1990, 521, R. ORLANDI, sub art. 209 c.p.p., in Commento, cit., II, 1990, 506; E. SELVAGGI, Esame diretto e controesame, in Dig. Disc. pen., IV, Utet, Torino, 1990, 283) che individuano una qualche conseguenza processuale all’esercizio di tale diritto. E. MARZADURI, L’identificazione del diritto di difesa nell’ambito delle previsioni dell’art. 6, lett. c) della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, in Cass. pen., 1997, n. 178, 270, sottolinea come il principio del nemo tenetur se detegere trovi implicitamente tutela nella Convenzione europea, là dove (nel n. 3 dell’art. 6) parla di giusto processo; ed esplicito riconoscimento nel n. 3, lett. g), dell’art. 14 del Patto internazionale. Per l’evoluzione valutativa di tale fondamentale diritto in Inghilterra v. F. SIRACUSANO, Le possibili proiezioni del diritto al silenzio in Inghilterra: una messa a punto sui nuovi itinerari fissati dal Criminal Justice and public order Act del 1994, in L.P., 1997, 445 ss. In dottrina si discuteva se le precedenti dichiarazioni di coloro che si fossero avvalsi della facoltà di non rispondere, senza tuttavia (almeno formalmente) sottrarsi all’esame, potessero essere recuperate in dibattimento a norma dell’art. 513 c.p.p.; oppure se dovesse essere applicato l’art. 503 c.p.p.: sul punto v. le differenti opinioni espresse da M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, Giuffrè, Milano, 1994, 102; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in La conoscenza del fatto nel processo penale (a cura di G. UBERTIS), Giuffrè, Milano, 1972, 106; S. CIANI, L’esame delle parti: profili strutturali e valenza probatoria, in Cass. pen., 1994, n. 1457, 2264; P. FELICIONI, Brevi osservazioni sull’esame dibattimentale dell’imputato: operatività del diritto al silenzio, in Cass. pen., 1992, n. 5, 9; V. GREVI, Le dichiarazioni, cit., 1170; ID., Facoltà di non rispondere delle persone esaminate ex art. 210 e lettura dei verbali di precedenti dichiarazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 1130; M. NOBILI, sub art. 513 c.p.p., in Commento, cit., V, 1991, 440; A. SANNA, Il contributo dell’imputato, cit., 511.
— 163 — delle precedenti dichiarazioni rilasciate al p.m. o al g.i.p. (7), non necessariamente alla presenza di coloro contro cui dovevano essere utilizzate (8) e, ad ogni modo, senza il loro pieno contributo alla formazione della prova (9). Nei procedimenti paralleli, però, le garanzie erano maggiori: la piena utilizzazione delle dichiarazioni di cui si tratta era subordinata al consenso delle parti ed esclusivamente qualora, nel procedimento a quo, tali dichiarazioni fossero state assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento, oppure fossero state ivi oggetto di lettura (art. 238.1 c.p.p., formula originaria). Si poteva prescindere dal consenso (ma non sicuramente (10) dalla sede — incidente probatorio o dibattimento — della acquisizione) nel caso di prova irripetibile (art. 238.3 c.p.p., nella sua formula originaria). Le dichiarazioni non acquisibili a norma del primo o terzo comma dell’art. 238 c.p.p. potevano essere usate ai fini delle conte(7) Si ricorda che, nella versione originaria del codice, le dichiarazioni leggibili in dibattimento a norma dell’art. 513 c.p.p. erano quelle raccolte dal pubblico ministero o dal giudice delle indagini preliminari. Con sentenza della C. cost. n. 60/1995, la leggibilità fu poi estesa anche alle dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria delegata dal p.m. (8) La dottrina aveva giustamente posto in rilievo che i diversi interrogatori si svolgevano con l’assistenza del legate del dichiarante, ma non necessariamente alla presenza di colui nei confronti del quale la prova veniva offerta, o del suo difensore: v. M. BARGIS, Le dichiarazioni, cit., 109; V. GREVI, Le dichiarazioni, cit., 1161; A. SANNA, Il contributo dell’imputato, cit., 501. Sull’assenza di contraddittorio nell’utilizzazione della prova costituita dalle precedenti dichiarazioni di coloro che in dibattimento avessero deciso di esercitare il loro diritto al silenzio si fondava un incidente di costituzionalità sollevato di fronte al Tribunale di Milano; il quale, peraltro, respingeva la questione, dichiarandola inammissibile, con decisione 13 dicembre 1996, Pellò ed altri (criticata da S. RAMAJOLI, Le dichiarazioni sul fatto altrui dell’imputato in procedimento connesso: esercizio della facoltà di non rispondere e incidenza negativa sulla garanzia del contraddittorio, in Giust. pen., 1997, III, 249). (9) Si ricorda che, prima dell’entrata in vigore della legge 7 agosto 1997, n. 267 (la quale, al secondo comma dell’art. 2, contiene una disposizione che, apportando una modifica all’art. 421 c.p.p., consente l’assunzione dell’interrogatorio nel corso dell’udienza preliminare con le forme dell’esame incrociato), esami ed interrogatori erano condotti dal giudice (v. artt. 421.2 e 422.7 c.p.p.). (10) Data la formulazione dell’originario art. 238 c.p.p. (che, dopo aver elencato, nei primi due commi, i requisiti che permettevano ad atti di un processo penale o civile di divenire atti di un diverso procedimento penale, consentiva — nel terzo comma ‘‘comunque l’acquisizione della documentazione di atti che non fossero ripetibili’’) si poneva all’interprete il quesito se il legislatore intendesse permettere l’acquisizione di qualsiasi atto irripetibile, penale o civile; ovvero avesse voluto consentirla per i soli atti di cui al primo ed al secondo comma, prescindendo in quella particolare situazione dal rispetto delle altre condizioni menzionate e, in primo luogo, dal consenso. Sul punto v. le differenti opinioni di I. CALAMANDREI, La prova documentale, Cedam, Padova, 1995, 115; G. ICHINO, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, in La conoscenza del fatto nel processo penale (a cura di G. UBERTIS), Giuffrè, Milano, 1992, 166; G. UBERTIS, L’utilizzazione dibattimentale di prelievi ed analisi di campioni, in Cass. pen., 1992, n. 289, 435; L. VIOLANTE, La formazione della prova nei processi di criminalità organizzata, in Cass. pen., 1992, n. 293, 484.
— 164 — stazioni, secondo quanto previsto dal quarto comma della stessa disposizione: tuttavia la mutata valenza del dichiarato da mera dimostrazione della credibilità del dichiarante a prova del fatto non era escluso, qualora si fosse ritenuto applicabile l’art. 503 c.p.p. (11), in particolare i suoi commi quarto e quinto. Perciò, fermo rimanendo quanto stabilito in tema di valutazione di prove dall’art. 192.3 e 4 c., c.p.p., i casi in cui si potevano utilizzare le dichiarazioni di cui si tratta nei procedimenti paralleli, prescindendo dal consenso, erano limitati: la necessità di saggiare l’attendibilità della prova attraverso l’esame incrociato dei dichiaranti era considerata prevalente rispetto ad altre esigenze, pure meritevoli di attenzione (quali l’economia del processo; o il recupero di prove non più ripetibili). 2. Le modifiche apportate dalla Corte costituzionale e dalla legge 8 giugno 1992, n. 308. — La situazione si è andata rapidamente deteriorando quando, con un ribaltamento delle priorità nella realizzazione dei principi in giuoco, il contraddittorio fu subordinato alla non dispersione della prova, e, in ultima analisi, all’economia processuale, e, quindi, da essi condizionato. Per quanto riguarda la prova di cui ci si sta occupando, in seguito ai noti interventi della Corte costituzionale (12) e del legislatore (13), che hanno inciso sia sull’art. 513 c.p.p., sia sull’art. 238 c.p.p., le dichiarazioni provenienti da chi risultava gravato dalla stessa imputazione di colui contro il quale la prova veniva offerta, o da imputazioni a quella connesse o collegate probatoriamente, rilasciate in un procedimento, potevano essere utilizzate come prova del fatto, senza il consenso dell’interessato, in un altro procedimento, qualora la prova fosse stata assunta nell’incidente probatorio o nel dibattimento del procedimento di origine (art. 238.1 c.p.p., mod.). In tal caso, occorre notare, la prova era stata formata con il massimo delle garanzie, che, però, l’ordinamento aveva predisposto non a favore di chi, nel procedimento ad quem (14) era imputato, ma nell’interesse di colui che avesse ricoperto tale qualifica nel (11) La questione dell’applicabilità all’esame delle persone imputate in procedimenti connessi o collegati dell’art. 503 c.p.p., prima dubbia (cfr. V. GREVI, Facoltà di non rispondere, cit., 1130, e la dottrina ivi richiamata), è stata definitivamente risolta dall’art. 2, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che, modificando il quinto comma dell’art. 210, ha imposto il rispetto degli artt. 194, 195 e 499 c.p.p., oltre che del suddetto art. 503 c.p.p. (12) Si tratta della sentenza della C. cost. n. 254/1992, la quale, intervenendo sul secondo comma dell’art. 513 c.p.p., ha consentito la lettura delle precedenti dichiarazioni rilasciate dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. al giudice, al pubblico ministero, od anche (Corte Costituzionale, sentenza n. 60/1995) alla polizia giudiziaria da lui delegata, qualora esse si avvalgano della facoltà di non rispondere. (13) Si allude al d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n 356, che (art. 3, primo comma) ha sostituito l’art. 238 c.p.p. (14) L’osservazione è implicita in tutta la dottrina (per cui cfr. nota 23) che, commentando la disciplina introdotta con legge 7 agosto 1997, n. 267, ne sottolinea l’impor-
— 165 — procedimento a quo. Essendo comunque ammessa l’acquisizione della documentazione di atti che anche per cause sopravvenute non fossero più ripetibili (art. 238.3 c.p.p., mod.), in aderenza all’interpretazione offerta dalla Corte costituzionale (15), risultavano utilizzabili i verbali contenenti le suddette dichiarazioni dei coimputati in procedimenti connessi o collegati che, nel procedimento ad quem, si fossero avvalsi della facoltà di non rispondere (16). La trasmigrazione da un procedimento all’altro di dichiarazioni assunte in momenti processuali diversi da quelli sopra ricordati e, ad ogni modo, senza l’adozione dell’esame incrociato, era consentita dal quarto comma dell’art. 238, con la ridotta efficacia dimostrativa attribuita alle precedenti dichiarazioni difformi dall’art. 503.3 c.p.p. Tuttavia il valore probatorio diveniva pieno con il consenso delle parti (come esplicitamente previsto dal suddetto art. 238.4 c.p.p.), ed anche quando si fossero verificate le condizioni di cui ai commi quinto e sesto del ricordato art. 503 c.p.p. (17). Il potere di sentire nuovamente i dichiaranti, riconosciuto dal quarto comma dell’art. 238 c.p.p., risultava poi severamente circoscritto nei procedimenti di criminalità organizzata (18). tanza per il recupero del rispetto del contraddittorio: esplicitamente v., oltre la dottrina, precedente alla ricordata legge, citata in nota 8, P.P. RIVELLO, Inutilizzabili le dichiarazioni dell’imputato se non sono state raccolte in udienza, nella Guida al diritto de Il Sole 24 Ore del 30 agosto 1997, 80. (15) Ci si riferisce alla già ricordata sentenza n. 254/1992, la quale, affrontando una questione sorta in relazione alla utilizzabilità dibattimentale di dichiarazioni rilasciate nell’ambito di uno stesso procedimento, aveva qualificato l’esercizio del diritto di non rispondere come una causa di impossibilità di reiterazione della prova. (16) Il criterio indicato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 254 del 1992, per cui v. nota precedente), pur riferendosi propriamente alle precedenti dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 513 c.p.p., nell’ambito di uno stesso procedimento, riverberava i propri effetti nei procedimenti paralleli, perché permetteva di considerare irripetibili (e quindi acquisibili a norma del terzo comma dell’art. 238 c.p.p.) dichiarazioni rese da persone che, poi, nel procedimento ad quem, si fossero avvalse della facoltà di non rispondere. In questo senso v. quanto puntualmente affermato da Cass., Sez. VI, 18 febbraio 1994, Goddi, CED 197857 e 197858; Cass., Sez. VI, 1o giugno 1994, Goddi, in Cass. pen., 1996, 605; Cass., Sez. VI, 12 maggio 1995, Mauriello, CED 202040; Cass., Sez. VI, 26 gennaio 1996, Fioravanti, CED 204476. (17) Sulle possibili questioni interpretative inerenti questo specifico punto sia consentito rinviare al nostro La prova documentale, cit., 119. (18) L’art. 190-bis, infatti (introdotto dall’art. 3.3 della citata legge 7 agosto 1992, n. 356, che convertiva in legge il d.l. 8 giugno 1992, n. 306), tuttora vigente, nonostante le serrate critiche cui è stato sottoposto (v., da ultimo, dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1997, n. 267, M. CHIAVARIO, L’art. 513 taglia il traguardo ma la riforma attende già nuovi interventi, nella Guida al diritto de Il Sole 24 Ore del 9 agosto 1997, 10) consentiva che il giudice, nei procedimenti di criminalità organizzata (indicati nell’art. 51.3-bis c.p.p.) rifiutasse l’esame che non avesse ritenuto assolutamente necessario dei testimoni e dei dichiaranti ex art. 210 c.p.p., già sentiti nell’incidente probatorio (assunto nel corso dello
— 166 — Al fine di armonizzare l’art. 238 c.p.p. con il sistema previsto per l’uso del materiale probatorio nel procedimento di formazione, non mancarono sforzi interpretativi, tesi a contenerne l’ambito di applicabilità (19), i quali facevano leva sulla necessaria priorità delle esigenze del contraddittorio (e, quindi, dell’attendibilità) su quelle di economia processuale. Tuttavia, in tal modo, si poteva precludere l’utilizzazione in un diverso procedimento di prove che non avrebbero potuto esservi utilizzate, se fossero state formate nel suo ambito, salvaguardando nel procedimento ad quem il sistema di garanzie previste dal legislatore per il procedimento a quo; ma non si potevano sanare, nel procedimento ad quem, deroghe al stesso procedimento); oppure in un diverso procedimento, i cui atti fossero stati acquisiti a norma dell’art. 238. Tale disposizione non è stata modificata, anche se sull’art. 190-bis c.p.p. hanno parzialmente inciso le norme contenute nella legge n. 267/1997: cfr. G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme legislative del codice di procedura penale, in Appendice a Profili del nuovo codice di procedura penale (a cura di G. CONSO e V. GREVI), Cedam, Padova, 1998, 7, che afferma che nel procedimento parallelo di cui all’art. 51.3-bis c.p.p. non possano essere recuperati i verbali inutilizzabili ai sensi dell’art. 238.2-bis c.p.p., a meno che non si tratti di prove irripetibili. Nello stesso senso G.M. BACCARI, Il contemperamento tra libera circolazione degli atti e diritto al contraddittorio, in Le nuove leggi penali, Cedam, Padova, 1998, 205; A. NAPPI, Prova penale: commento alle nuove norme sulla valutazione delle prove (legge n. 267/1997), in Gazzetta giuridica Giuffrè, 1997, f. 33, 6. Si deve, infatti, ritenere che le modifiche introdotte dalla legge in commento impediscano l’acquisizione nei processi di cui all’art. 513-bis c.p.p. delle dichiarazioni di colui che risulti gravato di imputazioni connesse o collegate probatoriamente a quelle gravanti su chi ha offerto prova, che non siano state rese alla presenza dei difensori degli attuali imputati, perché l’art. 190-bis c.p.p., richiamando l’art. 238 c.p.p., rende acquisibili solo gli atti che rispettano le norme ivi previste. Tuttavia proprio l’art. 238 c.p.p., al suo quinto comma, risulta non aver modificato quella parte della disciplina, contenuta nell’art. 190-bis c.p.p., che permette al giudice di rifiutare il nuovo esame orale non assolutamente necessario dei dichiaranti, la cui prova sia già stata acquisita agli atti, a norma del ricordato art. 238 c.p.p.: tale disciplina deve dunque ritenersi ancora in vigore, anche se il coordinamento fra le due norme impedisce, perlomeno in materia di esame di imputati ‘‘connessi’’, l’alternativa dell’acquisizione cartolare ad iniziativa ufficiosa (come specificamente osservato da F. PERONI, La riforma dell’art. 513 c.p.p.: tra contraddittorio anticipato e concezione dialettica del processo, in Studium juris, 1997, 1135). (19) Secondo taluno, infatti (I. CALAMANDREI, La prova documentale, cit., 103 ss., cui si rinvia per i riferimenti bibliografici riguardanti anche la passata disciplina) non era sufficiente che l’atto da acquisire nel procedimento ad quem fosse stato regolarmente formato nel procedimento a quo (e, quindi, privo di vizi per così dire formali, come voluto da G. ICHINO, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, cit., 166; C. SQUASSONI, sub art. 238 c.p.p., in Commento, cit., II, 1990, 662) e che fossero state osservate le condizioni genericamente dettate per l’acquisizione (v. le disposizioni di cui al titolo primo del libro terzo del codice) e specificamente previste (v. art. 238 c.p.p.) per la trasmigrazione. Essenziale era anche che nel trasferimento da un procedimento all’altro non venissero travisate le rationes ispiratrici delle discipline dei diversi mezzi di prova, a tutela dei valori che il legislatore mostrava di ritenere meritevoli di attenzione, nel procedimento a quo; la cui deroga, nel procedimento ad quem, non trovava alcuna ragionevole giustificazione.
— 167 — contraddittorio operanti nello stesso procedimento a quo. In particolare, fatta eccezione per le dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa (20), non si poteva impedire l’acquisizione nel diverso procedimento delle dichiarazioni rilasciate fuori dal dibattimento (a quo) dagli imputati dello stesso reato o di reati connessi o collegati probatoriamente che, nel dibattimento ad quem, si fossero avvalsi della facoltà di non rispondere (21). 3. Le innovazioni introdotte dalla legge 8 agosto 1997, n. 267. — Per questa ragione è stato sollecitato l’intervento del legislatore, il quale, però, non si è limitato a sanare la denunciata violazione del contraddittorio, che si verifica quando in un procedimento si utilizzano verbali di prove formatisi nell’ambito di un altro procedimento; ma ha voluto anche regolare ex novo le condizioni che permettono di recuperare nel dibattimento di origine le dichiarazioni di cui si tratta rilasciate in una fase precedente. Le linee di intervento sono state due: anzitutto si è ritenuto che le dichiarazioni che mirano ad accusare (come pure a scagionare (22) ) taluno, non possono divenire prova, sfuggendo totalmente al contraddittorio; il quale deve essere rispettato qualunque sia la veste che il dichiarante assume (23). Perciò — e qui si evidenzia la seconda linea di intervento — (20) Le quali, nel dibattimento del procedimento di formazione, non sarebbero state recuperabili, a norma del secondo comma dell’art. 513 c.p.p., neppure in seguito alla ricordata sentenza della C. cost. n. 254/1992. (21) In particolare, potevano essere acquisite nel dibattimento ad quem non solo le dichiarazioni assunte, nel procedimento a quo, in sede dibattimentale o nell’incidente probatorio (come previsto dall’art. 238.1 c.p.p.), ma anche quelle assunte dal pubblico ministero (ex art. 363 c.p.p.) o dalla polizia giudiziaria su sua delega, o dal giudice, leggibili in caso di silenzio del dichiarante nel dibattimento del procedimento a quo, a norma dell’art. 513.2 c.p.p., modificato dalla sentenza della C. cost. n. 254/1992. La teoria restrittiva di cui si parla nel testo impediva solo l’acquisizione, nel dibattimento ad quem, di prove che non sarebbero state acquisibili nel dibattimento a quo, e, quindi, delle dichiarazioni di quel tipo assunte dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa, a norma dell’art. 351.1-bis c.p.p. (22) Ritiene che le disposizioni della legge commentata colpiscano anche le dichiarazioni a discarico raccolte unilateralmente dal p.m. o dal difensore ai sensi dell’art. 38 disp. att. G. GIOSTRA, Ritorna la ‘‘cultura della prova’’ nel processo penale, in Gazzetta giuridica Giuffrè, Italia oggi, n. 43/1997, 10. Contra G.M. BACCARI, Il contemperamento, cit., 196. (23) I primi commentatori della legge 7 agosto 1997, n. 267 (così come quelli — D. SIRACUSANO, Urge recuperare l’oralità, in Dir. pen. proc., 1997, 528; F. TRAVERSO, ‘‘Circolazione probatoria’’ e diritto al silenzio del coimputato, ibidem, 987 — che ne auspicavano l’emanazione) sono pressoché unanimi nel sottolineare l’intento del legislatore di rivitalizzare il contraddittorio, specialmente mortificato dalla ricordata sentenza della C. cost. n. 254/1992: v. M. CHIAVARIO, L’art. 513, cit., 10; P. DUBOLINO, Prospettive di vita movimentata per il nuovo art. 513 c.p.p.?, in Arch. nuova proc. pen., 1997, 385; G. FRIGO, Ritornano l’oralità e il contraddittorio mentre cresce il rischio di una controriforma, nella Guida al diritto de Il Sole 24 Ore del 30 agosto 1997, 70; G. GIOSTRA, Ritorna la ‘‘cultura della prova’’, cit., 10;
— 168 — appare (almeno tendenzialmente) superato il criterio (24) che, nei confronti dei terzi, legava la rilevanza probatoria delle dichiarazioni alla qualifica soggettiva di colui che stava offrendo la prova (imputato, nel procedimento unico; dichiarante ex art. 210 c.p.p., nei processi separati). Ne deriva la limitazione nei confronti dei terzi del valore dimostrativo della prova fornita da un dichiarante per così dire privilegiato (di un dichiarante, cioè, cui l’ordinamento, per ragioni di civiltà giuridica, riconosca dei diritti), quando l’esercizio di tali diritti comporti un indebolimento della forza probante delle dichiarazioni rese. Non si è arrivati ad equiparare le garanzie che assistono tali prove a quelle della testimonianza (25), secondo l’esempio offerto da altri ordinaG. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 1; R. LI VECCHI, Ristabilito finalmente il principio del contraddittorio (commento alla legge 7 agosto 1997, n. 267), in Arch. nuova proc. pen., 1998, 721; A. NAPPI, Prova penale, cit., 3; ID., L’acquisizione dei verbali di prove assunte in altri procedimenti, in Gazzetta giuridica Giuffrè, Italia oggi, nn. 14-15/1998, 3; F. PERONI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., 1129; ID., La nuova disciplina delle letture di dichiarazioni provenienti dall’imputato, in Le nuove leggi penali, Cedam, Padova, 1998, 157; G. RICCIO, Letture più circoscritte e norme ‘‘alternative’’ di acquisizione probatoria, in Dir. pen. proc., 1997, 1184; P.P. RIVELLO, Le modifiche all’acquisizione delle prove non mettono al riparo ai ‘‘guasti’’ del processo, nella Guida al diritto de Il Sole 24 Ore del 30 agosto 1997, 67; ID., Inutilizzabili le dichiarazioni dell’imputato, cit., 80; ID., Pentiti: più severità per acquisire i verbali delle dichiarazioni in altri procedimenti, ibidem, 87; anche quando accolgono criticamente la nuova disciplina (G.M. BACCARI, Il contemperamento, cit., 206; R. BRICHETTI, Incidente probatorio senza ostacoli: così il dibattimento perde terreno, nella Guida al diritto de Il Sole 24 Ore del 30 agosto 1997, 90; S. CORBETTA, Modifica dell’art. 513 c.p.p.: difficoltà della disciplina transitoria, in Dir. pen. proc., 1997, 1069; ID., sub art. 513 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, cit., 2289; G. LOCATELLI, Prova penale, in Gazzetta giuridica Giuffrè, Italia oggi, n. 38 del 1997, 2). (24) Emblematica, a questo proposito, è la disposizione, introdotta dall’art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, che, intervenendo sul primo comma dell’art. 513 c.p.p., ha stabilito che le dichiarazioni dell’imputato non possono costituire incondizionatamente prova nei confronti dei terzi, quando non siano state raccolte nel rispetto del loro diritto al contraddittorio (art. 513.3 c.p.p.), in sintonia con quanto disposto dal secondo comma della stessa disposizione, per le dichiarazioni provenienti da coloro che, in un altro procedimento, appaiano gravati dalla stessa imputazione o da imputazioni connesse o collegate probatoriamente. In quest’ultimo caso, poi, il richiamo all’art. 512 c.p.p. per il recupero di una prova di cui sia divenuta impossibile la ripetizione per circostanze sopravvenute ed imprevedibili (art. 513.2, u.p., mod., c.p.p.) ha assimilato le dichiarazioni di cui si parla alla testimonianza. In definitiva, dunque, si avverte la tendenza ad uniformare le discipline delle diverse prove offerte in considerazione della loro natura (che è testimoniale, quando concerne il fatto del terzo), indipendentemente dalla loro fonte. V. anche postea nota 28. (25) Una soluzione analoga (per cui, oltre A. GIARDA, sub art. 210 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, cit., 786; ID., Le ‘‘novelle’’ di una notte di mezza estate, in Le nuove leggi penali, Cedam, Padova, 1998, 148; e P. TONINI, Diritto dell’imputato, cit., 357; ID., Imputato ‘‘accusatore’’ ed ‘‘accusato’’ nei principali ordinamenti processuali dell’Unione Europea, in Le nuove leggi penali, Cedam, Padova, 1998, 271; v. G.M. BACCARI, Il contemperamento, cit., 206; F.P. GIORDANO, Lotta alla mafia: l’emergenza non è finita e il p.m. aspetta il ‘‘doppio binario’’, nella Guida al diritto de Il Sole 24 Ore, del 9 agosto 1997, 12) era caldeggiata dall’Associazione Nazionale Magistrati e dal Presidente dell’organismo
— 169 — menti (26): è stato mantenuto il diritto al silenzio dei dichiaranti, esercitabile, perlomeno, nel corso dell’esame (27); e, soprattutto, permane l’assenza di una sanzione penale per il mendacio, sulla falsariga di quanto stabilito dagli artt. 372 e 371-bis c.p in tema di dichiarazioni rilasciate dal testimone rispettivamente al giudice ed al p.m.. Tuttavia è stata riconosciuta l’affinità sostanziale che, innegabilmente, lega le prove di cui si parla alla testimonianza, qualora le dichiarazioni concernano il fatto altrui (28). È ormai chiara l’importanza dell’oggetto di una dichiarazione al fine dell’inunitario dell’Avvocatura; ma criticata da chi (G. FRIGO, Ritornano l’oralità e il contraddittorio, cit., 71; A. SANNA, Il contributo dell’imputato, cit., 525) ritiene opportuno mantenere il diritto al silenzio dei dichiaranti che siano imputati in procedimenti connessi o collegati. Per un’analisi dettagliata delle diverse situazioni prospettabili cfr. O. DOMINIONI, Un nuovo ‘‘idolum theatri’’ il principio di non dispersione probatoria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 756 e ss., che individua la soluzione del problema nella celebrazione separata dei procedimenti, eliminando poi per tutti coloro che affermino o neghino i fatti altrui la possibilità di sottrarsi all’esame dibattimentale, senza tuttavia sopprimere l’esimente di cui all’art. 384 c.p. per i dichiaranti che ancora rivestano la qualifica di imputati in separati procedimenti connessi o collegati probatoriamente. (26) Nel sistema anglosassone, come già accennato in nota 4, è escluso che possano costituire prova a favore o contro il coimputato le dichiarazioni dell’accusato che non siano giurate e manifestate nel corso dell’esame incrociato. L’accusato può accettare di deporre come testimone, ma non può essere costretto a farlo, fino a quando mantiene la sua qualifica; e, quindi, fino a quando non si riconosca colpevole, oppure sia assolto, ovvero si proceda alla separazione dei procedimenti. Può, inoltre, essere costretto a deporre dalla pubblica accusa che si impegni formalmente (con la concessione dell’immunità) a non procedere contro di lui. (27) Con l’espressione usata nel testo si intende alludere alla differenza di disciplina che riguarda l’imputato, il quale (art. 208 c.p.p ) può rifiutare l’esame, di contro agli imputati in procedimenti connessi o collegati probatoriamente, che non hanno tale diritto (art. 210.1 e 2 c.p.p., confermato dal disposto dell’art. 513.2 c.p.p.). Non è tuttavia contestabile che l’uno e gli altri, una volta assoggettati all’esame, mantengano il diritto di non rispondere alle singole domande (che possono, al limite, anche essere tutte le domande), secondo quanto previsto dal sistema, implicitamente, per l’esame dell’imputato; e specificamente (v. il quarto comma dell’art. 210 c.p.p., nonché il secondo comma, ultima parte, dell’art. 513 c.p.p.), per l’altra categoria di dichiaranti. L’affermazione ovviamente niente toglie alla validità delle osservazioni fatte circa il valore probatorio delle mancate risposte: v., in particolare, S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato, cit., 104; S. CIANI, L’esame delle parti, cit., 104, P. FELICIONI, Brevi osservazioni, cit., 8; G. FRIGO, sub artt. 208 e 209 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, cit., spec. pp. 769 e 772; M. GIACCA, L’esame dell’imputato, cit., 170; R. ORLANDI, sub art. 209 c.p.p., in Commento, cit., II, 1990, 257;O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato, cit., 868; E. SELVAGGI, Esame diretto e controesame, cit., 283. (28) La dottrina (v., da ultimo, A. SANNA, Il contributo dell’imputato in un diverso procedimento, cit., 490; in relazione alla legge commentata F.G. GIORDANO, Lotta alla mafia, cit., 12) non aveva mancato di rilevare l’identità sul piano strutturale dell’apporto conoscitivo dei testi e dei dichiaranti ex art. 210 c.p.p. L’accostamento, nella nuova disciplina, dell’art. 512 c.p.p. all’art. 513 c.p.p., condiviso da G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 3; G. RICCIO, Letture più circoscritte, cit., 1183, in ragione della similitudine delle situazioni prese in considerazione, era stato prospettato da M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate, cit., 118, che, già prima dell’en-
— 170 — dividuazione della prova, e, quindi, della disciplina da applicare; mentre la qualifica del dichiarante rimane indispensabile per determinare l’ambito dei diritti concessigli. Si può dire che l’una (la qualifica) prevalga sull’altro (il contenuto), esclusivamente nel senso che i diritti attribuiti a coloro che affermano (o negano) i fatti del processo devono essere rispettati, anche a costo di perdere la prova stessa (29), e non, come accadeva prima trata in vigore dell’attuale legge, riteneva recuperabili in dibattimento, a norma dell’art. 512 c.p.p., le dichiarazioni rilasciate dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., qualora fosse divenuto impossibile ripetere la prova da esse offerta per cause sopravvenute ed imprevedibili (quali la morte o l’inabilità psichica all’esame del dichiarante). L’art. 513.2 c.p.p., invece, avrebbe trovato applicazione quando la persona, in vita e capace, si fosse mostrata indisponibile a rendere dichiarazioni. Nonostante l’affinità strutturale della prova offerta dai dichiaranti considerati e dai testi, però, l’accostamento delle due disposizioni è criticabile, almeno fino a quando le discipline delle rispettive prove offerte non saranno completamente uniformate. Sul piano operativo, poi, il richiamo dell’art. 512 c.p.p. nella materia disciplinata dall’art. 513.2 c.p.p. porta a conseguenze inaccettabili, perché consente di recuperare dichiarazioni rilasciate dalle persone menzionate nell’art. 210 c.p.p. alla polizia, non solo quando essa agisca su delega del pubblico ministero (come disponeva l’art. 513.2 c.p.p., letto in congiunzione con l’art. 513.1 c.p.p.), e, quindi, nel rispetto delle norme per quest’ultimo previste (art. 363 c.p.p., che specificamente richiama il quarto comma dell’art. 210 c.p.p., in tema di ammonimento); ma anche quando essa operi di propria iniziativa, e quindi osservando l’art. 351.1-bis c.p.p. In questo caso, dunque, (diversamente da quanto accade nelle altre ipotesi) il dichiarante potrebbe essere indotto a parlare, ignorando il suo diritto di non collaborare con gli organi inquirenti, dato che l’autorità che procede non è tenuta a fornirgli alcuna informazione in proposito. La qual cosa, se è accettabile nel caso in cui le dichiarazioni di cui si parla riguardino il fatto del terzo, non può andare esente da critiche quando esse abbiano per oggetto il fatto del dichiarante. Perché in tale situazione la prova offerta potrebbe ritorcersi contro il dichiarante stesso, nel processo a suo carico. Risultato, questo, che può essere escluso solo qualora, ragionando in chiave sistematica, si ritenga applicabile anche nel procedimento ad quem il principio enucleabile dall’art. 63 c.p.p., che vieta l’utilizzazione contro taluno delle dichiarazioni rese senza la consapevolezza del proprio diritto di non collaborare con la giustizia. Poiché l’adozione di tale criterio, necessaria, a parere di chi scrive (secondo quanto si è cercato di dimostrare ne La prova documentale, cit., 103 ss, in cui v. in particolare nota 25, sul tema qui trattato) non è pacificamente accettata né a livello costituzionale (v. la sentenza della C. cost. n. 198/1994, che rifiuta il criterio, almeno in apparenza: La prova documentale, cit., 109 ss.), né a livello legislativo (come osservato di seguito, supra, nel testo), la questione assume un grande rilievo, e richiede con la massima urgenza una soluzione adeguata. (29) Particolarmente significativo, sotto questo aspetto, può essere considerato l’art. 63 c.p.p., che impone di rinunciare all’apporto conoscitivo di un contenuto probatorio pur rilevante quando questo sia stato ottenuto senza il rispetto dei diritti attribuiti dall’ordinamento al dichiarante. Si deve notare che la disposizione la quale, nel considerato art. 63 c.p.p., appare strettamente funzionale alla realizzazione del principio sotteso (sintetizzato dall’espressione latina nemo tenetur se detegere, esplorato, nella sua ampiezza, da V. GREVI, nella sua opera omonima, cit.), è quella contenuta nel primo comma. Meno conseguenziale, invece, appare la disposizione contenuta nel secondo comma, che vieta l’uso anche nei confronti dei terzi delle dichiarazioni rese da persone che avrebbero
— 171 — dell’emanazione della legge ora in vigore, facendone pagare il prezzo all’interessato, nei confronti del quale le dichiarazioni erano usate, nonostante il ridotto grado di sicurezza riconosciuto alla prova offerta, in considerazione della sua natura. 4. Il disposto del comma 2-bis dell’art. 238 c.p.p. — Muovendosi in questo ordine di idee, trova soluzione un primo profilo, concernente il riformato art. 238 c.p.p., nella parte in cui parla di ‘‘dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p.’’: considerata la finalità della norma (che, si ricorda, è quella di assicurare il contraddittorio nella formazione di prove particolarmente dubbie in ragione della loro provenienza), si dovuto essere sentite sin dall’inizio in qualità di imputate o di indagate, prevedendo una sanzione che non mira a realizzare il principio di cui si parla, ma tende a stigmatizzare la scorrettezza del comportamento degli organi inquirenti (per una panoramica delle diverse opinioni in materia della dottrina e della giurisprudenza v. G. TOMEI, In tema di dichiarazioni indizianti, in Cass. pen., 1997, 2443). Tale sanzione, tuttavia, sembra sproporzionata, dato che l’ordinamento non concede alcuna facoltà di astenersi dal dichiarare sul fatto del terzo (che non sia collegato a quello di colui che offre prova dai vincoli della connessione o del collegamento probatorio), ma anzi impone l’obbligo, penalmente sanzionato, di manifestare tutto ciò di cui si è a conoscenza. Perciò deve essere approvata ogni interpretazione che tenda a circoscriverne l’ambito di applicazione, così come ha fatto Cass., Sez. un., 9 ottobre 1996, Carpanelli ed altri, in Cass. pen., 1997, n. 1334, 2441 (annotata da A. SANNA, Ristretto l’uso delle dichiarazioni autoindizianti, in Dir. pen. e proc., 1997, 604), quando ha escluso l’applicabilità dell’art. 63.2 c.p.p. alle dichiarazioni riguardanti persone coinvolte dal dichiarante in reati diversi, non connessi o collegati con quello o quelli in ordine ai quali esistevano fin dall’inizio indizi a suo carico. Non si lede, infatti, alcun fondamentale principio se le dichiarazioni di cui si tratta vengono fuori da un imputato o da un indagato privato dei privilegi che gli sono attribuiti, perché egli ha interesse al rispetto dei suoi diritti quando viene sentito sul fatto proprio (oppure su di un fatto che potrebbe poi essergli imputato, in ragione della connessione o del collegamento probatorio che presenta con il fatto addebitatogli). Con il suo ragionamento, dunque, la Suprema Corte appare in sintonia con il legislatore del 7 agosto 1997, n. 267, considerando che l’imputato o l’indagato in un procedimento ben può fare dichiarazioni di natura testimoniale, assoggettabili alle regole specifiche previste, purché questo avvenga in relazione a fatti oggetto di un’imputazione diversa da quella gravante su di lui, e comunque ad essa non connessa o collegata probatoriamente. Inutile dire, poi, che tali affermazioni potranno essere utilizzate nel procedimento del terzo osservando le norme che regolano la trasmigrazione dei verbali. Non diversamente deve essere risolto il problema quando la prova offerta sul fatto del terzo proviene da una persona che avrebbe dovuto essere sentita a norma dell’art. 210 c.p.p. Anche in questo caso, infatti, (in analogia a quanto disposto dall’art. 63.2 c.p.p. per le dichiarazioni di chi avrebbe dovuto essere ascoltato come imputato o indagato) si deve ritenere che il colloquio senza difensore e privo dell’avvertimento sul diritto al silenzio porti alla perdita della prova solo allorché le dichiarazioni riguardino fatti di cui il dichiarante può essere chiamato a rispondere. Qualora si profili tale pericolo (e, quindi, si versi in una situazione analoga a quella prevista dal primo comma dell’art. 63 c.p.p.), i canoni dell’interpretazione sistematica (come osservato nella nota precedente) consentiranno di rifiutare l’acquisizione nel procedimento ad quem (e cioè nel procedimento del dichiarante) di quelle affermazioni, assunte senza l’osservanza dei suoi diritti, che l’art. 238 c.p.p. permetterebbe altrimenti di utilizzare.
— 172 — deve ritenere che la qualifica dei dichiaranti che viene in considerazione sia quella che prospetticamente risulta nell’ambito del nuovo procedimento. Deve, dunque, trattarsi di persone che, riguardo all’imputazione del procedimento ad quem, risultino gravate da un’imputazione connessa o collegata probatoriamente, qualunque sia stato il ruolo (imputato, teste (30), dichiarante ex art. 210 c.p.p.) da esse ricoperto nel procedimento a quo. Il comma 2-bis dell’art. 238 c.p.p. aggiunge che le dichiarazioni rilasciate nel procedimento a quo possono essere utilizzate nei confronti di coloro che sono imputati nel procedimento ad quem solamente quando i difensori (31) abbiano partecipato all’assunzione dell’atto. Non volendo tradire lo spirito della legge, non può considerarsi sufficiente che il difensore della persona nei cui confronti l’atto deve essere utilizzato abbia partecipato all’assunzione dell’atto, nel procedimento a quo: occorre anche che egli vi abbia svolto le sue funzioni in una veste non incompatibile con quella poi assunta nel procedimento ad quem, la qual cosa sarebbe esclusa, per esempio, se l’imputato del procedimento parallelo fosse stato persona offesa nel procedimento di origine (32). Inutile precisare che (30) Sul punto cfr. la diversa opinione di G. RICCIO, Letture più circoscritte, cit., 1191, che non ritiene applicabile l’art. 238.2-bis c.p.p. alle dichiarazioni di persona che, nel procedimento a quo, abbia rivestito la qualifica di testimone. Più radicalmente, poi, G.M BACCARI, Il contemperamento, cit., 194, circoscrive la portata dell’art. 238.2-bis c.p.p. alle dichiarazioni rilasciate dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. nel proprio procedimento oppure in altri procedimenti diversi da quello nel quale si chiede l’acquisizione dei verbali. (31) In giurisprudenza non si è mancato di sottolineare come il rispetto di tale requisito condizioni pesantemente la trasmigrazione di un atto da un procedimento all’altro, dato il ridotto numero di casi in cui si può ipotizzare che il difensore di chi è imputato nel procedimento ad quem abbia potuto assistere alla formazione dell’atto nel procedimento a quo: v. Trib. Minorenni Bologna, ord. 19 settembre 1997, n. 64/1992, Ciavardini, che ha dichiarato non manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto alcune delle disposizioni della legge 7 agosto 1997, n. 267, riportata in Guida al diritto de Il Sole 24 Ore del 4 ottobre 1997, 66, con commenti di G. FRIGO, L’esigenza di conservazione degli atti non deve scardinare il contraddittorio, ibidem, 74; P.P. RIVELLO, Il banco di prova delle aule di giustizia fa emergere le lacune della riforma, ibidem, 71. Preoccupazioni dello stesso tipo avevano già manifestato i Giudici costituzionali, nella sentenza, interpretativa di rigetto, n. 198 del 1994, in ordine ad un problema inerente il primo comma dell’(allora recentemente riformato) art. 238 c.p.p., criticata, in questo suo specifico aspetto, ne La prova documentale, cit., 109, e più generalmente commentata da M. MARGARITELLI, Problemi di ‘‘prova’’ e di ‘‘difesa’’ nei processi separati: la perizia assunta nell’incidente probatorio, in Giur. cost., 1994, 2984. (32) Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe ritenere realizzata la condizione di cui all’art. 238.2-bis c.p.p. qualora in un primo tempo si fosse proceduto contro più imputati congiuntamente; e, poi, contro alcuni di essi fossero stati intentati procedimenti separati per altri reati, la cui prova fosse in qualche modo collegata con quella del precedente procedimento. La questione dell’applicazione dell’art. 238 c.p.p. non si pone invece (e quindi non si pongono i problemi interpretativi che qui preoccupano) nell’ipotesi in cui i diversi processi
— 173 — l’art. 238.2-bis c.p.p. non richiede, invece, che il difensore partecipante all’assunzione dell’atto nel procedimento a quo sia la stessa persona fisica di colui che assume la difesa dell’imputato nel procedimento ad quem. Allorquando sia stato nominato un difensore di fiducia, si deve concordare con chi (33) afferma che l’utilizzazione dell’atto nel procedimento ad quem è subordinata al fatto che gli sia stata data la possibilità di intervenire, nel rispetto delle norme che regolano la materia, salva poi la designazione di un difensore d’ufficio, in caso di sua assenza. Come si vede la disciplina che risulta dal combinato disposto dei commi primo e 2-bis dell’art. 238 c.p.p. si armonizza con quella dettata dall’art. 513 c.p.p. per l’acquisizione in via ordinaria delle dichiarazioni provenienti dalle persone di cui si parla (art. 513.2, prima parte, c.p.p., nonché art. 513.3 c.p.p.): essa, infatti, appare consentita, qui come là, a condizione che la prova sia stata assunta con il metodo dialettico (34), alla presenza del difensore dell’imputato. si diramino da un’unica indagine, perché in tal caso gli atti compiuti devono essere considerati atti propri di ciascun diverso procedimento. L’applicazione dell’art. 238 c.p.p. è esclusa pure per gli atti compiuti congiuntamente dagli organi inquirenti nelle indagini separate, ma collegate a norma dell’art. 371 c.p.p., se si segue la tesi, qui adottata (per la motivazione e la bibliografia in proposito v. La prova documentale, cit., 98, spec. nota 12), per cui il compimento congiunto di un atto ex art. 371.1 c.p.p. rende tale atto proprio di ogni differente procedimento. Sul punto le opinioni espresse sono diverse: già prima dell’attuale riforma, v. per tutti M. BARGIS, Le dichiarazioni, cit., 176. In relazione alla nuova disciplina cfr. G.M. BACCARI, Il contemperamento, cit., 195; A. NAPPI, Prova penale, cit., 30; G. RICCIO, Letture più circoscritte, cit., 1192. (33) G. RICCIO, Letture più circoscritte, cit., 1192. (34) E cioè, con l’esame assunto nel dibattimento o nell’incidente probatorio del procedimento di origine, nel primo caso. Per quanto concerne l’acquisizione nel dibattimento a quo, fuori dall’ipotesi (assunzione tramite incidente probatorio) contemplata nell’art. 513.3 c.p.p. (introdotto dall’art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267), con l’esame assunto in dibattimento, a domicilio, o in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio (art. 513.2 c.p.p., mod. dall’art. 1, legge n. 267/1997). Ragionando sulla non limpida dizione dell’art. 514 c.p.p., si può ritenere che lo stesso trattamento debba essere riconosciuto alle dichiarazioni rese nell’udienza preliminare, quando siano state rispettate le forme previste dagli artt. 498 e 499 c.p.p. (art. 2, legge n. 267/1997). Sul punto cfr. i primi commenti di G. FRIGO, Ritornano l’oralità e il contraddittorio, cit., 71 e 76; G. GIOSTRA, Ritorna la ‘‘cultura della prova’’, cit., 12; G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 3 (il quale ritiene ricompresa nella previsione dell’art. 513.2 c.p.p. l’ipotesi dell’esame a distanza, previsto dall’art. 147-bis disp. att., analogamente a S. CORBETTA, sub art. 513 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, cit., 2294; A. NAPPI, Prova penale, cit., 4; G. RICCIO, Letture più circoscritte, cit., 1184); F. PERONI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., 1134; P.P. RIVELLO, Con l’applicazione della cross examination le ‘‘letture’’ tagliano il traguardo del giudizio, nella Guida al diritto de Il Sole 24 Ore del 30 agosto 1997, 85. Per quanto riguarda gli atti assunti tramite rogatoria internazionale, pure menzionati dal ricordato art. 513.2 c.p.p., non è chiaro se la legge introduca una deroga al principio fissato, perché non è pacifico che possano essere acquisiti solamente quelli assunti nel rispetto delle garanzie volute dal nostro ordinamento: sul punto v. S. RAMAJOLI, Rogatoria all’estero
— 174 — 5. Il regime delle dichiarazioni irripetibili. — Eccezionalmente, l’art. 513.2 c.p.p. consente il recupero dibattimentale delle dichiarazioni rilasciate nelle precedenti fasi di uno stesso procedimento alla polizia giudiziaria delegata (o meno (35) ) dal pubblico ministero, o al pubblico ministero stesso, o, ancora, al giudice dell’udienza preliminare (36), dai dichiaranti considerati dall’art. 210 c.p.p., in caso di impossibilità di reiterazione dell’atto imprevedibile. Nei procedimenti paralleli l’irripetibilità delle dichiarazioni crea complessi problemi di utilizzazione (37). Ci si deve chiedere, infatti, quale sia la portata derogatoria del terzo comma dell’art. 238 c.p.p. rispetto alla disciplina contenuta nei commi precedenti; in particolare, se esso operi anche nei confronti delle situazioni regolate dal comma 2-bis. La risposta positiva (38) induce, in caso di impossibilità di reiterae garanzie difensive, in Giust. pen., 1994, III, 338 (nota a Trib. Milano, ord. 13 ottobre 1993, Bingoel Ramazzan, e a Trib. Milano, ord. 13 ottobre 1993, Metin Ismet); E. ZURLI, Rogatoria all’estero e fascicolo per il dibattimento: osservazioni critiche, in Cass. pen., 1996, n. 682, 1197 (nota a Cass., Sez. I, 5 giugno 1995, Neirotti). Tuttavia non bisogna dimenticare che la Corte costituzionale, con sentenza 13 luglio 1995, n. 379, ha distinto tra assunzione della prova (che deve avvenire nell’osservanza delle norme dello Stato richiesto) e sua utilizzazione (che non può prescindere dal rispetto delle norme fondamentali del nostro ordinamento). Sul punto v. poi Cass., Sez. VI, 28 settembre 1995, Baldini ed altri, CED 203070, che ha escluso l’acquisibilità e la utilizzabilità di dichiarazioni di un imputato di reato connesso, sottoposto a procedimento penale all’estero, assunte ad iniziativa di organi di polizia di un paese straniero, mentre ha ritenuto acquisibili e utilizzabili, nel rispetto delle norme sulle letture in dibattimento, i verbali assunti dalla autorità giudiziaria straniera o dalla polizia su delega di tale autorità, espletati secondo la legge del luogo e conformi alla normativa italiana attinente alle essenziali esigenze dei diritti della difesa. Ritiene che la forza del principio espresso nella nuova legge sia tale da imporre l’esclusione degli atti (compresi quelli assunti tramite rogatoria) che non lo rispettano G. FRIGO, Ritornano l’oralità e il contraddittorio, cit., 72. Sulla stessa posizione S. CORBETTA, sub art. 513 c.p.p., cit., 2294. (35) Sono infatti recuperabili, a norma del modificato art. 513.2 c.p.p., nei casi ivi previsti, le dichiarazioni di cui all’art. 512 c.p.p., che, in seguito alle variazioni introdotte dall’art. 8, d.l. 7 giugno 1992, n. 306, convertito, con mutamenti, in legge 7 agosto 1992, n. 356, ha reso leggibili in dibattimento le dichiarazioni rilasciate alla polizia, senza distinguere fra quelle raccolte su delega del pubblico ministero e quelle raccolte di propria iniziativa; diversamente da quanto contemplato dall’art. 513.1 c.p.p., nella lettura imposta dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 60/1995, cui, prima della legge n. 267/1997, l’art. 513.2 c.p.p. doveva essere raccordato. In questo senso v. A. SCAGLIONE, Polizia giudiziaria, assunzione di informazioni da imputato in un procedimento connesso e regime di utilizzabilità, in Le nuove leggi penali, Cedam, Padova, 1998, 187. (36) Cfr. nota 43. (37) Sul punto v. F. PERONI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., 1136, il quale osserva come nell’art. 238 c.p.p. manchi una norma pendant che si preoccupi di garantire l’utilizzabilità, nei confronti di chi sia stato solo successivamente raggiunto da indizi di colpevolezza, di atti probatori aliunde compiuti e ormai irripetibili, ritenendo la via interpretativa praticabile, ma pericolosa, per la sua opinabilità. Nello stesso ordine di idee G.M. BACCARI, Il contemperamento, cit., 197. (38) Quella negativa, invece, riconoscerebbe al disposto dell’art. 238.2-bis c.p.p. la
— 175 — zione della prova, a ritenere utilizzabili nei procedimenti paralleli le dichiarazioni rese nell’incidente probatorio o nel dibattimento a quo da chi, nel procedimento ad quem, è gravato da imputazioni, connesse o collegate probatoriamente a quella per cui si procedeva nel precedente procedimento, anche se il difensore dell’attuale imputato non abbia partecipato all’assunzione dell’atto (come in linea di principio voluto dal comma 2-bis dell’art. 238 c.p.p.). Tuttavia l’interpretazione sistematica (39) (che vieta che nel dibattimento ad quem siano seguite regole meno rigorose di quelle dettate per il dibattimento a quo) impedisce tale operazione, con conseguente perdita della prova, qualora l’imputato del procedimento ad quem sia stato raggiunto da indizi di colpevolezza prima dell’incidente probatorio — e, a maggior ragione, del dibattimento — (art. 238.3 c.p.p., letto in congiunzione con l’art. 403.1, c.p.p.); od anche dopo, ma, comunque, prima che la ripetizione della prova sia divenuta impossibile (art. 238.3 c.p.p., letto in congiunzione con l’art. 403.1, c.p.p.); od anche dopo, ma, comunque, prima che la ripetizione sia divenuta impossibile (art. 238.3 c.p.p., letto in congiunzione con l’art. 403.1-bis c.p.p. (40). Non esistono ragioni, poi, per escludere che il terzo comma dell’art. 238 c.p.p. continui (41) ad esplicare i suoi effetti nei confronti del primo comma dello stesso articolo, permettendo l’acquisizione della prova di cui si parla, assunta, nel procedimento a quo, fuori dell’incidente probatorio o del dibattimento, quando non sia possibile raccoglierla nuovamente. Anche in questo caso, però, l’interpretazione sistematica impone che si tratti di dichiarazioni (rilasciate nel procedimento di origine al pubblico ministero, od alla polizia giudiziaria che agisca su sua delega o di propria forza cogente di un principio generale. Ma tale soluzione non pare ricavabile né dal testo della disposizione, né dal suo contesto. (39) Sulla necessità di ricorrere all’interpretazione sistematica dell’art. 238 c.p.p., che imponga di leggere le norme che consentono la trasmigrazione dei verbali di prove da un procedimento all’altro nell’ambito del generale sistema probatorio, sia consentito rinviare alla nostra La prova documentale, cit., 103 ss., in cui si afferma che in questa operazione non devono essere dimenticati gli obiettivi che il legislatore ha mostrato di voler perseguire nei procedimenti a quibus, dettando quel complesso di norme che costituiscono il sistema probatorio. Occorre quindi accertare se nel trapasso non risultino travisate le rationes che ispirano le discipline dei diversi mezzi di prova. Sul punto v. anche retro, nota 19. (40) Nel qual caso, si sarebbe dovuto procedere ad una nuova, rituale, assunzione delle dichiarazioni, tramite incidente probatorio. L’interpretazione suggerita nel testo (già sinteticamente esposta da chi scrive nel suo commento all’art. 238 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, cit., 880) presuppone, naturalmente, che sia possibile applicare l’art. 403.1-bis c.p.p. alla prova di cui si parla, anche nei procedimenti di origine, nella situazione regolata dall’art. 513.3 c.p.p. In questo senso si è espresso A. NAPPI, L’acquisizione dei verbali, cit., 3, il quale, però, circoscrive l’interpretazione alle dichiarazioni acquisite nell’incidente probatorio del procedimento a quo, negandone l’estensione alle dichiarazioni assunte nel dibattimento. (41) Come accade negli altri casi, secondo l’interpretazione preferibile: cfr. La prova documentale, cit., 112 ss.
— 176 — iniziativa (42), oppure anche al giudice delle indagini preliminari (43) ) che siano divenute irripetibili per cause che non potevano essere previste (44) al momento in cui le dichiarazioni venivano raccolte (art. 238.3 c.p.p., letto in rapporto all’art. 513.2 c.p.p.). 6. L’esercizio del dirrtto di non rispondere. — È escluso, nella sede di origine (art. 513.2 c.p.p.) (e, quindi, anche nel procedimento parallelo, per le ricordate ragioni sistematiche) che il rifiuto di rispondere possa essere considerato alla stregua di una causa di irripetibilità. Però, mentre nel dibattimento di origine la situazione di stallo derivante dall’esercizio da parte del dichiarante ex art. 210 c.p.p. del suo diritto di tacere può essere superata dall’accordo delle parti, qualora la prova non sia stata raccolta nell’incidente probatorio (terzo comma dell’art. 513 c.p.p., introdotto dalla legge n. 267/1997); nel procedimento ad quem (fuori dei casi previsti dall’art. 238.1 c.p.p., che richiamano situazioni analogamente garan(42) Cfr. nota 35. (43) Nell’originaria formulazione il secondo comma dell’art. 513 c.p.p., letto in congiunzione con il primo, consentiva, nei casi previsti, il recupero in dibattimento delle dichiarazioni rilasciate dai dichiaranti ex art. 210 c.p.p. al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria che agisse su sua delega, ed al giudice, sia nel corso dell’udienza preliminare, sia durante le indagini preliminari. Attualmente il richiamo, operato dall’art. 513.2 c.p.p. all’art. 512 c.p.p., mentre allarga l’utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria (consentendo il recupero anche di quelle raccolte di propria iniziativa: cfr. nota 35), circoscrive l’utilizzabilità di quelle raccolte dal giudice, utilizzabili solo se rese nel corso dell’udienza preliminare. La precisazione nel procedimento di origine non crea problemi, perché in pratica la prova dei dichiaranti ex art. 210 c.p.p. al giudice (che non sia offerta nell’incidente probatorio) viene resa solo nel corso dell’udienza preliminare, se si esclude (come usualmente avviene) la possibilità di farlo nell’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo (art. 391 c.p.p.). La situazione, però, cambia nella dimensione del procedimento parallelo, dove colui che ivi risulta gravato da imputazioni connesse o collegate probatoriamente a quelle del dichiarante, secondo l’interpretazione qui accolta (per cui v. par. 4) potrebbe aver rivestito, nel procedimento a quo, il ruolo di imputato. In tal caso, qualora si verificassero le condizioni previste dal terzo comma dell’art. 238 c.p.p. (impossibilità sopravvenuta e imprevedibile di reiterazione della prova), le note ragioni di sistematicità potrebbero creare ostacoli all’acquisizione di verbali di dichiarazioni rese al giudice fuori dell’udienza preliminare (mentre, si ricorda: v. nota 35 — non ci sarebbero problemi per quella inerente la documentazione di atti raccolti dal pubblico ministero, od anche dalla polizia giudiziaria, che abbia agito su sua delega o di propria iniziativa). Per colmare l’irragionevole lacuna, la soluzione che ci è sembrato opportuno accogliere nel testo (dove, fra le dichiarazioni rese al giudice a quo, non si circoscrive la possibilità di acquisire, nel procedimento ad quem, esclusivamente quelle offerte nel corso dell’udienza preliminare) trova la sua giustificazione teoretica nell’argomento dell’a maggior ragione. (44) Così G. RICCIO, Letture più circoscritte, cit., 1192; ed anche A. NAPPI, L’acquisizione dei verbali, cit., 4.
— 177 — tite) si richiede il solo consenso dell’imputato (art. 238.4 c.p.p.) (45). Tale consenso (che, si ribadisce, deve essere prestato dall’imputato del procedimento ad quem) autorizza l’introduzione di qualunque prova irripetibile; mentre, nel procedimento a quo, l’accordo (di tutte le parti interessate (46) ) rende utilizzabili prove che siano divenute tali per effetto del silenzio del dichiarante. Interpretare la locuzione di cui al comma 2-bis dell’art. 238 c.p.p. come allusiva ad ogni persona che, nel procedimento parallelo, risulti gravata da un’imputazione connessa o collegata a quella per cui si sta procedendo, con assoluta indifferenza per la qualifica che tali persone rivestivano nel procedimento di origine, consente di superare la possibile discrasia che si verificherebbe, nel procedimento ad quem, dalla trasposizione di dichiarazioni di chi (nel procedimento di origine) era imputato oppure dichiarante ex art. 210 c.p.p.: se così non fosse, l’interpretazione sistematica dell’art. 238.3 c.p.p. impedirebbe irragionevolmente l’acquisizione di dichiarazioni sul fatto altrui, provenienti da chi avesse avuto la qualifica di imputato, divenute irripetibili per cause sopravvenute ed imprevedibili (acquisizione non contemplata dall’art. 513.1 c.p.p. (47), ma preveduta dall’art. 513.2 c.p.p.), che invece l’interpretazione suggerita consente. (45) Cfr. sul punto le osservazioni critiche di P.P. RIVELLO, Pentiti: più severità per acquisire i verbali delle dichiarazioni in altri procedimenti, nella Guida al diritto de Il Sole 24 Ore del 30 agosto 1997, 87. In senso favorevole v. G.M. BACCARI, Il contemperamento, cit., 201. (46) E quindi, di tutte le parti (anzi, si deve aggiungere, esclusivamente di quelle) che, dalla prova di cui si parla, possano ricevere un pregiudizio (come pure un beneficio), dato che solo ad esse deve essere riconosciuto il diritto (e, quindi, lasciato il compito) di operare valutazioni in proposito (diversamente S. CORBETTA, sub art. 513 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, cit., 2294, il quale ritiene che il consenso debba essere manifestato da tutte le parti chiamate in causa dalle dichiarazioni). In concreto potrà quindi accadere che una stessa dichiarazione sia considerata utile nei confronti di taluno, ed inutililizzabile, nei confronti di altri. La soluzione non deve meravigliare, anche se non deve essere sottovalutato il pericolo (denunciato, sia pure in relazione all’art. 513 c.p.p., da A. GIARDA, Le ‘‘novelle’’, cit., 144), implicito nelle tesi che, come quella di cui sopra, distinguono il momento dell’acquisizione di una prova da quello della sua utilizzazione, per la suggestione che la lettura dell’atto esercita pur nei confronti di quelle persone che ne respingono l’operatività. Ad ogni modo il concetto di inutilizzabilità relativa non è estraneo alla nostra cultura giuridica: cfr., in generale, N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Cedam, Padova, 1992. In relazione al divieto stabilito dall’art. 513.1 c.p.p., oltre S. CORBETTA, loc. op. ult. cit. e F. PERONI, La nuova disciplina, cit., 164; v. G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 2, il quale, tuttavia, afferma (p. 3) che il consenso voluto dall’art. 513.2 c.p.p. deve provenire non solamente da chi può ricevere un pregiudizio, come anche un — presunto — vantaggio, dalla dichiarazione, ma da tutte le parti (pubblico ministero, altri imputati, parte civile) comunque interessate. (47) Il quale giustamente non la contempla (diversamente dal secondo comma dell’art. 513 c.p.p.) dato che l’impossibilità di ripetizione delle dichiarazioni che l’imputato ha reso nelle fasi precedenti il giudizio per circostanze imprevedibili al momento delle dichiara-
— 178 — 7. Il valore probatorio delle dichiarazioni adoperate per le contestazioni. — Occorre ora verificare se l’introduzione nell’art. 238 c.p.p. del comma 2-bis ad opera della legge in commento produca effetti anche quando si debba procedere all’esame dei dichiaranti indicati nell’art. 210 c.p.p., secondo quanto previsto dal quarto comma dell’art. 238 c.p.p., non essendo stato possibile acquisire i verbali del procedimento parallelo (48). Ci si deve chiedere, infatti, a quali condizioni le dichiarazioni già assunte, adoperate per le contestazioni, divengano prova del fatto: se, infatti, si ritiene che non sia sufficiente rispettare le disposizioni contenute nell’art. 503 c.p.p. (49), ma occorra anche tener conto di quanto affermato dal menzionato comma 2-bis dell’art. 238 c.p.p., le precedenti dichiarazioni difformi potrebbero diventare prova del fatto solo qualora fossero state rese alla presenza del difensore di chi, nel procedimento ad quem, risulti essere imputato. A favore di questa lettura opera l’argomento dell’‘‘a maggior ragione’’, in base al quale si può sostenere che il rispetto del principio del contraddittorio — motivo ispiratore della nuova legge — non può non imporre per l’impiego di ogni dichiarazione quanto disposto per l’acquisizione, nel procedimento ad quem, di prove formate, nel procedimento a quo, nelle più garantite sedi dell’incidente probatorio o del dibattimento. Nel caso, poi, in cui il dichiarante, nel corso dell’esame, si avvalga della facoltà di non rispondere, l’assenza, nell’art. 503 c.p.p., di una norma analoga a quella contenuta nel comma 2-bis dell’art. 500 c.p.p., impedisce il recupero delle dichiarazioni rilasciate nel procedimento a quo, non solo come prova del fatto, ma anche come prova della credibilità. La soluzione si fonda sull’esegesi dell’art. 503 c.p.p. Tuttavia il risultato non cambia neppure aderendo alla tesi di coloro che, nella situazione ipotizzata, ritengono applicabile l’art. 513 c.p.p. (50): la disciplina introzioni comporterebbe la sospensione (a norma dell’art. 71 c.p.p.), o la cessazione (secondo quanto previsto dall’art. 69 c.p.p.) del processo intentato contro di lui. Tali evenienze, ovviamente, non si verificano nei procedimenti paralleli, perché in questa sede i dichiaranti di cui si parla non rivestirebbero più la qualifica di imputati, ma quella di accusati in procedimenti connessi o collegati, od anche di testimoni. Per questa ragione (come si è già specificato supra, nel testo) la prova da essi offerta dovrebbe essere acquisita nel rispetto delle regole dettate per l’acquisizione di tali specifici mezzi di dimostrazione. (48) La qual cosa può accadere quando le dichiarazioni, ripetibili, pur essendo state assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento del procedimento a quo, non risultino essere state raccolte alla presenza del difensore dell’imputato del procedimento ad quem, e manchi il consenso dell’accusato alla loro utilizzazione; oppure anche quando, nella stessa situazione, tali dichiarazioni siano state raccolte fuori dell’incidente probatorio o del dibattimento a quo, alla presenza o meno del suddetto difensore. (49) Le quali, pur se dettate per i procedimenti di origine, sono poi specificamente richiamate, nei procedimenti ad quos, dal quarto comma dell’art. 238 c.p.p. (50) L’interpretazione sembra essere possibile alla luce della sentenza della C. cost. n. 254/1992, che non ha distinto fra le due ipotesi di rifiuto di rispondere: quella totale (che
— 179 — dotta dalla ricordata legge n. 267/1997 (operante nei procedimenti ad quos per le note ragioni sistematiche) esclude, infatti, che possano essere acquisite come prova, senza il consenso delle parti, le precedenti dichiarazioni delle persone di cui all’art. 210 c.p.p., che si siano avvalse della facoltà di non rispondere. 8. La sede di applicazione. — Deve infine essere ricordato che la sede naturale dell’applicazione delle nuove disposizioni dell’art. 238 c.p.p. è il dibattimento (51). La qual cosa, pur non escludendo — ovviamente — il rispetto della disciplina di cui si parla in fasi differenti, solleva un interrogativo sulla necessità della sua generale applicazione. Anche in relazione a tale quesito non sembra opportuno distaccarsi dal criterio altrove (52) già enunciato, che vede la ritualità e la quantità della prova graduate in relazione alle finalità che nel procedimento di volta in volta si perseguono. Pertanto, l’esigenza di adottare le massime cautele, che si impone quando si decide circa la verità dell’enunciato accusatorio in relazione alla colpevolezza di taluno, pur se questo avvenga fuori del dibattimento (53), si attenua in altri momenti in cui appare sufficiente imporre il rispetto di norme non più garantiste di quelle che, nel procedimento a quo, sono dettate per situazioni analoghe (54). 9. Considerazioni conclusive. — Ricostruita in tal modo la voluntas legis, in relazione alla disciplina che consente l’acquisizione in un procedimento dei verbali di prove, assunte in un altro procedimento, contenenti dichiarazioni di persone gravate da un’imputazione connessa o collegata, si deve notare che l’innovazione che sicuramente non poteva essere dedotta con l’interpretazione sistematica dalle modifiche introdotte per l’uso delle dichiarazioni di cui si discorre nel procedimento di origine, riguarda gli effetti del consenso (55). Mentre, infatti, nell’ambito di un procedimento, I’accordo (di tutte le parti) serve a superare la crisi probatoria che a rigore dovrebbe essere la sola assoggettabile alla disciplina dell’art. 513 c.p.p.) e quella parziale (per cui è approntato l’art. 503 c.p.p.), secondo quanto osservato da V. GREVI, Facoltà di non rispondere, cit., 1130: ma non è convincente. Sul punto v. G.M. BACCARI, Il contemperamento, cit., 202; F. PERONI, La nuova disciplina, cit., 173. (51) In questo senso cfr. G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 7; F. PERONI, La nuova disciplina, cit., 158. (52) V. La prova documentale, cit., 181 e ss. (53) Si allude, è ovvio, agli accertamenti svoltisi attraverso i riti alternativi. (54) Così, per esempio, una intercettazione telefonica, una perquisizione, una misura cautelare potrebbero essere disposte nel procedimento ad quem sulla base di una chiamata di correo raccolta dal pubblico ministero del procedimento a quo, prescindendo dal rispetto delle condizioni imposte dall’art. 238.2-bis c.p.p. (55) Sottolinea la diversa rilevanza del consenso nel procedimento a quo e nel procedimento ad quem G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 7, quando osserva che le altre parti potranno interloquire nell’utilizzazione delle precedenti dichiarazioni ai sensi dell’art.
— 180 — si crea in seguito all’esercizio del diritto al silenzio dei dichiaranti privilegiati; nei procedimenti paralleli il consenso, richiesto al solo imputato, serve ad introdurre qualunque prova altrimenti irripetibile. In questo caso, dunque (ma non negli altri), l’obiettivo non poteva essere conseguito senza l’intervento del legislatore (56). Si deve, tuttavia, notare che la diversa efficacia del consenso nelle due situazioni non trova facile spiegazione: perché, infatti, non applicare anche nei procedimenti ad quos la disciplina prevista nell’ambito di un procedimento, che, richiedendo l’accordo di tutte le parti del processo, si dimostra più rispettosa dei loro diritti di difesa, di quanto non sia l’art. 238.4 c.p.p., tanto indifferente nei confronti della situazione dimostrativa di coloro che non sono imputati? E perché non estendere, invece, ai procedimenti di origine l’efficacia generale del consenso, prevista per i procedimenti paralleli? Inoltre non può sfuggire come la legge in discorso, che pure ha ribadito la necessità di rispettare, nei procedimenti ad quos, norme di garanzia analoghe a quelle previste per l’utilizzazione della stessa prova nei procedimenti a quibus, di fatto indebolisca la validità del criterio generale, mettendo in evidenza la poca fiducia in esso riposta (57), seppure rispetto all’uso del mezzo di convinzione di cui si occupa elimini i dubbi interpretativi che potrebbero sorgere. Invece sembra a chi scrive di dover ribadire l’irrinunciabilità del criterio di cui sopra, che permetterà di risolvere agilmente le questioni, che di volta in volta si proporranno (58); impedendo, 210 c.p.p. se raccolte nel medesimo procedimento, ma non se provenienti da altri procedimenti. (56) G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 7; G. RICCIO, Letture più circoscritte, cit., 1191; P.P. RIVELLO, Le modifiche all’acquisizione delle prove, cit., 67 affermano che le modifiche dell’art. 238 c.p.p. sono conseguenziali a quelle apportate dalla stessa legge alle norme (in particolare, all’art. 513 c.p.p.) che regolano l’utilizzazione della prova nel procedimento di origine, senza tuttavia prendere esplicitamente posizione sul problema affrontato nel testo. Di innovazioni (dell’art. 238 c.p.p.) simmetriche rispetto a quelle contenute nell’art. 513 c.p.p. parla F. PERONI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., 1135. (57) Oltre i giudici costituzionali, nella citata sentenza n. 198/1994 (la quale, se non nella sostanza, certamente nelle intenzioni: cfr. quanto detto supra, in nota 28 — ne ha negato l’applicabilità), ha implicitamente mostrato poca fiducia nel criterio il legislatore del 1997. Tuttavia, anche se (come osservato da F. PERONI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., 1136) soggetta al rischio di smentite, sul piano della prassi, la scelta della via interpretativa non deve essere accantonata, se non altro perché l’esperienza degli ultimi anni ha mostrato come spesso il legislatore che interviene per risolvere alcune questioni ne propone altre, di non minor spessore, su differenti versanti: per cui, lungi dall’eliminarli, sovente il suo intervento moltiplica i quesiti di ordine ermeneutico. Perciò non resta che ribadire l’invito, rivolto, nella sua relazione conclusiva al convegno (Trapani, 26-28 settembre 1997) sul tema Oralità e contraddittorio nei processi di criminalità organizzata da G. CONSO ai giuristi, affinché essi non invochino sempre l’intervento del legislatore, rinunciando a risolvere le questioni, quando possibile, con lo strumento esegetico. (58) La dottrina non ha mancato di notare come l’intervento del legislatore n. 267/1997 non abbia risolto ogni problema attinente alla rivalutazione del contraddittorio nei
— 181 — così, che un’eventuale inerzia (o lentezza) del legislatore, faccia assumere una portata dirompente all’eccezione ai principi dell’oralità e dell’immediatezza, che l’applicazione dell’art. 238 c.p.p. certamente comporta. Limitando, poi, il discorso alle modifiche apportate all’art. 238 c.p.p., fatte salve le osservazioni svolte nel commentare i singoli profili della disciplina considerata, la valutazione complessiva che si può dare sulle nuove norme non è univoca. Da un lato, infatti, non si può non apprezzare lo sforzo del legislatore teso a rivitalizzare il contraddittorio (59). Tuttavia non bisogna dimenticare che l’innovazione viene ad incidere su un assetto, migliorandolo, senza sanarlo: rimane, infatti, la contraddizione di fondo per cui, dopo aver optato per un sistema, come è quello accusatorio, che presuppone la formazione dibattimentale della prova, utile a giudicare un unico imputato, rispetto ad un’unica imputazione; si è arrivati a consentire una larga acquisizione non consensuale in un processo (60) di prove plasmate in altra sede (61), in relazione ad una diversa res judicanda. La gravità della deroga di cui si parla dipende dal fatto che in tal modo si ha una commistione dei ruoli dei dichiaranti (62), la quale genera una irrimediabile confusione di discipline. procedimenti in cui la prova si origina ed in quelli paralleli, ma solo le questioni concernenti le dichiarazioni di chi, nello stesso procedimento, o in sedi procedimentali diverse, è soggetto alla stessa imputazione, od a imputazioni connesse o collegate probatoriamente: v. G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 6; F. PERONI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., 1135; ID., La nuova disciplina, cit., 175; C. QUAGLIERINI, Le modifiche in materia di incidente probatorio, in Le nuove leggi penali, Cedam, Padova, 1998, 226. (59) Non si possono tuttavia dimenticare gli effetti perversi che la legge n. 267/1997 porta sui processi in corso, quando la vicenda processuale a carico dei dichiaranti ex art. 210 c.p.p. sia già stata conclusa, interferendo con le strategie, a suo tempo legittimamente adottate, dai pubblici ministeri (v. quanto denunciato da O. DOMINIONI nella sua relazione orale al convegno sul tema Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova — Salerno, 11-13 ottobre 1996 — riportata in Un nuovo ‘‘idolum theatri’’, cit., 751). Di tali interferenze il legislatore non può non farsi carico, per evitare che, in nome di una pur irrinunciabile esigenza di restaurazione del contraddittorio, di fatto, e del tutto irragionevolmente, la prova nei confronti di alcuni accusati venga dispersa. Le denunce in tal senso sono state numerose: per tutti, oltre quelle (affidate ai mass media) del procuratore-capo di Milano, SAVERIO BORRELLI, v. S. CORBETTA, Modifica dell’art. 513 c.p.p., cit., 1069; ID., La riforma dell’art. 513 c.p.p. e la disciplina transitoria delle letture dibattimentali, in Le nuove leggi penali, Cedam, Padova, 1998, 256; P.P. RIVELLO, Il banco di prova, cit., 73. (60) Diverse considerazioni devono essere fatte in relazione alla fase investigativa, di regola non dominata, come quella inerente il giudizio, da analoghe esigenze di sicurezza del materiale di convinzione. (61) Il discorso vale sicuramente per le prove consistenti in dichiarazioni, ma non per altri atti, quali sono, per esempio, la perquisizione, o l’intercettazione telefonica, che hanno una valenza oggettiva; e le cui eventuali limitazioni devono essere ricercate non nella necessità di assicurare l’attendibilità del materiale di dimostrazione acquisito, ma piuttosto nell’esigenza di non comprimere eccessivamente beni che l’ordinamento considera meritevoli di tutela. (62) Fra quello di imputato, che però è anche teste; ovvero quello del teste, che non è
— 182 — Il sistema probatorio anglosassone che, vigente il codice di procedura penale del 1930, appariva estremamente complesso all’osservatore latino, abituato a risolvere gran parte delle questioni probatorie con il semplicistico ricorso al principio del libero convincimento del giudice, risulta oggi di una linearità invidiabile, rispetto alla nostra disciplina, conoscendo in ogni processo unicamente le figure dell’imputato (con i suoi diritti) e del teste (con i relativi obblighi). In quell’ordinamento, infatti, è escluso che possano costituire prova contro (ma pure a favore di) un coimputato le dichiarazioni che non siano state rese con le stesse regole previste per il testimone, e cioè, nel corso di un esame incrociato, da una persona che ne garantisca penalmente la veridicità. Figure analoghe a quella del dichiarante ex art. 210 c.p.p. sono sconosciute. L’accusato, poi, non può essere costretto a dare prova; ma, se accetta di farlo, rinunciando al suo diritto al silenzio, assume anch’egli tutti gli obblighi del teste. Ad ogni modo egli può essere costretto a deporre come tale quando il procedimento contro di lui si è concluso. Analogo effetto produce l’assunzione da parte dell’accusa dell’impegno di non adoperare a suo carico le affermazioni rese (63). È evidente che soluzioni di tal genere, che anche in Italia non mancano di adesioni (64), implicano la rinuncia al principio di non dispersione della prova (65), sulla cui incompatibilità con quello di ritualità dell’azione dimostrativa è inutile spendere parole. La trattazione disgiunta delle diverse imputazioni ne risulterebbe ovviamente incrementata, costituendo l’espediente tecnico cui ricorrere per porre gli attuali dichiaranti ex art. 210 c.p.p. nella situazione dei testimoni, e, quindi, senza che sia loro riconosciuto il diritto di non rispondere e di fare dichiarazioni non corrispondenti a verità (66), o, comunque, reticenti. Qualora, invece, le res judicandae connesse o collegate probatoriamente fossero trattate congiuntamente, in linea di principio si dovrebbe escludere rilevanza probatoimputato in quel procedimento, ma in uno diverso, seppure ad esso collegato probatoriamente. (63) Si tratta della concessione della c.d. immunità. Sui diversi tipi di immunità conosciuti nell’ordinamento inglese ed americano, sui loro presupposti e sulla loro disciplina, ci sia consentito rinviare al nostro La collaborazione processuale di imputati e testimoni nei sistemi di common law, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 240. (64) Cfr. gli Autori citati in nota 25. (65) Per una serrata critica alla giurisprudenza costituzionale, cui, secondo la convincente tesi dell’Autore, si deve la creazione di tale principio, cfr. O. DOMINIONI, Un nuovo ‘‘idolum theatri’’, cit., 737 ss. (66) Cfr. sul punto la diversa opinione di O. DOMINIONI, Un nuovo ‘‘idolum theatri’’, cit., 754 ss., il quale, analizzando le diverse situazioni verificabili, ritiene irrinunciabile l’assoggettamento del dichiarante sul fatto altrui all’esame incrociato, con conseguente eliminazione del diritto al silenzio, attualmente riconosciuto; mostrandosi, invece, più flessibile nel rinunciare alla sanzione penale a carico del dichiarante mendace o reticente. Sulla difficoltà di accettare tout court l’eliminazione del diritto al silenzio di colui che rende dichiarazioni al pubblico ministero v. G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali, cit., 5.
— 183 — ria alle dichiarazioni sul fatto altrui, la cui veridicità, controllata attraverso l’esame incrociato, non risultasse anche assistita da una sanzione penale (67). Il costo che tali scelte comportano, non solo nel settore della giustizia (dove l’impegno dei diversi operatori risulterebbe notevolmente incrementato), ma anche e, soprattutto, in quello della repressione o della prevenzione in senso lato (che, con la sua accresciuta efficienza, dovrebbe — per così dire — compensare il maggior lavoro che i suddetti operatori sono chiamati a svolgere) è innegabilmente alto. Opzioni di questo tipo non possono realisticamente prescindere dalla contemporanea, consapevole, accettazione del relativo prezzo; e, quindi, non possono essere scelte da un Paese che non sia concretamente disposto ad affrontarne i costi. JOLANDA CALAMANDREI Ricercatrice presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Firenze Diparimento di Diritto penale e comparato
(67) Rimarrebbero, poi, aperte tutte le questioni concernenti il recupero dibattimentale nell’ambito di uno stesso procedimento di atti compiuti nella fase delle indagini, recupero che, in linea di principio, dovrebbe considerarsi precluso.
PER UNA CARATTERIZZAZIONE SEMANTICA DEL CONCORSO ESTERNO (*)
1. Una fra le garanzie più importanti di un moderno stato liberale e di diritto è costituita, senza dubbio, dalla predeterminazione legale delle fattispecie di rilevanza penale: il grado di prevedibilità e di controllabilità delle decisioni giudiziarie dipende dal grado di verificabilità delle loro motivazioni e quindi, dalla semantica del linguaggio normativo (1). Ciò non significa, come è ovvio, che la prevedibilità delle decisioni e la verificabilità delle motivazioni siano assolute essendo le une come le altre fluttuanti a seconda del grado di tassatività delle figure di reato e delle garanzie processuali poste a fondamento della verificazione processuale. Ma equivale, in un certo senso, a porre un argine alla di per sè opinabile interpretazione giuridica vincolata, sul piano sostanziale — tralasciamo le non meno rilevanti garanzie processuali — alla natura più o meno formalizzata delle espressioni linguistiche utilizzate dal legislatore. Insomma, tanto il potere di verificazione quanto il potere di connotazione (2) della funzione giudiziaria soggiaciono all’esigenza della tassatività delle fattispecie penali tanto più soddisfatta quanto maggiore sia il grado di precisione linguistica del testo normativo. E tuttavia, seppure in presenza di un enunciato normativo determinato, la garanzia penale non può dirsi ancora soddisfatta: la univocità semantica del precetto è, insomma, condizione necessaria ma non sufficiente della tassatività della fattispecie di reato. Il campo è assai impervio eppure non appare inutile richiamare le (*) Testo, riveduto e corretto, di una comunicazione presentata al Convegno di studio su i Reati Associativi, organizzato dal CNP-DS, Courmayeur 10-12 ottobre 1997. (1) TARELLO, La semantica del neustico, Scritti in memoria di W. Cesarini Sforza, Milano, 1968, pp. 761 e ss.; FERRAJOLI, Legalità ed equità nel giudizio penale: una caratterizzazione semantica, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, II, Milano, 1990, p. 205. (2) Intendendo per verificazione il potere di decisione in ordine all’accettazione come vere delle ipotesi accusatorie e per connotazione il potere di valutazione sulla misura della pena, la gravità del fatto, i motivi soggettivi, l’intensità della colpevolezza insomma su tutto ciò che pur appartenendo al reato manca di precisi riferimenti empirici così da poterne predicare la verità giuridica: sul punto FERRAJOLI, Legalità ed equità, cit. p. 206. Uno sviluppo di tali problematiche è presente in FERRAJOLI, Diritto e Ragione — Teoria del garantismo penale, Bari, 1990, pp. 94 e ss.
— 185 — due diverse accezioni di « significato » in uso nella logica linguistica ove ciascun segno linguistico può intendersi secondo una prima accezione nella sua estensione o denotazione e, secondo una seconda accezione, nella sua intensione o connotazione (3). L’estensione di un segno linguistico è l’insieme degli oggetti cui esso si applica o riferisce. L’intensione è, altresì, l’insieme delle proprietà evocate dal segno e possedute da ciascun oggetto ricompreso nella sua estensione. Ad esempio: il termine « uomo » si estende e denota tutti gli esseri dei quali è vera la sua predicazione (Dante, Kafka, Mastro Geppetto) ma connota tutti quegli essere dotati di intelligenza, parola, uso delle mani, posizione eretta, etc. In diritto: il termine « pubblico ufficiale » denota il soggetto attivo del reato, p.e., di peculato e connota l’insieme delle note costitutive e delle caratteristiche essenziali da esso possedute (per le quali l’ordinamento rinvia all’art. 357 c.p.). Il termine « associazione » denota l’organismo ex art. 416 c.p. e connota tutte le caratteristiche che tale organismo deve possedere (molteplicità di associati, predisposizione di mezzi, permanenza del vincolo, indeterminatezza del programma, etc.). Nella comunicazione giuridica (4), la legge opera nè più nè meno come un segno linguistico, connotando le caratteristiche essenziali o gli elementi costitutivi di un reato e denotando l’estensione di un caso individuale nella classe di appartenenza. Lungi dal porsi in termini dissociativi, la legge tradisce una « relazione semantica biunivoca » tra l’enunciato linguistico designante (la norma) e la situazione designata e denotata (l’esperienza) (5). Il giudizio di legalità e tassatività non può non assumere, dunque, un significato più ampio della semplice determinatezza semantica degli enunciati linguistici contenenti le fattispecie di reato: esso deve riferirsi alla verificazione delle proprietà sia intensive che estensive di un segno linguistico assunto in una figura legale di reato divenendo così « una regola semantica meta-legale sulla formazione della lingua legale che prescrive al legislatore penale di connotare l’intensione dei termini da lui usati per designare le figure di reato in maniera il più possibile univoca e precisa, (3) Per un esame della teoria referenziale del significato in uso nella logica moderna, elaborata da Gottlob Frege, si rinvia a FERRAJOLI, Legalità ed equità, cit., pp. 213 e ss.; più diffusamente FERRAJOLI, Diritto e Ragione, cit., pp. 96 e ss. In un articolo di alcuni anni addietro la medesima concettuologia veniva espressa con i termini « designatum » e « denotatum »: il primo indica un concetto; il secondo la situazione o l’oggetto concretamente esistente a cui si riferisce l’espressione in questione. Per un opportuno approfondimento si rinvia a FERRAJOLI, Interpretazione dottrinale e interpretazione operativa, in Rivista internazionale di Filosofia del Diritto, 1966, p. 298. (4) Sul punto FERRAJOLI, Interpretazione, cit., p. 294. (5) FERRAJOLI, Interpretazione, cit., p. 299.
— 186 — onde ne risulti il più possibile determinata l’estensione e ne sia possibile l’uso come predicati « veri (o falsi) dei » fatti empirici da essi denotati » (6). L’esigenza della tassatività si sposta, insomma, da un piano soltanto meramente teorico ad un livello operativo (7) seguendo la disposizione normativa dalla sua genesi alla sua proiezione concreta: essa diviene requisito indefettibile della regola semantica del linguaggio giuridico, id est della regola che determina le condizioni di applicabilità di un termine normativo ad una esperienza giuridica (8). Non già semplicemente un antitodo alla vaghezza della « lingua » legislativa ma una sollecitazione — nei limiti del possibile (9) — alla precisazione del « linguaggio » normativo (10). Ne consegue che la tassatività della norma penale è garantita ogniqualvolta le figure astratte di reato posseggano precisi ed univoci elementi costitutivi ed essenziali ma anche precisi ed univoci campi di applicazione sicché i fatti concreti siano denotati e connotati in proposizioni vere ma certe. E quindi tendenzialmente esclusive. Contro le cosiddette minacce di fatto (11), la certezza del diritto, seppure in termini relativi, si riappropria, e pour cause in diritto penale, della sua antica e feconda funzione di garanzia imponendo di formalizzare anche la semantica giuridica parlata in guisa da consentire la verificabilità di coerenza e tassatività giuridica di fatti empirici sussunti interpretativamente in ipotesi di reato. E tuttavia ciò non vuol significare una riproposizione di antiche prospettazioni legaliste o logiciste così da ritenere che ciascuna norma giuridica possegga un significato proprio o vero, universalmente ed assolutamente accertabile come tale (12): è pur vero altresì che la norma non « ha » un significato ma « è » un significato di un segmento linguistico che (6) Così FERRAJOLI, Legalità ed equità, cit., p. 217. (7) FERRAJOLI, Interpretazione, cit., p. 296. (8) FERRAJOLI, Interpretazione, cit., pp. 296-297. (9) LOMBARDI VALLAURI, Corso di Filosofia del Diritto, Padova, 1981, p. 370. (10) Per una trasposizione in termini meno rigorosi ma più accessibili dei concetti richiamati, ricorre in ausilio la distinzione fra « lingua » e « linguaggio » giuridico intesa la prima come insieme delle regole d’uso delle espressioni impiegate dal secondo: così FERRAJOLI, Interpretazione, cit., pp. 296 e 300; ID., Legalità ed equità, cit., p. 216. (11) Così le definisce CALAMANDREI, La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina, pubblicato originariamente sulla Rivista di diritto commerciale, 1942, I, 341 e ripubblicato in Appendice su Lopez de Onate, La certezza del diritto, Milano, 1968, p. 172. (12) Osserva in proposito LOMBARDI VALLAURI, Corso, cit., pp. 32 e ss. come la legge non possa fissare in modo univoco il significato di tutte le proprie parole giungendo a costituirsi in sistema linguistico autosufficiente: essa presenterà pur sempre tanto lacune « statiche » quanto lacune « dinamiche ». Non potrà, insomma, mai statuire che è punito « colui che di notte aggredisca una vecchia di ritorno dal mercato per derubarla della gallina ivi ac-
— 187 — tollera molteplici combinazioni di significati a seconda delle zone di penombra presenti finanche in linguaggi formalizzati e nei relativi spazi ermeneutici (13). In più, il valore semantico attribuibile alle proposizioni normative risente inevitabilmente di quel margine di connotazione insopprimibilmente legato a tutto il sedimento che la storia della cultura, dei sentimenti, delle precomprensioni, insomma della esperienza giuridica — e fors’anche metagiuridica — hanno lasciato nell’inteprete (14). La certezza del diritto(15) così intesa — sub specie di tassatività — sarebbe vana illusione destinata a peregrinare a lungo alla ricerca del fantasma del « giurista-scienziato » (16). Tassatività, dunque, giammai intesa come esclusività del risultato ermeneutico. quistata » nè disegnare una carta geografica grande quanto il territorio che si vuole descrivere. Nè questo può essere un limite per la certezza del diritto poiché « il legislatore, se è legislatore per davvero, tra il definire e il non definire, ha da tenere la giusta misura »: così CARNELUTTI, La certezza del diritto, già pubblicato nella Rivista di Diritto Civile, XX, 1943, 81 e ripreso su Lopez de Onate, La certezza del diritto, Milano, 1968, p. 205. (13) Lo avvertiva già, parlando di « fallacia naturalistica » e di « fallacia moralistica », TARELLO, Il « problema dell’interpretazione »: una formulazione ambigua, in Rivista internazionale di Filosofia del Diritto, 1966, pp. 352-353. Sul punto si veda anche VAN DE KERCHOVE, La teoria degli atti linguistici e la teoria dell’interpretazione giuridica, trad. a cura di A.M. Campanale, in AA.VV. Teoria degli atti linguistici Etica e Diritto, a cura di A. Filipponio, Torino, 1990, p. 264. (14) Al carattere « ineffabile » dell’intendere si aggiunge la « relatività » di qualsiasi processo interpretativo: sulla complessa problematica si rinvia a ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Traduzione della Scuola di perfezionamento in diritto civile dell’Università di Camerino, a cura di Pietro Perlingieri, 1983; GADAMER, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen, 1975; ZACCARIA, Ermeneutica e giurisprudenza — I fondamenti filosofici nella teoria di Hans Georg Gadamer, Milano, 1984, p. 40; ZACCARIA, Ermeneutica e giurisprudenza — Saggio sulla metodologia di Josef Esser, Milano, 1984; PERELMAN, Logica giuridica e nuova retorica, Milano, 1979, p. 135; LOMBARDI VALLAURI, Corso, cit., 1981, p. 67; CORSALE, Teoria dell’interpretazione, comunicazione, linguaggio, in Rivista internazionale di Filosofia del Diritto, 1966, p. 283. (15) Sulla certezza del diritto LOPEZ DE ONATE, La certezza del diritto, Milano, 1968; LEVI, La certezza del diritto in rapporto con il concetto di azione, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, I, 1950, pp. 83 e ss.; OPOCHER, Il diritto senza verità, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, I, 1950, pp. 179 e ss. (16) LOMBARDI VALLAURI, Corso, cit., p. 181. La fallacia della ricerca scientifica della certezza giuridica appare chiara se solo si rifletta come nel campo della logica, della matematica, delle scienze sperimentali una decisione presa a maggioranza — come pure capita nella scienza giuridica — sarebbe impensabile. Non a caso, ricordava, WOLF, Il carattere problematico e necessario della scienza del diritto, in Il valore scientifico della giurisprudenza, Milano, 1964, pp. 44-45, quando in poesie epiche o drammatiche, in opere cinematografiche o radiofoniche appare il giurista in veste di giudice, avvocato e funzionario pubblico, questi, nel caso migliore, è rappresentato come un « buon uomo », mai come un eminente scienziato.
— 188 — Epperò, la penombra se non può essere ridotta non può neppure addensarsi fino al buio più completo (17). La relatività del percorso interpretativo non può spingersi fino al punto di tollerare espressioni linguistiche formalmente determinate ma effettualmente indeterminate; nè tantomeno espressioni linguistiche ontologicamente vaghe e indefinite con risultati ermeneutici insopportabilmente molteplici e indefiniti. Il paragone fra il funzionamento degli atti linguistici e il funzionamento dei giuochi (18) può essere utilmente ripreso per chiarire le caratteristiche della così intesa tassatività giuridica. E dunque il giuoco linguistico della comunicazione giuridica soggiace anch’esso, sopratutto esso, a « codici grammaticali » ossia a regole che disciplinano l’uso delle espressioni utilizzate sottratte al dubbio, alla conferma, alla refutazione, insomma a quella anarchia intepretativa che eleva l’empirìa a sapere selvaggio e precategoriale. Il perseguimento degli scopi che qualsiasi partita mira ad ottenere resta così imbrigliato da quelle stesse regole che sottintendono lo svolgimento del giuoco: regole dunque, a qualsiasi titolo apprese, che sono il luogo del dubbio, ma non a loro volta oggetti esposti al dubbio (19). V’è di più: così come non si potrebbe ritenere che un giuoco consista nel rispetto formale delle regole e per di più che i singoli giocatori siano liberi di adottare qualsiasi comportamento non vietato, in eguale misura non tutte le interpretazioni permesse, in quanto non vietate, possono avere lo stesso valore riguardo a ciò che è « in giuoco » (20). L’interpretazione di una norma pur non espressamente vietata o preclusa dal tenore linguistico della disposizione, non per ciò solo può intendersi consentita e razionale dal punto di vista del sistema giuridico in cui viene a posizionarsi. Insomma qualsiasi interpretazione giuridica offre oltre ad uno scopo immediato, una finalità ultima che costituisce essa stessa una « regola del giuoco »: nella specie, salvaguardare la coerenza razionale del sistema giuridico in termini ideologici ed assiologici (21). Qualsiasi mossa del giuoco, id est interpretazione offerta deve cioè garantire la razionalità e quindi la tassatività del sistema giuridico(penale). Pur sensibile alle intenzioni soggettive e alle incertezze semantiche l’esigenza di tassatività, così intesa, trova elemento di raccordo nella premessa e nella direzione dell’opera, ossia nella coerenza del risultato inter(17) L’espressione è di FERRAJOLI, Diritto e Ragione, cit., p. 100. (18) VAN DE KERCHOVE, La teoria, cit., p. 286; VAN DE KERCHOVE-OST, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Milano, 1995. (19) WITTGENSTEIN, Della certezza, con saggio introduttivo di Aldo Gargani, traduzione di Mario Trinchero, Torino, 1978. (20) VAN DE KERCHOVE, La teoria, cit., p. 287. (21) VAN DE KERCHOVE, La teoria, cit., p. 287.
— 189 — pretativo all’interno di un coerente sistema di regole: essa è (requisito della) « regola del giuoco » e, quando non espressamente contraddetta, (requisito dello) « scopo del giuoco ». La eclettica metodologia dei risultati — contrapposta alla più rassicurante ma effimera e chimerica metodologia dei metodi (22) — viene così ad abbandonare la natura criptica per sottoporsi ad una manifesta verifica critica che aggiunge alla regola di tassatività ex ante (la determinatezza della descrizione della fattispecie) una tassatività ex post (la determinatezza della interpretazione della fattispecie), il cui prodotto è la tassatività immanente al sistema. Il che non significa — vale la pena ribadirlo — nè potrebbe mai, imbrigliare il complesso processo ermeneutico ma monitorarlo non più nella sola fase velleitaria e stereotipata della « motivazione », affidata alla talvolta « indiscreta » discrezionalità del Giudice. Se c’è — e pare proprio non possa non esservi — una zona d’ombra in qualsiasi disposizione giuridica così da consentire non già deduzioni logiche ma decisioni logiche (23), il profilo della tassatività si sposta seguendo il cammino applicativo della norma applicata imponendo alla decisione ermeneutica di seguire una coerenza logica e dogmatica interna alla disposizione ma interna finanche al complesso sistema giuridico. Una sorta di regola di sincerità (24), o controllo di concordanza (25), volta ad evitare che la conoscenza normativa sia difficilmente documentabile da parte dei migliori e facilmente usurpabile da parte dei peggiori (26). Per dirla con altre parole, « Se una proposizione deve avere senso, l’impiego sintattico d’ogni sua parte dev’essere stabilito prima » (27). E dunque: se ogni termine non è che una sintesi di rapporti empiricamente avvertiti ed empiricamente verificabili, diviene decisiva l’analisi dei risultati dell’indagine empirica che funge da cartina di tornasole della legittimità dell’impiego dell’espressione utilizzata (28). 2. Lo sviluppo argomentativo finora espresso non è certamente usuale nel panorama giurisprudenziale ove, al contrario, l’imbarazzo costituzionale per l’indeterminatezza linguistica di un precetto normativo viene avvertito solo qualora il giudice a quo non sia in grado di optare fra (22) LOMBARDI VALLAURI, Corso, cit., pp. 74 e ss. (23) Sul punto FERRAJOLI, Diritto e Ragione, cit., p. 163 (nota 17). (24) VAN DE KERCHOVE, La teoria, cit., p. 269. (25) ESSER, Precomprensione, cit., pp. 13-14; ZACCARIA, Ermeneutica e giurisprudenza, cit., p. 181. (26) LOMBARDI VALLAURI, Corso, cit., p. 71. (27) WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, traduzione di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino, 1968, p. 163. (28) CORSALE, Teoria dell’interpretazione, cit., p. 281.
— 190 — le molteplici interpretazioni possibili o addirittura di escogitarne taluna nuova (29). L’incertezza interpretativa viene, insomma, vissuta come un percorso obbligato, connaturato all’ermeneutica tout court giuridica, verso la successiva armonizzazione ed uniformità assicurata dalla Suprema Corte (30). Epperò, non può dirsi del tutto sconosciuto. In una meno recente sentenza costituzionale (31) esso si ritrova nella affermazione per cui « La compiuta descrizione di una fattispecie penale non è sufficiente ai fini della legittimità costituzionale della relativa norma che, data la struttura o l’astratta formulazione, non consenta una razionale applicazione concreta ». Quasi a dire che al di là della formulazione letterale della norma emerge, ai fini della tassatività costituzionale, la verificabilità effettuale del risultato interpretativo: le varie e contrastanti interpretazioni date ad una disposizione — nella specie all’art. 603 c.p. — « confermano la imprecisione e l’indeterminatezza della norma, cui è impossibile attribuire contenuto oggettivo, coerente e razionale, donde l’assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione » astrattamente riferibile a molteplici ipotesi comportamentali. Vi si ritrova espressa, in sostanza, l’esigenza a che un testo legislativo divenga intellegibile tanto nella sua intensione quanto nella sua estensione (29) È quanto si legge nella sentenza n.456 del 27 luglio 1989, pubblicata su Giust. pen., 1990, I, 108 ove si afferma che « Quando, infatti, il dubbio di compatibilità con i principi costituzionali cada su di una norma ricavata per interpretazione da un testo di legge è indispensabile che il giudice a quo prospetti a questa Corte l’impossibilità di una lettura adeguata ai detti principi; oppure che lamenti l’esistenza di una costante lettura della disposizione denunciata in senso contrario alla Costituzione (cosiddetta « norma vivente ») ». Dalla premessa per cui « a tutti gli Organi giurisdizionali spetta, in piena indipendenza ed autonomia, una indeclinabile funzione interpretativa » la Corte fa dunque seguire l’affermazione di una sostanziale anarchia interpretativa. Sullo stesso piano si muove l’ordinanza n. 127 del 16 marzo 1989, su Giust. pen., 1990, I, 149, ove pure la possibile scelta fra due differenti interpretazioni non testimonia l’indeterminatezza della disposizione ma riflette il compito tipico ed esclusivo del giudice orinario. (30) Si legga in proposito la sentenza n.49 del 14 aprile 1980 pubblicata su Giust. pen., 1980, I, 195, ove la formulazione di un testo normativo, pur infelice e foriera di notevoli possibilità interpretative, pur dunque aperta all’opera sostanzialmente creativa della giurisprudenza, non è intesa quale eventualità sconosciuta alla legislazione penale ove non mancano concetti insuscettibili di interpretazione tassativa eppure chiariti da concetti di comune esperienza. Il principio del « nullum crimen sine lege » « non è attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto. Spesso le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria, o all’uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato ». (31) I riferimenti e le citazioni saranno, d’ora in poi, riferite alla sentenza (9 aprile) 8 giugno 1981 n.96 che ha dichiarato illegittimo, per contrasto con l’art. 25 comma 2 Cost., l’art. 603 c.p. che prevedeva il reato di plagio.
— 191 — e che, quindi, la determinatezza divenga requisito indefettibile della formulazione semantica ma anche della formulazione sintattica della fattispecie. Il pronunciato costituzionale non è di poco rilievo segnando il passaggio da una nozione statica ad una nozione dinamica di tassatività fugando l’equivoco per cui l’ambiguità del « significato » linguistico-normativo appartenga alla sola fase della verifica probatoria e processuale dell’interpretazione, scongiurata dalla sola coerenza interna del corpo motivazionale dell’« indifferente ricercatore del vero » (32). E riconoscendo altresì, in una prospettiva di avanguardia liberale e garantista, che in relazione ai molteplici risultati interpretativi di una medesima disposizione, tutti motivati ma per ipotesi del tutto antitetici, il controllo di tassatività non possa non attuare l’esigenza costituzionale di prevenire molteplici giudizi di corrispondenza fra fattispecie astratta e singoli fatti storici. In sintesi. Al di là della chiarezza semantica di una espressione giuridica, la verifica di tassatività deve investire finanche la chiarezza « pragmatica » della disposizione. 3.1. Scriveva alcuni anni addietro un illustre Filosofo (33) che la legge crudele e inviolabile del pensiero è di non potere staccarsi dal suo oggetto, perché l’oggetto del pensiero è inesauribile. Certo è che la riflessione sulle problematiche associative merita di essere costantemente ripresa ed aggiornata. Anche perchè determinare quella che nella logica linguistica è definita la parte frastica (34) del precetto in tema di reati associativi permane operazione interpretativa sempre più incerta e problematica: il problema ermeneutico, della individuazione del comportamento vietato rispetto al precetto penale, si rivela ancor più circondato da quell’alone di dubbio e di mistero che ha, fin dall’inizio, contraddistinto la genesi e la applicazione delle fattispecie de quibus (35). Il linguaggio sempre più caratterizzato da una logica del « bisogno » piuttosto che da quella del « sapere ». (32) BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1764. (33) CAPOGRASSI, Opere, V, Milano, 1959. (34) Sulle nozioni di « frastico » e « neustico » proposte da Richard M.Hare si rinvia a TARELLO, La semantica, cit., pp. 761 e ss.; SCARPELLI, Il linguaggio giuridico: un ideale illuministico, in Nomografia — Linguaggio e redazione delle leggi, a cura di Paolo Di Lucia, Milano, 1995, p. 12. (35) La verifica della tassatività delle fattispecie associative si muove essenzialmente in una prospettiva « dinamica », attenta cioè al significato più che al segno linguistico della ipotesi normativa. Per la verifica della determinatezza « statica » della norma, di cui però non può sottolinearsi la « scarsa consistenza » o la « ridotta visibilità » si rinvia alle acute osservazioni di DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, relazione presentata al
— 192 — Per esse, fra l’agitarsi nel dubbio e riposare nell’errore (36) sembra proprio che la giurisprudenza abbia deciso, salomonicamente, di riposare nel dubbio. Dubbi che non risparmiano alcun elemento del fatto associativo. A cominciare dalla stessa nozione di associazione. A fronte della assenza di una specifica e dettagliata definizione legislativa, la soluzione più diffusa è quella di una sorta di rinvio recettizio e sottinteso ad una nozione che, in ragione della lamentata evanescenza descrittiva, permane mutevole e plasticamente adattabile alle variabili del caso concreto. Da qui, una serie di pronunzie che esaltando ovvero mortificando taluni elementi di indentificazione descrittiva, giungono ad affermazioni assai differenti, nel tuttavia comune convincimento di un asservimento della nozione principale, quella di associazione, alle contingenze, sostanziali e probatorie, del caso in esame. Ed infatti, ad un iniziale e più rigoroso orientamento nel senso del riconoscimento della struttura associativa in presenza di una struttura organizzativa con gerarchie interne (37) e distribuzione articolata di compiti e funzioni, segue un più benevolo orientamento nel senso della plasticità organizzativa del sodalizio (38). Associazione dunque in termini sempre meno oggettivi (39) sfumati fino alla mera affectio societatis sceleris quale consapevole adesione ad un programma criminoso stabile e non circoscritto (40). XXI Convegno su « I reati associativi », Courmayeur, 10-12 ottobre 1997, pp. 4 e ss. del dattiloscritto. (36) MANZONI, Storia della colonna infame, capitolo II. (37) Cass. Sez. I, 25 ottobre 1983, in Cass. pen., 1985, p. 318, m. 153; Cass. Sez. I, 14 ottobre 1986, ivi, 1988, p. 1005, m. 849; Cass. Sez. I, 21 dicembre 1987, ivi, 1989, p. 2177, m. 1722; Cass. Sez. I, 28 novembre 1988, ivi, 1990, p. 834, m. 680. (38) « La mancanza di atti costitutivi e di formali iscrizioni tipiche delle organizzazioni delinquenziali d’indole mafiosa, nonché la loro segretezza, comporta che alle stesse non possano essere applicati rigidi schemi di identificazione e che le qualifiche, funzioni e ruoli nel loro ambito svolti possano essere i più disparati con compartimentazioni interne che non consentono o addirittura escludano la conoscenza tra di loro di tutti gli associati »: Cass. Sez. VI, 16 dicembre 1985, in Cass. pen., 1987, p. 49, m. 6. (39) « La legge non richiede la apposita creazione di una organizzazione, sia pure rudimentale, ma l’uso di una struttura che può anche essere preesistente alla ideazione criminosa e già adibita a finalità lecite »: così Cass. Sez. I, 3 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 744, m. 613. (40) Cass. Sez. I, 1 giugno 1983, in Cass. pen., 1985, p. 621, m. 344. « Per la configurabilità del delitto di associazione per delinquere non è necessaria una vera e propria organizzazione con gerarchie interne e distribuzione di specifiche cariche criminose, ma è sufficiente l’affectio societatis scelerum ossia l’esistenza di un vincolo associativo non circoscritto ad uno o più delitti determinati ma consapevolmente esteso ad un generico programma delittuoso ». Trattasi di una fattispecie in tema di furti di oggetti di antiquariato nella quale i giudici hanno riconosciuto l’esistenza del vincolo associativo in base alla valutazione dei mezzi usati per il trasporto della refurtiva, dell’esecuzione dei furti con tecnica costante, della divi-
— 193 — Ma anche questa concettualizzazione non è priva di successive smentite nel senso della non necessità di assoluta stabilità del vincolo associativo (41). La identificazione del sodalizio, pensata in termini univocamente oggettivi, viene dunque a smarrire il proprio rigore descrittivo, affievolendosi in una caratterizzazione talvolta ad esclusiva rilevanza psicologica, talaltra, e fittiziamente, in una caratterizzazione a parziale rilevanza affettiva. Ne consegue l’affacciarsi di inevitabili esigenze di carattere probatorio superate dall’esegesi giurisprudenziale non già con compiute quanto complesse analisi introspettive, ma con più agevoli verifiche esterne di tipo sintomatico e di immediata percezione oggettiva (42), in un inquietante meccanismo logico per cui la percezione esteriore di elementi oggettivi ritenuta in precedenza incapace a dimostrare l’esistenza dell’associazione diviene ora sufficiente a rivelare l’esistenza del vincolo associativo: l’affectio se da un lato postula la presenza di un sodalizio criminoso, dall’altro rappresenta essa stessa elemento di riprova nell’esistenza del sodalizio così da costituire il prius e il posterius logico di una argomentazione palesemente tautologica (43). In maniera tangibile si avverte, dunque, al di là di vuote parvenze razionalizzatrici, una diffusa tendenza a modulare la nozione associativa anziché sulla base di parametri normativi, non determinati sul piano descrittivo, sulla maggiore o minore opportunità di tutela avverso comportamenti ritenuti socialmente sanzionabili. La evanescente nozione associativa si offre, in tal senso, come straordinario strumento concettuale estensione dei ruoli, degli incontri presso un bar prescelto come luogo di studio dei programmi criminosi: elementi tutt’altro che univoci e peraltro comuni alle ipotesi concorsuali. Si vedano, inoltre, Cass. Sez.V, 8 febbraio 1984, in Cass. pen., 1986, p. 38, m. 4; Cass. Sez. V, 3 dicembre 1984, ivi, 1986, p. 1014, m. 801; Cass. Sez. I, 21 ottobre 1987, ivi, 1989, p. 793, m. 681; Cass. Sez. I, 28 novembre 1988, ivi, 1990, p. 834, m. 680; Cass. Sez. I, 3 ottobre 1989 ivi, 1991, p. 7, m. 613; Cass. Sez. I, 20 dicembre 1989, ivi, 1991, p. 1043, m. 778; Cass. Sez. I, 25 maggio 1990, ivi, 1992, p. 300, m. 169; Cass. Sez. VI, 15 marzo 1991, ivi, 1992, p. 2825, m. 1532. (41) Cfr. Cass. Sez. I, 3 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 744, m. 613. (42) Cass. Sez. I, 1 giugno 1983, in Cass. pen., 1985, p. 621, m. 344; Cass. Sez. I, 28 novembre 1988, ivi, 1990, p. 834, m. 680; Cass. Sez. VI, 21 marzo 1990, ivi, 1992, p. 409, m. 279. (43) Cass. Sez. I, 28 novembre 1988 in Cass. pen., 1990, p. 834, m. 680, per la quale « L’associazione per delinquere postula un preventivo accordo fra almeno tre persone, diretto all’attuazione di una serie di delitti non singolarmente individuati e, cioè, un programma criminoso che permane di regola anche dopo la commissione dei singoli delitti; donde il pericolo per l’ordine pubblico da detto programma scaturente. Allo scopo di accertare che l’autore di taluno dei delitti inquadrabili nel piano antigiuridico sia anche legato al sodalizio criminale è necessario verificare la sussistenza dell’affectio societatis, desumibile da indizi esteriori, quali l’esistenza di una struttura organizzativa, sia pure rudimentale, dei mezzi necessari per l’attuazione del programma nonché della distribuzione dei compiti per la realizzazione dei singoli delitti rientranti nel programma ».
— 194 — sibile ovvero comprimibile a seconda della opportunità lato sensu politica legata, oltre che alla specificità del caso in questione, finanche alla natura degli interessi tutelati: la nozione associativa, in una sorta di gradualità specializzante, appare più rigida in tema di fattispecie politiche; più duttile ed elastica in tema di fattispecie associative di tipo comune; assolutamente evanescente ed eterea in tema di fattispecie plurisoggettive di tipo mafioso o finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti, ove con maggior peso viene avvertita l’esigenza di una più celere e duttile repressione penale (44). La societas sceleris acquista per tal guisa una valenza proteiforme così da assumere, a seconda delle interazioni complesse fra realtà concettuale, realtà processuale e realtà sociale, di volta in volta le sembianze di un organismo precostituito, quelle di un semplice sodalizio rudimentale e non articolato, quelle di un vincolo associativo dato dalla comunanza di affectio, quelle, infine, di una mera convergenza, pur non voluta ed occasionale, di interessi meramente ed eventualmente sinallagmatici. Con requisiti, poi, di stabilità, permanenza, indeterminatezza del programma, assolutamente accidentali, capaci cioè di essere affermati e poi smentiti a seconda delle peculiarità del caso in esame (45). Talvolta persino in maniera assurdamente paradossale (46). 3.2. L’evanescenza del significato linguistico della nozione di associazione finisce, come è ovvio, per detassativizzare le conseguenti nozioni ad essa riconducibili. A cominciare dal già incerto discrimine fra ipotesi associativa e fattispecie concorsuale affidato a formulazioni linguistiche assai dubbie o a incerte valutazioni psicologiche ottenute, ancora una volta, su basi quantita(44) « Il delitto di cui all’art. 75 l.n.685 del 1975 (...) richiede, rispetto alla fattispecie criminosa ex art. 416 c.p., una minore articolazione, bastando a configurarlo quel minimum di organizzazione che consenta di rendere più efficiente la rete e più estesa la diffusione della droga », cit. Cass. Sez. VI, 13 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 1115, m. 882. Analoghe considerazione per Cass. Sez. VI, 23 ottobre 1989, ivi, 1991, p. 1644, m. 1287; Cass. Sez. VI, 6 aprile 1990, ivi, 1992, p. 1615, m. 899. (45) Così per il requisito della indeterminatezza già regredito a elemento non « indefettibile per la configurazione del reato di cui all’art. 416 c.p. »: così Cass. Sez. I, 30 gennaio 1997, n. 66, in Riv. pen., 1997, p. 632. O per quello del perseguimento di finalità e scopi associativi, declinato a vantaggio del possibile perseguimento, da parte dell’associato, di vantaggi suoi ulteriori rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere una funzione anche strumentale: così Cass. Sez. I, 31 maggio 1995, in Riv. pen., 1996, p. 96. (46) È il caso della sentenza n.66 della Corte di Cassazione, del 30 gennaio 1997, su Riv. pen., 1997, p. 393 ove piuttosto che disconoscere il requisito della « indeterminatezza del programma » criminoso si arriva a sostenere che l’indeterminatezza del programma non viene meno per il solo fatto ... della determinatezza del programma.
— 195 — tive (47). Giungendo, dunque, a fondare quella che nelle premesse avrebbe dovuto porsi come una individuazione tipologica ontologicamente definita e fenomenologicamente percepibile, non più sulla presenza stabile e permanente di una organizzazione di uomini e mezzi, ma sulla natura contingente ed occasionale dell’accordo (48), affidata ad una ponderazione quantitativa attraverso il riferimento ad indici esteriori coincidenti, in taluni casi, persino con la realizzazione di reati-fine (49), in una esasperazione metodologica in cui non è raro che la commissione di reati in attuazione del programma criminoso divenga requisito presuntivo di identificazione della struttura associativa (50): tanto maggiore, pare intendere, il numero di reati tanto più certa l’esistenza del sodalizio. Con però un ulteriore aggiustamento concettuale: la natura, permanente e stabile, del vincolo id est accordo criminoso resta affidata non alla commissione dei reati-fine, ma alla potenziale consumazione dei medesimi per i quali l’associazione si pone in rapporto di mezzo a scopo (51). La naturale articolazione composita e per certi aspetti gerarchica di una intera famiglia dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti viene così (47) « Gli elementi costitutivi del delitto di associazione per delinquere, di cui all’art. 75 l.22 dicembre 1975 n.685, sono la formazione e la permanenza di un vincolo associativo continuativo, tra tre o più persone, consapevolmente teso alla commissione di un numero indeterminato di illeciti penali sugli stupefacenti compresi tra quelli previsti dagli artt. 71, 72 e 73 della legge predetta », se ne deduce che « La prova dell’esistenza della volontà degli associati di aver assunto siffatto vincolo può e deve essere desunta da facta concludentia — da cui si possa dedurre che le singole intese dirette alla consumazione dei vari reati costituiscono l’espressione di un più vasto programma di delinquenza oggetto dell’associazione criminosa — e, in particolare, dalla quantità di lavoro svolto nell’ambito dei fini generali perseguiti dai componenti della associazione stessa »: Cass. Sez. I, 24 giugno 1985, in Cass. pen., 1987, p. 208, m. 161. (48) Cass. Sez. V, 8 febbraio 1984, in Cass. pen., 1986, p. 38, m. 4; Cass. Sez. II, 26 novembre 1984, ivi, 1986, p. 1064, m. 809; Cass. Sez. I, 24 giugno 1985, ivi, 1987, p. 208, m. 161; Cass. Sez. II, 19 maggio 1988, ivi, 1989, p. 1987, m. 1548; Cass. Sez. VI, 15 marzo 1989, ivi, 1990, p. 1276, m. 1014; Cass. Sez. I, 17 marzo 1989, ivi, 1990, p. 1908, m. 1504; Cass. Sez. III, ivi, 1992, p. 1796, m. 928. (49) Cass. Sez. I, 14 gennaio 1987, in Cass. pen., 1988, p. 1605, m. 1389; pur assegnando alla commissione dei reati-fine una valenza indiziante, Cass. Sez. I, 20 dicembre 1989, ivi, 1991, p. 1043, m. 778; Cass. Sez. V, 14 settembre 1991, ivi, 1993, p. 1101, m. 648; Cass. Sez. I, 27 gennaio 1993, in Giust. pen., 1994, II, c. 167. In dottrina il fenomeno è sottolineato da NAPPI, Il problema della prova dei reati associativi, relazione presentata al XXI Convegno su « I reati associativi », Courmayeur, 10-12 ottobre 1997, p. 2 del dattiloscritto. (50) Emblematica App. Catanzaro, Sez. I, 2 febbraio 1985, in Cass. pen., 1985, p. 1698, per la quale « l’accertato sistematico concorso di tre o più persone nella consumazione di una serie di reati comporta, per via sintomatica, la presunzione dell’esistenza di una societas scelerum cui i consorti siano affiliati. Indizio e presunzione suscettivi di abbassare la soglia di convincimento del giudice ai fini di ritenere la responsabilità degli accusati in ordine ai distinti reati ma che, comunque, sono abbisognevoli di integrazioni e riscontri onde risalire ad un puntuale quadro di certezze sul piano della prova penale ». (51) Cass. Sez. V, 3 dicembre 1984, in Cass. pen., 1986, p. 1014, m. 801.
— 196 — trasferita tout court sul piano processuale quale prova tangibile di una organizzazione, di una ripartizione di ruoli, di una interdipendenza, che pur potendo essere confusa con la ovvia appartenenza genetica diviene inequivocabile elemento di sussunzione nella fattispecie associativa (52). Nè può meravigliare come nella più dissoluta anarchia ermeneutica il pur tradizionale vincolo associativo ricondotto alla coincidenza dei fini e degli scopi venga ulteriormente immolato onde consentire che nello schema associativo trovino ingresso anche comportamenti divergenti, animati, cioè, da obiettivi assolutamente incompatibili con un previo concerto, nella mera convergenza eventuale di cointeressenze casuali e contingenti (53), purché sufficienti a rendere più efficiente la rete di mercato e più estesa la diffusione della droga (54). Ipotesi associativa e figura concorsuale risultano, pertanto, discriminati in maniera evanescente ed elastica con una netta prevalenza, sul piano delle qualificazioni giuridiche, della opzione plurisoggettiva necessaria capace di fornire risposte sanzionatorie e meccanismi pro(52) Cass. Sez. VI, 2 luglio 1987, in Cass. pen., 1989, p. 480, m. 483; Cass. Sez. IV, 12 ottobre 1996, in Riv. pen., 1997, p. 212. (53) Vale forse la pena riportare l’intera massima della sentenza della Cass. Sez. VI, 23 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 1644, m. 1287: « In tema di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, la compatibilità fra la posizione di associato e quella di venditore della sostanza stupefacente deve essere ribadita anche partendo dall’esame specifico sull’elemento psicologico del reato. Invero va rilevato che, sopratutto nei casi di forniture ripetute, l’elemento psichico che anima il venditore non è tanto quello di realizzare un’operazione economica commerciale, ma quello di realizzare un altro anello della catena criminale, che funge da moltiplicatore dei profitti. Il venditore di una partita di droga non è solitamente disinteressato rispetto alla ulteriore sorte del prodotto, come è, in genere, il venditore di merce lecita, ma è direttamente interessato alle ulteriori vicende sia per motivi di sicurezza, sia per la salvaguardia di un canale di smercio che si vuole continuare ad utilizzare ». Non meno opinabile, Cass. Sez. VI, 21 dicembre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 1871, m. 1408: « Ai fini della sussistenza della partecipazione dell’acquirente all’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, non può essere messo in dubbio che, nella peculiarità del commercio di sostanze stupefacenti, colui che è stabilmente disponibile a ricevere la sostanza assuma una funzione continuativa, che trascende il significato privatistico-negoziale delle singole operazioni per costituire un pilastro della complessa struttura, che facilita l’esercizio dell’intera attività criminosa, riducendo il rischio penale ed incrementando i profitti »; si veda ancora, Cass. Sez. VI, 20 febbraio 1991, in Cass. pen. 1992, p. 2471, m. 1376. Sempre in materia di stupefacenti si segnala Cass. Sez. VI, 27 maggio 1991, ivi, 1992, p. 3138, m. 1700, per la quale « Ai fini della configurabilità dell’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti non è necessario che sia intervenuto un patto espresso tra gli associati, essendo sufficiente che questi siano portati ad operare, anche in assenza di un accordo, nella consapevolezza che le attività proprie ed altrui ricevano vicendevole ausilio e che insieme contribuiscano ad attuare il programma di attività criminale ». (54) Cass. Sez. VI, 12 novembre 1987, in Cass. pen., 1989, p. 689, m. 659; Cass. Sez. VI, 13 ottobre 1989, ivi, 1991, p. 1115, m. 882; Cass. Sez. VI, 6 aprile 1990, ivi, 1992, p. 1615, m. 899.
— 197 — cessuali senza dubbio assai più agevoli (55). L’indeterminatezza del segno linguistico apre la via ad una « superfetazione » della nozione associativa a dispetto del più mite istituto concorsuale, in una proliferazione di contestazioni e di giudicati per associazioni finalizzate a qualsiasi attività illecita, da quella di tipo mafioso o legata alle sostanze stupefacenti, a quelle, sempre più frequenti, per la commissione di furti (56), contrabbando di oli minerali (57), esercizio abusivo del giuoco del lotto clandestino (58), pratiche abortive illecite (59), sottrazioni di energia elettrica (60), attività pseudoreligiose (61), frodi comunitarie (62), evasioni fiscali (63), false comunicazioni sociali, etc. (64). (55) L’uso improprio della contestazione associativa per finalità non proprio commendevoli, per cioè raggiungere « scorciatoie probatorie » o legittimare « talune indagini (come le intercettazioni telefoniche), altrimenti inamissibili » attiene ai complessi rapporti fra fatti associativi e processo penale: sul punto si rinvia a SIRACUSANO, Reati associativi e processo penale, relazione presentata al XXI Convegno su « I reati associativi », Courmayeur, 10-12 ottobre 1997, dattiloscritto. (56) Sulla ravvisabilità dell’ipotesi associativa nel caso di una organizzazione di sei persone che avevano deciso di commettere furti in negozi di abbigliamento, avevano reperito un magazzino dove riporre la merce da passare ai ricettatori e si erano suddivisi i compiti, Cassazione penale, Sez. II, 30 ottobre 1978, in Cass. pen., 1980, 346. (57) « L’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di oli minerali e la falsità in atti pubblici possono ledere il patrimonio della vittima. Infatti l’ordine pubblico di cui all’art. 416 c.p., tutela anche l’interesse dello Stato agli indispensabili introiti tributari e a maggior ragione la regola vale per i reati di falso che colpiscono direttamente l’interesse dell’amministrazione finanziaria all’affidabilità di atti che sono la garanzia indispensabile dei predetti introiti »: Cass. Sez. III, 13 aprile 1992, in Riv. dir. trib., 1993, II, 238. (58) Cass. Sez. I, 9 luglio 1992, in Giust. pen., 1993, II, 498; Cass. Sez. I, 14 aprile 1993, in Cass. pen., 1995, 46. (59) I procedimenti de quibus si sono in realtà conclusi con sentenze assolutorie a ragione però non della inamissibilità teorica di una organizzazione illecita avente lo scopo di aiutare le donne a praticare interruzioni della gravidanza non consentite ma a ragione della commissione dei reati fine (gli aborti oltre il novantesimo giorno) all’estero e quindi della assenza di una concreta lesione all’ordine pubblico interno. Soluzione questa che per sensibili ragioni di politica criminale finisce epperò per spostare la ragione di tutela non sull’organizzazione illecita (nella specie il Centro Informazioni Sterilizzazione Aborti), ma sulla commissione dei delitti scopo. Cfr. Corte appello Firenze 21 giugno 1991, Foro it., 1992, II, 301. (60) Cass. Sez. I, 4 aprile 1990, in Rass. giur. Enel, 1990, 1018. (61) Il caso è quello di Scientology al quale, dopo la sentenza di assoluzione del Trib. Milano, 2 luglio 1991, in Dir. Eccl., 1992, 419 e quella di condanna della Corte di Appello di Milano, 5 novembre 1993, in Foro it., 1995, II, 689 ha finalmente messo la parola fine la Cassazione Sez. II, 9 febbraio 1995, in Cass. pen., 1996, 2520. (62) Cfr. sul punto Cass. Sez. I, 3 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, I, 744 ove il fatto associativo viene a coincidere con l’uso di una struttura preesistente alla ideazione criminosa e già adibita a finalità lecite, nella specie con l’attività di amministratori di società cooperative, i quali, utilizzando le rispettive varie società, avevano architettato una serie di falsi conferimenti di prodotto al fine di giustificare una maggiore quantità di merce da esportare, così da ottenere contributi ed agevolazioni in danno dell’AIMA ed altri enti. (63) Così si è ritenuto dovessero rispondere del « reato di associazione per delin-
— 198 — 3.3. L’indeterminatezza del significato linguistico delle fattispecie associative non muta a proposito della nozione di partecipazione o concorso interno. Ed è chiaro, viceversa, come essa subisca tutta l’indeterminatezza della nozione di associazione a cui viene ad affiancarsi. Accolta l’opinione dello schema associativo come necessario quid pluris dato dalla formazione di una struttura organizzativa complessa, ne consegue la identificazione della condotta di partecipazione come effettivo ed attuale contributo finalizzato alla realizzazione degli scopi dell’associazione (65). Accolta viceversa l’opinione nel senso della affectio societatis sceleris (66), non può che conseguirne l’individuazione delle condotte di partequere gli amministratori di società (nella qualità di organizzatori), i loro dipendenti e gli altri operatori esterni (nella qualità di partecipi), che si associno per commettere più reati di evasione fiscale, tramite la reiterata e ricorrente annotazione nei registri di fatture passive per operazioni inesistenti, emesse nei confronti delle società stesse dagli operatori predetti »: così Tribunale Catania 17 maggio 1985, in Foro it., 1986, II, 28. Di contrario avviso, invece, Cass. Sez. III, 2 dicembre 1991, in Cass. pen., 1993, 932. (64) Il rischio di una fattispecie « monolitica » applicabile nella formulazione letterale a qualsiasi tipologia delittuosa, anche di tipo bagatellare, è avveritito da DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, relazione presentata al XXI Convegno su « I reati associativi », Courmayeur, 10-12 ottobre 1997, p. 9 del dattiloscritto. Ma già in precedenza SPAGNOLO, Reati associativi, Appendice, in Enc. Giur., Roma, 1996, p. 11, non ha mancato di sottolineare da un lato l’incongruenza logica e giuridica di una ipotesi associativa per reati di poco conto (es. pubblicazione di riviste oscene) trattata sul piano sanzionatorio alla stessa stregua di una ipotesi associativa per la commissione di reati di ben maggiore gravità (es. estorsioni, o omicidi); dall’altro, la anomalia di un figura sanzionatoria, quella appunto per reati associativi, non estensibile fino a ricomprendere organizzazioni aventi come finalità la commissione di reati contravvenzionali eppur lesivi di interessi di elevato valore sociale (si pensi, ad esempio, alle contravvenzioni « ambientali »). Preclusione quest’ultima peraltro seguita da quasi tutte le legislazioni europee fatta eccezione per quella spagnola ove in verità tale possibilità più che a precise intenzioni del legislatore iberico è riconducibile ad una imprecisione linguisitica: sul punto si rinvia a VINCIGUERRA, I reati associativi nell’esperienza giuridica europeo continentale, relazione presentata al XXI Convegno su « I reati associativi », Courmayeur, 10-12 ottobre 1997, p. 6 del dattiloscritto. (65) « la condotta punibile non può ridursi al semplice accordo della volontà, ma è costituito da un quid pluris, il cui momento centrale è il contributo effettivo ed attuale apportato dai singoli associati e diretto alla realizzazione degli scopi dell’associazione, da perseguire con i metodi propri della stessa: in sostanza l’attualità del contributo, sia pure minimo, alla vita dell’ente, è un requisito della condotta punibile »: Trib. Roma, Sez. VII, 8 febbraio 1985, in Cass. pen., 1985 p. 1682. In senso analogo Cass. Sez. I, 6 aprile 1987, ivi, 1988, p. 348, m. 333; Cass. Sez. I, 26 ottobre 1987, ivi, 1989, p. 976, m. 862; Cass. Sez. I, 25 febbraio 1991, ivi, 1992, p. 2725, m. 1410; Cass. Sez. VI, 16 gennaio 1991, ivi, 1992, p. 1904, m. 1045. (66) « L’associazione per delinquere, tipico delitto contro l’ordine pubblico, richiede l’esistenza di un vincolo associativo fra almeno tre persone, le quali si prefiggano, in via generale e continuativa, l’attuazione di un « programma di delinquenza » e cioè di una serie indeterminata di delitti ». « L’atteggiamento psicologico degli agenti deve perciò constare nell’affectio societatis scelerum, dunque, nella coscienza e volontà di associarsi al fine di com-
— 199 — cipazione necessaria nella semplice adesione al costituito o costituendo sodalizio criminale, adesione che bene può risolversi in un mero vincolo psicologico e come tale non fisicamente apprezzabile. La natura dell’accordo varrà, dunque, essa sola a discriminare le ipotesi plurisoggettive eventuali da quelle a concorso necessario (67) bene potendo una stessa attività delittuosa concorsuale tramutarsi in ipotesi associativa per il semplice mutamento dell’animus socii (68), anche quando cioè, « l’associazione per delinquere sia stata costituita successivamente ad attività delittuosa iniziata con fatti isolati e di semplice concorso ed al fine di continuare a rendere durevole tale attività, dimostratasi agevole e proficua » (69). Le conseguenze sono facilmente immaginabili: se la descrizione oggettiva della condotta partecipativa attraverso meccanismi causali soffre la facile obiezione della difficile individuazione del tipo di contributo necessario (70) e del secondo termine della relazione causale (71), ed una volta abbandonato l’indirizzo della formale legalizzazione (72) sfociato in abermettere delitti », quale dunque « reato mezzo, qualificato come di pericolo (risultando giuridicamente indifferente, ai fini della consumazione, che gli associati passino o meno all’azione commettendo uno o più reati-fine), a carattere permanente giacché è fondato sulla protrazione volontaria nel tempo della situazione antigiuridica ed « a concorso necessario » perché la plurisoggettività ne costituisce requisito intrinseco »: così App. Catanzaro, Sez. I, 2 febbraio 1985 in Cass. pen., 1985, p. 1699; così anche, Cass. Sez. VI, 13 giugno 1989, ivi, 1991, p. 309, m. 299. (67) Cass. Sez. II, 19 maggio 1988, in Cass. pen., 1989, p. 1987, m. 1548; Cass. Sez. VI, 15 marzo 1989, ivi, 1990, p. 1276, m. 1014; Cass. Sez. I, 24 giugno 1985, ivi, 1987, p. 208, m. 161. (68) Sez.II, 8 luglio 1983 in Cass. pen., 1985, p. 866, m. 482. Va sul punto evidenziato come alla iniziale affermazione circa la necessità nella fattispecie di associazione per delinquere di un minimum di struttura organizzativa, segue una differenziazione rispetto alla ipotesi concorsuale incentrata unicamente sotto il profilo psicologico in relazione alla natura, occasionale o meno, dell’accordo. Sulla differenza fra partecipazione e concorso alla stregua della diversa natura dell’accordo, cfr. Cass. Sez. V, 8 febbraio 1984, in Cass. pen., 1986, p. 38, m. 4. (69) Cass. Sez. I, 17 marzo 1989 in Cass. pen., 1990, p. 1908, m. 1504. (70) La prova del contributo causale « seppur mancante nel caso della semplice adesione non impegnativa, è immanente, invece, nell’obbligo solenne di prestare la propria disponibilità al servizio della cosca accrescendo così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento subdolo e violento nel tessuto sociale anche mercè l’aumento numerico dei suoi membri »: Cass. Sez. IV, 18 novembre 1996, in Riv. pen., 1997, p. 418. (71) Di una « qualsiasi attività, ancorchè di importanza secondaria, che ridondi a vantaggio dell’associazione considerata nel suo complesso » è costretta a parlare Cass. Sez. I, 6 aprile 1987, in Cass. pen., 1989, p. 349, m. 333. (72) Cass. Sez. VI, 16 dicembre 1985, in Cass. pen., 1987, p. 49, m. 6; Cass. Sez. I, 6 aprile 1987, ivi, 1989, p. 349, m. 333. Si veda anche Cass. Sez. I, 30 gennaio 1992, in Foro it., 1993, II, c.15 secondo la quale la formale affiliazione alla cosca mercè apposito rito (c.d. « legalizzazione »), costituisce esso stesso un contributo causale al sodalizio, risolventesi nell’« aumento numerico dei suoi membri ».
— 200 — ranti deduzioni logico-giuridiche (73), residua come soluzione obbligata quella di affidarsi alla natura affettiva dell’atto di partecipazione: in una ibrida commistione fra momento oggettivo e momento soggettivo, l’animus socii in cui si sostanzia l’attività di partecipazione viene nuovamente affidato ad elementi sintomatici di dubbia riconoscibilità logica prima ancora che giuridica, bene potendo attraverso meccanismi presuntivi (74) e spesso non suscettibili di prova contraria, una finalità egoistica ed individuale (75) essere intesa quale accettazione indiretta di una più generale utilità collettiva propria dello schema associativo. Ancora una volta, e drammaticamente, profili introspettivi di difficile verificabilità incontrano unico requisito di identificazione nella natura della affectio, ovverosia nella affectio della quale indici esteriori, peraltro colti in una dimensione quantitativa, assumono le vesti di elementi sintomatici. E quindi. La partecipazione associativa può consistere nella formale adesione salvo i casi in cui essa non sia necessaria essendo testimoniata per facta concludentia. Può risolversi allora nel contributo causale, ma verso un evento di cui non si riconosce l’essenza e con un peso oggettivo di cui non si è in grado di misurare l’entità. Può rafforzare il vincolo e la permanenza del sodalizio, salvo i casi di sodalizi di grandi dimensioni ove il contributo (73) Si legga in proposito Cass. Sez. VI, 25 luglio 1997 n. 7322, in Diritto e Procedura Penale, 1997, pp. 74-75: « In tema di associazione per delinquere, è irrilevante, ai fini del riconoscimento dell’intervenuta adesione di taluno al sodalizio criminoso, il fatto che, secondo le regole interne del gruppo, il soggetto non sia da considerare un associato a pieno titolo, dovendosi invece avere riguardo soltanto all’obiettività della sua condotta, onde verificare se essa sia o no rivelatrice, alla stregua della logica e della comune esperienza, di un’adesione che, nei fatti, si sia comunque realizzata ». Ma già prima, in tema di associazione eversive, cfr. Cass. Sez. I, 10 maggio 1993, in Cass. pen., 1995, 44 ove « Una volta accertato il carattere penalmente illecito di un determinato organismo associativo, la spendita di una qualsiasi attività in favore di esso, con il beneplacito di coloro che nel medesimo organismo operano già a livello dirigenziale, non può che essere ragionevolmente interpretata come prova dell’avvenuto inserimento, per «facta concludentia», del soggetto resosi autore di detta condotta nel sodalizio criminoso, nulla rilevando che, secondo le regole interne di quest’ultimo, la medesima attività non implichi, invece, di per sè, il titolo di sodale ». (74) Cass. Sez. I, 30 gennaio 1985, in Cass. pen., 1986, p. 1519, m. 1177, per la quale, « gli indizi di appartenenza alla associazione possono essere costituiti, oltre che da prove dirette, anche da altri elementi desumibili dai precedenti penali e giudiziari del soggetto, dalle informazioni fornite dagli organi di polizia ed, infine, da ogni altro elemento utile, quale il rapido ed ingiustificato arricchimento dell’indiziato. »; Cass. Sez. VI, 21 dicembre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 1871, m. 1408. (75) Cfr. Cass. Sez. I, 6 aprile 1987, in Cass. pen., 1989, p. 349, m. 333, per la quale non è necessario che il partecipe persegua direttamente l’attuazione del programma dell’associazione; Cass. Sez. VI, 23 ottobre 1989, ivi, 1991, p. 1644, m. 1287; Cass. Sez. VI, 21 dicembre 1989, ivi, 1991, p. 1871, m. 1408; Cass. Sez. VI, 20 febbraio 1991, ivi, 1992, p. 2471, m. 1376; Cass. Sez. VI, 27 maggio 1991, ivi, 1992, p. 3138, m. 1700.
— 201 — può rivelarsi del tutto impercettibile; e peraltro neppure necessario essendo l’apporto personale non necessariamente attuale ma spesso semplicemente potenziale. Partecipazione dunque come disponibilità alla partecipazione: il che si traduce nella formuletta latina dell’animus socii, requisito però, che oltre a modificarsi nel tempo, ben difficilmente può accertarsi e che dunque deve presumersi in base ad elementi fattuali di volta in volta decifrati. Animus che non significa, comunque, ricerca del bene collettivo, potendo intendersi anche come finalità egoistica e mera cointeressenza contingente. 3.4. In tale complesso panorama giurisprudenziale, mutuando le complesse interazioni di natura genetica e processuale, fa il suo ingresso il meccanismo concorsuale esterno, ereditando a pieno le polisemie semantiche e sintattiche della fattispecie associativa: l’« ultima curva di quel tracciato di peripezie del sapere in cui non troviamo più certezze ed evidenze immediate » (76). Nato in una fattispecie a più alto indice di tassatività (77), ove mutua l’impostazione c.d. oggettiva delle fattispecie associative (quid pluris), il meccanismo estensivo concorsuale viene ben presto trapiantato anche nella ipotesi ex art. 416-bis (78) smarrendo l’iniziale identificazione di at(76) WITTGENSTEIN, Della certezza, cit., p. XXIX dell’Introduzione. (77) Cass. Sez. I, 25 ottobre 1983, in Cass. pen., 1985, p. 318, m. 153, ove « Commette il delitto di concorso in banda armata e non quello di favoreggiamneto, il difensore che svolga il ruolo di tramite fra i terroristi detenuti e quelli liberi, al fine di comunicare notizie utili all’esistenza della banda in quanto tale. Nell’ipotesi di assistenza, in qualsiasi forma consapevolemente prestata non ai singoli componenti ma ad una banda armata nel suo complesso, si ha concorso nel delitto di banda armata, in quanto, trattandosi di reato permanente, tale assistenza si risolve in un consapevole contributo all’esistenza stessa della banda; mentre si ha l’ipotesi delittuosa del favoreggiamento soltanto nel caso in cui l’aiuto sia prestato dopo che sia cessata la permanenza nel reato, elemento questo distintivo dal delitto di assistenza prestata ai singoli quando ancora non è cessata la partecipazione alla banda ». Ma già — come ricordato nella sentenza a Sezioni Unite del 4 ottobre 1994 — l’ammissibilità del concorso eventuale in fattispecie associative — nel caso de quo fattispecie ex art. 305 c.p. — è presente nella meno recente sentenza del Cassazione, Sez. I, del 27 novembre 1968 n. 1659. (78) Come « attività di chi, pur non essendo membro del sodalizio, cioè non aderendo ad esso nella piena accettazione dell’organizzazione, dei mezzi e dei fini, contribuisca all’associazione mercé un apprezzabile fattivo apporto personale, facilitandone l’operare e agevolandone l’affermarsi, conoscendone l’esistenza e le finalità, ed avendo coscienza del nesso causale del suo contributo ». « Ciò che differenzia due condotte apparentemente identiche — vale la pena riportarne integralmente le parole — sotto il profilo oggettivo, facendone rientrare in due distinte fattispecie criminose (art. 416-bis cp., art 378 cp.) è solamente l’elemento soggettivo. Si ha partecipazione al reato associativo quando l’agente aiutando uno o più affiliati ad eludere le investigazioni dell’autorità, sia consapevole di apportare un concreto aiuto, anche minimo purché non indifferente, all’organizzazione criminosa. Si è in presenza di favoreggiamento personale, quando l’aiuto prestato si limita a favorire esclusivamente l’associato, risultando l’agente effettivamente estraneo all’associazione, e comunque
— 202 — tività materiale rivolta all’associazione pur in assenza di formale ingresso nel sodalizio illecito, a favore altresì di una nozione allargata alle ipotesi di concorso meramente psicologico nelle forme della istigazione e della determinazione e alle ipotesi di comportamenti sintomatici di adesione « esterna » alla vita dell’associazione (79). quando non contribuisca e non intenda contribuire a favorire l’attività dell’associazione nel suo complesso. La condotta favoreggiatrice in relazione al reato di cui all’art. 416-bis c.p., deve verificarsi « dopo che fu commesso » un delitto di associazione del tipo mafioso; versandosi in tema di reato permanente, non è però necessario che sia cessata la permanenza del reato associativo, ma occorre solo che ne sia iniziata la consumazione »: Trib. Roma Sez. VII, 8 febbraio 1985 in Cass. pen., 1985, p. 1682. Si veda anche Cass. Sez. I, 13 giugno 1987, ivi, 1989, p. 1813, m. 1560 per la quale « La materialità della condotta tipica del delitto di partecipazione ad associazione criminosa si concreta nel compito o nel ruolo, anche generico, che il soggetto svolge o si è impegnato a svolgere, nell’ambito dell’organizzazione per portare il suo contributo all’esistenza e al rafforzamento del sodalizio criminoso, con la consapevolezza e la volontà di far parte dell’organizzazione condividendone le finalità; mentre il delitto di favoreggiamento personale è caratterizzato dalla consapevolezza e dalla volontà di aiutare taluno degli associati ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa, ovvero ad assicurarsi il prodotto o il profitto del reato, senza che il soggetto agente, con il suo comportamento, contribuisca all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione criminosa nel suo complesso, di questa non facendo parte ». (79) Cass. Sez. I, 13 giugno 1987 in Cass. pen., 1988, p. 1813, m. 1560. « La fattispecie di partecipazione è a forma libera poichè il legislatore non descrive in modo particolareggiato la condotta tipica, enunciando le note che valgono a caratterizzarla, ma si limita ad affermare che realizza il delitto preveduto dal primo comma, chiunque « fa parte » dell’associazione. Ne deriva che la condotta di partecipazione, che può assumere forma e contenuto diversi e variabili, consiste nel contributo, purchè apprezzabile e concreto sul piano causale all’esistenza ed al rafforzamento del sodalizio criminoso e, quindi, alla realizzazione dell’offesa tipica agli interessi tutelati dalla norma penale incriminatrice, qualunque sia il ruolo o il compito che l’agente svolge nell’ambito dell’organizzazione. Le condotte di partecipazione — che in relazione al dinamismo proprio delle associazioni a delinquere di tipo mafioso, possono assumere i contenuti più svariati e che in considerazione della segretezza che ne circonda l’attività non sono facilmente individuabili — assumono una connotazione di maggiore specificità in rapporto al dato normativo ed alla locuzione usata per individuarla (fa parte dell’associazione) nel senso che esse devono essere caratterizzate sul piano soggettivo da quella che è stata in dottrina chiamata l’affectio societatis, ossia dalla consapevolezza e dalla volontà di fare parte dell’organizzazione criminosa, condividendone le sorti e gli scopi, alternativamente definiti nel comma 3o dell’art. 416-bis, e sul piano oggettivo dall’inserimento nell’organizzazione che prescinde da formalità o riti che lo ufficializzano, ben potendo esso risultare per facta concludentia, attraverso cioè un comportamento che sul piano sintomatico sottolinei la partecipazione, nel senso della norma, alla vita dell’associazione. Per far parte dell’associazione, secondo la opinione dominante, e realizzare quindi la condotta tipica non basta che egli aiuti o si attivi in favore dell’associazione: deve farne parte. In una prospettiva analoga questa corte Suprema ha, tuttavia, precisato che il nucleo strutturale indispensabile per integrare la condotta punibile di tutti i reati di associazione non si riduce ad un semplice accordo delle volontà, ma richiede un quid pluris che con esse deve saldarsi e che consiste nel momento della costituzione dell’associazone, nella predisposizione di mezzi concretamente finalizzati alla commissione di delitti, e successivamente, da
— 203 — Adesione esterna, intesa, sul piano obiettivo, come « contributo » da parte di chi non sia « socio » del sodalizio, idoneo, con valutazione ex ante, al potenziamento o al consolidamento o al mantenimento dell’organizzazione; sul piano soggettivo, come consapevolezza e volontà di contribuire all’associazione o ai suoi scopi e non quindi a fini personali. Con in più, l’ulteriore requisito della episodicità della condotta non priva però di idoneità causale al conseguimento dello scopo. In sintesi: il concorso esterno si risolve nel comportamento di un « non-socio » volto ad arrecare un « contributo » con carattere di « episodicità » e pur provvisto di « idoquel minimo di contributo effettivo richiesto dalla norma incriminatrice ed apportato dal singolo per la realizzazione degli scopi dell’associazione. Quello, cioè, che ha rilevanza non è l’accordo che venga consacrato in atti di costituzione, statuti, regolamenti, iniziazioni, ma è sufficiente che la manifestazione di volontà dei singoli realizzi, di fatto, l’esistenza della struttura prevista dalla legge e, una volta costituita l’associazione, il contributo apportato dal singolo si innesti nella struttura associativa ed in vista del perseguimento dei suoi scopi. Perchè si abbia partecipazione, qualunque sia il ruolo che l’agente svolge nell’ambito dell’associazione, l’attività del partecipe deve pur tuttavia concretarsi in un contributo anche minimo, ma causalmente apprezzabile al perseguimento dello scopo, e la volontà di associarsi per lo scopo prefissosi e cioè di unirsi ad altri per conseguire insieme quel determinato programma associativo. Data la struttura dei reati associativi, riconducibili alla fattispecie dei reati plurisoggettivi necessari, e più specificatamente nella categoria dei reati di accordo — reati cioè nei quali tutte le volontà convergono alla realizzazione di un fine a tutti comune — si pone il problema della configurabilità del concorso eventuale di persone nel delitto de qua, come delineato dall’art. 416 bis. Ritiene questa suprema Corte, nonostante la diversa opinione di una parte della dottrina che esclude la configurabilità del concorso ritenendo che sotto il profilo ontologico e giuridico la figura del concorso eventuale è incompatibile con la struttura dei reati di associazione, che il concorso eventuale di persone è configuranbile anche in relazione a tale categoria di reati e particolarmente al delitto previsto dall’art. 416-bis, non soltanto nel caso di concorso psicologico, nelle forme dell’istigazione e della determinazione nel momento in cui l’associazione viene costituita, ma anche successivamente, quando essa è già costituita, tutte quelle volte in cui il terzo non abbia voluto entrare a far parte dell’associazione o non sia accettato come socio, e tuttavia presti all’associazione medesima un proprio contributo, a condizione, però, che tale apporto, valutato ex ante, ed in relazione alla dimensione lesiva del fatto ed alla complessità della fattispecie, sia idoneo se non al potenziamento almeno al consolidamento ed al mantenimento dell’organizzazione criminosa. Esso, pertanto, deve consistere in un apporto obiettivamente adeguato e soggettivamente diretto a rafforzare o mantenere in vita l’associazione criminosa, con la consapevolezza e volontà — elementi minimi per la realizzazione della fattispecie ex art. 110 c.p. — di contribuire alla realizzazione dei fini dell’associazione a delinquere, con la conseguenza che il concorso non sussiste quando il contributo è dato ai singoli associati, ovvero ha ad oggetto specifiche imprese criminose e l’agente persegua fini suoi propri, in una posizione di assoluta indifferenza rispetto alle finalità proprie dell’associazione ». Analogamente Cass. Sez. I, 21 marzo 1988 in Cass. pen., 1991, p. 222, m. 165; Cass. Sez. I, 11 dicembre 1992, in Giust. pen., 1994, II, 258; Cass. Sez. I, 18 giugno 1993, in Mass. pen. cass., 1993, fasc. 10, 103; Cassazione penale Sez. I, 24 gennaio 1994, in Giust. pen., 1994, II, 424; Cass. Sez. fer., 23 agosto 1994, in Mass. pen. cass., 1994, 2678; Cass. Sez. V, 10 novembre 1995, in Cass. pen., 1996, 2515.
— 204 — neità causale » verso l’evento quale « consolidamento » o « mantenimento » del sodalizio, nella consapevolezza di perseguire finalità e scopi dell’associazione (80). La nozione così delineata si rivela, da subito, assai fallace, muovendo da premesse non univoche e sovrapponendosi e intrecciandosi con le viciniori soluzioni giurisprudenziali offerte in tema di reato associativo: il concorso esterno si rivela fonte inesauribile di quesiti interpretativi ai quali non è possibile attribuire in anticipo — nel che si sostanzia il principio di legalità — alcuna soluzione. E ciò per qualsiasi segno linguistico nella nozione de qua esposto all’oblio, alla svista, all’illusione (81). A cominciare dalla individuazione del soggetto attivo del reato ove, seppure l’attributo di esterno valga a differenziare l’attività dell’intraneus da quella del non-affiliato, permangono dubbi interpretativi sovratutto per quei sodalizi alieni a qualsiasi forma di officializzazione: interno-esterno divengono formule vuote, prive di senso, e sovratutto non verificabili se è vero che un « fatto concludente » può essere inteso, indifferentemente, sia come partecipazione interna sia come contribuzione esterna. E persino la non adesione, l’assenza di rituali di ingresso e officializzazione pur previsti dal sodalizio, possono essere superati dalla presenza di una contribuzione rilevante. Analoga incertezza per la nozione di affectio che per la natura introspettiva impone il ricorso a formule presuntive ovvero, più legittimamente, a valutazioni sulla attività a favore del sodalizio ciò che, appare evidente, non manca neppure nel contributo esterno. Discriminare l’animus del partecipe da quello del concorrente equivale così a introdurre una falsa regola con risultati ingannevoli e per di più sottratti alla possibilità di controllo razionale. Altrettanto vana la individuazione di una diversa finalità delittuosa nel senso di ricerca di una finalità individuale ed egoistica dell’extraneus: (80) Nel sancire la definitiva consacrazione della figura concorsuale esterna la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza 5 ottobre 1994, Demitry, (e nella successiva, sempre a Sezioni Unite, del 27 settembre 1995, Mannino), ha avuto modo di ribadire la diversità di ruoli tra il partecipe all’associazione e il concorrente eventuale materiale, nel senso che il primo è colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza; è, insomma, colui che agisce nella «fisiologia», nella vita corrente quotidiana dell’associazione, mentre il secondo è, per definizione, colui che non vuol far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a «far parte», ma al quale si rivolge sia per colmare eventuali vuoti temporanei in un determinato ruolo, sia, soprattutto, nel momento in cui la «fisiologia» dell’associazione entra in fibrillazione, attraversando una fase «patologica» che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un esterno, che è, insomma, il soggetto che occupa uno spazio proprio nei momenti di emergenza della vita associativa. (81) WITTGENSTEIN, Della certezza, cit., p. XXVIII dell’Introduzione.
— 205 — anche il membro del sodalizio persegue scopi personali e non già del sodalizio con il quale si può configurare una mera convergenza motivazionale. Residuerebbe il requisito di un diverso contributo causale che però già intangibile per i membri di sodalizi diverrebbe del tutto aleatorio per una condotta successiva alla genesi del sodalizio e quindi post patratum crimen. Nè potrebbe soccorrere il « rafforzamento » o il « consolidamento » del sodalizio essedo il contributo esterno per definizione « non necessario » e comunque « non idoneo » a tale scopo (82). Neppure potrebbe identificarsi con l’incremento della forma numerica dell’associazione dovendo, dunque, risolversi in qualsiasi comportamento, attuale o potenziale, di tipo causale ma anche di mero aiuto, agevolazione, sollecitazione, favoreggiamento, proselitismo, finanziamento, istigazione o determinazione verso un evento che non c’è e, seppure c’è, di certo non si vede. Il tutto, nell’incognita di confini tratti in termini essenzialmente e semplicemente psicologici, più sfumati rispetto alla partecipazione piena (è sufficiente il dolo generico), e nella certezza di un trattamento sanzionatorio del tutto corrispondente a quello della piena partecipazione associativa. Con rilevanti, dunque, discrasie sistematiche (83) che aggiunte alla indeterminatezza dei segni linguistici e alla molteplicità dei risultati interpretativi evidenziano gravi profili di irrazionalità e detassatività costituzionale, in sede sia repressiva che preventiva (84). (82) Non a caso nelle sentenza delle SS.UU., il riferimento è alla causalità agevolatrice o di rinforzo. (83) Sulle lamentate anomalie sistematiche in tema di (possibile) applicazione per il concorrente esterno di disposizioni più sfavorevoli (artt. 112 e 116 c.p.) o di (probabile) disapplicazione di disposizioni più favorevoli (di tipo premiale) sia consentito rinviare a MUSCATIELLO, Il concorso esterno nelle fattispecie associative, Padova, 1995, pp. 91 e ss., e alle acute obiezioni di VISCONTI, Il concorso « esterno » nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, pp. 1315 e ss.; e da ultimo di SPAGNOLO, Reati associativi, cit., p. 9. (84) Sul diverso peso dogmatico assunto dalla tassatività e legalità della normativa di prevenzione per l’extraneus rinviamo alle interessanti notazioni di MANGIONE, La « contiguità » alla mafia fra ‘prevenzione’ e ‘repressione’: tecniche normative e categorie dogmatiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, pp. 705 e ss. Sentiamo, infatti, di condividere l’obiezione per cui la situazione soggettiva di « contiguità » conduce ad affievolire i presupposti di applicazione delle misure preventive previste dal D.L.306/1992, articoli 3 quater e 3 quinquies, aumentando l’evanescenza delle misure e dilatandone oltremodo il campo di applicazione. Di più, l’estremo della sproporzione fra reddito e patrimonio non riflette più il presunto collegamento fra attività illecita (di partecipazione) e incremento di reddito in guisa che l’« obbligo di giustificazione » finisce per involgere non il reddito « sproporzionato » ma l’intera situazione economica del concorrente esterno. Nel rischio, non troppo remoto, che qui non valga il principio della possibile separazione fra l’attività delittuosa attribuita al partecipe ed attività lecitamente svolta, così da rendere confiscabili solo i beni e i proventi della
— 206 — 4. La soluzione di tale intrigo risiede, probabilmente, in due alternative metodologiche: ottenere un supplemento d’informazione dall’autore del precetto ovvero individuare lo scopo del precetto così da integrare la fattispecie dubbia attraverso la mediazione concettuale dei soggetti preposti alla decodificazione del precetto nel rispetto di parametri di accettabilità sociale e culturale (85). La seconda soluzione, nei reati associativi, si presenta assai incerta. Relegata la dottrina a funzione subalterna la scena vede come attore principale la giurisprudenza chiamata essa sola alla precostituzione di regole d’uso per l’esplicazione degli enunciati normativi: la coniazione di vocaboli, di attributi normativi, di ridefinizioni tecnicizzate, in una parola la « precostituzione di progetti di decisioni » (86) si risolve, nei reati associativi e in ispecie nella figura concorsuale esterna, nella precostituzione di « indecisioni » o meglio di decisioni detassativizzanti. L’obiettivo primario — peraltro espressamente fatto coincidere nella predisposizione di uno strumento di politica criminale tanto più utile quanto indefinito — è la non-individuazione dei precetti così da intendere la fattispecie associativa, e la promanazione esterna, come tendenzialmente indefinita per un migliore adattamento all’ambiente: regola, cioè, non anteriore ma esposta al dubbio, e ciònonostante sottratta alla conferma e alla refutazione. Tale strada non può dunque essere percorsa. Residua la via di un supplemento di informazione id est la sollecitazione alla fonte legislativa perché chiarisca il precetto normativo (87). Se prima, potendosi altresì accedere alla confiscabilità dei beni, leciti o illeciti, dell’esterno, sospetti in quanto indistintamente funzionali alla partecipazione esterna. A ciò si aggiunga come sia ben possibile applicare entrambe le misure preventive previste dalla legge: quelle della « sospensione temporanea-confisca » ex artt. 3 quater e 3 quinquies, in caso di non-appartenenza (tale è appunto la condotta esterna); ma anche quelle del « sequestro-confisca » ex art. 2 ter, in caso di condotta lato sensu associativa (tale è anche la condotta di concorrenza esterna). (85) L’alternativa è proposta da TARELLO, La semantica, cit., p. 778. (86) TARELLO, La semantica, cit., p. 787. (87) Tale strada è del resto percorsa da quasi tutti gli ordinamenti europei (tedesco: « Chiunque fonda un’associazione i cui scopi o la cui attività siano diretti a commettere reati, o partecipa ad una tale associazione come membro, la propaganda o la sostiene, è punito con la pena detentiva fino a cinque anni o con la pena pecuniaria » ex § 129 co. 1o Strafgesetzbuch (Il codice penale tedesco, traduzione a cura De Simone, Foffani, Fornasari, Sforzi, Padova, 1994; portoghese: « È punito con la stessa pena chi fa parte di tali gruppi, organizzazioni o associazioni o chi li appoggia, in particolare fornendo armi, munizioni e strumenti del delitto, protezione o locali per le riunioni, o qualsiasi aiuto al fine del reclutamento di nuovi elementi » ex art. 299 co. 2o (Il codice penale portoghese, traduzione di Giovanna Torre, Padova, 1997); spagnolo: « Los que con su cooperaciòn econòmica o de cualquier otra clase, en todo caso relevante, fovorezcan la fundaciòn, organizaciòn o actividad de las asociaciones comprendidas en los nùmeros 1.o y 3.o al 5.o del artìculo 515, incurriràn en las penas de prisiòn de uno a tres anos, multa de doce a veinticuatro meses, e inhabilitaciòn especial para empleo o cargo pùblico por tiempo de uno a cuatro anos » ex art. 518 (Il co-
— 207 — anche ciò dovesse equivalere non già all’individuazione del precetto ma alla modifica del precetto ne conseguirebbe una maggiore modernità rispetto alla vetustà del segno linguistico ormai fermo alla codificazione del 1930 o alle riforme novellistiche degli ultimi anni. In mancanza, non resterebbe che sancirne la espulsione dal sistema della figura concorsuale esterna, ciò che seppure non devastante — il timore dell’horror vacui sarebbe, infatti, ingiustificato essendo presenti nel sistema soluzioni di diverso tenore — parrebbe però di difficile attuazione. Nei casi in cui, infatti, la verifica di tassatività investa l’enunciato legislativo la dialettica costituzionale appare garantita dal potere di verifica affidata al giudice a quo: potere legislativo ed esercizio giurisdizionale concorrono su piani differenti alla salvaguardia costituzionale del sistema: in negativo il primo, attraverso una formulazione legislativa indeterminata; in positivo il secondo, attraverso il necessario filtro giurisdizionale e verifica prima facie della non manifesta infondatezza della questione sollevata. Un rapporto dunque intensamente dialettico ove la giurisprudenza assume il ruolo, tanto peculiare quanto inane (88), di censurare irrazionalità, antinomie, lacune, insufficienze di disciplina esercitando dunque un controllo di legittimità sulla discrezionalità legislativa. La situazione nel caso del concorso esterno, e più in generale, nei casi di indeterminatezza del significato linguistico è tuttavia differente: l’insidia alla tassatività proviene non dal potere legislativo ma dallo stesso potere giudiziario il quale per di più ha interesse non a denunziare ma ad utilizzare il deficit di previsione per esigenze di politica giudiziaria, pur talvolta « socialmente » apprezzabili. Questo non significa necessariamente, come è stato esattamente sottolineato (89) che l’iniziativa dei giudici ordinari nel sollevare le questioni di costituzionalità per violazione della tassatività sia condizionata dalle chance interpretative che viceversa tale indeterminatezza potrebbe garantire: significa, piuttosto, che la indeterminatezza se da un lato può alimentare la funzione di adeguamento sociale e politico della interpretazione giurisprudenziale, dall’altro essa non è vissuta come un problema potendo al limite essere sempre ridimensionata dalla sagacia del singolo operatore giuridico. dice penale spagnolo, traduzione di Naronte, Padova, 1997)) ove si constata un diffuso sforzo normativo verso la tassativizzazione del concorso esterno: sul punto VINCIGUERRA, I reati associativi nell’esperienza giuridica europeo continentale, relazione presentata al XXI Convegno su « I reati associativi », Courmayeur, 10-12 ottobre 1997, pp. 15-16 del dattiloscritto. (88) PALAZZO, Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 329. (89) PALAZZO, Orientamenti, cit., p. 331.
— 208 — Si aggiunga, poi, il rischio di forte conflittualità fra Consulta e magistratura ordinaria chiamata quest’ultima a « piegarsi » alle indicazioni « tassativizzanti » della Corte; e il contenuto precettivamente neutro delle pronunzie adottate in nome del principio di determinatezza-tassatività (90). L’empasse diviene poi invincibile a fronte dei meccanismi attraverso i quali adire il controllo di legittimità: il vulnus, si diceva, non viene ritrovato ma causato dalla giurisprudenza cosicché essa dovrebbe denunziare il proprio operato: il controllato diviene controllore in una infausta commistione di ruoli ove logico risultato è che, ben difficilmente, verranno sollevate questioni di costituzionalità per violazione « dinamica » del principio di tassatività (91). Il sistema si palesa incongruente non offrendo sul piano teorico meccanismi di salvaguardia capaci di prevenire degenerazioni applicative. A meno di non meditare meccanismi di attivazione per saltum senza la mediazione del giudiziario: declinata l’opzione a favore di una « pregiudiziale di legalità » affidata tout court alla Corte di Cassazione conserva un suo fascino la creazione di un organismo autorevole arricchito dalla presenza di membri « laici » con funzione « interpretante » e « tassativizzante ». Una sorta di quarto grado di giurisdizione affidato ad una specie di seconda Corte Costituzionale (92). Ovvero l’idea di applicare una vera e propria inversione costituzionale affidando questa volta al legislativo, nelle proprie articolazioni istituzionali (Commissione), il potere di sindacare la tassatività dei significati giurisprudenziali dati ad un proprio segno normativo, rinviando, senza alcun filtro giurisdizionale, la decisione alla Consulta (93). (90) PALAZZO, Orientamenti, cit., p. 341. (91) Non a caso, veniva osservato dal Prof. Conso, come nella pur non breve vita delle fattispecie associative siano state sollevate soltanto tre questioni di costituzionalità. (92) Proposta avanzata con riserve dovute alla difficoltà di attuazione istituzionale da PALAZZO, Orientamenti, cit., p. 342. (93) Il « nodo politico » della questione è stato da tempo avvertito da CONTENTO in occasione di un Convegno di Studi sulla Legge Delega per un nuovo Codice Penale (dattiloscritto non pubblicato), sottolineando la possibilità di due possibili soluzioni. La prima, nel senso della costruzione di norme « esplicative » così stringenti da impedire di fatto la violazione interpretativa della tassatività penale. La seconda, nel senso di ipotizzare l’intervento della Corte Costituzionale al fine di controllare il rispetto del limite esegetico imposto dal principio di legalità. Ovvero, congiuntamente, « blindare » l’ermeneutica delle norme e rendere effettivo il controllo della Corte Costituzionale non già però attraverso una investitura diretta degli interessati ma attraverso il filtro del potere legislativo (ad esempio, Commissione Affari Costituzionali) chiamato a sindacare le doglianze del condannato circa la violazione della tassatività della norma posta a base della pronunzia di condanna. « Questione pregiudiziale » questa che seppur posposta, per evitare possibili strumentalizzazioni, a giudizio concluso dovrebbe pur sempre sospendere l’esecuzione della sentenza in attesa della verifica della conformità ermeneutica della decisione giudiziale.
— 209 — Potere politico e potere giudiziario ritroverebbero l’equilibrio auspicato da tutti. VINCENZO BRUNO MUSCATIELLO Ricercatore di Diritto penale Università degli Studi di Bari
Il sistema così delineato al pregio della ragionevolezza aggiungerebbe il pregio del rinnovamento delle idee consentendo, infatti, di accedere anche a forme di analogia controllata, sub specie di garanzia ex post del cittadino. Il sistema aprirebbe spazio a nuovi bisogni di protezione, consentirebbe di rispondere meglio e più compiutamente alle esigenze reali di protezione degli interessi meritevoli di tutela, senza però rinunciare ad una sorta di « legalità sostanziale » che sottragga arbitrarie e pericolose iniziative politiche al potere giudiziario e le riattribuisca, ex post, attraverso il giudiziario al potere politico.
IL REATO PERMANENTE. ASPETTI SOSTANZIALI E PROBLEMI PROCESSUALI
SOMMARIO: 1. La permanenza. — 2. Dinamica del reato permanente. — 3. La teoria pluralistica. — 4. Unicità normativa del reato. — 5. L’anticipazione del processo. — 6. Ripercussioni sul reato. — 7. Indebite implicazioni sostanziali. — 8. Dubbi di costituzionalità. — 9. Altre evenienze processuali. — 10. Inammissibilità del successivo giudizio.
Si ritiene generalmente che, giudicato un reato permanente mentre è ancora in corso, e quindi prima della cessazione della permanenza, possa ed anzi debba far seguito un diverso ed autonomo giudizio per il periodo non ancora valutato. La giurisprudenza è unanime, e quasi altrettanto la dottrina. Ma le implicazioni sostanziali e processuali di tale linea sono tutt’altro che irrilevanti. 1. La permanenza. — La legge non dà alcuna definizione del reato permanente, limitandosi peraltro a richiamarlo a proposito della prescrizione (art. 158 c.p.: ‘‘il termine della prescrizione decorre... per il reato permanente... dal giorno in cui è cessata la permanenza’’), nonché ai fini della competenza per territorio e della durata della flagranza (artt. 8.3, 382.2 c.p.p.). Il suo significato perciò va ricercato nel sistema. S’intende generalmente per reato permanente quello che si protrae nel tempo (1), la cui consumazione cioè prosegue come se il reato continui a realizzarsi anche dopo la produzione dell’evento, fino a quando la stessa non cessi. La permanenza non consiste nella rinnovazione della condotta di reato (2), perché quella tipica originaria, perfino nell’inattività del suo autore, protrae semplicemente il suo effetto lesivo. (1) PETROCELLI, Principi di diritto penale, I, 1955, 263: ‘‘si compie e perfeziona in tutti gli elementi che lo costituiscono, ma non si esaurisce, e la condotta del reo continua ininterrottamente, in ogni istante successivo, a realizzare la violazione dell’interesse e della norma che lo tutela’’. (2) PETROCELLI, Principi di diritto penale, 313, distingue tra reati permanenti propri ed impropri, a seconda che l’agente debba rimanere del tutto inattivo ovvero debba svolgere
— 211 — Non esige neppure la semplice protrazione della condotta (3). Se ciò è necessario perché l’evento si realizzi vuol dire che fino a questo momento non c’è ancora il reato. Ma permanente può essere soltanto un reato perfetto. Il perdurare della condotta può esser richiesto dalla natura del fatto: così, p. es. nel furto non basta la semplice apprensione della cosa mobile altrui, ma essa deve continuare fino allo spossessamento, che si realizza solo quando la cosa esce dalla disponibilità del legittimo detentore. In alcuni casi la legge esige esplicitamente tale continuità, usando parole significative: es. ‘‘mantiene nello stato di schiavitù’’ (art. 602); ‘‘si trattiene’’ nell’altrui dimora (art. 614.1); altre volte esige anche atti successivi, dello stesso autore o magari di autori diversi: p. es. nella falsità in scrittura privata occorre non solo la falsa formazione o alterazione dell’atto ma altresì il suo uso. Soltanto il perdurare dell’azione o dell’omissione ovvero la successione di atti costituiscono la condotta tipica produttrice dell’evento, e il reato si consuma solo alla completa realizzazione di essa. A ben guardare, in questi casi si tratta non tanto di protrazione della condotta di reato, ma piuttosto di compimento di tutti i plurimi atti che costituiscono la condotta tipica (condotta plurisussistente). Soltanto un tale tipo di condotta produce l’evento da cui dipende l’esistenza del reato. Di tali reati si dice — con definizione equivoca — che sono « a permanenza necessaria », e per taluno costituiscono il vero tipo di reato permanente (4). Ma durante la necessaria protrazione della condotta e prima che si verifichi l’evento non esiste un reato consumato, cosicché la permanenza non solo non può cessare, come prevede la legge (art. 158.1) ma non può ancora neanche cominciare. I reati permanenti poi non esigono necessariamente una condotta plurisussistente. La permanenza non è neppure persistenza dell’effetto lesivo del reato. Il reato produce una serie di conseguenze, che possono avere rilevanza giuridica per il soggetto che lo patisce, per i familiari, per la stessa comunità, e persistere nel tempo e indefinitamente: p. es. quelle derivanti dall’omicidio. Siccome « conseguenze » del reato, vengono dopo il reato e un’ulteriore attività: p. es. nell’associazione criminosa non è sufficiente l’adesione ma occorre anche il perdurante contributo alla vita e all’attività del sodalizio. Ma tale ulteriore attività non costituisce rinnovazione della condotta di associazione, bensì la realizzazione dell’impegno associativo assunto con l’adesione: cioè un fatto esterno alla condotta tipica. V. VALIANTE, L’associazione criminosa, 1997, 92-93, 126-127. Anche il sequestratore di persona provvede di alimenti la vittima e magari la trasferisce in luoghi più sicuri; ma tali attività non riguardano più la condotta tipica del reato. (3) Così, invece, CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, 1951, 302: ‘‘L’azione deve durare quanto il fatto nel senso che la sua cessazione provoca la scomparsa dell’evento’’. (4) V. PAGLIARO, Principi di diritto penale, 1996, 508.
— 212 — quindi sono fuori di esso; derivano soltanto del reato interamente consumato. In relazione a tali conseguenze si parla di reati ad effetti permanenti. Ma questi sono strutturalmente diversi dai reati permanenti. Peraltro alla categoria non è collegata alcuna conseguenza giuridicamente rilevante, neppure ai fini della pena, perché la legge già la commina in modo adeguato alla definitività della lesione. La permanenza si riferisce non già all’effetto del reato, bensì alla « produzione dell’effetto » (5), che costituisce il momento consumativo del reato. Quando la consumazione non si arresta all’istante della realizzazione dell’evento ma prosegue indefinitamente, si ha appunto il reato permanente. La protrazione della consumazione non costituisce lo stesso « fatto » di reato, ma va oltre il fatto tipico: è qualità accessoria del reato, e rileva come aspetto di esso. Il sistema prevede chiaramente tale situazione. Il completo svolgimento della fattispecie produce il reato. Questo si considera consumato — in contrapposizione a quello semplicemente tentato (art. 56) — nel momento in cui l’evento, che è il risultato causale della condotta (art. 40), attinge il bene tutelato. Se la consumazione « inizia » (art. 8.3 c.p.p.) e « cessa » (art. 158 c.p.) vuol dire che può durare un certo tempo. Quando ciò avviene, la « durata » corrisponde appunto alla « permanenza ». Permanente è appunto il reato che estende nel tempo la produzione del suo effetto offensivo, che cioè protrae la sua consumazione oltre la realizzazione dell’evento. Vi sono invero alcuni beni che l’aggressione del reato non distrugge o diminuisce ma semplicemente comprime, tanto che ne è possibile una prolungata lesione e dopo che questa sia cessata sono in grado di riprendersi: beni c.d. comprimibili (6). Ai reati permanenti si contrappongono quelli che non si protraggono oltre l’evento, nei quali cioè l’evento lesivo distrugge immediatamente il bene tutelato: c.d. istantanei. In questi la consumazione si conclude « istantaneamente », cioè subito dopo la produzione dell’evento; invece negli altri la consumazione permane, cioè si protrae indefinitamente sino a quando non venga fatta cessare. 2.
Dinamica del reato permanente. — La permanenza non è de-
(5) VANNINI, Manuale di diritto penale, 1948, 185, 186. (6) CAMPUS, Studio sul reato permanente, 1902, 25 ss.; CARNELUTTI, Teoria generale del reato, 1933, 224, nota 1; DE MARSICO, Diritto penale, 1937, 211-212.
— 213 — scritta in alcuna fattispecie (7), e non è neppure creazione di legge (8), ma semplice fatto naturale, modo di essere di un certo fatto. È situazione esterna al fatto tipico, che si aggiunge allo stesso dopo che è stato realizzato secondo le previsioni della legge. Possono essere permanenti tutti i reati il cui evento è idoneo a ledere indefinitamente il bene giuridico protetto (9), ovviamente se questo è suscettibile di esserlo, oltre la iniziale consumazione. Pertanto la caratteristica della permanenza si ricava non già dalla fattispecie legale (10), ma piuttosto dalla natura del fatto illecito e dalla situazione contingente. Come tale può caratterizzare ogni illecito suscettibile di persistere nel tempo, anche un reato solitamente istantaneo: p. es. l’ingiuria o la diffamazione realizzate mediante frasi scritte o disegni offensivi esposti, fino a quando non vengano rimossi. Invero non esistono fattispecie di reati permanenti in senso proprio. Nel reato permanente persiste il fatto tipico originario in tutti i suoi elementi essenziali, in forza della potenzialità degli stessi di produrre indefinitamente l’effetto tipico, non già per la loro rinnovazione. Poiché essi danno vita al reato quando si svolgono complessivamente, non è immaginabile che continuino a realizzarsi, tutti insieme e indefinitamente, per tutta la durata della consumazione. P.es. un sequestro di persona non consiste in una rinnovata incessante condotta di cattura della vittima e in una continua conseguente privazione della libertà nonché nella ripetizione ogni volta della volontà consapevole di realizzarlo. Neppure è ipotizzabile che si rinnovino parzialmente. Non la condotta, perché la legge riconosce l’efficacia lesiva già a quella iniziale; non l’evento, perché questo è necessariamente effetto di una condotta causale, e quindi ogni nuovo evento — salvo che non sia progressivo — richiede(7) Va rilevato che le medesime fattispecie di condotte plurisussstenti, innanzi citate, comprendono pure comportamenti unisussistenti — p. es. l’acquisto della persona in stato di schiavitù, o l’introduzione nella privata dimora contro la volontà del titolare — che sono punibili sotto lo stesso titolo di reato e allo stesso modo di quelli di maggior durata. (8) Così invece MORO, Unità e pluralità di reati, 1954, 214, 228 ss., secondo cui il reato permanente, e altresì quello continuato e quello abituale, sarebbero espressione della ‘‘continuazione criminosa’’ in senso lato: invero sarebbero costituiti da ‘‘ una molteplicità di lesioni giuridiche’’ che la legge unificherebbe (‘‘unità legale’’). Ma la tesi può valere per il reato continuato e per quello abitale, che effettivamente sono composti da più reati — previsti dalla stessa o anche da diverse disposizioni di legge (art. 81.2) e, quello abituale, ‘‘della stessa indole’’ (art. 102) — che la legge considera unitariamente ai soli fini del cumulo giuridico delle pene ovvero della dichiarazione di abitualità; non anche per il reato permanente, che rimane nell’ambito di una sola violazione della legge reato (9) PECORARO-ALBANI, Del reato permanente, in questa Rivista, 1960, 427. (10) Così invece VANNINI, Manuale di diritto penale, 186; e SABATINI Gugl., Istituzioni di diritto penale, 1946, 260.
— 214 — rebbe una nuova condotta; non la volontarietà del fatto, perché essa si riferisce soltanto a una condotta e al suo evento tipici. La permanenza si fonda invece sull’efficacia propria della condotta e dell’evento originari, cioè sulla loro potenzialità di continuare a produrre effetti nel tempo sino a quando non cessino. Invero l’autore del reato permanente può anche non svolgere alcuna condotta (tipica) successivamente a quella iniziale (11) che ha causato l’evento, né ovviamente riprodurre quest’ultimo, e nemmeno rinnovare la volontà cosciente di continuare a realizzarlo. È sufficiente che rimanga identica la situazione originaria. La stessa attività che l’autore deve eventualmente compiere per assicurare la prosecuzione della consumazione del reato non deve necessariamente consistere in atti tipici: perciò, p. es., il sequestratore che provveda di cibo il sequestrato e ne rafforzi la sorveglianza o l’associato per delinquere che continui a rimanere a disposizione per lo svolgimento del ruolo a lui assegnato e magari procuri mezzi che mantengano operativo il sodalizio criminoso (12) non realizzano una nuova condotta ma rimangono nell’ambito di quella iniziale. Quando viene rinnovata la condotta o l’evento si ripete in maniera autonoma da quello precedente si versa piuttosto nell’ipotesi di concorso di reati, magari in continuazione tra loro. Nella permanenza, invece, la fase ulteriore del reato, attiva od omissiva che sia, assume rilevanza per il solo fatto che è riferibile allo svolgimento iniziale della fattispecie. L’originaria efficacia lesiva, finché non viene eliminata da un elemento dirimente, continua indefinitamente. Anche l’elemento psicologico, fino a quando non viene rimosso, resta quello iniziale, senza che occorra rinnovarlo in ogni momento della consumazione. È necessario soltanto che non insorga un elemento nuovo incompatibile con l’ulteriore permanenza anche di uno solo di quelli previsti dalla fattispecie (13). (11) Il frequente riferimento fatto in passato, per sostenere la necessità della prosecuzione della condotta, al ratto, nel quale dovevano seguire o il matrimonio (art. 522) o atti di libidine (art. 523), non è più rilevante dopo l’abrogazione delle due figure di reato. Ma anche quando erano vigenti, il matrimonio o gli atti di libidine costituivano non già nuova manifestazione della condotta tipica (sottrazione, ritenzione della persona) bensì il dolo specifico del reato, cioè un altro elemento della fattispecie. Lo stesso può dirsi per l’associazione criminosa, nella quale non si rinnova la condotta di promozione o costituzione o partecipazione, ma si svolgono i compiti propri dell’associato, che non sono neppure un elemento della fattispecie associativa. (12) CARRARA, Programma di diritto criminale, I, 1902, 299-300: ‘‘Quando il delinquente persevera nelle congreghe ribelli... se può mostrare la perseveranza del pravo animo, non sviluppa però ulteriori violazioni di legge. La prosecuzione consiste nel tener vivi gli effetti del primo delitto in un modo quasi negativo, piuttosto che con un rinnovamento di azione in cui veramente sia una seconda infrazione alla legge’’. (13) DE FRANCESCO Giov. Ang., Profili strutturali e procedurali, in questa Rivista, 1977, 584-585.
— 215 — 3. La teoria pluralistica. — Qualche Autore ritiene che la permanenza consista nella continua successiva rinnovazione del reato, nello stesso modo di quello originario, ad ogni momento del prosieguo della sua consumazione. La protrazione della lesione presupporrebbe un nuovo indefinito verificarsi dell’evento tipico causato dalla condotta prevista, e quindi un nuovo completo svolgimento della fattispecie: in una parola, l’incessante ulteriore ripetizione del reato (14). I successivi momenti della condotta che continua costituirebbero altrettante « cause » produttive dell’evento, e perciò darebbero luogo ad altrettanti reati perfetti, susseguentisi ininterrottamente nel tempo. Essi potrebbero raffigurarsi come le sagome riflesse in due specchi posti uno di fronte all’altro: tutte uguali, allineate, che proseguono indefinitamente, differenziantisi esclusivamente per il momento in cui sopravvengono. Il rinvio a giudizio (15) e ovviamente la sentenza determinerebbero l’unificazione dei singoli illeciti realizzati nel corso della permanenza come contestata ovvero accertata. La teoria pluralistica della permanenza, più che dalla struttura del reato permanente o dal sistema, sembra suggerita dalla possibilità di spiegare con essa la perseguibilità del reato permanente anche dopo un primo giudizio su un segmento di esso, e altresì la non applicabilità a tutto il reato della causa di giustificazione intervenuta nel corso della permanenza, l’esclusione dell’amnistia e la non riferibilità della querela alla parte di reato che è proseguita dopo il giudizio (16). Ma tale ragione è tutt’altro che irresistibile. Innanzi tutto va escluso decisamente che gli effetti processuali possano influire sulla struttura di istituti sostanziali. Benché parti integranti dell’ordinamento giuridico, i due tipi di norme hanno un’autonomia dispositiva ed altresì dommatica, tale da non giustificare una dipendenza reciproca e, particolarmente, di quella sostanziale dall’altra. Il reato permanente è istituto del diritto penale sostanziale, e perciò va valutato nella coerenza del corrispondente sistema. Perciò i possibili problemi concernenti il giudizio sul segmento del fatto non compreso nel primo accertamento vanno risolti in sede processuale. Quanto alle cause di giustificazione, esse operano nel momento in cui si verificano. Se sopraggiungono nel corso della permanenza esse la concludono, e quindi delimitano il reato alla fase precedente la loro comparsa. P. es., se la continuazione del sequestro diventa, oggettivamente o soltanto nella supposizione dell’autore, necessaria per evitare a se od altri il pericolo attuale di un’offesa ingiusta ovvero di un danno grave alla per(14) Così GIULIANI, La struttura del reato permanente, 1967, 59 ss., ed altresì l’isolata sentenza di Cass. 27 maggio 1971, in Giust. pen., 1971, II, c. 779. (15) GIULIANI, op. cit., 72 ss. (16) GIULIANI, op. cit., 15-16, 29, 36, 37, 48, 75.
— 216 — sona non altrimenti evitabile, da quel momento opera lo stato di legittima difesa ovvero di necessità, che fa cessare la permanenza e rende punibile il reato soltanto per la parte precedente (17). L’amnistia poi si applicherebbe proprio ai singoli reati componenti, come si dirà appresso. Va comunque obiettato che i molteplici singoli reati che si realizzerebbero durante la permanenza non potrebbero perdere la loro autonomia sostanziale per effetto della contestazione o dell’accertamento giudiziale: l’unificazione processuale non ne abolirebbe la singolarità, e al massimo ne comporterebbe la connessione e il trattamento come reati concorrenti. Non si può trascurare poi che la contestazione del reato — sia che intervenga dopo la cessazione della permanenza, sia che intervenga prima — concerne solamente il reato complessivo che è previsto dalla fattispecie. Manca invece una fattispecie cui potrebbero esser riferiti i singoli reati componenti. Che se si volesse ricollegarli alla medesima fattispecie mancherebbe la possibilità di distinguere i singoli illeciti dal reato complessivo (18). Se invece si ritenesse che la fattispecie considerata di reato complessivo descriva in realtà soltanto un reato singolo istantaneo, i plurimi reati componenti sarebbero certo riferibili ad essa; e tuttavia, mancando la fattispecie unificatrice, dovrebbero esser considerati reati semplicemente concorrenti. Perciò l’« unificazione » mediante la contestazione avrebbe mero valore processuale, in quanto consentirebbe la valutazione congiunta dei vari reati, ma non potrebbe modificarne la struttura sostanziale di reati istantanei concorrenti (19). 4. Unicità normativa del reato. — Al contrario, l’unicità del reato permanente è desumibile direttamente dalla legge. Invero, se il termine della prescrizione del reato permanente decorre soltanto dalla cessazione della permanenza (art. 158) vuol dire che fino ad allora il reato è un tutt’uno ed unico. Giustamente la legge nega la possibilità di estinzione dell’« unico » reato mentre è ancora in corso, benché perfetto e lesivo fin dall’inizio. Se il reato permanente fosse costituito da diversi reati, il termine di prescrizione dovrebbe esser riferito ad ognuno di essi, e quindi decorrerebbe dal momento della consumazione di ognuno. Una disposizione analoga non esiste per l’amnistia; e tuttavia è generalmente ritenuto che tale beneficio non sia applicabile al reato la cui per(17) DE FRANCESCO Giov. Ang., Profili strutturali e procedurali, 585. (18) DE FRANCESCO Giov. Ang., Profili strutturali e procedurali, 572. (19) DE FRANCESCO Giov. Ang., Profili strutturali e procedurali, op. cit., 573.
— 217 — manenza non sia cessata alla data di entrata in vigore del decreto (20). La mancanza di una norma espressa in tali sensi non autorizza ad adottare una regola diversa da quella della prescrizione, perché la situazione è del tutto identica. Mentre ancora il reato si sta svolgendo e neppure si sa quali sviluppi ulteriori possa avere, non può lo Stato rinunziare a considerarlo tale. Lo stesso va detto per l’indulto. Invece ai plurimi reati che si volesse ravvisare nel reato permanente sarebbero immediatamente applicabili sia l’amnistia che l’indulto. Anche la previsione del perdurare dello stato di flagranza fino alla cessazione della permanenza (art. 382.2 c.p.p.) significa che la legge considera il reato permanente il medesimo ed unico in qualsiasi momento della sua consumazione. Se la flagranza fosse riferibile allo specifico reato componente che si sta realizzando al momento dell’intervento della polizia non ci sarebbe stato bisogno della disposizione. Data questa unitaria struttura normativa, deve ritenersi che anche la querela — sia per la sua funzione processuale, sia per quanto possa attenere al diritto sostanziale, siccome manifestazione dell’offesa avvertita e della conseguente doglianza della vittima — una volta presentata nel corso della permanenza si estenda a tutto il reato, anche a quella parte che si protrae rispetto alla data di essa. Non si può immaginare che la persona offesa avverta la lesione per una parte della vicenda e non anche per quella successiva. È vero che non può chiederne la punizione prima che abbia subito la lesione; ma nel caso del reato permanente questa si produce già dal perfezionamento del reato, che dà appunto inizio alla consumazione. Peraltro l’ordinamento prevede un rimedio, coerente con il sistema, per il caso che in prosieguo l’offesa non sia più sentita così grave come prima: la possibilità di revocare la querela attraverso la remissione. All’inverso, l’unità ed unicità del reato permanente non consentono la protrazione del termine per la proposizione dell’istanza di punizione, perché la legge lo riferisce alla prima notizia certa e completa del fatto che costituisce il reato (art. 124.1) e nessuna eccezione prevede per il caso di permanenza. Peraltro non sarebbe opportuno consentire alla persona offesa una indefinita libertà di far sottoporre a persecuzione penale fatti che fino allora ha dimostrato di tollerare. Il termine di decadenza impedisce che si indulga a resipiscenze talvolta interessate, e comunque evita il pericolo di ricatti (21). (20) Tra gli altri: LEONE, Del reato abituale, 472; VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine e interruzione giudiziale della permanenza nei reati punibili a querela di parte, in questa Rivista, 1958, 1167; RAGNO, I reati permanenti, I, 1960, 203 ss.; BETTIOL, Diritto penale - parte generale, 1976, 778. (21) VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine, 1158.
— 218 — La querela pertanto non può proporsi anche dopo che sia decorso il termine dalla notizia del fatto di reato. Del resto, sull’unicità sostanziale del reato permanente concordano, da sempre e quasi unanimi, la dottrina e la giurisprudenza. Non può non considerarsi unico un fatto che è stato commesso, in conformità della fattispecie, una sola volta, con unica condotta tipica e, conseguentemente, con un solo evento. Il reato permanente è storicamente un fatto unitario e giuridicamente una violazione unica. Di conseguenza la fattispecie considera un solo unico reato, quale che ne sia la durata; e il processo non potrà che riguardare un solo unico reato. 5. L’anticipazione del processo. — Come ogni altro tipo di reato, anche quello permanente, una volta realizzato con lo svolgimento di tutti gli elementi della fattispecie, è immediatamente giudicabile: quindi anche prima che la consumazione sia cessata. Lo confermano normativamente l’art. 8,3 c.p.p., che ne attribuisce la competenza per territorio al giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, ignorando del tutto la cessazione della stessa; e soprattutto l’art. 382.2 c.p.p. che, riconoscendo la durata dello stato di flagranza per tutto tempo per cui si protrae la consumazione del reato, e perciò consentendo l’arresto del suo autore, ne autorizza il giudizio — p. es. quello direttissimo — anche nel corso della permanenza. Peraltro non ci sarebbe ragione di rinviare il giudizio, e neppure possibilità, data l’obbligatorietà dell’azione penale. L’attesa della cessazione della consumazione finirebbe per consentire all’autore del reato di stabilire il tempo del processo, lasciando intanto l’ordinamento, la comunità e l’eventuale persona offesa senza il doveroso ristoro della violazione subita. Il giudizio intervenuto e la sua definizione e la stessa esecuzione della condanna non possono avere alcuna influenza sul fatto costitutivo del reato permanente. Invero la produzione dei suoi effetti lesivi può cessare ovvero continuare come prima, senza che il processo spieghi un qualsiasi condizionamento: si pensi, per esempio, ai terroristi irriducibili di ieri o ai mafiosi tenaci di oggi, che perfino dal carcere riescono a svolgere il loro ruolo associativo. Quando però la consumazione continua oltre il giudizio, la giurisprudenza generalmente ritiene che l’ulteriore segmento di reato sia giudicabile ugualmente e autonomamente da quello precedente già valutato. Perciò la sentenza viene considerata causa di interruzione della permanenza (22), e di conseguenza la porzione di fatto non giudicata viene (22) Per Cass. I, c.c. 30 marzo 1995, Maiorana, l’effetto interruttivo deriverebbe soltanto dalla sentenza di condanna, non anche da quella di assoluzione.
— 219 — trattata come reato autonomo (23). Questo decorrerebbe dal giorno successivo alla sentenza e fino alla cessazione della consumazione, o magari fino alla nuova interruzione determinata dalla eventuale ulteriore sentenza per il periodo nel frattempo trascorso, salvo a... ricominciare nuovamente. Tale efficacia interruttiva è riconosciuta alla sentenza di primo grado (24) in quanto accerta il periodo di durata del reato entro i limiti che il giudizio ha considerati e che nell’eventuale giudizio di impugnazione non potrebbe più esser modificato neppure mediante una contestazione suppletiva. Naturalmente può successivamente scoprirsi che la consumazione sia cominciata in realtà anche precedentemente al periodo considerato in giudizio. Questa frazione precedente di reato sarebbe ugualmente giudicabile autonomamente, in quanto non compresa nell’accertamento già compiuto. La contestazione « chiusa », cioè relativa a un periodo di tempo determinato, consentirebbe perfino l’adozione di una nuova misura cautelare per il periodo precedente o successivo a quello giudicato (25). La dottrina ha recepito l’interpretazione senza obiezioni, magari limitandosi a spiegare che l’interruzione processuale o giudiziale (26) della permanenza è semplice interruzione ‘‘convenzionale’’ (27), una ‘‘finzione giuridica’’ e tuttavia ‘‘necessaria’’ (28) per ragioni di prevenzione, che non incide sulla struttura del reato (29) ed ha semplice rilevanza processuale (30). L’interruzione costituirebbe addirittura ‘‘effetto normativo del giudicato’’, anche se semplicemente da ‘‘supporre’’ (31). Peraltro si fa questione se l’interruzione possa derivare soltanto da una sentenza di condanna o anche da una sentenza di proscioglimento, e magari da una sentenza meramente processuale (32). (23) Cass. I, 17 giugno 1987, Arcella. Cass. I, c.c. 10 febbraio 1993, Sepe, dice addirittura che la sentenza ‘‘vale a interrompere l’attività, ancorché in corso’’. (24) Cass. I, c.c. 10 febbraio 1993, Sepe; 23 novembre 1992, Egizio; 21 aprile 1986, Benigno. (25) Tra le ultime, Cass. I, c.c. 21 aprile 1995, Carminati. (26) VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine, op. cit., 1158. (27) VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine, op. cit., 1168. (28) RICCIARDI, Il reato permanente e i suoi effetti processuali. Nozione di reato permanente, in Arch. pen., 1960, I, 364. (29) RICCIARDI, Il reato permanente e i suoi effetti processuali, 364. (30) VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine, 1168; PECORARO ALBANI, Del reato permanente, 444. (31) PAGLIARO, Cosa giudicata e continuazione dei reati, in Cass. pen., 1987, 42. (32) Tra gli altri: LEONE, op. cit., 559; SABATINI Gius., Sulla giudiciale interruzione della permanenza del reato, in Giust. pen., 1953, II, 3; VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine, op. cit., 1168; RAGNO, I reati permanenti, I, 1960, 242.
— 220 — 6. Ripercussioni sul reato. — In tempi ancora recenti, dopo che la scienza processuale conquistò la sua autonomia da quella sostanziale, si è molto discusso del rapporto tra i due ordinamenti, e perfino dell’accessorietà dell’uno rispetto all’altro. Non sono state poste in dubbio, peraltro, le rispettive funzioni: l’uno contiene gli elementi del giudizio, l’altro ne prescrive le regole. Il diritto sostanziale e quello processuale, siccome l’uno e l’altro parti dell’ordinamento giuridico, sono necessariamente collegati: l’uno stabilisce i limiti della libertà individuale, e correlativamente le norme di comportamento, l’altro fissa le regole del confronto fra il comportamento e le norme limitatrici. Nell’unità dell’ordinamento giuridico è anzi possibile e perfino necessaria la reciproca integrazione ai fini della interpretazione delle rispettive regole. Ma ciò non può portare a modificazioni strutturali dei rispettivi istituti, che vivono ed operano in coerenza con il sistema cui appartengono. In particolare il processo non può in alcun modo influire, per sua esclusiva forza, sul contenuto essenziale e sulla forma del reato. Il processo è determinato dal reato; ma, per la sua funzione semplicemente applicativa della legge penale nel caso specifico, non può che recepire il reato così com’è stato realizzato, senza poterne modificare la struttura sostanziale, tanto più nella parte che eventualmente rimanga estranea al giudizio. Quando il legislatore ha ritenuto necessario evitare alcune conseguenze, magari coerenti con il sistema ma non adeguate alle finalità che si prefiggeva, ha provveduto con norme specifiche; e tuttavia nell’ambito dello stesso sistema: così, p. es., per il concorso formale. Nel caso in esame, invece, la pretesa interruzione della permanenza — lungi dall’essere mera « finzione giuridica » senza effetto sul reato — determina l’autonomia del segmento di permanenza non ancora valutato, facendolo diventare un reato altro e diverso da quello già giudicato. L’unico reato permanente viene così ad essere trasformato in una vera e propria pluralità di reati. Tale effetto è evidentemente non solo di ordine processuale ma altresì di natura sostanziale, in quanto influisce sulla stessa ontologia del reato. Invero, se la sentenza « interrompe la permanenza », significa che ha la forza di arrestare il protrarsi della consumazione, e quindi il reato permanente, al momento in cui in essa il fatto risulta accertato e, soprattutto, di far riprendere il reato da quello stesso punto come fatto non solo processualmente ma anche sostanzialmente autonomo. L’interruzione divide in due un reato unico, prima arrestandone la consumazione, poi dando vita a un altro e diverso reato. E tutto ciò ad opera del giudice, non dell’autore del reato: cosa del tutto inconcepibile! La condotta ulteriore diventa così costitutiva di un ‘‘fatto nuovo...
— 221 — punibile’’ (33) che, ‘‘se pure è naturalisticamente la prosecuzione di quella già presa in esame, si presenta tuttavia dal punto di vista giuridico come un reato nuovo’’ (34). Senza che la condotta si rinnovi effettivamente e in base ai soli elementi tipici originari del reato, il giudizio avrebbe il potere di porre in essere un nuovo reato, autonomo da quello giudicato e anch’esso perfetto, tanto da dover essere a sua volta giudicato indipendentemente dal primo (35). Il processo assume così una funzione ulteriore rispetto a quella propria di confronto del fatto con la previsione di reato quale ipotizzato dalla corrispondente norma sostanziale, divenendo capace di creare « giudizialmente » un diverso tipo di reato. L’illecito derivante da una sola condotta, da un solo elemento psicologico e da un solo evento lesivo, frutto quindi di una sola realizzazione degli elementi della fattispecie, e come tale costituente un unico reato, viene scisso. Dell’unico reato si fa una pluralità di reati. E tutto ciò non in dipendenza della volontà o della condotta dell’autore, bensì per il fatto eventuale e contingente dell’anticipato esercizio dell’azione penale da parte di un pubblico ministero più diligente. 7. Altre indebite implicazioni sostanziali. — L’influenza del processo sul reato permanente determina pure altre importanti conseguenze sostanziali. La pluralità di reati derivante dal processo anticipato costituisce necessariamente un concorso di reati. La loro autonomia dà luogo a un concorso materiale, con la conseguente irrogazione di pene autonome, da sommarsi tra loro. Può sostenersi che i diversi reati sono stati « naturalisticamente » compiuti con una sola azione od omissione. Costituirebbero pertanto un concorso formale (art. 81.1). Se a ciò fosse di ostacolo, data la loro affermata autonomia, la differente collocazione di essi nel tempo, non potrebbe tuttavia dubitarsi dell’unicità del disegno criminoso (art. 82.2). Perciò dovrebbero essere rite(33) BATTAGLINI E., Concubinato ed amnistia, in Giust. pen., 1950, II, 218 ss. (34) VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine, 1172. (35) Sorprende che ritenga ammissibile l’interruzione anche chi identifica il reato permanente con quello per il quale la legge prevede non soltanto la condotta che instaura una situazione di fatto ma anche la successiva condotta di mantenimento: « reato necessariamente permanente » (v. PAGLIARO, Diritto penale, 1996, 508). In questo tipo di reati l’evento si realizza solo al termine delle « plurime » condotte. Se fosse soltanto questo il reato permanente, la consumazione cesserebbe con la perfezione di esso. Non si vede perciò come possa intervenire un giudizio prima della cessazione della « permanenza », che coinciderebbe con la consumazione, e quindi quale frazionamento di esso possa farsi in diversi segmenti.
— 222 — nuti in continuazione (36). In costanza dell’attuale interpretazione pluralista, proprio la continuazione potrebbe mitigare nel caso specifico l’iniquità del concorso materiale. Tutto ciò ha — come è evidente — rilevantissime conseguenze sul trattamento sanzionatorio. L’unicità del reato permanente non ne consente la prescrizione prima che ne sia cessata la permanenza (art. 158). Ma, in conseguenza del giudizio anticipato, si conclude il primo periodo di permanenza, e quindi la consumazione ‘‘cessa’’. Comincia pertanto a decorrere il termine di prescrizione del reato giudicato, che può portare all’estinzione del reato se gli ulteriori gradi di giudizio dovessero concludersi dopo la sua scadenza. Si tratta evidentemente di un effetto che il legislatore sicuramente non ha voluto: ma l’efficacia della norma è tale che opera anche contro la volontà del legislatore. La cessazione « giudiziale » della permanenza consente poi l’immediata applicazione dell’amnistia relativamente al segmento giudicato, ed altresì dell’indulto. È da ritenere certo che il legislatore non possa aver inteso cancellare il reato o la pena per colui che prosegue nell’illecito; ma di fronte a un fatto commesso entro i termini per cui il beneficio è concesso e che una sentenza considera reato concluso non può non operare la norma estintiva. Se poi, nell’ignoranza della protrazione della consumazione del reato, fosse concessa la sospensione condizionale della pena, si arriverebbe al paradosso della possibile estinzione del reato per decorso del periodo di sospensione mentre esso ancora permane. Altrettanto avverrebbe se fosse concesso il perdono giudiziale al minore degli anni diciotto. In danno del reo, poi, si dovrebbe ammettere la possibilità di dichiarare la recidiva, considerato che egli dovrebbe comunque rispondere di un reato dopo essere stato già condannato (art. 99). 8. Dubbi di costituzionalità. — Gli effetti del giudizio anticipato sul reato permanente pongono peraltro rilevanti problemi di costituzionalità. Innanzi tutto è da ritenere irragionevole un sistema che punisce più volte e per plurimi reati l’autore di un fatto unico, come quello del reato permanente, e invece punisce una sola volta colui che reitera la condotta tipica per realizzare compiutamente il fatto illecito voluto (p. es. il ladro che per impossessarsi di tutto l’arredo di un’abitazione o di tutte le merci (36) Cass. I, 16 dicembre 1992, Verde, ha invece negato l’applicabilità della continuazione proprio perché i due fatti devono essere rapportati all’« unità ontologica del reato permanente ». Non è tuttavia pervenuta alla necessaria conclusione dell’inammissibilità del giudizio sul c.d. « secondo » fatto.
— 223 — di un negozio, compie una serie successiva di sottrazioni, e quindi realizza più volte gli elementi della fattispecie, sia pure nell’ambito della medesima vicenda). Viola poi il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) il diverso trattamento degli autori di un reato perfettamente analogo, l’uno giudicato una sola volta complessivamente dopo la cessazione della permanenza, l’altro giudicato una prima volta nel corso della protrazione della consumazione e altresì successivamente e magari più volte fino alla cessazione della stessa. La diversità di trattamento per casi analoghi dipenderebbe peraltro non già dall’applicazione di una regola di legge, ma soltanto dalla circostanza indeterminata dell’efficienza dell’ufficio giudiziario procedente. Riguardo al medesimo autore del reato, poi, i giudizi successivi comporterebbero inevitabilmente un trattamento sanzionatorio più gravoso di quello che deriverebbe da un solo processo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.). Le pene irrogate nei diversi giudizi — specialmente se più di due — potrebbero perfino superare il limite massimo edittale stabilito per l’unico reato, e addirittura il limite ultimo del quintuplo della pena più grave previsto per il concorso di reati (art. 78.1) (37). In ogni caso i limiti di pena per un reato sostanzialmente unico non sarebbero quelli previsti dalla fattispecie di legge, ma resterebbero legati al dato del tutto eventuale ed incerto del numero dei giudizi cui è sottoposto (38). Ma l’indeterminatezza della pena contrasta con il principio di legalità (art. 25 Cost.). 9. Altre evenienze processuali. — Coloro che, accettando l’effetto interruttivo del giudizio anticipato, ritengono inevitabile il successivo giudizio sul segmento ulteriore di reato, si preoccupano piuttosto di assicurarsi che non ne resti violato il ne bis in idem. Il principio è riferibile soltanto al fatto contestato o comunque accer(37) Per esempio, per gli autori qualificati del reato di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis.1) la condanna al minimo della pena (tre anni di reclusione) in due successivi giudizi corrisponde al massimo della pena edittale (sei anni) applicabile in un solo giudizio. Per gli imputati di altri reati permanenti (p. es. artt. 416.1, 416-bis.2), se giudicati tre volte, la condanna al minimo della pena supererebbe la pena massima applicabile in un solo giudizio. (38) Significativa al riguardo è la decisione di Corte cost. sentenza n. 343 del 1993, che — di fronte all’ammissibilità, sostenuta dall’interpretazione corrente, di ulteriori giudizi nel caso di protrazione della mancanza alla chiamata e della diserzione militare — ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 8.3 della legge n. 772/1972, in connessione con l’art. 118 c.p.m.pace, nella parte in cui non prevede l’esonero della prestazione del servizio militare di coloro che abbiano espiato per tale fatto la pena della reclusione in misura complessivamente superiore a quella del servizio militare di leva.
— 224 — tato nel giudizio (res deducta). Se questo riguarda soltanto il segmento « temporale » su cui è intervenuta la decisione, quello ulteriore, seguente o precedente che sia, sarebbe fatto diverso (39), e come tale legittimamente giudicabile in un nuovo processo (40). Ma è indubbio che il fatto sia sempre lo stesso (41), senza l’aggiunta di checchessia. E se pure ‘‘giuridicamente’’ costituisse ‘‘un reato nuovo’’ (42) rispetto a quello giudicato, anche in tal caso il ne bis in idem osta, e come! Se la legge non consente un successivo giudizio neppure per un diverso titolo (43) — che dà luogo a un differente tipo di reato — o grado o circostanza sotto cui lo stesso fatto può esser considerato (art. 649.1 c.p.p.), non lo legittima certamente la contestazione della commissione dello stesso fatto semplicemente per un diverso periodo temporale. Sicuramente la data vale a differenziare il fatto da quello commesso in altro periodo di tempo, ma soltanto quando essi siano oggettivamente diversi, non anche quando costituiscano il medesimo fatto che continua a svolgersi. La data può rilevare come elemento di prova del reato, non già come materia di un nuovo processo. Sul piano sostanziale, peraltro, siccome momento particolare del fatto, la data rileverebbe soltanto se fosse considerata dalla fattispecie di reato. Ma non può mai rilevare come elemento costitutivo del nuovo reato. L’operatività del ne bis in idem è fuori discussione quando il primo giudizio si è concluso con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili (art. 649.1) (44). Ma l’impraticabilità di un ulteriore giudizio è evidente anche quando vi sia una sentenza ancora non definitiva, perché l’accertamento è destinato comunque a diventare irrevocabile. Lo stesso deve ritenersi per la sentenza di non luogo a procedere, salvo che il nuovo procedimento abbia acquisito nuove fonti di prova — non riferibili ovviamente soltanto al periodo di svolgimento del fatto — che da sole o unitamente a quelle già valutate ne consentano la revoca (art. 434 c.p.p.). In tal caso si procederà a un giudizio unitario tra i due segmenti del fatto. (39) Così, p. es., BATTAGLINI E., Concubinato ed amnistia, 218 ss. (40) Tra le altre, Cass. I, c.c. 21 aprile 1995, Carminati. (41) CARNELUTTI, Cosa giudicata e reato permanente (nota a Pret. Acireale, 5 aprile 1952, Fichera), in Riv. dir. proc., 1952, 188. (42) Così VASSALLI, Amnistia, decorrenza del termine, 1172. (43) Quindi, nel caso di concorso formale, omogeneo e perfino eterogeneo, giudicato il fatto riguardo a un reato, non è ammissibile il giudizio sull’altro reato (v. VALIANTE, L’associazione criminosa, 172): con buona pace della prevalente giurisprudenza contraria... ‘‘per evitare conseguenze inique’’! (44) CARNELUTTI, Cosa giudicata e reato permanente, 186.
— 225 — L’ulteriore giudizio è ovviamente autonomo da quello precedente. Ma proprio da ciò deriva l’incongruenza di un successivo accertamento dello stesso fatto e dei medesimi aspetti di esso, ormai acquisiti dal giudizio precedente. La fasi ulteriori del reato, proprio perché costituiscono semplice « protrazione » dello stesso fatto già giudicato, non presentano alcun aspetto diverso che giustifichi un nuovo accertamento. Sarebbe ben strano che, accertata la consumazione tra il giorno a e il giorno b, si debba poi accertare che la stessa si sia protratta anche tra il giorno b e quello c: un processo cioè in cui si valuti non già un fatto previsto come reato, ma un periodo di tempo, una data, cioè una situazione del tutto irrilevante nell’economia del reato permanente (salvo, eventualmente, che ai fini della quantità della pena). Il primo giudizio, peraltro, non resta indifferente a quello successivo. Non che rimanere ‘‘semplice argomento persuasivo’’ (45), il precedente accertamento del reato e della colpevolezza dell’autore non può non costituire un’antecedente inderogabile e non spiegare un’‘‘autorità logica’’ (46) sul convincimento del secondo giudice. Peraltro, se giuridicamente non può indirizzare « in senso obbligato » la nuova decisione, può nondimeno risultare in contrasto con essa o comunque logicamente inconciliabile. Si consideri, per esempio, il caso che il primo giudizio riconosca la sussistenza del fatto e condanni, l’altro invece la neghi ovvero ritenga l’esistenza di una causa scriminante. Può accadere altresì che nel primo giudizio l’imputato sia prosciolto e invece nell’altro sia ritenuto colpevole anche per il periodo precedentemente considerato. È ovvio che il reo non possa essere condannato anche per il periodo già valutato negativamente, ma è altrettanto naturale che la pena finisca per venire graduata con riferimento a tutta la durata del fatto. E a proposito di pena, è certo che quella eventualmente inflitta nel successivo giudizio debba essere autonoma da quella precedente. Ma appunto il potere riconosciuto al successivo giudice di spaziare liberamente tra i limiti minimo e massimo contrasta con la funzione rieducativa della pena (47). 10. Inammissibilità del successivo giudizio. — La regola dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) non pone in discussione la necessità del giudizio sul reato permanente appena risultino elementi idonei a sostenere l’accusa (art. 125 att. c.p.p.), e perciò anche prima della cessazione della sua consumazione. Si tratta solo di non ammettere le conseguenze aberranti del giudizio (45) CORDERO, Procedura penale, 1995, 1054. (46) DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, 1963, 217. (47) Su questi aspetti, ampiamente, DE FRANCESCO Giov. Ang., Profili strutturali e processuali, 587 ss.
— 226 — anticipato, quali una malintesa esigenza « di difesa sociale » ha finito per accogliere. Si tratta in particolare di considerare sufficiente un solo giudizio a decidere definitivamente sull’unico fatto, anche indipendentemente dalla prosecuzione della consumazione (48). La disposizione incriminatrice prevede una sanzione adeguata a tutta la possibile durata del reato: se è ritenuta sufficiente per l’intera permanenza, vi è compreso anche il periodo ulteriore non valutato specificamente nel processo anticipato. La maggiore responsabilità e pericolosità di chi protrae l’illecito può essere punita con l’irrogazione di una pena più grave. Potrebbe perfino prevedersi normativamente l’applicazione di una circostanza aggravante, magari ad effetto speciale, quando non risulti cessata la permanenza. Non si punirebbe con ciò un fatto non accertato e neppure verificatosi integralmente, ma semplicemente la persistenza del comportamento illecito, la maggiore intensità del dolo, la protrazione della lesione, la perdurante pericolosità del reo, nonché la condotta susseguente al reato giudicato: tutte circostanze puntualmente previste dall’art. 133 tra i criteri di graduazione della pena. Peraltro è sempre possibile — specialmente per certi tipi di reato; p. es. quelli di associazione criminosa — disporre adeguati controlli e misure di prevenzione per impedire la protrazione del fatto illecito o del suo effetto lesivo. Se effettuati concretamente e non in maniera meramente burocratica, sarebbero idonei a rendere inefficace la protrazione della condotta e perfino ad impedire la realizzazione di nuovi fatti illeciti. È sicuramente apprezzabile la preoccupazione di evitare l’impunità del reo che continui imperterrito a delinquere dopo la prima condanna. Ma l’autore del reato permanente non commette un « nuovo » reato, come il recidivo. Quindi non resterebbe impunita una « nuova » violazione della legge penale. Non viene riconosciuta alcuna ‘‘licenza di delinquere’’ (49) o di commettere ulteriori reati ‘‘a prezzi, in termini di pena, estremamente scontati’’ (50). Tanto può ritenersi nel caso del reato abituale, che si configura in una molteplicità di comportamenti che si ripetono a distanza nel tempo: es. maltrattamenti, relazione incestuosa, sfruttamento della prostituzione. Invero i fatti che si ripetono dopo la condanna sono effetto non già della semplice persistenza della condotta originaria ma di una concreta rinnovazione di essa: cosicché, se non potessero esser più giudicati, il delinquente li commetterebbe impunemente. Lo stesso può dirsi per il reato continuato. Questo è costituito da più (48) VALIANTE, L’associazione criminosa, 172-173. (49) Così Cass. 3 giugno 1986, in Cass. pen., 1987, 2149; e altresì CORDERO, Procedura penale, 1053. (50) Così PAGLIARO, Cosa giudicata, op. cit., 95.
— 227 — reati distinti ma collegati dal medesimo disegno criminoso, e come tali punibili secondo la regola del concorso formale (51). L’esclusione del nuovo giudizio costituirebbe appunto assicurazione di pena ridotta. Invece nel reato permanente non v’è alcuna nuova condotta né alcuna nuova manifestazione di dolo né alcun nuovo evento lesivo da punire. Né è esatto che l’interpretazione della norma deve premiare in ogni caso la scelta che meglio soddisfa le esigenze di difesa della società (52). Lo stesso invero deve dirsi per le esigenze di garanzia della persona. L’interpretazione deve privilegiare la linea più aderente alla Costituzione ed altresì più coerente con il sistema. Sen. MARIO VALIANTE
(51) Fenomenicamente la sentenza di condanna non è idonea ad interrompere il nesso di continuazione tra i reati precedenti e giudicati e quelli successivi, perché non influisce necessariamente sull’unicità del disegno criminoso. Il ladro sorpreso sul fatto e condannato non rinuncia per questo a realizzare il suo piano, e l’omicida può bene, anche dopo l’espiazione della pena, estendere la sua vendetta ad altri che aveva a suo tempo deciso di sopprimere. Non sembra che la sentenza di condanna sia di per sé idonea ad indurre il reo a un ripensamento o comunque ad influire sul precedente disegno criminoso del reo. (52) PAGLIARO, Cosa giudicata, op. cit., 95-96, con riferimento specifico alla continuazione, ma con successivo esplicito richiamo alla permanenza: ‘‘Una più ampia estensione del regime di favore... vulnererebbe la stessa funzione di prevenzione generale e speciale a cui è legata la ratio essendi dell’ordinamento penale... Perciò, anche se vi fosse un’esplicita legge, che disponesse la possibilità di collegare in continuazione fatti già giudicati e fatti ancora non condannati, tale legge sarebbe contraddittoria con l’intero ordinamento e perciò dovrebbe esser ritenuta come non scritta’’.
COMMENTI E DIBATTITI
AI CONFINI FRA DOLO E COLPA: DOLO EVENTUALE O COLPA COSCIENTE?
SOMMARIO: A) I LIMITI TRA DOLO E COLPA. — 1. Problematiche attuali del dolo e della colpa. — 2. Problemi e difficoltà in tema di accertamento del dolo eventuale. — 3. Commistioni tra dolo e colpa. — 4. Dolo e colpa come gradi della colpevolezza. — 5. In particolare: ratio della maggiore gravità del dolo. — B) INDIRIZZI ED ELABORAZIONI IN TEMA DI DIVERSIFICAZIONE TRA DOLO E COLPA. — 6. Individuazione del dolo eventuale come figura di confine fra dolo e colpa. — 7. Insufficienza dei criteri distintivi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’ambito del dibattito tra teoria della rappresentazione e teoria della volontà. — 8. Un particolare sguardo alla teoria del consenso e alla teoria degli stati affettivi. — C) ORIENTAMENTI ATTUALI. — 9. Teoria dell’accettazione del rischio tra dottrina e giurisprudenza. — 10. In particolare: la colpa cosciente come ‘‘previsione negativa’’ dell’evento. — 11. Considerazioni su alcuni ulteriori criteri distintivi. — D) PROBLEMATICHE DEL RISCHIO PENALE. — 12. Il rischio come criterio distintivo tra dolo e colpa. — 13. Rilevanza del rischio nella responsabilità colposa: in particolare l’Erlaubtes Risiko. — 14. Rapporti tra rischio e dolo. — 15. In particolare: il modo di atteggiarsi del rischio rispetto al dolo eventuale. — E) VERSO IL SUPERAMENTO DEL DOLO EVENTUALE: IL DOLO COME EFFETTIVO E NON MERAMENTE POTENZIALE COEFFICENTE PSICOLOGICO. — 16. Analisi del dolo ed ammissibilità di una forma eventuale. — 17. Struttura e inquadramento del dolo eventuale. — 18. L’aggravante di cui all’art. 61 n. 3 c.p.: la previsione dell’evento nella colpa come coscienza della violazione del dovere di diligenza. — 19. Il dolo eventuale quale doppione mascherato della colpa cosciente. — 20. Conclusione dell’indagine e prospettive di riforma.
A) I LIMITI TRA DOLO E COLPA. 1. Problematiche attuali del dolo e della colpa. — La distinzione tra reato doloso e reato colposo è, almeno da un punto di vista normativo, semplice e forse anche chiara (1). Al riguardo l’art. 43 c.p. risulta molto eloquente definendo le due categorie come fenomeni distintiti da una ben diversa natura. Ed infatti, poiché dolo è rappresentazione e volontà del fatto materiale tipico (2), per aversi colpa occorre, innanzi tutto, che l’agente non abbia vo(1) Di tale avviso F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 1993, p. 339. (2) L’uso di tale dizione — fatto materiale tipico — ci porta inevitabilmente nei meandri dello spinoso problema dell’individuazione dell’oggetto del dolo a cui da sempre la dottrina ha cercato di dare una soluzione, la più efficace possibile, che meglio si attenesse al dato normativo. Bisogna, infatti, tener presente che la disciplina del dolo e della colpa non si ricava esclusivamente dal solo art. 43 c.p., ma bisogna far riferimento anche a quegli altri articoli — si fa in particolare riferimento agli art. 47, 5, 59, 44 — che contribuiscono a meglio delinearne i contorni. Ed una corretta individuazione del concetto di evento permetterebbe di risolvere non pochi problemi, primo fra tutti il coordinarnento delle norme sopra citate, legati al tema dell’elemento soggettivo del reato. L’evento, infatti, costituisce il paradigma su cui si modellano il dolo e la colpa essendo il perno su cui ruotano tali figure, anche se, in effetti, è diverso il modo di atteggiarsi del soggetto nei confronti dello stesso. Superata ormai
— 229 — luto, né direttamente né indirettamente, tale fatto. Ciò che differenzia il dolo dalla colpa è che nel dolo occorre la volontà mentre nella colpa la non-volontà del fatto materiale tipico: dal dato normativo — l’art. 43 parla anche di volontà dell’evento — la vecchia querelle secondo cui oggetto del dolo non è l’evento ma il movimento corporeo che conduce allo stesso, una volontà nerveo-muscolare con cui si attua il movimento fisico — LISZT, Lehrbuch (trad. franc. della 7a ed. tedesca. Paris, 1911) vol., § 28, p. 178 —, esso viene ricondotto ora all’evento inteso in senso naturalistico come modificazione del mondo esterno staccata dalla condotta ed a questa legata da un nesso di causalità — vedi tra gli altri, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte Generale, 12a ed., Milano, 1991, p. 198 ss.; GRISPIGNI, Diritto Penale Italiano, 1950, Milano, II, p. 62, BETTIOL, Diritto Penale, p. 267 ss.; RICCIO, Il reato colposo, Milano, p. 427 ss. — ora come evento inteso in senso giuridico come offesa all’interesse tutelato dalla norma penale — DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova 1930, p. 163 ss.; M. GALLO, voce Dolo, in Enc. del diritto, VIII, 1964, p. 752 ss.; MASSARI, Il momento esecutivo del reato, Napoli, 1934, 44 ss.; PANNAIN, Manuale di diritto Penale, pt. gen., Torino, 1962, 279 ss.; VANNINI, Manuale di diritto penale, pt. gen., Firenze, 1948, 120 —. Se si fa riferimento all’evento inteso nel primo senso si incentra l’elemento soggettivo su un unico elemento, eziologicamente legato alla condotta vietata, nel secondo senso, invece, costituiscono oggetto del elemento soggettivo — in specie dolo — tutti quei dati che concretano l’offesa all’interesse protetto. Entrambe le suesposte concezioni risultano in realtà limitate perché o eccessivamente riduttive o perché pretendono di provare troppo. Infatti, essendo l’elemento soggettivo qualcosa che non può mancare in alcun reato, se si accettasse la concezione dell’evento inteso in senso naturalistico, bisognerebbe riconoscere che nel nostro ordinamento manca ogni determinazione del dolo nei confronti dei reati di pura condotta: conclusione questa assurda perché in questi tipi di reati, mancando un evento naturalistico, il disvalore penale si concentra necessariamente sulla condotta, ed in tal modo si avrebbe una coincidenza con la coscienza e volontà della condotta di cui all’art. 42 c.p. casomai potendovi essere una differenza di carattere quantitativo. A ciò si aggiunga che le suddette difficoltà si amplificano quando si entra nel campo della colpa perché si rende addirittura impossibile il giudizio di colposità — sul punto vedi GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, I, Padova 1993, p. 298 —, dovendosi così concludere per la non configurabilità dei reati formali colposi. A questo si aggiunga che in molti casi non vi è coincidenza tra volontà dell’evento naturalistico e responsabilità dolosa — si fa riferimento ai cd. casi di colpa impropria —. Le suddette difficoltà non debbono però spingerci neppure all’accoglimento dell’evento inteso in senso giuridico. Benché sembra ricavare un fondamento di carattere normativo ex art. 43 c.p. dove si fa riferimento all’evento dannoso o pericoloso, a cui si aggiunga la sua validità generale per tutto il campo del diritto penale — ma sul punto obietta MANTOVANI (op. cit., p. 324) che in realtà tale concezione trova il limite in quei reati privi di bene giuridico e che sono caratterizzati dalla loro formalità —, la concezione normativa dell’evento trova l’ostacolo insormontabile posto dall’art. 5 c.p. che sancisce l’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale: infatti la volontà di offendere il bene presuppone necessariamente la conoscenza della legge penale — sul punto vedi PAGLIARO, Principi di diritto penale, pt. gen., 1993, Milano, p. 281 —. Né sarebbe possibile limitare la tesi criticata, sostenendo che al dolo sia necessaria la coscienza dell’antisocialità, potendosi a ciò obiettare che una tale affermazione presupporrebbe la dimostrazione che tutti i reati pertengano ad un interesse socialmente rilevante a prescindere dalla incidenza della norma penale sulla struttura della società. Difronte all’impasse segnalato non sembra nemmeno percorribile l’argomentazione secondo cui nel nostro attuale contesto legislativo sia stato accolto ora un concetto naturalistico ora un concetto normativo dell’evento — sul punto vedi PAGLIARO, Principi, cit., p. 282 —. Tale formulazione ha però in sè un principio di verità: il riferimento va alla necessità di uno sdoppiamento della nozione di evento in ragione delle funzioni che quest’ultimo svolge nella struttura della fattispecie incriminatrice — in senso conforme GIUNTA, Illiceità, cit., p. 300 —. In effetti l’evento rilevante ai fini del giudizio di causalità — nel qual caso bisogna far riferimento all’evento inteso in senso naturalistico collegato eziologicamente alla condotta — è diverso da quello che costituisce l’oggetto dell’elemento soggettivo. Premesso ciò, per evento rilevante ai fini del giudizio doloso (e mutatis mutandis per quello
— 230 — risulta così che la colpa è l’esatto simmetrico negativo del dolo (3) ricorrendo essa quando difetta la coscienza e la volontà di tutti gli elementi positivi e negativi del fatto, anche con riferimento ad uno solo di essi. Con tali affermazioni si vuol mettere in evidenza come il problema dei limiti tra dolo e colpa va impostato in relazione al nesso intercorrente tra l’‘‘evento’’ e la psiche del soggetto agente. Affermare ciò non vuol dire disconoscere quei tentativi operati dalla teoria finalistica dell’azione che hanno cercato di risolvere il problema già a livello di fattispecie obiettiva: le fattispecie dolose e le fattispecie colpose rappresentano, infatti, categorie giuridiche distinte per la loro essenza, presentando differenze strutturali già a livello di ‘‘azione’’ (4). Ciò è, daltronde, dimostrato dal fatto che come il dolo ha una essenza indubbiamente psicologica, alla colpa non può che corrispondere, stante la mancanza di coefficienti psicologici, una natura normativa. Ma limitare l’indagine al solo studio della fattispecie obiettiva risulta poco prolifico, oltre che non consono al nostro sistema positivo, stabilendo chiaramente il codice che è la relazione esistente tra il risultato della condotta e la psiche del soggetto agente che determina la natura dolosa o colposa del reato. Dire però semplicisticamente che dolo è la previsione e la volizione dell’evento mentre colpa è la non volizione, anche se vi è previsione, dell’evento dimostra limitarsi ad una petizione di principio. Vi è infatti tutta una fascia di fattispecie dove la chiarezza dei contorni si oscura dando luogo all’estremo rigorismo giurisprudenziale che ha ritenuto di individuare la responsabilità dolosa in un comportamento che in realtà risulta semplicemente contrario alla diligenza. Si intende con ciò far riferimento a quelle situazioni in cui la realizzazione della fattispecie non è di carattere intenzionale, non essendo quindi le conseguenze della condotta propriamente volute, ma la sempre maggiore consapevolezza dei rischi connessi al compimento di attività pericolose, dovuta all’incremento delle conoscenze e delle cognizioni a disposizione dell’uomo con il conseguente ampliarsi dell’area di comune esperienza, palesa la necessità di una più decisa messa a fuoco dell’atteggiamento psicologico del soggetto agente. Non sorcolposo) è il fatto tipico — sul punto vedi FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., 1995, Bologna, p. 315; MANTOVANI, Diritto, cit., p. 325, PAGLIARO, Principi, cit., p. 281 e GIUNTA, Illiceità, cit., p. 297 i quali ultimi Autori utilizzando una diversa terminologia parlano di evento ‘‘significativo’’ inteso come ‘‘modificazione del mondo umano in cui si sostanzia l’aspetto esteriore del reato’’ —, terminologia con cui si intende far riferimento a tutti gli elementi positivamente richiesti per l’integrazione delle singole figure di reato. Ebbene una tale idea di evento è quella che meglio riflette le diverse caratteristiche strutturali dei singoli reati sia di azione che di evento. Una tale interpretazione dell’oggetto delllelemento soggettivo tiene in realtà conto anche di altri articoli cui prima si faceva riferimento e che contribuiscono alla individuazione del concetto di dolo e di colpa. Così, nel momento in cui l’art. 47 in tema di errore esclude il dolo per errore sul fatto che costituisce reato, cioè nel momento in cui si parla di ‘‘fatto’’ si conferma l’assunto di cui sopra. Quindi il dolo deve abbracciare le diverse componenti in cui si articola il fatto tipico: non solo la condotta — che nei reati a forma vincolata deve riguardare le specifiche modalità di realizzazione del fatto — ma anche l’evento naturalistico, ove questo sia presente, ed i presupposti della condotta — anche se quest’ultimi possono in realtà essere solo rappresentati —. Tale idea dell’oggetto dell’elemento soggettivo delinea inoltre con maggior chiarezza le differenze tra dolo e colpa e trova un supporto di grande importanza nella sent. n. 364 del 1988 della Corte costituzionale, dove si afferma che gli elementi significativi del reato devono essere accompagnati da dolo o quantomeno da colpa. (3) F. MANTOVANI, op. cit., 339. (4) Sul punto M. GALLO, La teoria dell’azione ‘‘finalistica’’ nella più recente dottrina tedesca, (1950), rist. Milano, 1967, p. 15; si veda anche MARINUCCI — Il reato come azionecritica ad un dogma, Milano, 1971, p. 99 — il quale rileva che l’aver messo in evidenza le caratteristiche peculiari dell’illecito doloso e dell’illecito colposo più che un merito è stata una sorte: il finalismo perseguiva, infatti, un intento di carattere opposto, cioè quello di ricercare una componente volontaristica anche nella colpa — su questi tentativi si veda, fra gli altri, LEFERENZ, Der Entwurf des allg. Teils eines Strafgesetzbuches in Kriminologischer Sicht, in ZStW, Bd. 70. 1958, p. 38.
— 231 — prende allora da tali considerazioni come il tema del dolo eventuale sia diventato tra i più interessanti che il panorama penalistico offra attenendo esso al problema dell’individuazione del limite estremo oltre il quale vi è la colpa: controprezzo di tale interesse è però la problematicità della individuazione dei suoi contorni. Che il dolo eventuale sia una forma di dolo non è stato mal messo in dubbio, ma che esso sia una figura incerta è dimostrato dal fallimento dei tentativi della dottrina di cercare dei raffinati criteri di carattere psicologico che riescano in qualche modo a delimitare tale figura rispetto a quella confinante della colpa cosciente. Unico dato che risulta costante è la tendenza ad estendere la responsabilità per dolo eventuale a scapito della parallela colpa cosciente: dato che si palesa in tutta la sua gravità nella prassi giurisprudenziale. Ciò comporta come il confine tra dolo e colpa, soprattutto a livello pratico, risulta in un certo senso magmatico a scapito di ineliminabili esigenze di certezza e di garanzia che devono necessariamente contrassegnare il nostro ordinamento giuridico Questo è dovuto al fatto che, più o meno consapevolmente, i giudici, nella opzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, sono portati a ravvisare il dolo eventuale allorquando la condotta del reo si sviluppi in un contesto di base illecito, o sia comunque sorretta da un fine antigiuridico o moralmente e socialmente negativo, fosse anche solo per la sua finalità rispetto agli interessi pregiudicati; oppure allorquando la condotta intrapresa dal reo appaia, sotto il profilo oggettivo, fortemente rischiosa rispetto all’evento poi verificatosi (5). Che si debba comunque imputare a titolo di dolo eventuale dette condotte per il loro semplice carattere rischioso, anche se a livello soggettivo si accompagna all’azione del soggetto una non ben individuata accettazione dello stesso, è un problema tutto da risolvere: sarebbe stato più consono alla natura dei reati colposi e dei reati dolosi ammettere che quello del rischio è in realtà un problema che riguarda solo i primi (6). Ciò che in tale sede si vuol mettere in evidenza è che il problema dei limiti tra dolo e colpa debba necessariamente essere risolto in base al dato positivo ogni altra strada risulta erronea perché il dolo e la colpa, per quello che interessa al giurista, non sono fenomeni puramente psicologici — lo dimostra, del resto, la stessa natura normativa della colpa —, la cui natura è possibile ricavare induttivamente dal modo di manifestarsi delle esigenze di carattere repressivo che si palesano nel dato contesto storico: sono innanzi tutto un problema del diritto. Sono le leggi che definiscono i concetti di dolo e colpa, partendo dal dato psicologico, o si astengono dal definirlo (7): ed è in base a tale dato che bisogna effettuare la nostra indagine essendo tutto il resto divagazione che non deve riguardare il giudice. Così, il nostro attuale codice presenta, in tema di elemento soggettivo, una formulazione chiara ed esauriente che ben poco spazio lascia alla ‘‘fantasia creatrice’’ del giudice penale, e che ben si armonizza con i principi Costituzionali. Deve allora chiedersi se ha senso parlare di dolo eventuale quando non esiste nel nostro ordinamento una norma che preveda tale forma di dolo: anzi, a ciò si aggiunga che il codice penale defini(5) Cfr. PROSDOCIMI, voce Reato doloso, in Digesto discipline penalistiche, XI, p. 244. (6) Sul problema del rischio penale vedi infra § 12 ss. (7) Si prenda in considerazione, a titolo di esempio, il Codice Penale Tedesco dove manca una definizione del dolo e della colpa, potendola semmai ricavare dagli § 15, dove si afferma la eccezionalità della responsabilità colposa rispetto a quella dolosa, e § 16, dove è definito il concetto di errore su circostanze di fatto (irrtum über Tatumstände). Questo vuoto legislativo deve spiegarsi in base alla circostanza che il Legislatore ha preferito non cristallizzare in una formula rigida gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza. Questa prassi legislativa sembra perfettamente accogliere quell’orientamento secondo cui ‘‘la chiarificazione definitoria di elementi generali del reato non è compito del legislatore bensì della scienza, poiché brevi paragrafi della legge non possono regolare la complicata materia, e, secondo tutte le esperienze, suscitano ulteriori problemi, piuttosto che risolverli’’ — JESCHECK, La riforma del diritto penale in Germania, in Indice Penale, 1976, p. 415 —. Sembra quasi che il mito delle strutture ontologiche incomba sull’attività del legislatore Tedesco e lo orienti verso ‘‘la natura delle cose’’ e non verso dogmi precostituiti — JESCHECK, Die weltanschaulichen und politischen Grundiagen des Entwurf eines Strafgesetzbuch, in ZStW, 1963, p. 2 —.
— 232 — sce il reato doloso come ‘‘secondo l’intenzione’’. Della legittimità di tale dubbio si ha ancor più piena coscienza se si tiene presente che tale figura, in realtà, si riferisce a quelle fattispecie che, a rigore, rientrano nella colpa aggravata ex art. 61 n. 3. In realtà, già un eminente autore (8), sul finire del secolo scorso, in un interessante saggio sul dolo eventuale, dal titolo provocatoriamente interrogativo, sottolineava l’inconsistenza della categoria, in quanto, retaggio di modelli sostanziali e processuali iniqui, finisce con l’attrarre nella sua sfera contegni soltanto colposi o del tutto incolpevoli. La conclusione cui perveniva il suddetto autore era che soltanto le conseguenze accessorie della condotta ritenute dall’agente sicure, o quelle che necessariamente accedono al risultato intenzionalmente perseguito, potessero venire addebbitate a titolo di dolo. Ancor più ci si rende conto delle incongruenze della categoria se si analizza l’evoluzione dell’istituto. È infatti, risaputo come la teoria del dolo eventuale prenda le mosse dal principio per cui qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu (9), e come, un poco alla volta, dalla mera responsabilità oggettiva per l’evento non voluto cagionato nel quadro di un’attività dolosa, si sia passati a restringere la responsabilità all’evento ulteriore oggettivamente probabile, introducendo in tal modo un coefficiente di colpevolezza. L’adozione che poi ne ha fatto la giurisprudenza nel quadro del nostro ordinamento è giustificata da una esigenza di carattere latamente sanzionatorio. Si fa cioè riferimento a quella prassi che tendeva a ravvisare, nei casi di lesioni gravissime, un tentato omicidio accompagnato dal dolo eventuale. In particolare, si ragionava nei termini secondo cui chi causava lesioni gravissime, si rappresentava la possibilità di poter causare l’evento morte (10). (8) LUDWIG VON BAR, Dolus eventualis, in ZStW, 1898, p. 584 ss. (9) Per un’analisi sintetica dell’excursus storico del concetto di dolo eventuale, vedi, DELITALA, Dolo eventuale, in Diritto penale, Raccolta degli scritti, I, Milano, 1972. p. 433 ss. (10) Quello dei rapporti tra dolo eventuale e delitto tentato è forse uno dei punti che è stato maggiormente preso in considerazione nello studio del dolo eventuale soprattutto per l’interesse che ha suscitato a livello di prassi. — in arg., fra gli altri, vedi DE FRANCESCO, Fatto e colpevolezza nel tentativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 703; ID., Forme del dolo e principio di colpevolezza nel delitto tentato, ibid., 1988, p. 1988; D’ASCOLA, Il dolo del tentativo: considerazioni sul rapporto fra fattispecie oggettiva e fattispecie soggettiva, ibid., 1979, p. 682; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., Bologna, 1995, p. 419; PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Milano, 1993, p. 143, VERONESE, Ancora su tentativo e dolo eventuale: verso una ‘‘definitiva’’ incompatibilità, in Cass. pen. Mass. ann., 1992, p. 2350 —. Mentre, infatti, la Giurisprudenza prevalente, seguita e sostenuta a livello dogrnatico da ampi settori della dottrina, ritiene che il dolo nell’ambito del tentativo si manifesta in tutte le sue forme, non mancano prese di posizione da parte di filoni della giurisprudenza che, sempre in modo più agguerrito, sulle orme delle argomentazioni elaborate dalla dottrina maggioritaria, ritengono non sufficiente il dolo eventuale ad integrare l’elemento soggettivo del tentativo — vedi fra le altre le seguenti pronuncie: Cass., 9 gennaio 1974, in Giur. it., 1975, II, 382; Cass., 18 giugno 1983, in Cass. pen., 1984, 496; Cass., 28 novembre 1987, ivi, 1989, 1746, Cass., 11 luglio 1988, in Cass. pen., 1990, 233; Cass., 19 febbraio 1990, Lo Presti, in Cass. pen. Mass. ann., 1992, con nota di L. VERONESE, 2345; Cass., 8 aprile 1991, Carnevale con nota di DE FRANCESO, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 700, —. I sostenitori dell’ammissibilità del dolo eventuale affermano la coincidenza fra dolo del tentativo e dolo della consumazione. Se con tale affermazione intende riferirsi alla circostanza che il soggetto agente tende alla consumazione essa è indubbiamente condivisibile: ma nel momento in cui si tende ad identificare l’elemento soggettivo nei due tipi di fattispecie non si tiene conto dell’autonomia del delitto tentato trattandosi esso di una fattispecie dotata di fatto, colpevolezza ed antigiuridicità autonomi — sull’autonomia del delitto tentato vedi: FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen. cit., p. 335; M. GALLO, Le forme del reato, Torino, 1974, p. 38; ID., voce Dolo, cit., p. 796; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 145; SINISCALCO, La struttura del delitto tentato, Milano, 1959, p. 48 —. Dottrina e giurisprudenza contrarie al riconoscimento di un tentativo sorretto da dolo eventuale fanno sovente leva sul requisito di univocita degli atti: allorquando, infatti, ‘‘un determinato risultato è previsto soltanto come possibile non è desiderato in quanto tale dall’agente’’ ed è quindi impossibile che il soggetto si rappresenti i suoi atti come diretti in modo non equivoco alla realizzazione di tale risultato — M. SINI-
— 233 — Che il soggetto agente agisse con un coefficiente rappresentativo era possibile, ma ritenere la sussistenza del dolo (eventuale) per l’evento morte non verificatosi significava imputare al soggetto agente un fatto senza tener conto della reale natura che il dolo ha nel nostro ordinamento giuridico. 2. Problemi e difficoltà in tema di accertamento del dolo eventuale. — La problematicità dell’individuazione del confine tra dolo e colpa, come si è accennato, si pone in tutta la sua evidenza in quei casi nei quali il soggetto agente prende di mira un determinato risultato, che può essere tanto penalmente illecito quanto indifferente, quanto addirittura lecito, ma con la previsione che al posto di quello o oltre a quello se ne possa verificare, e così accada, uno penalmente illecito. L’azione non mirava tanto alla produzione dell’evento realmente verificatosi, il quale presentava per l’agente poca o nessuna utilità, ma alla produzione di un evento atto a soddisfare il suo bisogno. Da tale ambito d’analisi devono quindi escludersi tanto quelle situazioni in cui l’evento non è affatto previsto, quanto quelle in cui questo sia previsto come certo o come necessario, o, addirittura preso di mira (11). Stabilire se nei suddetti casi ricorra il dolo anziché la colpa (in specie eventuale e cosciente) è un problema oltre che teorico innanzi tutto di ordine probatorio. Data, infatti, la maggiore semplicità di accertamento delle fattispecie di carattere normativo, rispetto a quelle di carattere psicologico-naturalistico (12), si assiste ad una dilatazione eccessiva dell’ambito applicativo del dolo, con il rischio di imputare al soggetto agente conseguenze non volute (13), per semplificare le difficoltà di accertamento e motivazione. Si fa in particolare riferimento a quella prassi giurisprudenziale che ravvisa il dolo eventuale allorché la condotta del reo si sviluppi in un conteSCALCO, La struttura, cit., p. 206 —. Questo è certamente un argomento sicuramente condi-
visibile, anche se non è andato esente da critiche. Ad esso si ribatte, infatti, che il requisito della univocità ha carattere prettamente oggettivo e nulla ha a che vedere con l’elemento subiettivo: ‘‘una tale direzionalità o c’è o non c’è, indipendentemente da quello che possa opinare il soggeto’’ — E. MORSELLI, Il dolo eventuale nel delitto tentato, in Ind. pen., 1978, p. 36 —. In realtà tale modo di ragionare non tiene conto della presenza, nella definizione di delitto tentato, dello specifico requisito della direzione degli atti alla commissione di un delitto: requisito che è ‘‘annesso a quello della univocità e dotato di un autonomo rilievo’’ — sul punto PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 157 —. Ed infatti tale requisito può ritenersi presente solo allorquando il risultato sia finalisticamente preso di mira, oppure appaia al reo come punto di passaggio obbligato per raggiungere lo scopo. Questo tipo di soluzione, volendo anticipare quelli che saranno i risultati della nostra analisi, sembra in qualche modo accostare il dolo eventuale alla colpa: parlare, infatti, di direzione, vuol dire, in qualche modo, arricchire la definizione di dolo accolta nel nostro ordinamento. Se, infatti, il legislatore, utilizzando tale termine, ha ritenuto di escludere dal tentativo il dolo eventuale è perché non lo riteneva una vera e propria forma di dolo inteso come volontà del fatto tipico. Vedremo, infatti, come il significato di tale termine sia in realtà diverso e più pregnante rispetto ai comuni indici (consenso, accetazione del rischio...) utilizzati dalla dottrina e dalla giurisprudenza per caratterizzare il dolo eventuale. (11) Sono questi i casi riconosciuti da dottrina e giurisprudenza rispettivamente di: colpa incosciente, dolo diretto e dolo intenzionale — sulla loro estraneità all’ambito del dolo eventuale. Cfr. M. GALLO, voce Dolo, cit., p. 768 —. (12) Su tale punto vedi BRICOLA, Dolus in re ipsa, Milano, 1960, p. 28; EUSEBI, In tema di accertamento del dolo: confusioni tra dolo e colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 1060 ss.; PECORARO-ALBANI, Il dolo, in Pubblicazioni della Facoltà giuridica dell’Universita di Napoli, 1955, p. 628 ss.; M. GALLO, Il dolo — oggetto e accertamento —, in Studi urbinati, 1951, p. 240 ss. (13) In giurisprudenza, contro l’applicazione di schemi presuntivi in tema di accertamento del dolo eventuale, vedi: Cass., I, 23 ottobre 1989, in Cass. pen., 1990, 608; Cass., I, 12 gennaio 1989, in Giust. pen., 1990, II, 72. Ha applicato lo schema presuntivo Pret. Lucca, 12 febbraio 1990, in Riv. pen., 1990, 964.
— 234 — sto di base illecito, o sia comunque sorretta da un fine riprovevole (14). All’ambito della colpa cosciente restano i casi in cui il soggetto pone in essere una condotta che, solo per le modalità poste in essere nel caso specifico, è idonea a cagionare l’evento, specie quando il fine perseguito è socialmente meritevole (15). Effettivamente l’accertamento del dolo eventuale provoca grandi difficoltà in sede processuale dovendo il giudice esplorare complessi processi psicologici che si manifestano nel mondo interiore dell’agente, senza che spesso ne sia visibile traccia nella realtà esterna (16). Bisogna infatti tener presente che le situazioni psichico-emotive che caratterizzano il dolo eventuale (17) sono delle realtà troppo evanescenti ed inafferrabili e risulta pertanto molto alto il rischio di presunzione in re ipsa, sulla base della mera pericolosità della condotta (18). A questo si aggiunga poi il concentrarsi dell’interesse del giudice verso la mera rappresentazione: essa, infatti, si presta, assai più del volere, a semplificazioni probatorie, stante la sua maggiore sondabilità e riconducibilità a indizi esteriori (19). Anzi, si afferma (20), che una volta provata la previsione da parte dell’agente dell’evento come certo o come probabile, in assenza di altre circostanze devianti, l’accettazione può dirsi in re ipsa. Questo tipo di ragionamento individua il dolo eventuale in base ad un preteso obbligo di risolvere il dubbio ovvero di ‘‘desistenza dall’azione’’, esaurendolo, in tal modo, nella pura e semplice constatazione obiettiva dell’aver mancato all’obbligo (21). Nel dolo eventuale si risolve ‘‘il rapporto volitivo tra l’azione e l’evento attraverso la cosiddetta « psicologia del dovere » e cioè costruendo tale nozione sulla base della « potenzialità della causa »’’ (22) intesa appunto come dovere di astenersi dall’azione o di risolvere il dub(14) Si pensi, a titolo di esempio, al soggetto che, volendo riscuotere il premio dell’assicurazione, incendia la propria casa di campagna prevedendo, senza averne la certezza o l’elevata probabilità, che in casa possa esserci l’anziana parente, che effettivamente muore: in un tal caso la giurisprudenza ha ravvisato, ora ricorrendo all’accettazione del rischio, ora alla teoria del consenso effettivo, la responsabilità per dolo eventuale. (15) Si pensi al caso dell’autista che, accorrendo al capezzale della moglie incinta, effettui un sorpasso in curva, prendendo seriamente in considerazione la possibilità di investire un auto proveniente nel senso opposto: in un tal caso il ferimento provocato all’autista dell’altra auto viene, dalla giurisprudenza, ascritto a titolo di colpa con previsione. (16) Sul punto v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pt. gen., p. 324, il quale ritiene che nella prassi è allora inevitabile il ricorso alle regole di esperienze. (17) Ci si riferisce all’accettazione del rischio, al consenso, alla speranza, alla fiducia, al desiderio... che, da indici rivelatori del dolo, sono da gran parte della dottrina elevati ad elementi costitutivi del dolo eventuale — in posizione critica a tale atteggiamento v. PECORARO-ALBANI, Il dolo, cit., p. 145 ss.; BRICOLA, Dolus, cit., p. 22. (18) Sono consapevoli di tale rischio DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 145; MANTOVANI, Diritto penale, pt. gen., Padova, 1993, p. 330; PROSDOCIMI, voce Reato doloso, in Dig. disc. pen., XI, p. 244. (19) È favorevole a tale soluzione probatoria DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 145, il quale ritiene che oggetto di prova debba essere ‘‘una effettiva rappresentazione del nesso causale’’; la presenza, in altri termini, di circostanze dalle quali possa desumersi che l’agente si è effettivamente rappresentata la direzione eziologica della propria condotta verso l’evento tipico, ovvero, si è prefigurato determinati fattori impeditivi di tale nesso, tali da indurlo ad una valutazione erronea dello stesso. Ritiene, invece, che la prova della rappresentazione non semplifichi l’accertamento: BRICOLA, Dolus, cit., p. 28. Fra gli autori tedeschi in argomento si veda: JAKOBS, STRAFRECHT, A.T. Die Grundlagen und die Zurechnungslehre, Berlin-New York, 1983, p. 21 ss. (20) MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 330. (21) Sul punto BRICOLA, Dolus, cit., p. 29, il quale ritiene che ragionare in questi termini dimostra l’utilizzo, forse inconsapevole, del giudizio assertorio del Listz; GALLO, Il dolo, cit., p. 220. (22) BRICOLA, Dolus, cit., p. 71. Tale autore giustamente critica tale orientamento ritenendo ineliminabile esigenza di certezza e garanzia, oltre che di legalità, la prova dell’elemento intellettivo innanzitutto: ‘‘la prova che il soggetto ha operato anche a costo di produrre l’evento’’.
— 235 — bio: si pensa di poter dedurre l’essere dal dover essere (23). È stato poi osservato come, non di rado, si scambia la previsione con la prevedibilità ‘‘lo scivisse con lo scire potuisse ac debuisse’’ (24), allorché la prova del dolo sarebbe condotta sulla base di un’inaccettabile deduzione di conoscenza da un dovere di conoscenza (25). Escludere nella prova del dolo eventuale — ma il discorso vale più in generale anche per il dolo — qualsiasi indagine sull’effettivo atteggiamento psicologico del soggetto di cui si valuta la colpevolezza, ed incentrare la propria attenzione sul discostarsi della condotta dalla sfera del doveroso dimostra il persistente uso della giurisprudenza di schemi presuntivi che sembrano ‘‘rivitalizzare’’ il dolus in re ipsa. Su questa via, si assiste ad una progressiva astrazione del dolo verso la sua normativizzazione in quanto vengono ad assumere rilevanza nel suo ambito valutazioni estranee alla dimensione psichica e che coinvolgono più direttamente la colpa. Conseguenza inevitabile ne è il rischio di sovradilatazione del dolo a scapito della colpa, e una sovrapposizione delle due fattispecie che ingenera una vera e propria ‘‘confusione fra dolo e colpa’’ (26) In realtà, la questione non riguarda esclusivamente le figure di confine del dolo eventuale e della colpa cosciente, bensì, i modelli stessi di ricostruzione, di tipo empirico o normativo, delle due forme di imputazione soggettiva dell’illecito penale. Deve infatti constatarsi come la rinuncia all’indagine psicologica nel dolo (rinuncia che si avverte con maggiore persistenza nell’accertamento del dolo eventuale) (27) estende la zona di ambiguità fra dolo e colpa fino a ricomprendere le stesse ipotesi di colpa incosciente e dolo intenzionale (28). 3. Commistioni tra dolo e colpa. — Effettivamente, oggi vi è accordo sul punto che dolo e colpa sono, l’uno rispetto all’altra, un aliud, essendo strutturalmente diversi, e in modo irriducibile (29). Sono perciò inammissibili, sia la tendenza a ritenere provato il dolo, anche se in una forma spuria qual’è quella eventuale, quando sia presente la sola rappresentazione o, ancor peggio, la mera rappresentabilità raggiungibile con la dovuta diligenza: si tratta, in realtà, di situazioni sussumibili solo nella colpa; sia l’antitetica tendenza, quando non si possa provare il dolo, neppure eventuale, mancando una condotta realmente rischiosa (30), a ritenere automaticamente presente la colpa, ‘‘riducendo le fattispecie colpose a meri bacini di raccolta delle corrispondenti fattispecie dolose’’ (31). Con il dolo, invero, l’ordinamento fa riferimento ad uno stato psicologico effettivo, costituito da rappresentazione e volizione del fatto tipico da parte del soggetto agente: si configura, cioè, come dato empirico e non come giudizio normativo. È perciò inevitabile che il suo accertamento venga effettuato in base ad un’introspezione soggettiva, eventualmente affiancato dall’utilizzo di massime d’esperienza (32). Diverso è invece il discorso per la colpa, dove, la sua natura nor(23) EUSEBI, In tema di accertamento, cit., p. 1066. (24) PECORARO-ALBANI, Il dolo, cit.; DELITALA, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Raccolta degli scritti, I, Milano, 1976, p. 449. (25) EUSEBI, In tema di accertamento, cit., p. 1066. (26) L’espressione, molto efficace, è stata utilizzata da EUSEBI, In tema di accertamento, cit., p. 1061. (27) Vedremo infra come il dolo eventuale sia in realtà caratterizzato dalla violazione del dovere di diligenza: è pertanto ben difficile provare una pretesa volizione dell’evento quanto, come si vedrà, in realtà essa manca. (28) EUSEBI, op. ult. cit., p. 1066. (29) MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa-Morte dell’imputazione oggettiva dell’evento e trasfigurazione nella colpevolezza?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 33. (30) Si tenga presente quanto detto sopra a proposito della prassi giurisprudenziale che tende ad imputare il dolo, nella forma eventuale, a quei soggetti che pongono in essere una condotto illecita rischiosa o, comunque, oggettivamente idonea a provocare l’evento, ritenendo il surplus ‘‘volizione’’ in re ipsa. (31) MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 33. (32) Per eventuali approfondimenti si veda, fra gli altri: GALLO, Dolo, cit., p. 750; BRICOLA, Dolus, cit., p. 2; PECORARO-ALBANI, Il dolo, cit., p. 602, EUSEBI, In tema, cit., p.
— 236 — mativa permette un indagine semplificata e snodantesi nell’accertamento della prevedibilità e prevenibilità o evitabilità che vanno determinate in concreto (33). Quanto detto sembrerebbe contraddetto dalla recente ‘‘caccia alla colpa nel dolo’’ (34) che, partendo dalla premessa secondo cui ‘‘l’imputazione obbiettiva dell’evento’’ è un connotato comune al reati dolosi e ai reati colposi, conclude che un fatto antigiuridico può essere commesso con dolo sempre che, in assenza di dolo, siano presenti, rispetto al fatto stesso, gli estremi della colpa: insomma ‘‘non c’è dolo senza colpa’’ (35). In altre parole, anche la condotta dolosa, al pari di quella colposa, sarebbe caratterizzata dalla contrarietà a diligenza. Si tratta, invero, di un orientamento che, tendendo ad applicare alla struttura del reato doloso criteri provenienti dal settore della colpa, ha risentito, anche nelle più consapevoli elaborazioni dell’imputazione obiettiva dell’evento, dell’antica tentazione di unificare ‘‘ad ogni costo’’ due fenomeni normativamente differenti. Una volta, infatti, riconosciuta l’esistenza nella delimitazione del dovere obiettivo di diligenza del rischio adeguato ed affermata l’identità di tale ultimo requisito anche nei reati dolosi, ne deriverebbe necessariamente una parallela rilevanza del dovere di diligenza nella struttura del reato doloso (36). D’altronde — si afferma (37) —, in un sistema giuridico, quale quello italiano, caratterizzato da un diritto penale solidamente ancorato al protezionismo dei beni giuridici, e non già da un diritto penale della volontà orientato in chiave soggettiva, il margine di liceità del rischio delineato, per la condotta umana, dalle regole cautelari non può differire, al fondo, per il dolo rispetto a quanto accade per la colpa: 1079 ss.; nonché nella manualistica FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., cit., pt. gen., p. 324. Per i riferimenti giurisprudenziali che in tema di accertamento del dolo fanno ricorso alle massime d’esperienza vedi TASSI, Il dolo, Padova, 1992, p. 149. (33) In argomento si veda: DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, 1977, p. 339; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., p. 384; MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 182; STRATENWERTH, L’individualizzazione della misura della diligenza nel delitto colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 635; nella manualistica si veda MANTOVANI, Dir. pen., cit., pt. gen., p. 347. (34) Sul punto si veda MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’- critica di un dogma, Milano, 1971, p. 98. Per quanto riguarda la vecchia caccia al dolo nella colpa cfr. pure MARINUCCI, op. loc. cit., e GIUNTA, Illiceità, cit., p. 353 ss., il quale ultimo autore afferma che, in realtà, l’espressione ‘‘non c’è colpa senza dolo’’ sta a significare che, mentre vi sono fattispecie dolose che sono penalmente irrilevanti se realizzate cono colpa, ogni fattispecie colposa può essere realizzata dolosamente: e non può che essere così stante la possibilità di provare una appetizione dell’evento cagionato per non incorrere in sanzione penale. Cfr. anche BRICOLA, Aspetti problematici del rischio consentito nei reati colposi, in Bollettino dell’Istituto di diritto e procedura penale dell’università di Pavia, 1960-1961, p. 90, il quale, dall’esame del fenomeno da un punto di vista funzionalistico, afferma che la tutela offerta dalle fattispecie colpose ha carattere aggiuntivo ed estensivo: infatti, il legislatore rispetto a certi beni avverte come insufficiente la tutela ‘‘ordinaria’’, quella cioè ottenuta sanzionando le aggressioni intenzionali. Si tratta, in realtà, dello stesso fenomeno estensivo che caratterizza il tentativo e l’omissione impropria. (35) Per tutti gli autori tedeschi cfr. ARM. KAUFMANN, ‘‘Objiective Zurechnung’’ beim Vorsatzdelikte?, in Festschrift für Jescheck, I, 1985, p. 258. Fra gli autori italiani cfr. MARINUCCI, Non c’e dolo, cit., p. 26 e bibliografia ivi citata. (36) Di tale avviso cfr. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 210, il quale si dimostra favorevole ai tentativi di trovare punti di contatto fra le due forme di imputazione soggettiva del fatto: infatti, l’identità della fattispecie obiettiva nel reato doloso e in quello colposo è resa possibile dalla considerazione di entrambi ‘‘come aspetti della condotta tipica illecita e non come mere forme della colpevolezza’’ — op. cit., p. 208 —. Questa impostazione è poi particolarmente chiara in HERZBERG, Die Sorgfaltswidrigkeit im Aufbau der fahrlässigen und vorsatzlichen Straftat, in JZ, 1987, p. 539: ‘‘il reato doloso... non può rinunciare ad un obiettivo requisito dell’illecito, che vale per il suo pendant colposo’’. (37) PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 90; ID., voce Reato doloso, cit., p. 242; MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 31.
— 237 — ‘‘non è, infatti, tanto il gioco, spesso sottile, delle valutazioni, dei desideri e delle finalità soggettive dell’agente (che acquisteranno rilevanza in una fase successiva), ma è il finalismo oggettivo della condotta, ed il significato che essa obiettivamente assume, a definire, sotto un primo profilo, i confini della liceità’’ (nt.) PROSDOCIMI, Dolus, cit.. Da quest’angolo visuale si lasciano includere o escludere dall’ambito del penalmente illecito, in particolare dai fatti dolosi, una serie di casi guida (38). Si pensi al nipote avido che, al fine di entrare in possesso della tanto ambita eredità, consegni un biglietto aereo al vecchio zio inducendolo a compiere un viaggio di piacere, confidando che l’aereo cada e che lo zio muoia, come poi in effetti avviene: in tal caso il nipote commetterà omicidio doloso se quel che ha intensamente voluto è la realizzazione di un rischio che travalica i limiti della diligenza. Allo stesso modo, si afferma, che non risponderà di omicidio doloso il chirurgo che opera un proprio acerrimo nemico, se la morte dello stesso, pur intensamente voluta, sia concretizzazione di un rischio operatorio non colposo, essendo l’operazione eseguita a regola d’arte. Si pensi ancora al soggetto che comunica la tragica notizia della morte di un figlio all’odiato vicino, anziano soggetto cardiopatico, sperando in cuor suo che l’emozione gli sia fatale o a Tizio che somministra all’odiata moglie, gravemente ammalata e sofferente, un sedativo dai problematici effetti collaterali, sperando che la medicina le sia fatale: in tali casi, per imputare a titolo di dolo l’evento causato occorre verificare — sempre secondo tale orientamento — se vi sia stata violazione di una regola cautelare. Le considerazioni sopra svolte hanno portato ad individuare nella violazione di regole preventive, di natura sociale o giuridica, il comune denominatore di ogni forma di colpevolezza. ‘‘Ciò che solitamente si ritiene essenza della colpa riguarda anche il dolo’’ (39). Il dolo contiene però, pur sempre un quid pluris rispetto alla colpa, ponendosi in tal modo come forma speciale di colpevolezza rispetto al minimum generale rappresentato dalla colpa. Di conseguenza, tra dolo e colpa vi è si un rapporto di parziale eterogeneità, dovuto alla presenza nel dolo di una componente volitiva; ma, da un punto di vista normativo, un rapporto ‘‘di profonda omogeneità e continuità’’ (40). Dall’impostazione su menzionata sembrerebbe che il dolo non può più intendersi in un senso esclusivamente psicologico. Effettivamente tale assunto non può che lasciare perplessi. Ed invero, mentre il riconoscimento della natura eminentemente normativa del concetto di colpa è ormai abbastanza consueto, per quanto riguarda il dolo la dottrina è ampiamente ancorata ad una visione di carattere esclusivamente psicologica. Ed è giusto che sia così perché le impostazioni qui considerate determinano una intensificazione dell’intervento penale (41): se infatti la ricostruzione in chiave psicologica della colpa finisce per dilatare, senza limiti certi, l’ipotizzabilità di un mancato rispetto dell’obbligo di ‘‘prestare attenzione’’, col rischio di punire il mero ‘‘versare in re illicita’’ (42), la normativizzazione della responsabilità dolosa, ove coerentemente perseguita, conduce ad assimilare al dolo la semplice inosservanza di regole precauzionali. D’altro canto ciò che differenzia il dolo e la colpa (e lo stesso vale — rectius —, almeno nell’impostazione tradizionale, fra dolo eventuale e colpa cosciente) (43) è la presenza di meccanismi di carattere psicologico attinenti innanzitutto la volizione ed in misura più sfumata anche la rappresentazione (44). Detto questo occorre analizzare quale sia la funzione che la norma cautelare di dili(38) I casi di seguito riportati sono tratti da MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 28; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 94. (39) PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 98. (40) Cfr. G. JAKOBS, Probleme der Wahlfeststellung, in Goltdammer’s Archiv für Strafrecht, 1971, p. 260. (41) Di tale stesso avviso vedi EUSEBI, In tema di accertamento del dolo, cit., p. 1067; ID., Il dolo come volontà, Brescia, 1993. (42) MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, cit., p. 161 ss. (43) Si dimostrerà infatti come dolo eventuale e colpa cosciente sono in realtà espressione di un identico disvalore penale stante una identica connotazione di carattere strutturale. (44) Ritiene, diversamente, PAGLIARO — Princìpi, cit., pt. gen., p. 265 — che la diffe-
— 238 — genza svolga all’interno delle fattispecie colpose. Il dovere di diligenza rileva, quale tecnica di descrizione legislativa della condotta, solo nell’ambito della tipicità colposa (45). In particolare la definizione legislativa contenuta nell’art. 43 c.p. ha una precisa funzione di disciplina e non si esaurisce in una presa di posizione puramente ‘‘dottrinale’’ (46): quella cioè di richiamare le varie qualifiche della negligenza nel testo delle singole fattispecie incriminatrici, affidando loro un preciso compito descrittivo dell’illiceità colposa. Cosicché, nel momento in cui manca la contrarietà al dovere di diligenza viene meno la stessa conformita di una certa azione al tipo legale. D’altro canto la esattezza di tali affermazioni la si coglie col rilievo che il richiamo della diligenza nella nozione di dolo non avrebbe avuto, e non potrebbe avere, lo stesso significato e le stesse funzioni che esso ha nelle fattispecie colpose. Il comportamento contrario a diligenza non rileva in tale ambito, infatti, a livello di fattispecie incriminatrice, ma costituisce solo la modalità con cui si realizza l’aggressione al bene tutelato. Così, nel caso del pugile che colpisce deliberatamente l’avversario sotto la cintura o del medico che pratica, in corso di operazione, una incisione troppo profonda allo scopo di uccidere rispettivamente l’odiato avversario e il creditore insistente è irrilevante che la condotta sia negligente o che l’evento sia proprio quello che costituisce la concretizzazione del rischio che la norma tendeva ad evitare: ciò che rileva è che la condotta sia condicio sine qua non, secondo la miglior scienza ed esperienza, dell’evento. Il fatto, poi, che la condotta si presenti contraria a diligenza dipende dalla circostanza che quello di cui all’art. 575 c.p. è un reato a condotta libera, in cui cioè rileva in modo fondamentale il disvalore d’evento, non importa quale sia la condotta posta in essere. Diversa è invece la situazione nel caso di fattispecie colposa: qui la diligenza risulta criterio di individualizzazione autonomo, elemento delimitativo della responsabilità colposa. Più in particolare nell’ambito del reato colposo la qualifica di negligente della condotta assume la funzione di ascrizione dell’evento. L’ordinamento cioè, in base a criteri di prevedibilità dell’evento e di pericolosità della condotta concreta, collega alla diligenza una funzione di descrizione della condotta e individualizzante della illiceità: è solo in tali casi che essa ha una funzione preventiva autonoma. In breve: solo nell’ambito della responsabilità colposa il dovere di diligenza ha una funzione descrittiva della condotta allo scopo di evitare, in base a criteri di prevedibilità ed evitabilità, che la stessa cagioni una lesione al bene protetto (47). Deve pertanto ritenersi illegittimo trasformare il dovere obiettivo di diligenza dalla sua originaria funzione di elemento concretizzatore e delimitante le fattispecie colpose al ruolo onnicomprensivo di indicare una misura renza fra dolo e colpa non sia di carattere ontologico (non potendosi questa basare sulla volizione, coscienza): tutta la distinzione riposa sulla diversa tecnica di tipizzazione adottata dalle fattispecie penali. Affermare questo vuol dire, però, in tal modo incorrendo in una aporia di carattere logico-sistematico, ammettere che il legislatore potrebbe, ove volesse, imputare a titolo di dolo un comportamento meramente colposo o, addirittura causato per dimenticanza, in tal modo non solo violando i principi di cui all’art. 27, primo e terzo comma, ma andando contro quella che è la natura delle cose. Tale impostazione deve quindi accogliersi con cautela; è pur vero che spetta al legislatore il potere di delineare quelli che sono gli esatti confini fra dolo e colpa, ma in tale delimitazione deve pur sempre rispettare quelli che sono i limiti costituzionali e della coerenza del dato ontologico. Così ciò che caratterizza le fattispecie colpose è un elemento normativo (la violazione di una regola cautelare) che assume rilevanza piena stante, in base all’analisi del dato positivo, la mancanza della volizione in tal tipo di reato. (45) Dell’avviso che il dovere di diligenza rilevi in tale sua funzione solo nei reati colposi cfr. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 357; PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 799; DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, p. 329; in Germania v. STRUENSEE, ‘‘Objektives Risiko’’ und subjektiver Tatbestand, in JZ, 1987, p. 541. (46) A ciò, infatti, si potrebbe semplicemente obiettare che nei testi di legge le definizioni dottrinali sono puramente capziose e si rivelano inopportune e comunque non vincolanti — cfr. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 58. (47) Su tali conclusioni si veda gli autori citati in nota 45.
— 239 — normativa generale, che determina il carattere permesso o meno di una qualunque condotta umana, sia anch’essa dolosa. Ciò che allora differenzia il dolo dalla colpa è che in quest’ultimo caso vi è la mera violazione del dovere di diligenza — e la condotta in quanto negligente provoca l’evento che la norma cautelare tendeva ad evitare —; nel reato doloso vi è in più, attraverso tale violazione, l’intenzione di provocare l’evento. Così, nel caso dell’autista, che non fermandosi allo stop, travolge l’ignaro passante si parlerà di colpa se l’evento morte non sia altro che la concretizzazione dell’evento che la norma di diligenza tendeva ad evitare — non sia altro, cioè, che la conseguenza di una condotta, appunto, negligente —; si imputerà l’evento, invece, a titolo di dolo se l’evento morte sia intenzionalmente perseguito o, comunque, sia previsto come certo o altamente probabile. In tale ultimo caso sarà indifferente che la condotta risulti negligente: ciò che interessa, in base a quanto sopra detto, è che l’evento sia ad essa collegato da un nesso di causalità. Diversa è invece la situazione nel caso di dolo eventuale. Si vedrà infatti come tale status soggettivo sia caratterizzato dalla violazione di regole cautelari. Violazione che, allo stesso modo della colpa assume una funzione essenziale (48). E, così, come nel caso di colpa con rappresentazione, anche nel caso di dolo eventuale della violazione della regola cautelare il soggetto dovrà essere consapevole — consapevolezza che, nel caso di dolo intenzionale e di dolo diretto, appare implicita o assorbita nell’appetizione dell’evento o dalla previsione della certezza del suo verificarsi. Nel dolo eventuale rileva invece la percezione di un rischio come abnorme situazione: percezione che è omologa alla colpa cosciente. Nel momento allora in cui il soggetto decide di agire, accettando il rischio, acconsentendo all’evento o prevedendo come probabile il verificarsi dell’evento, egli, come nel caso di colpa cosciente, non fa altro che passare all’azione (49). Dire pertanto, come fa una parte della dottrina (50), che il dolo sarebbe ricomprensivo degli elementi normativi propri della colpa — rectius, violazione del dovere di diligenza — perché esso presenta, come appunto dimostra la natura del dolo eventuale, la stessa base della colpa, più un quid pluris caratterizzato dalla volizione dell’evento o da sfumature assai più sottili, palesa la riluttanza della dottrina tradizionale ad abbandonare, sempre per motivazioni di carattere meramente sanzionatorio, la concezione del dolo eventuale. Nel momento in cui, infatti, si riconoscesse che anche in questo ambito il dovere di diligenza ha la stessa funzione che assume nell’ambito delle fattispecie colpose, risultando l’accettazione del rischio, il consenso, il desiderio... degli stati psicologici ‘‘effimeri’’, si dovrebbe giunger ad una conclusione necessaria: il dolo eventuale non è altro che un ‘‘doppione mascherato’’ della colpa cosciente (51). 4. Dolo e colpa come gradi della colpevolezza. — Messa in luce la diversa natura del dolo e della colpa deve, però, pur sempre riconoscersi a detti coefficienti un fondamento comune. Con il dolo e con la colpa, infatti, l’ordinamento, individua ‘‘quell’atteggiamento della volontà di fronte ai valori tutelati, che, in quanto si estrinseca in un fatto lesivo di essi, forma oggetto di rimprovero giuridico-penale’’ (52). Ed è appunto nella sintesi di questi due elementi — volizione e rimprovero giuridico-penale — che deve individuarsi la nozione del dolo e della colpa propria di un diritto penale della responsabilità (53): il dolo infatti consiste nell’aver fatto ciò che non si doveva fare; la colpa nel non aver fatto ciò che si doveva e poteva fare, insomma in una non-volizione. Appare chiaro, allora, come dolo e colpa non (48) Sul punto vedi infra § 17. Dello stesso avviso v. PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 90 ss. anche se l’autore pur partendo dalle stesse premesse giunge a conclusioni opposte affermando che il dolo eventuale sia pur sempre caratterizzato da un coefficiente volitivo. (49) Ma sul punto vedi più ampiamente § 17, 19. (50) Vedi PROSDOCIMI, op. ult. cit., p. 90-91. (51) Sul punto vedi infra § 19. (52) BRICOLA, Dolus, cit., p. 26. (53) BRICOLA, op. cit. loc.
— 240 — siano pure creazioni del mondo giuridico (54), potendo il legislatore combinare in modo diverso gli elementi delle due fattispecie in funzione di rimprovero giuridico-penale. Se dolo e colpa sono connaturati col rimprovero da muovere al soggetto agente; se esiste una differenza di grado tra la punibilità per dolo e quella per colpa; se il fatto doloso risulta punito più gravemente rispetto a quello colposo, deve allora concludersi che dolo e colpa sono gradi della colpevolezza (55). L’importanza di tale ultima affermazione è messa d’altronde in evidenza da quella parte della dottrina (56) la quale ritiene che riportare il dolo e la colpa alla colpevolezza come suoi gradi, ‘‘non solo restituisce succo e sangue a una categoria sistematica la cui problematicità è cresciuta di pari passo con il suo impoverimento contenutistico’’, ma sembra forse l’unica strada per bandire dal nostro ordinamento quelli che sono i retaggi delle primitive epoche passate (57) e che obbediscono alla vecchia logica del versari in re illicita. È noto, infatti, che la causazione di una qualsiasi offesa ad altri accompagnata dal dolo o dalla colpa esclude necessariamente la mera responsabilità oggettiva, dato che nel nostro ordinamento trova un sicuro riferimento positivo nelle disgiunte previsioni di cui all’art. 42 c.p. Ed infatti dolo e colpa, in obbedienza al dettato Costituzionale di cui all’art. 27, primo comma, così come ribadito dalla sent. n. 364 del 1988 C. cost. (58), costituiscono uno strumento di personalizzazione del reato differenziando il momento dell’imputazione in ragione di un attenuarsi della intensità della partecipazione soggettiva al fatto. In tal modo si individua un decrescente rapporto scalare ‘‘dal più al meno’’ (59) tra il dolo e la colpa e che nel nostro ordinamento si manifesta nella individuazione del dolo come criterio normale della responsabilità, nella maggior pena edittale comminata ai delitti dolosi rispetto a quelli colposi, nell’individuazione della colpa come requisito minimo della colpevolezza in obbedienza al carattere personale della responsabilità penale — letto anche alla luce dell’interpretazione che la Corte costituzionale ha fatto del principio di colpevolezza (60) —. Quindi, in un diritto penale caratterizzato dalla protezione dei beni giuridici, nel quale assolvono la funzione di fondare e graduare il rimprovero personale per la commissione di un fatto antigiuridico, il dolo e la colpa debbono essere ricostruiti come concetti diversificati che costituiscono espressione dell’idea di colpevolezza. Se dolo e colpa, almeno normalmente, sono caratterizzati da un passaggio scalare dal ‘‘più al meno’’ (Stufenverhältnis), non mancano ipotesi in cui la sovrapposizione delle cornici sanzionatorie sottolinea con particolare evidenza come in taluni casi alla criminalità colposa vada attribuita una gravità superiore rispetto alle forme più blande del dolo in modo da sottolinearne un maggiore disvalore (61). Questo fenomeno di sovrapposizioni sanzionatorie (54) Ritiene diversamente PAGLIARO per il quale si veda supra nota 44. (55) Dello stesso avviso BELING, Unshuld, Shuld und Shuldstufen, 1910, ristampa 1971, p. 29. (56) MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 39. (57) Molto efficacemente NUVOLONE — Antinomie, fossili e derivazioni nel codice penale italiano, 1961, ora in Trent’anni di diritto e procedura penale, I, p. 710 — li definisce residui dei ‘‘fossili di epoche passate’’. (58) Sui tanti lavori che si sono occupati della citata sentenza si vedano quelli — inclusi nel volume collettivo, Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, a cura di STILE, 1989 — di PULITANÒ, (Responsabilità oggettiva e politica criminale, p. 61 ss.), PALAZZO, (Ignoranzia legis vecchi limiti e orizzonti nuovi della colpevolezza, p. 149 ss.) e, infine, DE FELICE, (Giudizio di rimproverabilità ex art. 5 c.p. e colpevolezza del reo alla luce della sentenza della C. cost. n. 364 del 1988, p. 205 ss.). (59) Sul punto vedi SCHROEDER, Leipziger Kommentar, 21 Lief, Vor § 15, 1980, p. 6 ss. (60) Vedi supra nt. 58. (61) Sul punto vedi ENGISH, Die Einheit der Rechtsordnung, 1935, p. 59 ss.; ID., Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit, 1930 (ristampa 1964), p. 50, nt. 3; MARI-
— 241 — viene spiegato da parte della dottrina (62) come espressione di quelle ‘‘antinomie delle valutazioni’’ che caratterizzano un pò tutti gli ordinamenti moderni. Certamente il legislatore nella fissazione dell’ambito edittale della pena è guidato principalmente da finalità di carattere generalpreventivo, quali che siano le valutazioni di carattere etico o sociale che alla base di tale scelta possano sottostare, ed anche dalle finalità che il giudice dovrà perseguire in tema di comminatoria della pena nel caso concreto, e quindi di finalità di carattere retributivo e specialpreventivo (63). Invero il risultato che consegue al lavoro del legislatore nel dosaggio della pena, lavoro che viene basato su criteri e valutazioni che il più delle volte si rivelano complessi e di difficile e consapevole applicazione, risulta molto spesso diverso da quello che era l’intento originario a dimostrazione che il dosaggio della sanzione edittale sia difficilmente spiegabile sotto considerazioni razionali e sia facilmente ispirato da criteri almeno in parte casuali. Si deve quindi concludere che il nesso di continuità esistente a livello teorico tra dolo e colpa risulta spesso dissaldato da un punto di vista sanzionatorio. Se questo è il quadro risultante dall’analisi normativa nella individuazione del significato che il dolo e la colpa assumono nell’ambito del nostro ordinamento penale, appare allora spontaneo chiedersi quale sia la funzione del dolo eventuale e della colpa con previsione. La dottrina dominante ritiene che il dolo eventuale, lungi dal rappresentare un’ipotesi marginale di dolo (64), assume, in realtà, il ruolo di figura base dell’imputazione dolosa, perché in esso sono presenti i coefficienti del dolo nella forma essenziale (65). Affermare che il dolo eventuale è la figura base del dolo comporta che il giudice nell’ambito processuale debba, nella prova del dolo, dimostrare innanzi tutto l’esistenza del dolo eventuale, e provare successivamente quel quid pluris che differenzia le due figure. Che al giudice competa una tale incombenza, nell’accertamento del dolo, è stato da sempre contrastato da dottrina e giurisprudenza — lo dimostra d’altronde il massiccio uso che la giurisprudenza ha fatto dei criteri presuntivi —. Affermare poi che nel dolo eventuale si manifestano in modo essenziale quelli che sono i coefficienti psicologici del dolo non tiene conto del fatto che i coefficienti psicologici che sono normalmente utilizzati dalla dottrina per individuare il dolo eventuale evidenziano come quest’ultimo sia un quid che ben si differenzia dal dolo come è dimostrato d’altronde dalle critiche che tali criteri hanno subito nella diversificazione del dolo eventuale dalla colpa cosciente (66). Si deve inoltre tener conto del fatto che anche a livello sanzionatorio ‘‘il dolo eventuale non si pone necessariamente alla base del dolo’’ (67). Se infatti molte volte le cornici edittali del dolo e della colpa si sovrappongono, in modo tale che un fatto colposo potrebbe essere punito più gravemente rispetto ad un fatto doloso che lede lo stesso bene giuridico; se è vero, come ritiene la dottrina maggioritaria, che il dolo eventuale costituisce una ipotesi più grave della colpa cosciente che nel nostro ordinamento configura l’ipotesi aggravata della colpa, in tal modo potendosi sforare verso l’alto quello che è l’originario ambito edittale, deve allora concludersi che esiste una forma di dolo meno grave rispetto al dolo eventuale (68). La validità di tale affermazione viene spesso basata sul fatto NUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 34, nt. 94; di recente si è occupato ampiamente del problema PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 107 ss. (62) In particolare v. ENGISH, op. ult. cit. (63) Si veda in argomento T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 437 ss.; C.F. GROSSO, Illegittimità costituzionale delle pene eccessivamente discrezionali, Ibid., p. 1474 ss.; si veda inoltre per la dottrina Tedesca di riferimento PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 115, nt. (7) capitolo V. (64) In tal senso BRICOLA, Dolus, cit., p. 27, nt. 45. (65) Di tale avviso DE FRANCESO, Dolo eventuale, cit., p. 149. (66) Sul punto vedi infra § 6 ss. (67) PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 119. (68) In senso conforme a tale punto di vista v. I. PUPPE, Vorsatz und Zurechnung, Heidelberg, 1992, p. 74 ss., la quale ritiene come l’influenza di fattori estranei nella commisurazione della pena possa ben portare alla punizione del dolo eventuale in modo meno
— 242 — che chi agisce con dolo eventuale si rivela spesso più pericoloso di chi agisce con dolo intenzionale (69). Detto maggior disvalore lo si individua nel fatto che chi agisce con dolo eventuale ha mostrato un maggior eccesso di bisogni egoistici ed una maggiore deficienza di sentimento morale, perché la rappresentazione non di un solo danno, come avviene nel dolo intenzionale, ma bensì di due o più danni non è stata sufficiente da servire da controspinta per trattenerlo dall’agire. Anzi a questo si aggiunge che la maggior pericolosità di colui che agisce con dolo eventuale si manifesta nel fatto che il reo sia disposto a sacrificare un bene giuridico al sacrificio del quale non è addirittura interessato (70). Tale tipo dl ragionamento sembra trovare la sua base in quell’insegnamento di carattere criminologico secondo cui ‘‘a mano a mano che la personalità individuale della vittima perde d’importanza nella determinazione del delitto cresce la pericolosità del delinquente’’ (71). Affermare ciò dimostra l’errore che la dottrina fa nell’individuazione della natura del dolo eventuale. In tale ipotesi, infatti, il soggetto non decide di aggredire un bene al cui sacrificio non è interessato — ipotesi questa che si verifica nel caso di chi spara ad una folla di parsone all’impazzata — per il perseguimento di un fine che ben può essere lecito: ciò che causa la lesione del bene è il comportamento negligente del soggetto, e non può certo attribuirsi valore di maggior pericolosità a chi invece non pone come fine del suo agire l’evento che provoca. Deve quindi arguirsi che la gravità del dolo eventuale è la stessa che caratterizza la colpa con previsione. Se ciò è vero, a conclusione di tale excursus deve concludersi che dolo eventuale e colpa cosciente da un punto di vista sanzionatorio, in quanto non solo rappresentativi di un medesimo disvalore penale, ma — come si vedrà infra — fenomeni caratterizzati da una stessa identità concettuale, hanno nell’ambito del nostro ordinamento penale, in specie colpevolezza, una medesima funzione: non di raccordo tra dolo e colpa — si è visto infatti come questi sono molto spesso scollegati —, ma di individuare quella che risulta l’ipotesi più grave di colpa che è positivizzata nel nostro ordinamento all’art. 61 n. 3 c.p. 5. In particolare: ratio della maggiore gravità del dolo. — È interessante vedere come l’analisi di carattere sanzionatorio del dolo e della colpa assuma un ruolo fondamentale, non solo per il loro inquadramento nell’ambito della colpevolezza, ma anche per individuarne una diversa natura basata sulla comprensione di quali circostanze o situazioni debbono ritenersi dolose e quali colpose. Infatti il confine fra dolo e colpa non può essere deciso in virtù di una natura pre- oppure extrapenale del dolo oppure della colpa ‘‘di per sé’’, bensì secondo la logica normativa che è alla base del trattamento penale delle costellazioni dolose e colpose; ‘‘ciò che deve essere considerato già doloso oppure ancora colposo, può essere stabilito in modo fondato solo in base alla ratio dell’incriminazione accentuata del dolo’’ (72). Deve, infatti, partirsi dal presupposto che, a parità di nocumento oggettivo, il legislatore punisce i fatti colposi in misura inferiore rispetto ai fatti dolosi, differenza che può giustificarsi in ragione ‘‘della differenza di colpevolezza che contraddistingue dolo e colpa’’ (73). In questa visione il dolo non è un mero criterio di attribuzione della responsabilità per un fatto angrave rispetto alla colpa con previsione pur essendo il dolo eventuale piu grave della colpa cosciente. (69) In tal senso molto chiaramente DELOGU, La teoria dell’intensità del dolo, in Ann. dir. proc. pen., 1935, 863 ss.; PADOVANI, Il grado della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 861 ss. (70) Su tale ultima affermazione v. PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 121. (71) Così NUVOLONE, Il sistema di diritto penale, 2a ed., Padova 1982, p. 104. (72) HASSEMER, Caratteristiche del dolo, in Indice pen., 1991, p. 487, dello stesso avviso v. ROXIN, Zur Abgrenzung von bedingtem Vorsatz und bewusster Fahrlässigkeit, in JuS, 1964, ripubblicato su Strafrechtliche Grundlagenprobleme, 1973, p. 222 ss.; STRATENWERTH, Strafrecht. Allg. Teil, Köln, Heynmanns, 3. Aufl., 1981, n. 251. (73) ROXIN, Einige Bemerkungen zum Verhältnis von Rechtsidee und Rechtsstoff in der Systematik unsere Strafrechts, in Gedächtnisschrift für Gustav Radbruch, 1968, 266.
— 243 — tigiuridico commesso, bensì il primario autonomo portatore del disvalore penale, ‘‘rispetto al quale la condotta esteriore può arrestarsi anche allo stadio del tentativo inidoneo, perché svolge il sintomo della volontà delittuosa da reprimere’’ (74). La ratio della maggior gravità del dolo rispetto alla colpa viene spiegata da una recente impostazione della dottrina tedesca (75) in un approccio unitario tendente al superamento degli orientamenti sia cognitivi che volitivi e consistente nella ‘‘presa di posizione rispetto ai beni giuridici’’ (76). Tale presa di posizione consiste rispetto al dolo nella ‘‘decisione a favore della violazione di un bene giuridico’’ (77) o secondo altro punto di vista nella ‘‘negazione esplicita dello stato protetto normativamente da una norma di diritto penale da parte dell’individuo che agisce’’ (78). Volendo precisare: la differenza sostanziale nell’imputazione di un fatto a titolo di dolo o di colpa consiste nel vedere se il reo si è deciso oppure no per la possibile realizzazlone della fattispecie in quanto solo nel dolo il reo decide di agire contro il bene giuridico, ed è appunto in questo che si giustifica la previsione del dolo quale forma più grave della colpevolezza. Quindi, nell’individuazione della natura del dolo, se da una parte si rinuncia alle caratteristiche cognitive e volitive dello stesso dall’altra, focalizzando l’analisi in una visione del diritto penale orientata alla tutela dei beni giuridici, ne si individua un nuovo fondamento: il dolo viene inteso come decisione, in tal modo collocandolo nel più intimo del soggetto agente. Una descrizione del dolo come decisione contro il bene giuridico oppure come personale acquisizione del fatto di reato ‘‘va nella giusta direzione in quanto coincide con la logica normativa dell’accentuata incriminazione del dolo’’ (79). In particolare, il dolo rappresenta una maggiore partecipazione interiore all’accadimento esteriore: in tal modo il concetto di decisione viene individuato nel rapporto di tali due componenti. Questo tipo di impostazione se è esatto nelle sue premesse — la maggior gravità del dolo rispetto alla colpa deve infatti essere spiegata nel fatto che solo il primo è caratterizzato da un coefficiente di appetizione dell’evento —, presenta degli inconvenienti nel momento in cui si afferma (80) che l’incriminazione accentuata del dolo è giustificata non solo dalla violazione del bene giuridico ma dalla decisione del reo di agire contro la norma che prescrive di rispettare il bene stesso. Dire che il dolo è caratterizzato dalla decisione di porre in essere un comportamento contrario alla norma presuppone che essenza dello stesso — in tal modo accogliendo gli insegnamenti della Vorsatztheorie — sia la conoscenza del divieto penale, rectius coscienza dell’illiceità... Esiste però nel nostro ordinamento uno sbarramento di carattere positivo — l’art. 5 c.p. il quale afferma che l’ignoranzia legis non escusat — secondo il quale, per esigenze di politica criminale, per aversi un autentico dolo è sufficiente — dopo l’interpretazione che la Corte costituzionale ne ha fatto — la conoscibilità della legge penale: questo per evitare l’assurdo di non ritenere in dolo chi, pur ignorando la norma, decide volontariamente di aggredire il bene, ed è pur consapevole del disvalore del proprio comportamento (81). In un diritto penale che, come il nostro, è caratterizzato dalla tutela di beni giuridici, nell’in(74) Così MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 31. (75) Sul punto v. HASSEMER, Caratteristiche, cit., p. 488 ss. (76) ENGISH, Untersuchungen, cit., p. 177. (77) ROXIN, Einige, cit., p. 224; STRATENWERTH, Strafrecht, cit., n. 255. (78) SCHROTH, ULRICH, Die Rechtsprechung des BGH zum Tötungsvorsatz in der Form des ‘‘dolus eventualis’’, in NStZ, 1990, p. 324 ss. il quale intende il concetto di ‘‘negazione’’ come appropriazione del fatto costitutivo di reato. (79) Così HASSEMER, op. ult. cit.; ID., Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, München, 1981, p. 203. (80) HASSEMER, op. ult. cit.. (81) Sul problema della coscienza dell’offesa nella nozione del dolo GALLO, voce Dolo, cit., p. 781; ID., Il dolo cit., p. 176, BRICOLA, Dolus, cit., p. 94; VENDITTI, voce Dolo, in Nuov. Dig. it., VI, 1960, p. 199; NUVOLONE, Il sistema, cit., p. 272; nella manualistica v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pt. gen., p. 317; MANTOVANI, Diritto pen., cit., pt. gen., p. 325; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. gen., Milano, p. 319.
— 244 — quadramento del dolo e quindi della sua maggiore gravità rispetto alla colpa, si deve tener conto esclusivamente del maggior pericolo per i beni giuridici originato dal reo doloso nel comportamento del quale deve rinvenirsi una maggiore e più complessa intensità lesiva che dimostra — riprendendo le parole di un eminente autore — ‘‘da un lato eccesso di bisogni egoistici, e dall’altro rivela una deficienza di sentimento morale o simpatetico’’ (82). Con questo si intende affermare che, se il dolo è espressione, come d’altronde lo è anche la colpa, dell’idea di colpevolezza (83), esso va ricostruito in coerenza con tale sua caratteristica consistente appunto nel fondare e graduare la colpevolezza stessa. E se il dolo incarna la forma più intensa di signoria dell’uomo sul fatto offensivo da lui realizzato — connotato che autorizza il rimprovero personale più marcato — esso avrà una struttura incomprensibilmente impoverita, qualora si riducano i profili psicologici del dolo alla mera rappresentazione: questo non vuol dire soltanto decurtare drasticamente la sfera dei parametri soggettivi rilevanti, ma altresì svalutare in modo essenziale il significato di quest’ultimi nel quadro del giudizio di colpevolezza (84). Alla semplice rappresentazione è ricollegabile solo un atteggiamento interiore in sé e per sé equivoco: passare, infatti, dalla non-rappresentazione — tipico della colpa incosciente — allo stadio della rappresentazione costituisce il presupposto essenziale ed indispensabile di una consapevole ponderazione dei beni che una condotta potrebbe ledere, rendendo possibile una rinuncia alla medesima o, quantomeno, l’adozione di comportamenti meno pericolosi (85). È solo la volontà di agire, sussistente la rappresentazione di conseguenze illecite (86), che rende quest’ultima rilevante sotto il profilo della colpevolezza e permette di cogliere nella sua esatta natura la maggiore gravità del dolo. Se il soggetto agente è soltanto informato sulla situazione concreta, se ha soltanto la corretta rappresentazione della pericolosità della sua azione od omissione non dice ancora nulla sul significato dell’atteggiamento interiore del soggetto in quanto risulta dato troppo vago ed insufficiente: sono infatti radicabili non solo il dolo sotto le sue varie forme, ma la stessa colpa aggravata. Per aversi dolo, giustificando pertanto un trattamento più rigoroso, occorre che il soggetto non solo deve essere informato sul pericolo che incombe sul bene giuridico, e neppure deve limitarsi ad accettarlo in quanto tale accettazione non costituisce altro che un proposito di agire — che in obbedienza al principio di materialità del diritto penale non deve mai mancare (87) —: egli deve utilizzare la consapevolezza della situazione di pericolo in cui versa il bene — situazione che può essere stata creata anche dallo stesso soggetto — come base del suo agire, deve cioè decidere per la lesione del bene giuridico in modo da soddisfare quello che è il suo intento.
B) INDIRIZZI ED ELABORAZIONI IN TEMA DI DIVERSIFICAZIONE TRA DOLO E COLPA. 6. Individuazione del dolo eventuale come figura di confine tra dolo e colpa. — Importante ed ineliminabile passo da effettuare nel corso della nostra analisi, affinché questa si (82) DELOGU, Intensità del dolo, cit., p. 863. (83) Così MARINUCCI, Il reato come azione, cit., p. 153 nt. 75. (84) In senso conforme EUSEBI, In tema, cit., p. 1070; ID., Il dolo, cit., p. 175 ss., MAURACH-ZIPF, Strafrecht, A.T., 6a ed., I, Heidelberg, 1983, p. 292. (85) Sul punto v. EUSEBI, op. ult. cit. (86) Deve tenersi presente che il significato di aggressione al bene giuridico tutelato si disperde in mancanza di consapevolezza della situazione esistente e dei suoi possibili sviluppi: in tal senso la volizione del soggetto avrà un suo significativo disvalore in quanto si radichi in una rappresentazione effettiva e non in una mera rappresentazione ai margini della coscienza. (87) Si tenga infatti presente che anche chi agisce con colpa cosciente — si pensi al caso del lanciatore di coltelli esperto — accetta di agire nella situazione di pericolo in cui versa il bene giuridico solo che in questo caso manca la decisione di ledere il bene manca cioè la volizione del fatto tipico.
— 245 — riveli esauriente e ci permetta una migliore comprensione del binomio che stiamo analizzando, è quello dell’esame dei risultati cui è pervenuta la dottrina e la giurisprudenza nella individuazione del confine tra dolo e colpa. Se infatti la previsione dell’evento è uno stato psicologico compatibile con un rimprovero per colpa, diviene problematico stabilire la responsabilità soggettiva per quei fatti previsti ma non presi direttamente di mira. Che quelli presi direttamente di mira siano imputabili a titolo di dolo, siano essi previsti come certi o come solo possibili, lo dimostra lo stesso tenore letterale dell’art. 43 c.p. E lo stesso vale per gli eventi previsti come certi o come altamente probabili anche se non presi direttamente di mira: la dottrina e la stessa giurisprudenza è concorde nel ritenere che essi rientrino nel dolo. Né, infine il problema si pone per gli eventi non previsti in quanto la loro imputazione può avvenire solo a titolo di colpa incosciente. Il problema sorge in tutta la sua difficoltà per quei casi nei quali il soggetto agente prende di mira un determinato risultato, sia esso lecito o penalmente illecito, ma con la previsione che al posto di quello od oltre a quello se ne possa verificare, come in effetti accade, altro penalmente illecito. L’azione, in un tale frangente, non mirava tanto alla produzione dell’evento realmente verificatosi, il quale presentava per l’agente poca o nessuna utilità, ma alla produzione di un evento diverso atto a soddisfare i suoi intenti. Il fatto però che il soggetto, nonostante la previsione dell’evento, abbia agito comunque, dimostrando in tal modo una avversione verso il bene giuridico leso ha portato alla endemica riluttanza della dottrina e della giurisprudenza ad ammettere che in tale ipotesi il reo versi in uno stato di negligenza. Ed è appunto nell’intento di riportare tale condotta nella ‘‘morsa’’ del dolo che è stata elaborata la dottrina del dolo eventuale. In particolare la dottrina del dolo eventuale si è sviluppata in Germania ed in quanto forma spuria di dolo, in cui gli stessi coefficienti psicologici tendono a perdere una loro consistenza naturalistica, essa ha alimentato la polemica tra teoria della rappresentazione e teoria della volontà, nella costruzione del concetto di dolo (88). Infatti ognuno dei sostenitori dell’una o dell’altra teoria si ingegnava di riportare il concetto di dolo eventuale ai postulati della propria tesi. In epoca contemporanea, la nozione del dolo eventuale (eventualler o bedingter Vorsatz) è venuta delineandosi secondo uno schema logico metodologicamente ben noto alle scienze giuridiche: precisamente esso è stato oggetto di una costruzione in negativo rispetto alla figura complementare della colpa cosciente (bewusste Fahrlässigkeit) (89). In tal modo i termini del dibattito sono venuti appuntandosi sull’elemento discretivo fra le due figure in questione. Anzi a questo si aggiunge che l’indagine sopra il dolo eventuale e la colpa con previsione ‘‘è assai utile e rivelatrice, giacché, ponendosi sul punto di confine fra dolo e colpa, consente di cogliere con maggiore immediatezza accanto alle differenze, anche quanto vi è di comune’’ (90). In tal modo si viene ad individuare il dolo eventuale non solo come figura base del dolo (91), ponendosi in tal modo al livello inferiore della responsabilità dolosa, ma come ipotesi che segna il confine tra dolo e colpa. In altri termini si è giunti alla conclusione che l’individuazione con esattezza dei confini del dolo eventuale, e naturalmente della colpa cosciente, permetta di inquadrare con altrettanta chiarezza il discrimine tra dolo e colpa: se infatti la colpa con previsione costituisce la forma aggravata di colpa, in tal modo ponendosi al vertice della responsabilità colposa, e se il dolo eventuale è individuato come, almeno da un punto di vista concettuale, un quid maius rispetto alla colpa con previsione, costituendo esso la figura base del dolo, l’individuazione della sua natura permette di capire da una parte il (88) Sul punto PANNAIN, Manuale di diritto penale, 4a ed., Torino, 1967, p. 376. (89) Nella dottrina italiana, per una recente indagine in tal senso v. DE FRANCESO, Dolo ev., cit., p. 113 ss.; LICCI, Dolo eventuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, p. 1498 ss. (90) Così PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 94. (91) DE FRANCESCO, Dolo ev., cit., p. 149, il quale afferma che il dolo eventuale rappresenta la forma base del dolo in quanto in esso sono presenti i coefficienti psicologici del dolo nella loro dimensione essenziale; per una critica a tale impostazione vedi supra § 4. Di diverso avviso v. BRICOLA — Dolus, cit., p. 27 nt. 45 — il quale ritiene invece che il dolo eventuale costituisce, in realtà, solo una figura marginale.
— 246 — concetto minimo di dolo e dall’altra quello che non è la colpa (92). Ed è appunto in questo senso che vengono rivolti gli sforzi della dottrina: va sottolineato come la grande maggioranza degli autori che si è occupata dell’argomento si sia limitata a proporre più o meno raffinati criteri di carattere pslcologico per delimitare dolo eventuale e colpa cosciente in rapporto all’atteggiamento dell’agente nei confronti dell’evento del reato. È necessario però tener presente come il punto nel quale si faccia cadere l’estremo confine del dolo dipende entro certi limiti, non da ragioni assolute, immutabili, bensì da una scelta di politica criminale, improntata a criteri di maggiore o minore rigorismo, che può variare a seconda del periodo storico e dell’ordinamento preso in considerazione (93). Insomma, per dirla con un noto autore tedesco (94), le questioni concernenti il dolo ‘‘non si possono discutere ontologicamente, bensì soltanto su un piano deontologico, essendo aperte alle aspettative di giustizia che storicamente sono in continuo mutamento’’. 7. Insufficienza dei criteri distintivi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’ambito del dibattito tra teoria della rappresentazione e teoria della volontà. — La dimensione che al dolo eventuale è stata attribuita dalla dottrina contemporanea è il risultato di quella linea di sviluppo i cui profili si articolano nell’ambito del dibattito che vede opporsi un duplice ordine di dicotomie attinenti rispettivamente all’interpretazione forte o debole dell’art. 43 c.p.: il dolo come volontà o come mera rappresentazione. Questo tipo di impostazione sembra riprendere le fila della controversia fra Willenstheorie e Vorstellungstheorie che vedeva il suo apice più acceso agli inizi del secolo (95). Il presupposto teorico della teoria della volontà è di carattere schiettamente psicologico: l’oggetto della volontà è la mera attività fisica, mentre le conseguenze di questa possono solo essere rappresentate (96). Per contro, la teoria della volontà sottolinea come l’azione non sia che il mezzo preordinato ad uno scopo, per cui elemento ineliminabile del volere è il risultato (97). Se la teoria della rappresentazione e la teoria della volontà, nell’individuare il concetto di dolo, si pongono in netta contrapposizione in quanto ognuna ancorata alla propria posizione, è proprio nel distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente che hanno mostrato i propri rispettivi limiti e la necessità di una reciproca integrazione. La prima infatti non riesce a spiegare come mai anche la colpa possa essere accompagnata dalla previsione dell’evento, in tal modo venendosi a sovrapporre le due forme di colpevolezza: ed in questo senso si spiega come mai il criterio elaborato dal maggior sostenitore della teoria della rappresentazione (98) nell’individuazione del dolo eventuale, pur poggiandosi sopra un momento rappresentativo e ricollegandosi ad una concezione del dolo come rappresentazione certa del fatto, non si esaurisce in essa (99). La seconda, invece, si trova in difficoltà nel momento in cui intende ascrivere al concetto di volontà conseguenze che l’agente non aveva intenzione di cagionare e rispetto (92) Di diverso avviso v. PROSDOCIMI — op. ult. cit. — il quale ritiene che tale indagine può portare a risultati positivi solo da un punto di vista concettuale. Egli, infatti, a seguito di una analisi delle rispettive cornici sanzionatorie dei reati colposi e dolosi mette in evidenza come, la sovrapposizione sanzionatoria delle rispettive cornici ponga al limite del dolo e della colpa non più il dolo eventuale ma altre forme di dolo che sono rispetto a questo punite meno severamente. Per la nostra critica alla individuazione del dolo eventuale come figura di confine vedi § 4, 17, 19. (93) Condivide tale nostro punto di vista PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 2. (94) HASSEMER, Caratteristiche, cit., p. 485. (95) Sul punto, nella dottrina italiana, v. soprattutto DE MARSICO, Coscienza e volontà nella nozione di dolo, Napoli, 1930; nella dottrina tedesca v. ENGISH, Untersuchungen, cit., p. 126 ss. (96) FRANK, Das Strafgesetzbuch für das deutche Reich, 1926, p. 172 ss. (97) VON HIPPEL, Die Grenze von Vorsatz und Fahrlässigkeit, 1903, p. 93 ss.; BELING, Die Lehre vom Verbrechen, Tübingen, Mohr, 1906, p. 194 ss. (98) Si fa riferimento alla formula di FRANK per la quale vedi infra § 8. (99) Di tale avviso PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 10.
— 247 — alle quali una volontà, tanto più se intesa in senso prettamente naturalistico, sembra mancare. Deve comunque tenersi presente che, in via approssimativa, alla teoria della rappresentazione sono ricollegati criteri che muovono dal grado del verificarsi dell’evento, e quindi dal grado di serietà e di concretezza del pericolo ricollegato dall’agente alla propria condotta, mentre alla teoria della volontà fanno capo criteri che si basano, in realtà, più che sul dogma della volontà, su stati d’animo che coinvolgono la sfera dei desideri e delle speranze. Unità di vedute esiste soltanto rispetto al momento conoscitivo del dolo eventuale: occorre cioè, come requisito minimo, che l’agente preveda la concreta possibilità del verificarsi dell’evento lesivo. Ma ciò basta ai fini della configurabilità del dolo eventuale? Risponde in senso affermativo la teoria della probabilità (100) secondo la quale il dolo eventuale, a differenza della colpa cosciente, si avrebbe allorquando l’agente ha previsto come più probabile il verificarsi del non-verificarsi dell’evento (101). Si tratta di criterio che, se non molto seguito dalla dottrina italiana, è, al fondo, assai verosimilmente utilizzato nella prassi giudiziaria (102). Infatti la stessa ritiene di imputare il fatto a titolo di dolo eventuale se il verificarsi dell’evento è previsto come probabile anche se sussiste uno stato di dubbio, e lo stesso se l’evento è previsto come possibile; sussiste invece la colpa cosciente se la suddetta previsione viene superata dal convincimento che l’evento non si verificherà (103). Detto criterio è stato ampiamente criticato dalla dottrina italiana in quanto esso non offre un ausilio decisivo nella individuazione del concetto di dolo eventuale. Si deve infatti tener presente che se l’agente agisce prevedendo come probabile o seriamente possibile il verificarsi dell’evento, e purtuttavia corra tale serio rischio egli versa in realtà in colpa cosciente nel momento in cui tale evento non sia effettivamente voluto, ma solo cagionato da negligenza (104). Se infatti il criterio della probabilità sarà idoneo a distinguere il dolo diretto dalla forma eventuale (105), esso risulta fallace nel momento in cui pretende di distinguere quest’ultimo dalla colpa cosciente essendo queste figure accomunate dalla previsione positiva dell’evento. In tal modo esso finisce col limitare eccessivamente l’ambito della colpa e dilatare il concetto di dolo fino a riassorbire completamente le ipotesi di colpa cosciente: in tal modo si trova in contrasto stridente con il nostro diritto positivo, che disciplina espressamente tale figura (106). A questo (100) Ritieniamo in questa sede di non far riferimento alla teoria della possibilità in quanto essa concettualmente si identifica con quella della probabilità. Afferma infatti DI LORENZO — I limiti tra dolo e colpa, cit., p. 50 — che la differenza tra possibilità e probabilita è solo di carattere quantitativo essendo il probabile non altro che ‘‘il possibile che normalmente avviene’’. Se è vero che chi agisce malgrado la previsione dell’evento come probabile, dimostra una potenzialità criminosa più intensa di colui che si raffigura una semplice possibilità, questo prova che ci troviamo unicamente difronte a ‘‘differenze di graduazione e non di categoria. Vale a dire, depone non a favore, ma contro la teoria della probabilità’’ — così M. GALLO, voce Dolo, cit., p. 791 —. (101) Vedi JAKOBS, Strafrecht, Alpgemeiner Teil, Berlin, New York, 1983, 269 ss., il quale parla di ‘‘non improbabilità’’; LUCAS, Die subjective Verschuldung, Berlin, 1883, p. 108 ss., il quale afferma che sono dolosi gli eventi ‘‘previsti come probabili e quelli ritenuti come possibili allorché il loro sviluppo sia mentalmente collegato al decorso normale degli avvenimenti’’. Vedi per gli altri autori ENGHISH, Untersuchungen, cit., p. 233 ss.; per la dottrina italiana v. DI LORENZO, I limiti, cit., p. 81 ss. Di recente ha affermato l’idea di ‘‘rinascita’’ della teoria della probabilità, I. PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, in ZStW, 1991, p. 18 ss. (102) Cass., I, 12 gennaio 1985, in Giust. pen., 1985, II, 714; Ass. App. Genova, 21 dicembre 1965, in Foro it., 1966, II, c. 466; Cass., V, 17 gennaio 1981, in Cass. pen., 1982, 1298. (103) Per ulteriori riferimenti v. TASSI, Il dolo cit., p. 13 ss. (104) In tal senso PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 43. (105) Ritiene DI LORENZO — I limiti, cit., p. 50 — che tra la certezza e la probabilità la differenza è di carattere ontologico. (106) PAGLIARO, Principi, cit., pt. gen., p. 270.
— 248 — si aggiunge poi, da parte di eminente dottrina (107), che ‘‘nessuno vorrà sostenere che la distinzione tra dolo e colpa, tra due concetti, cioè, che danno luogo a due forme di imputazione radicalmente diverse, possa avvenire sulla base di criteri puramente quantitativi’’, mentre pare più legittimo che il problema venga impostato su un terreno qualitativo. Senza contare poi che le difficoltà, praticamente insormontabili, di accertamento di concetti di probabilità, possibilità imporrerebbero al giudice un’indagine di fatto inuattabile. L’elemento della probabilità può valere, tutt’al più, come significativo indizio della presenza del dolo eventuale (108), essendo necessario, per distinguere tale figura dalla colpa cosciente, un elemento ulteriore e consistente nella volizione dell’evento (109). Ma se volizione dell’evento significa perseguimento dello stesso ‘‘deve escludersi la configurabilità del dolo eventuale nel momento in cui l’agente, nella scelta dei mezzi e delle modalità di esecuzione, adegua la propria condotta al proposito di evitare l’evento collaterale; giacché volontà di realizzazione e volontà, manifestata con atti concludenti, di evitare un determinato risultato sarebbero termini che si escludono vicendevolmente’’ (110). A tale impostazione si obietta (111), però, come non sia sufficiente, per escludere il dolo, il mero attivarsi per rendere meno pericolosa la propria azione, quasi a ricompensarlo per questo suo adoperarsi: il proprio agire resta pur sempre pericoloso e ‘‘quindi con cattiva volontà’’. L’azione volta ad evitare non sempre corrisponde ad un atteggiamento conforme al diritto, ma può, altresì, essere il risultato di una strategia criminale (112). A queste obiezioni che, in sostanza, evidenziano come il criterio elaborato da Kaufmann finisca con l’escludere dal dolo condotte che andrebbero in esso ascritte, intendiamo aggiungere l’ulteriore rilievo che risulta eccessivo attribuire il dolo a quei soggetti che agiscono senza manifestare una condotta ‘‘tesa ad evitare’’ in quanto nella situazione concreta non ne avevano la possibilità o non hanno fatto seriamente i conti con la possibilità di causare l’evento. In realtà ciò che contraddistingue la colpa cosciente è la causazione dell’evento a seguito dell’inosservanza delle regole di diligenza: nel momento in cui, si richiede invece un atteggiamento particolarmente attento, accurato, caratterizzato dall’adozione di particolari cautele, si giunge ad un controsenso (113). Deve quindi concludersi che, se per la sussistenza del dolo occorre un quid pluris rispetto alla colpa, questo non può essere certo individuato nella mancata adozione di misure volte ad evitare l’evento. 8. Un particolare sguardo alla teoria degli stati affettivi e alla teoria del consenso. — Ci si deve allora chiedere se, una volta individuato nella volizione l’elemento caratterizzante del dolo rispetto alla colpa, sia sufficiente ad escludere il primo una pura presa di distanze sul piano psicologico dall’esito del proprio agire (114). Si fa in particolare riferimento al ricorso, da parte della dottrina, a stati affettivi come la speranza, il desiderio, la fiducia, nella delimitazione tra dolo eventuale e colpa cosciente (115). È interessante vedere come la giurisprudenza non molto recente abbia posto al cardine della distinzione tra dolo eventuale e (107) GALLO op. ult. cit., p. 791. (108) DE FRANCESCO, La proporzione nello stato di necessità, Napoli, 1978, p. 142; MANTOVANI, Diritto penale, cit., pt. gen., 330; PROSDOCIMI, op. ult. cit., p. 43. (109) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pt. gen., p. 322. (110) Così ARM. KAUFMANN, Der dolus eventualis im Deliktsaufbau, in ZStW, 1958, p. 64 ss. Rileva PROSDOCIMI — op. ult. cit., p. 15 — che fra la teoria di Kaufmann e la categoria del rischio non ‘‘schermato’’ elaborata da HERZBERG — Die Abgrenzung von Vorsatz und bewusster Fahrlässigkeit. Ein Problem des objectiven Tatbestandes, in JuS, 1986, p. 249 ss. — vi sono notevoli affinità. Per quest’ultima elaborazione v. infra 12. (111) HASSEMER, Caratteristiche, cit., p. 484. (112) Op. ult. cit. (113) Per tale ultima obiezione v. PROSDOCIMI, op. ult. cit., p. 17. (114) Su tale rilievo v. HRUSCHKA, Strafrecht nach logisch-analytischer Methode, 2o ed., Berlin, New York, 1988, p. 192. (115) Si veda in argomento, VON HIPPEL — Die Grenze, cit., p. 498 ss. — il quale ri-
— 249 — colpa cosciente elementi di carattere essenzialmente emotivo che sembra si rifacciano alla teorica su menzionata (116). Si è così affermato che esclude il dolo eventuale la speranza seria nutrita dal soggetto agente che l’evento collaterale a quello preso direttamente di mira non si verifichi quando la realizzazione dello stesso sia al soggetto indifferente (117). Occorre, però, tener presente che, se tali criteri sono indicativi di quello che è l’interesse del reo rispetto all’evento cagionato, essi, nel momento in cui pretendono di fondare la distinzione tra dolo e colpa, peccano per difetto di fondazione: non viene chiarito, infatti, come mai si possa definire il dolo come volontà criminosa e poi ammetterlo sulla base di entità psichiche diverse, presentandosi in tal modo contraddittoria la definizione di dolo eventuale (118). Deve tenersi presente che ‘‘l’indifferenza’’ e il ‘‘non-disvolere’’ le conseguenze previste sono condizioni psichiche che si esauriscono in una mancanza di attività della sfera volitiva, mentre la colpevolezza dolosa richiede un atto della volontà stessa, la quale, ‘‘illuminata dalla conoscenza, si dirige alla realizzazione di un evento, sia pur subordinatamente ed incondizionatamente; ed in quanto si dirige all’evento si denomina intenzione’’ (119). A questo si aggiunga che provare la consistenza degli stati affettivi cui si fa riferimento significa penetrare nel foro interiore dell’agente, il che è impresa davvero ardua, che diventa impossibile quando essa tende all’accertamento del grado degli stessi al fine di stabilire quando essi furono decisivi al compimento dell’azione (120). Applicando, poi, rigorosamente il suddetto criterio, dovrebbe giungersi all’assurda conseguenza di ecludere il dolo in chi, pur prevedendo come certo il verificarsi dell’evento, spera o desidera che esso non avvenga (121). Ma, anche senza prendere in considerazione questa ipotesi limite si è posto in evidenza come la speranza non escluda il dolo specie quando l’evento collaterale rappresenti il fallimento del piano principale (122). Al di là della bontà di tali obiezioni deve comunque tenersi presente che la sussistenza di stati affettivi espone il soggetto ad una più facile violazione delle norme di diligenza. Si deve infatti tener presente che colui che spera che l’evento previsto non si vetiene che vi è dolo eventuale se l’agente preferisce la realizzazione dell’evento alla rinunzia del perseguimento del proprio interesse; mentre vi e colpa cosciente quando la speranza del non verificarsi dell’evento antigiuridico fu decisiva ad intraprendere l’azione. Hanno adottato fra gli altri il criterio degli stati affettivi: CARRARA, Programma di diritto criminale, vol. 1, 1877, p. 83; LISZT, Leherbuch des detschen Strafrecht, 1911, p. 177 ss.; LIEPMANN, Einleitung in das Strafrecht, Berlin, 1900, p. 149; NOWAKOWSKI, Zu welzels Lehre von der Fahrlässigkeit, in JZ, 1958, p. 338. Afferma l’affinità di tali teoriche con la teoria dell’indifferenza, secondo la quale si avrebbe dolo eventuale quando il soggetto agente ha mostrato indifferenza al verificarsi dell’evento, DI LORENZO, I limiti, cit., p. 90 ss. (116) Si veda ad es. Cass., II, 18 luglio 1934, in Giust. pen., 1935, 730, Cass., III, 29 marzo 1968, in Cass. pen., 1969, 211; Cass., I, 20 novembre 1970, in Giust pen., 1972, II, 271. (117) È stata così ravvisata la colpa cosciente nel caso del guardiacaccia che, nell’intento di fermare una macchina in fuga, esploda in basso un colpo di fucile che, per rimbalzo, attinga al lunotto posteriore di essa uccidendo uno dei viaggiatori, pur prevedendosi in concreto da esso agente che, per lo stato sconnesso del luogo, per la conseguente eccessiva mobilità del bersaglio e per l’imprecisione tecnica dell’arma, si sarebbe potuto produrre un evento letale, ma auspicando che questo non avesse a realizzarsi — Cass., I, 17 dicembre 1971, in Cass pen., 1973, 232. Deve però tenersi presente che non è tanto lo scongiurare il verificarsi dell’evento ad escludere il dolo quanto il fatto che il soggetto abbia, con la propria condotta, violato le regole di diligenza che nel caso concreto gli prescrivevano un comportamento più attento. (118) Di tale avviso PAGLIARO, Principi, cit., pt. gen., p. 270. (119) Così, DI LORENZO, op. ult. cit., p. 85. (120) Cfr. DE MARSICO, Coscienza, cit., p. 154. (121) Così. M. GALLO, Dolo cit., p. 791. (122) Vedi a tal proposito PROSDOCIMI — Dolus cit., p. 43 ss. — il quale fa l’esempio dell’imprenditore il quale ponga in circolazione prodotti adulterati, a seguito di una opzione con la quale lo scopo di lucro è stato consapevolmente anteposto alla probabile causazione di danni all’integrità fisica dei consumatori: l’A. afferma che l’agente debba rispondere per
— 250 — rifichi non prende seriamente in conto tale eventualità, omettendo in tal modo di prendere le cautele necessarie. In tal modo, connotato essenziale della colpa resta la violazione delle regole di diligenza e non certo la presenza di evanescenti stati affettivi che nulla hanno a che fare con la stessa. Se allora una pura presa di distanze dall’evento non esclude il dolo — quantomeno nei termini prospettati dalla teoria degli stati affettivi —, in quanto le definizioni in negativo non possono che rivelarsi fallaci, più interessante e produttivo è stato il tentativo, operato dalla dottrina tedesca di individuare un quid pluris che caratterizzerebbe il dolo eventuale rispetto alla colpa cosciente focalizzandolo in una particolare adesione del soggetto all’evento. Ci riferiamo in particolare al criterio cosiddetto del consenso secondo il quale si avrebbe dolo eventuale allorché alla previsione dell’evento come possibile si unisce una particolare presa di posizione del soggetto nei confronti di questo evento: allorché egli ne abbia assunto la responsabilità, vi abbia aderito psicologicamente, vi abbia insomma acconsentito (123). Ed infatti, consentire all’evento è un modo di volerlo, poiché il consentire, l’approvare determinate conseguenze di un’azione non implica più soltanto la rappresentazione di esse ma la loro efficacia motivante sulla condotta dell’agente, e cioè sulla volontà dell’evento (124). Questa costruzione viene accolta anche in Italia (125). Particolare e complessa è la costruzione elaborata dal Delitala (126) il quale sposa la teoria del consenso con quella dell’accettazione del rischio: chi ha agito, nonostante la previsione dell’evento, ha consentito all’evento stesso, ne ha accettato il rischio, e quindi lo ha voluto, è pertanto è responsabile a titolo di dolo eventuale. Il dolo sarà invece escluso quando l’evento si verifica contro l’intenzione del soggetto, in quanto nei suddetti casi manca il consenso dell’agente o l’accettazione del rischio. Di fronte alle difficoltà di accertamento che presenta un coefficiente interiore quale quello del consenso unico parametro di individuazione resta il giudizio di carattere ipotetico elaborato da un autorevole studioso tedesco: si fa in particolare riferimento alla cd. Formula di Frank in base alla quale per appurare se si è in presenza di dolo eventuale o colpa cosciente, per appurare cioè se vi è stato il consenso, allorquando l’agente si è rappresentata la possibilità del verificarsi di un evento non desiderato, si dovrebbe verificare se egli, prevedendo come certo il realizzarsi dell’evento stesso, avrebbe agito ugualmente o si sarebbe astenuto dall’azione (127). Ma ‘‘l’indubbio pregio’’ (128) della Formula di Frank — se di pregio vogliamo parlare visto che è proprio questa sua caratteristica che la porta al suo superamento — consiste nel discostarsi da una considerazione rigidamente ed esclusivamente naturalistica dell’elemento soggettivo del reato, in tal modo evidenziando il rapporto scalare che si instaura tra l’evento perseguito e quello collaterale. È, infatti ‘‘l’atteggiamento dell’agente nei confronti del fine concreto’’ che ‘‘deve dolo anche se abbia sperato che i danni non si realizzino per salvaguardare il buon nome dell’impresa o, più semplicemente per evitare difficoltà di carattere legale. (123) All’anzidetta formulazione sembra aderente il pensiero di ROXIN — Zur Abgrenzung von bedingtem Vorsatz und bewusster Fahrlässigkeit, in Jus, 1964, p. 263 — il quale ritiene che la condotta dell’agente deve, nel caso di dolo, essere espressione dell’atteggiamento interiore di ostilità nei confronti dell’interesse tutelato. (124) In questi termini VON HIPPEL — Die Grenze, cit., p. 61 — il quale sembra trarre spunto dal giudizio assertorio elaborato dal VON LISZT — Leherbuch des deutschen Strafrechts, Berlin, de Gruyter, 12/13 Aufl., 1903, p. 110 ss. — e consistente nell’equiparazione tra ‘‘l’io voglio’’ e la consapevolezza che l’evento avverrà. (125) Si veda ad es. BATTAGLINI, Volontà e rappresentazione nei delitti dolosi secondo il nuovo c.p., in Rass. pen., 1931, p. 86 ss. (126) Dolo eventuale e colpa cosciente nella nozione di dolo, in Arch. Univers. catt., 1931-1932, ora in Raccolta degli scritti, cit., p. 441 ss. (127) Cfr. R. FRANK, Das Strafgesetzbuch für das Deutsche Reich, 18. Aufl., Tübingen, Mohr, 1931, p. 190; ID., Vorstellung und Wille in der modernen Doluslehre, in ZStW, 1890 p. 211. (128) Esprime tale giudizio PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 11.
— 251 — guidare nella prova’’ (129). Rendendosi conto dell’efficacia della formula, almeno nel senso su delineato, una recente dottrina italiana ne ha rivalutato il valore indiziante: essa non costituisce un semplice criterio accertativo dell’atteggiamento interiore, ma rappresenta la strada migliore, in quanto individua i fattori rilevanti per la decisione, per stabilire se ricorra il dolo (in specie eventuale) nei casi di eventi previsti ma non direttamente voluti (130). Il giudizio ipotetico — si afferma — è il mezzo induttivo più idoneo per cogliere una situazione psicologica effettiva: esso evidenzia ‘‘un atteggiamento psicologico particolare, diverso da quello del soggetto il quale, pur avendo deciso di agire nella consapevolezza del rischio, di fronte alla certezza si sarebbe astenuto’’ (131). Nonostante i pregi su evidenziati la teoria del consenso così come formulata dal Frank appare decisamente carente sul versante del nesso psicologico fra agente e fatto in quanto non tiene conto di quello che è l’effettivo atteggiamento del soggetto, ma di quello che avrebbe potuto prodursi (132). A questo si aggiunga che la prova di un accadimento ipotetico è assai più delicata e difficile da raggiungersi della prova di un accadimento reale: ‘‘ciò che conta non è il modo in cui una persona si sarebbe comportata in condizioni diverse da quelle che hanno effettivamente accompagnato la sua azione, ma il modo con cui essa ha preso concretamente posizione di fronte alle circostanze che le erano presenti al momento della decisione’’ (133). Un tale tipo di soluzione importa l’introduzione nell’ambito del dolo di un elemento privo di obiettiva consistenza coinvolgendo ‘‘un velo di impenetrabile subiettivismo’’ (134). Infatti scopo principale di un diritto penale moderno e secolarizzato è quello della tutela dei beni giuridici, e non impedire che si manifestino determinati atteggiamenti interiori in coloro che realizzano la lesione dei beni tanto più se ipotetici (135). In sostanza ricostruendo decisioni e scelte non verificatesi nella realtà, la formula di Frank individua il discrimine fra dolo e colpa essenzialmente sopra una valutazione della personalità del reo, dalla quale dovrebbe emergere ‘‘sin dove il reo sarebbe capace di arrivare per soddisfare i propri interessi, e, quindi, quale sia il livello della sua capacità a delinquere, la soglia della sua insensibilità al bene offeso dall’evento non intenzionale’’ (136). In altre parole vi è il rischio di volgere il giudizio di colpevolezza verso un dolo d’autore ai fini della stessa imputazione soggettiva. Resta comunque il fatto che il consenso è pur sempre uno stato psicologico labile che nulla ha a che fare con la volontà in senso proprio cui fa riferimento l’art. 43, primo comma c.p. (137). C) ORIENTAMENTI ATTUALI. 9. Teoria dell’accettazione del rischio tra dottrina e giurisprudenza. — La dottrina e la giurisprudenza italiana — in realtà quest’ultima sembra individuare nella pratica il discri(129) FRANK, Das Strafgesetzbuch, cit., p. 190. (130) Cfr. EUSEBI, In tema, cit., p. 1074; ID., Il dolo, cit., p. 178, dove si parla di ineguagliata incisività della formula di Frank; PAGLIARO, Principi, cit., p. 274; ID., Il fatto di reato, Palermo, 1960, p. 476 ss. (131) EUSEBI, op. ult. cit., p. 181, il quale assimila la formula di Frank al giudizio di tipo controfattuale. (132) In tal senso fra gli altri v. M. GALLO, Il dolo, cit., p. 219. PECORARO-ALBANI, Il dolo, cit., p. 336; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 12. (133) M. GALLO, op. ult. cit. (134) Cfr. DI LORENZO, I limiti, cit., p. 94. (135) Dello stesso avviso FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 322. (136) In questi termini molto efficacemente PROSDOCIMI, op. ult. cit., p. 14, il quale in tal modo sembra sviluppare i rilievi critici già sollevati da altra dottrina — in particolare da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 322 —. (137) In questi stessi termini v. DI LORENZO, op. ult. cit., p. 86, il quale afferma che consentire ad un evento, al di là del suo accertamento (che può essere anche di carattere ipotetico), non significa dirigere ad esso la sua volontà, giacchè l’adesione costituisce un atteggiamento psichico diverso dal fiat volitivo.
— 252 — mine tra dolo e colpa in base a criteri di carattere intuitivo e solo successivamente giustifica l’opzione fatta utilizzando la teoria più idonea (138) —, nel definire il confine fra dolo eventuale e colpa cosciente ricorrono, nella loro maggioranza, al criterio dell’accettazione del rischio (139). Partendo dal presupposto che elemento che accomuna il dolo eventuale e la colpa cosciente è la sola previsione del possibile verificarsi dell’evento, si afferma che diverso è il modo di atteggiarsi della stessa: nella colpa cosciente essa ha una dimensione astratta, nel dolo eventuale essa ha una dimensione concreta. Conseguenza nè è che mentre nel caso di colpa con rappresentazione il soggetto ritiene di poter evitare l’evento ricorrendo alla propria abilità personale, o comunque con la presenza di fattori esterni, giungendo in tal modo alla rimozione dello stesso (140); nel caso invece di dolo eventuale il pericolo è avvertito nella sua dimensione concreta e positiva ed il soggetto manifesta una presa di posizione capace di influire sullo svolgimento degli accadimenti: egli fa seriamente i conti con la possibilità di cagionare l’evento e, ciononostante, decide di agire anche a costo di cagionare l’evento criminoso (141). Questo perché se la persona si determina ad una certa condotta, malgrado la previsione che essa possa sfociare in un fatto di reato, ciò significa che accetta il rischio implicito nel verificarsi dell’evento; ‘‘qualora avesse voluto sottrarsi a tale rischio, qualora non avesse acconsentito all’evento, evidentemente non avrebbe agito’’ (142). Quindi — si afferma — il soggetto agirà in dolo finquando si rappresenta la possibilità positiva del prodursi di un fatto di reato lesivo di un interesse tutelato dal diritto. Tale presa di posizione è compatibile anche con la presenza di un elemento intellettivo, quale la sussistenza del dubbio che l’evento possa seriamente verificarsi, o sulla sussistenza di un presupposto: in altre parole, se il dubbio non viene rimosso, appunto perchè esso non consiste nell’ignoranza o nell’errore, radicherebbe inevitabilmente il dolo. Tale impostazione intende postulare, anche nell’ambito del dolo eventuale, la necessaria presenza di un elemento volontaristico: elemento dedotto dal fatto che l’agente, non avendo escluso la possibilità dell’evento lesivo, lo avrebbe in definitiva accettato, manifestando in tal modo un chiaro atteggiamento psichico di adesione al suo verificarsi. Ed è proprio in tale sua pretesa che si individuano chiaramente i limiti della teorica in esame: la dottrina e la giurisprudenza intendono assimilare alla volizione un coefficiente psicologico che nulla ha a che fare con la stessa. Accettare il rischio di cagionare un evento, invero, non significa minimamente volere l’evento rischiato, cioè ‘‘tale (138) A. MALINVERNI, Pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio nell’attività bancaria, in Studi in memoria di Giacomo Delitala, Milano, 1984, vol. 17 p. 722. (139) ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 332; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 323; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 321; D. PULITANÒ, in Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi, F. Stella, G. Zuccalà, 2a ed., Padova 1992; PECORARO-ALBANI, Il dolo, cit., p. 394 ss.; TASSI, Il dolo, cit., p. 5 ss. In giurisprudenza fra le tante v. Cass., 3 marzo 1971, in Giust. pen., 1972, II, 581; Cass., I, 17 marzo 1980, in Cass. pen., 1981, 524; Cass., V, 17 ottobre 1986, in Cass. pen., 1988, 441; Cass., I, 3 giugno 1993, Piga, in Cass. pen., 1994, 2992. (140) Ricorrente nella manualistica è il caso dell’automobilista che, violando la norma stradale che gli impone di non superare i limiti di velocità e di tenere una guida prudente, correndo all’impazzata in una strada urbana semideserta prevedendo la possibilità che qualche pedone possa attraversare la strada, confida nella prorpia abilità per evitarne l’investimento. Ebbene in tal caso la previsione del pericolo resta nella coscienza del soggetto in una dimensione astratta proprio perchè il soggetto la rimuove. (141) È stato ritenuto in dolo eventuale il guardiabarriera, che, per correre al capezzale del figlio morente, accetta l’eventualità del disastro ferroviario; o il terrorista che, per uccidere un uomo politico, getta la bomba nella piazza, sapendo che probabilmente o solo possibilmente o eventualmente avrebbe ucciso altre persone a lui vicine; o il rapinatore che, nel corso di una rapina accompagnata da violenza carnale, tenga a lungo premuto sulla bocca della vittima un cuscino così da cagionare la morte per soffocamento (Cass. I, 10 febbraio 1992, De Pasquale, inedita); o ancora chi, incendiando la propria casa per lucrare un’assicurazione, prevede la possibilità che la vecchia parente fosse ancora in casa. (142) Cfr. M. GALLO, Dolo, cit., p. 793.
— 253 — evento recipere in intenzionem’’ (143). Anzi è ben possibile che alla condizione psicologica dell’accettazione del rischio si accompagni la deprecazione dell’evento stesso (144). E allo stesso modo è ben possibile che anche chi agisce con colpa cosciente accetti il rischio di cagionare l’evento (145). Accettare il rischio significa ‘‘rischiare’’: comportamento che si deve qualificare nell’ambito ‘‘dell’imprudenza o temerarietà, non dolo’’ (146). A ben guardare la colpevolezza per accettazione di un rischio non consentito (147) corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo (148). Se così non fosse si giungerebbe a punire in modo inspiegabilmente diverso situazioni caratterizzate da uno stesso tipo di responsabilità. Senza contare, poi, che l’ulteriore criterio utilizzato nell’ambito di questa teoria si rivela anch’esso fallace e privo di riscontro normativo. 10. In particolare: la colpa cosciente come ‘‘previsione negativa dell’evento’’. — Si fa in particolare riferimento alla affermazione secondo cui chi agisce con colpa cosciente pur prevedendo la possibilità di cagionare un evento doloso, confidando nella propria abilità o nel ricorrere di altri fattori esterni (149), agisce con la piena convinzione che l’evento non si verificherà (150). In altre parole ‘‘l’agente pensa bensì, dapprima, alla possibilità del risultato incerto, ma alla fine, nel momento decisivo del suo agire, nega in concreto tale possibilità nella sua coscienza’’ (151). In realtà non è esatto affermare che chi agisce confidando nelle proprie capacità giunge alla rimozione dell’evento stesso dalla sua mente: è infatti improbabile che la iniziale rappresentazione possa venir meno in quanto la consapevolezza di agire superando la soglia del rischio rimane. In tal modo, anche l’automobilista che sfreccia ad alta velocità nel centro urbano, seppure confida nella proprie capacità di guidatore esperto, è ben conscio dell’alto rischio di cagionare l’investimento di qualche pedone non potendoglisi vietare di avvertire il rischio anche al momento della condotta (152). Quindi non è tanto la previsione negativa del verificarsi dell’evento a caratterizzare la colpa con pre(143) Così DI LORENZO, I limiti, cit., p. 90. (144) Così, nell’esempio classico di Guglielmo Tell, anche costui accettò il rischio di uccidere il figlio, e pur con tutte le sue forze deprecava l’evento letale. (145) Nel caso del lanciatore di coltelli, ritenuto dalla dottrina un caso di colpa con previsione perchè il soggetto confida nella propria abilità per evitare l’evento, in realtà egli accetta il rischio di cagionare l’evento. (146) DE MARSICO, Coscienza, cit., p. 152. (147) Sul problema del rischio consentito nelle fattispecie dolose vedi infra § 14. (148) In questi termini PAGLIARO, Discrasie tra dottrina e giurisprudenza?, in Cass. pen., 1991, p. 322; ID., Principi, cit., pt. gen., p. 270. (149) Nel concetto di fattori estemi può rientrare l’affidamento indebito del soggetto agente sul fatto che gli altri osservino le norme prudenziali di cui sono destinatari: egli, cioè, è ben cosciente della pericolosità della propria condotta ma giunge alla conclusione che l’evento non si verificherà in quanto appunto confida nella circostanza che i terzi, nella sfera dei quali si ripercuotono gli effetti della propria condotta, osservino il dovere oggettivo di diligenza che su loro incombe. Sul rapporto fra colpa cosciente e principio di affidamento vedi M. MANTOVANI — Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 37 ss. — il quale giunge alla conclusione che essi sono caratterizzati da un’omogeneità strutturale dei coefficienti psichici. Tanto, infatti, la colpa cosciente — almeno secondo l’impostazione qui criticata — quanto il principio dell’affidamento consistono in un errore che ‘‘avrà ad oggetto determinati segmenti della catena causale, la conoscenza completa dei quali avrebbe permesso all’agente una predizione affermativa rispetto al verificarsi dell’evento, imponendogli di astenersi dal comportamento che detto evento ha cagionato’’. (150) Vedi M. GALLO, Dolo, cit., p. 792, ID., Il dolo, cit., p. 97. (151) V. SCHMIDHÄUSER, Strafrechtlicher Vorsatzbegriff und Alltagssprachgebrauch, in Festschrift für Oehler, Köln-Berlin-Bonn-München, 1985, p. 159 ss. (152) Dello stesso avviso EUSEBI, Il dolo, cit., p. 83; ID., In tema, cit., p. 1073; HERZBERG, Bedingter Vorsatz und objective Zurechnung beim Geschlechtsverkehr des Aids-Infizierten — AG München, in Jus, 1987, p. 780.
— 254 — visione, quanto un tipo di condotta caratterizzata dalla violazione del dovere obiettivo di diligenza nonostante che alla stessa si accompagni l’accettazione del rischio di cagionare l’evento: in effetti accettare il rischio sta ad indicare non altro che l’intenzione di agire, non certo la volontà dell’evento (153). Nel momento in cui il soggetto giunge alla conclusione che l’evento è impossibile che si verifichi in realtà manca una previsione: non si può allora parlare di previsione in senso proprio perché manca una forma di coscienza dell’evento. Anzi, se si ragionasse nei seguenti termini viene a cadere la stessa ratio dell’aggravante che in tal modo risulterebbe sostanzialmente inspiegabile (154). Infatti si punirebbe in modo ingiustamente più grave colui che, seppure si è reso conto della pericolosità della propria condotta, è giunto alla conclusione di poter controllare la potenzialità lesiva della propria condotta rispetto a colui che neppure si pone il problema: si finirebbe in altri termini col privilegiare paradossalmente gli spensierati. Daltronde l’esattezza di quanto affermato è ricavabile da un dato positivo: precisamente dal tenore letterale dell’art. 61 n. 3, dove è presente la dizione ‘‘nonostante la previsione dell’evento’’. Essa sta a significare che al momento della condotta deve sussistere una previsione positiva dell’evento (155) e non una non-previsione o contro-previsione. Il termine ‘‘nonostante’’ sta anzi ad evidenziare come ciò che caratterizza l’aggravante è la circostanza che il soggetto abbia agito comunque, pur rendendosi conto della pericolosità della propria condotta. Affermare invece, come fa la dottrina criticata, che la colpa cosciente è caratterizzata dalla circostanza che il soggetto giunge alla conclusione che l’evento non si verificherà urta contro il dato normativo. Questo sta infatti a significare che o il soggetto non ha previsto l’evento avendosi in tal modo un contrasto con l’art. 43 e 61 n. 3 c.p., dove si parla di previsione in termini positivi, o il soggetto ha previsto il non verificarsi dell’evento, cioè un non-evento, ma allo stesso modo è evidente la difformità dal dato normativo dove si parla di evento in termini positivi. 11. Considerazioni su alcuni ulteriori criteri distintivi. — Resisi conto delle difficoltà incontrate dalla dottrina tradizionale nell’elaborazione dei criteri distintivi tra dolo e colpa, alcuni autori italiani hanno recentemente prospettato ulteriori criteri che, seppure non si discostano in realtà dalle teorie tradizionali, hanno il pregio di mettere meglio in evidenza quello che è lo stato psicologico che caratterizza il soggetto agente. Così Pagliaro (156), rifacendosi in sostanza alla Formula di Frank, afferma che ciò che caratterizza il dolo eventuale rispetto alla colpa con previsione è un atteggiamento di disprezzo verso quel bene particolare e concreto che viene offeso dall’evento in questione. Il concetto di disprezzo viene individuato alla stregua dei criteri tradizionali: ‘‘chi ha agito con la convinzione o con la sicura fiducia che l’evento, pur previsto come possibile, non si verificherà, non mostra quell’atteggiamento di disprezzo verso il bene tutelato’’ (157). Agire con disprezzo — secondo l’A. — sta infatti ad indicare una sorta di partecipazione del soggetto all’evento quasi come se fosse voluto. Ma il miglior criterio per individuare chi agisce con disprezzo è la Formula di Frank (158): se infatti dall’esame del carattere del reo, ma soprattutto dal modo con cui egli (153) Concordano nell’affermazione che la colpa cosciente è caratterizzata dal collegamento ad una attività pur sempre negligente DE FRANCESCO, Dolo eventuale, cit., p. 126; MARINUCCI, Colpa, cit., p. 201; ID., Non c’è dolo, cit., p. 15; ID., Il reato come azione, cit., p. 112; MILITELLO, Rischio, cit., p. 60; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 36; ID., Reato doloso, cit., p. 240. (154) Cfr. PROSDOCIMI — Dolus, cit., p. 26 — il quale molto efficacemente mette in evidenza come la prassi italiana finisca con l’aggravare chi effettua un errore di valutazione ovvero un errore sull’idoneità dei propri mezzi o sullo sviluppo causale esterno: che si debba punire più gravemente tale soggetto risulta davvero inconcepibile. (155) Ma sull’esatto significato dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 3, vedi infra § 18. (156) Il fatto di reato, cit., p. 1074; Principi, cit., p. 273. (157) Op. ult. cit. (158) Vedi supra § 8.
— 255 — ha perseguito il suo fine, risulta che egli avrebbe agito ugualmente anche se avesse previsto l’evento come certo, il dolo sussiste in quanto il soggetto ha agito in spregio dei beni che ha leso. Dall’esame della suddetta impostazione risulta come in realtà vengano riproposti, anche se in forma diversa e riassuntiva, i criteri elaborati dalla dottrina tradizionale: in tal modo si ripropongono gli stessi limiti ad essi connaturali. Chi ‘‘disprezza’’ non necessariamente ‘‘vuole’’: ragionare diversamente significa non tener conto della reale situazione psicologica che caratterizzerebbe il soggetto al momento dell’azione essendo infatti ben possibile disprezzare il bene giuridico che si lede senza, allo stesso tempo, volerne la lesione. Deve quindi dedursi che il disprezzo è in realtà uno stato psicologico che può ben essere compatibile tanto col dolo quanto con la colpa, in quanto è un aliud rispetto ad essi. Se si argomentasse diversamente si finirebbe per punire un dolo d’autore, cioè un carattere dello stesso agente, un modo di porsi dello stesso nel contesto sociale. Più pregevole è il criterio proposto da Prosdocimi (159), che consiste in una riproposizione della teoria dell’accettazione del rischio emendata da quei limiti che le sono contestati in dottrina. In particolare l’A afferma che ciò che distingue il dolo eventuale dalla colpa cosciente è non tanto la accettazione del rischio di produrre l’evento, che come abbiamo visto può radicarsi anche in un comportamento colposo, quanto la ‘‘fisionomia e struttura di tale accettazione’’ (160). È necessario appurare, cioè, se il rischio è stato accettato per negligenza, imprudenza, imperizia od, invece, a seguito di un bilanciamento, di una valutazione di interessi, quale ‘‘prezzo’’ per il raggiungimento di uno specifico risultato intenzionalmente perseguito, cui l’agente ha consapevolmente, deliberatamente ritenuto valesse la pena di sacrificare altro bene, associando mentalmente l’eventuale sacrificio al risultato desiderato. Effettivamente tale impostazione si presenta meno difettosa rispetto alla tradizionale teoria dell’accettazione del rischio perché tiene meglio conto dell’effettivo stato psicologico che accompagna il soggetto nel porre in essere la condotta. Così come si dà peso alla rilevanza che nell’ambito della colpa cosciente ha la violazione delle norme di diligenza. Essa inoltre cerca di recuperare anche per il dolo eventuale quel momento intenzionale che caratterizza il dolo puro e semplice in quanto si individua il nesso che lega dolo eventuale ed intenzione del reo. In realtà, nemmeno il suddetto criterio va però esente da critiche. Affermare infatti che il discrimine fra dolo e colpa è l’atteggiamento del soggetto nei confronti dell’accettazione del rischio (si ha dolo eventuale quando il rischio è accettato a seguito di un opzione, si ha invece colpa cosciente quando il rischio è accettato per negligenza) comporta uno spostamento dell’oggetto del dolo e della colpa dall’evento ad uno stato soggettivo (l’accettazione del rischio) di inconsistente natura. In realtà l’A: con l’intento di dimostrare a tutti i costi le differenze tra dolo eventuale e colpa cosciente, manifesta il proprio attaccamento, comune alla dottrina e alla giurisprudenza, ad una figura che è in realtà priva di consistenza cercando di mantenerla in vita a tutti i costi. Ben più rispondente al dato normativo sarebbe stato ammettere che, in realtà, quei comportamenti che si considerano imputabili a titolo di dolo eventuale rientrano nell’ambito della colpa aggravata. Bisognerà ammettere, una volta per tutte, che per aversi dolo l’evento deve essere voluto, e per volontà si deve intendere una partecipazione effettiva del soggetto all’evento; se questo è stato invece cagionato da negligenza, non importa se vi è stata accettazione del rischio, nè se questa è stata debitamente messa in conto, si avrà colpa caso mai aggravata.
D) PROBLEMATICHE DEL RISCHIO PENALE. 12. Il rischio come criterio distintivo tra dolo e colpa. — Si è già detto come la dottrina e la giurisprudenza, nella individuazione del concetto di dolo eventuale, fa largamente (159) (160)
Dolus, cit., p. 45 ss., Reato doloso, cit., p. 244 ss. Op. ult. cit.
— 256 — uso del concetto di accettazione del rischio coinvolgendo un fenomeno che nella letteratura più recente si manifesta nella tendenza ad una normativizzazione dello studio, non solo della colpa, ma anche del dolo e che fa riferimento al concetto di rischio giuridicamente tollerato. In tal modo — si afferma — per aversi reato doloso è necessario che il soggetto attribuisca ‘‘alla sua azione una dimensione di rischio che, secondo la valutazione dell’ordinamento giuridico, è da qualificare come non più tollerata creazione di rischio nei confronti del bene giuridico’’ (161). Così come si individua il dolo eventuale non nell’accettazione del rischio pura e semplice, bensì nell’accettazione di quel rischio che è ritenuto incompatibile con la misura del rischio ammessa dall’ordinamento (162). Una simile rilevanza teorica del rischio penale non trova supporto nè raffronto in un adeguato corpo normativo stante la mancanza nella parte generale del nostro codice penale di una norma che individui il rischio quale elemento costitutivo del reato (163). Tale constatazione non può però indurci ad attribuire ‘‘alla nozione del rischio penale una invincibile dimensione metagiuridica’’ (164): la sua rilevanza giuridica ed il ruolo che assume nell’ambito della responsabilità penale emerge già dalle pronunce giudiziali che spesso ad esso hanno fatto ricorso. Resta comunque il fatto che il rischio ha assunto nella costruzione della teoria del reato un’importanza che oltrepassa i timidi tentativi che la prassi giudiziaria ha manifestato collegando la concreta punibilità, nei soli casi di reati colposi, al superamento di una soglia di rischio ricavabile dall’intero ordinamento. Ed è appunto in questi terrnini che la produzione di un rischio non consentito (Unerlaubtes Risiko) diviene l’elemento minimo necessario ed indispensabile affinché l’evento scaturente da tale produzione possa essere imputato all’agente, in tal modo divenendo una misura di selezione delle condotte penalmente rilevanti comune ad ogni forma di realizzazione del reato, tanto dolosa quanto colposa. Se così non fosse la sanzione penale dovrebbe intervenire in modo inibitorio rispetto alla esplicazione di quelle attività che, pur se comportano un alto livello di rischio di lesione dei beni giuridici, assumono enorme rilevanza nel contesto sociale, anzi, se si partisse dal postulato che ‘‘ogni condotta umana comporta una certa dose di rischio’’ (165) si dovrebbe arrivare all’assurdo di vietare ogni forma di manifestazione della personalità umana. Se il superamento del rischio consentito (Erlaubtes Risiko) diviene la soglia minima del penalmente rilevante, tanto doloso quanto colposo, si comprendono allora quei tentativi effettuati da parte della dottrina tedesca (166) volti a rinvenire una differenza strutturale fra reato doloso e reato colposo, già sul piano della condotta, per il tipo di rischio in essa insito, anche al fine della individuazione del concetto di dolo eventuale: si verrebbe in tal modo a depurare lo studio da un approccio di carattere esclusivamente psicologico nel quadro di una tendenza alla obiettivizzazione dei concetti di dolo e colpa. In particolare, secondo tale orientamento, il dolo esigerebbe la conoscenza del rischio qualificato intollerabile dall’ordinamento (167). Da questo punto di vista, una volta posto ad oggetto del dolo un siffatto rischio, sa(161) W. FRISCH, Vorsatz und Risiko. Grundfragen des Tatbestands-mäßigen Verhaltens und des Vorsatzes, Köln, Heymanns, 1983, p. 341. (162) Costruiscono il dolo eventuale nei termini di un’accettazione del rischio inadeguato W. FRISCH, Vorsatz, cit.; ID., Offene Fragen des dolus eventualis, in Neue Zeitschrift für Strafrecht, 1991, p. 23; L. PHILIPPS, Dolus eventualis als Problem der Entscheidung unter Risiko, in ZStW, 1973, p. 38; I. PUPPE, Vorsatz und Zurechnung, cit., p. 35 ss.; ID., Der Vorstellungs-inhalt, cit., p. 3. (163) Individua l’importanza dello studio del rischio, nonostante la mancanza di una esatta positivizzazione, già BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, Bd. IV, Die Fahrlässigkeit, Leipzing, 1919, p. 432. Nella letteratura recente cfr. V. MILITELLO, Rischio, cit., p. 5. (164) MILITELLO, op. ult. cit. (165) PETOELLO-MANTOVANI, Il concetto ontologico del reato, struttura generale - la colpa, Milano, 1954, p. 160. (166) Si fa in particolare riferimento allo studio di FRISCH, Vorsatz, cit., p. 340 ss., e di HERZBERG, Die Abgrenzung, cit., p. 249 ss. (167) FRISCH, Vorsatz, cit., p. 119 ss., PHILIPPS, Dolus eventualis, cit., p. 38 ss.
— 257 — rebbe già pienamente giustificata una responsabilità a tale titolo, indipendentemente dall’accertamento di un ulteriore ‘‘elemento volitivo’’, o nel dolo eventuale, di una ‘‘adesione emotiva’’ di dubbia consistenza (168). Si afferma invece che rispetto alla colpa cosciente manca quell’analoga conoscenza del rischio necessaria ai fini del dolo (169). In realtà pur se interessante, in quanto coinvolge un profilo nuovo nello studio del dolo e della colpa, questa impostazione si risolve in un ‘‘mero mutamento di etichette’’ delle impostazioni tradizionali (170), in quanto in essa riecheggiano chiaramente le formule tradizionali della ‘‘fiducia’’ nella non realizzazione dell’evento, della convinzione che esso non accadrà. Ben più effficace ed innovativa, riuscendo infatti meglio a liberarsi dagli schemi seguiti dalla dottrina tradizionale, è l’impostazione che ha ricondotto la distinzione tra dolo e colpa su una base puramente oggettiva: il modo di essere (in primis) e di porsi del rischio (171). Si dovrebbe, in particolare, distinguere le ipotesi in cui il rischio, pur se non tollerato, sia tuttavia ancora controllabile, da quelle in cui non lo sia più, le ipotesi cioè di rischio ‘‘schermato’’ da quelle di rischio ‘‘non schermato’’ (172). In particolare si avrebbe il rischio ‘‘non schermato’’ quando l’agente abbia valutato con serietà un rischio precedentemente percepito, o abbia comunque avvertito trattarsi di un rischio da prendersi con serietà, e ad una valutazione razionale è giunto alla conclusione che non possa contare sul fatto che, durante e dopo la sua condotta, un intervento proprio o altrui sia in grado, almeno in una certa misura di dominare il pericolo e quindi il divenire causale in esso insito (173). È invece ‘‘schermato’’ quel pericolo di cui è possibile da parte del soggetto, o per intervento esterno, azzerare la potenzialità rischiosa o comunque ridurla sotto il limite dell’accettabile. In tal modo se è individuata una dimensione comune ai reati dolosi e colposi, la distinzione risiederebbe nella produzione, da parte di chi agisce con dolo, di un rischio ulteriormente qualificato: ciò che rileva non è l’entità in sé del pericolo, bensì la qualità, espressa dalla sussistenza o meno del fattore schermante. Non si parla, quindi, più di dolo e colpa tout court ma si distingue fra rischi dolosi e rischi colposi (174). In particolare i rischi dolosi sarebbero quelli che un agente ragionevole correrebbe solo se d’accordo con la loro realizzazione, mentre sarebbero colposi i rischi sul cui non realizzarsi potrebbe far conto non solo un qualsiasi individuo singolarmente inteso, ma anche il soggetto che agisca in modo razionale (175). Se allora il tipo di responsabilità dipenderà dall’intrinseca natura del rischio connessa alla condotta dell’agente dovranno pertanto abbandonarsi i tentativi di individuare sul piano della colpevolezza la distinzione fra reato doloso e colposo e tutto per una esigenza di carattere schiettamente probatoria (176): ma un tal tipo di atteggiamento legittima ‘‘a piene mani’’ riesumandolo il cri(168) FRISCH, op. ult. cit. (169) FRISCH, op. cit. loc. (170) Di tale avviso DE FRANCESO, Dolo eventuale, cit., p. 130. (171) HERZBERG, Die Abgrenzung, cit., p. 254 ss. (172) Questa è la terminologia utilizzata dallo stesso HERZBERG, — op. ult. cit., p. 254 —. (173) Cfr. HERZBERG, op. ult. cit., p. 262; ID., Das Wollen beim Vorsatzdelikt und dessen Untersheidung vom bewusst fahrlässigen Verhalten, in JZ, 1988, Teil 2, p. 642. (174) HERZBERG, Das Wollen, cit., p. 639. Vedi anche I. PUPPE, Der Vorstellunihnalt, cit., p. 14 ss. (175) Così PUPPE, op. ult. cit., la quale sostanzialmente assume una prospettiva d’analisi che tende ad enucleare la intrinseca natura del rischio doloso e colposo ma che a differenza di quella di Herzberg non dà rilievo a fattori esterni che si frappongono al rischio stesso. Sulla comparazione della posizione di Herberg con quella di Puppe e A. Kaufmann — su cui vedi supra § 7 — cfr. EUSEBI, Il dolo, cit., p. 75. (176) Nota infatti DE FRANCESCO, op. ult. cit., p. 132, come l’intento ultimo di Herzberg fosse quello di semplificazione probatoria: evitare al giudice la complessa ricerca dell’atteggiamento psicologico dell’agente, limitando l’analisi alla pura e semplice verifica del tipo di rischio oggettivamente riscontrabile nelle singole ipotesi, in tal modo trasferendo il problema da un piano soggettivo ad altro oggettivo.
— 258 — terio del versari in re illicita (177). Il mero riferimento a situazioni oggettive, se permette una esatta individuazione del Tatbestand, non consente sempre deduzioni automatiche circa la presenza di un corrispondente titolo di imputazione soggettiva. In tal modo le distinzioni di carattere puramente oggettivo devono essere integrate con le considerazioni attinenti alla struttura psicologica, che nel dolo sarebbe caratterizzata dalla volontarietà delle conseguenze, nella colpa dalla rimproverabilità della violazione delle regole di diligenza. Questo tipo di conclusione è daltronde l’unico compatibile con il diritto penale italiano essendo il nostro ordinamento caratterizzato dal distinguo del dolo e della colpa in una dimensione di colpevolezza, per cui fondare la distinzione tra dolo e colpa su una base puramente oggettiva significa tradire ‘‘completamente la lettera e la ratio di una precisa scelta del legislatore’’ (178). 13. Rilevanza del rischio nei reati colposi: in particolare l’Erlaubtes Risiko. — Il settore dove è risultato maggiormente efficace e prolifico lo studio del rischio connesso ad una condotta penalmente rilevante è quello dei reati colposi. Si afferma in particolare che se il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento fosse da solo utile a circoscrivere l’ambito della colpa penale, si dovrebbe conseguentemente affermare la responsabilità tutte le volte in cui si verificano eventi dannosi riconducibili ad azioni notoriamente pericolose (179). Si fa nella specie riferimento a quelle attività rischiose, ma giuridicamente autorizzate perché utili socialmente, dove la indubbia prevedibilità dell’evento non basta affatto a legittimare una responsabilità colposa esistendo una sfera di rischio consentita dall’ordinamento giuridico e dove l’evitabilità si connette ad uno svolgimento dell’attivita secondo modalità prestabilite che mantengano il rischio al di sotto della soglia individuata e mai può tradursi nell’inibizione della stessa. In tal modo il giudizio di colpa presuppone che sia oltrepassato il limite dell’adeguatezza sociale o del rischio consentito (180). Il riferimento alla categoria dell’Erlaubtes Risiko si traduce in realtà nel rinvio ad un istituto — per dirla con Roxin (181) — la cui estensione ed i cui limiti anche nella riflessione della dottrina di lingua tedesca ‘‘sembrano ben lungi dal potersi reputare chiariti in modo definitivo e completo’’ (182). Ferme restando le incertezze circa l’esatta individuazione dell’Erlaubtes Risiko, ciò che comunemente si ammette è che, se dallo svolgimento diligente (177) Cfr. EUSEBI, In tema, cit., p. 1076, il quale evidenzia gli innegabili vantaggi della costruzione in esame. ‘‘Non si puo ignorare — afferma l’A. — l’irrinunciabile necessità che venga effettivamente attribuito rilievo al livello o alla tipologia del rischio nel delimitare il dolo e la colpa’’. Questo per evidenziare come non ha senso punire a titolo di dolo, ove pure ne sussistano i requisiti psicologici, allorchè il pericolo ricollegato alla condotta sia stimabile, ex ante, in livelli oggettivamente limitati. (178) DE FRANCESCO, op. ult. cit., p. 134. Dello stesso avviso PAGLIARO, — Fatto, condotta illecita e responsabilità oggettiva nella teoria del reato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1985, p. 637 — il quale osserva come siffatte posizioni dottrinali finiscano con ‘‘l’accentuare esageratamente il profilo del rischio e sottovalutare, invece, l’effettivamente prodotto e la volontà di realizzarlo’’. (179) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 497; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 338, GIUNTA, Illiceità, cit., p. 185. (180) Per le diverse accezioni che i due termini hanno vedi JESHECK, Lehrbuch des Strafrechts, Allg. Teil, Berlin, Duncker & Humblot, 3. Aufl, 1978, p. 360 ss., V. MILITELLO, Rischio, cit., p. 36, dove si parla di rischio lecito, consentito, permesso. (181) ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil. I Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, 2a ed., München, 1994. (182) Dello stesso avviso M. MANTOVANI — Il principio dell’affidamento, cit., p. 66 — il quale rileva come la mobilità delle frontiere che connotano il territorio del rischio consentito sia attestata dal modo in cui sono stati risolti dalla prassi giurisprudenziale casi classici fra i quali quello noto del Memel Fall: si tratta cioè di casi in cui l’esenzione da responsabilità dell’agente venne spiegata in base al ricorso all’Erlaubtes Risiko: In realtà — osserva lo stesso A. — è discutibile l’an dell’esenzione da responsabilità colposa dell’agente nei casi in
— 259 — delle attività consentite derivi un danno, il soggetto non sarà ritenuto responsabile perché manca il disvalore tipico dell’illecito colposo, in altre parole mancherà la stessa integrazione del Tatbestand (183). Tale tipo di conclusione è dovuta alle affermazioni secondo cui il riconoscimento del carattere generale di liceità spettante alle condotte autorizzate, avviene già ad un livello generale ed astratto, ad un livello cioé che prescinde dalle modalità del singolo caso concreto — ferma restando la rilevanza della violazione delle regole di diligenza che operano nel settore —, in modo tale che la valutazione venga fatta dall’ordinamento ex ante ed una volta per tutte. Da tali conclusioni è possibile dedurre l’autonomia dell’Erlaubtes Risiko rispetto alle singole cause di giustificazione (184): il primo è espressione di una valutazione positiva dell’ordinamento riguardo a date condotte compiuta in astratto, in tal modo essendo diversi i rispettivi ambiti d’applicabilità. Ed infatti la sussistenza di un rischio permesso esclude l’eventuale successivo giudizio di antigiuridicità. Naturalmente occorre, perché quanto detto sia valido, che la singola condotta risulti concretamente rispettosa delle modalità e dei limiti imposti dall’ordinamento quali presupposti per l’autorizzazione. Se l’Erlaubtes Risiko presenta una propria natura caratterizzante, ciò non esclude che lo stesso viva della medesima ratio che è alla base delle cause di giustificazione: in tale senso i casi in cui l’assunzione del rischio diviene lecita si spiegano in quanto opera un giudizio di bilanciamento di interessi e di rischi che accomuna la ratio dell’Erlaubtes Risiko a quella delle cause di giustificazione (185). Se infatti l’ordinamento può vietare in generale ogni attività che, nonostante l’osservanza delle precauzioni imposte, sia possibile fonte di offesa per specifici beni meritevoli di tutela, per evitare che la funzione preventiva della legge venga estesa fino ad impedire lo svolgimento di una fascia di condotte che risultano se non immanenti, necessarie all’esplicarsi del normale sviluppo di un contesto sociale, è d’altro canto importante che sia individuata una soglia di rischio al di sotto della quale le attività pericolose ricevano una connotazione diversa e legittimata. Solo una volta che è superato il livello del rischio che l’ordinamento ha convenienza a vietare prevale l’interesse alla tutela penale dei beni (186). Se la stessa area del penalmente vietato non può che essere tracciata nell’ambito del più ampio quadro segnato dalla libertà di esplicazione della personalità umana la cui tutela ha una sua ragione d’essere fintantoché non si scontri con superiori e principali interessi riconosciuti dall’ordinamento, la linea di confine del rischio non può che essere individuata nella comparazione (rectius bilanciamento) tra libertà di agire, da una parte, e protezione dei beni giuridici dall’altra (187). In altre parole la soglia del rischio consentito è il risultato del complesso giudizio di bilanciamento e ponderazione che vede quali termini di riferimento la libertà di esplicazione della persona umana in particolari settori caratterizzati da una elevata rischiosità e la tutela di beni altrettanto meritevoli che vengono ad essere direttamente coinvolti dalle attività pericolose autorizzate. In questo quadro importanza fondamentale assumono non tanto le sedi nelle quali tale giudizio di bilanciamento viene effettuato, quanto cui, come questo, la regola di diligenza rivolta a prevenire la realizzazione dei pericoli connessi all’espletamento di una data attività non individui con certezza le modalità di comportamento che permettano di neutralizzare i rischi, quando l’unica modalità efficace sia l’astensione dall’agire. (183) Vedi fra gli altri ROXIN, Strafrecht, cit., p. 307, JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 203. (184) Sul punto v. M. MANTOVANI, II principio, cit., p. 69. (185) Per tale punto di vista v. PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 87; G. DE FRANCESCO, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in Studi in onore di V. Palazzolo, Milano, 1986, p. 295 ss.; G.V. DE FRANCESCO, La proporzione nello stato di necessità, Napoli, 1978, p. 253 ss. (186) Sulla ratio dell’Erlaubtes Risiko, v. fra gli altri ROXIN, op. ult. cit.; ID., Gedanken zur Problematik der Zurechnung im Strafrecht, in Fetschrift für R. Honig, Göttingen, Schwartz, 1970, 133 ss.; RUDOLPHI, SK-StGB, § n. 63; STRATENWERTH, Bemerkungen zum Prinzip der Risikoerhöhung, in Festschrift für Gallas, Berlin, de Gruyter, 1973, p. 238. (187) In tal senso JESCHECK, Lehrbuch, cit., 5-7; MILITELLO, op. cit., p. 101 ss.
— 260 — l’individuazione della soglia oltre la quale il rischio diviene illecito (188). Come già si è accennato, è soprattutto a livello legislativo che viene effettuato il delicato processo di individuazione della soglia del rischio consentito. In particolare il legislatore non si limita ad autorizzare la stessa attività rischiosa ma positivizza quelle regole la cui osservanza permette di ridurre o quantomeno di mantenere il rischio a livelli accettabili in tal modo adeguandosi il più possibile al principio di determinatezza. In molti casi però, stante la specifìcità e tecnicità del settore in questione, si accompagna alla attività del legislatore l’apporto dell’autorità amministrativa competente ad emanare le richieste di autorizzazione: ed appunto in tale sede viene effettuato il giudizio di bilanciamento degli interessi in gioco e di selezione delle norme cautelari (189). Al giudice resta invece un’intervento concretizzante, che si rivela tanto più pregnante, quanto più è carente un’attività di positivizzazione delle regole effettuata in altre sedi, consistente nella specificazione in relazione alle caratteristiche del caso concreto del parametro della diligenza (190). Indipendentemente dalla sede in cui è stato iniziato, il giudizio di bilanciamento, risolventesi nella comparazione tra libertà all’azione e tutela dei beni giuridici, dovrà, in realtà, concludersi pur sempre in riferimento all’azione concreta vista rispettivamente come interesse sociale al suo svolgimento e grado di pericolosità (191). Vengono in tal modo a rilevare da una parte il grado di probabilità dell’evento, il tipo di bene in gioco, il numero di offese possibili, dall’altra invece il tipo di beni al cui soddisfacimento è orientata l’attività, il grado di vantaggiosità sociale dell’azione (192). Naturalmente la validità di quanto detto resta fintantoché si tenga conto delle modalità con cui viene riconosciuta la facoltà di svolgere il relativo tipo di attività già a livello astratto. Infatti l’ordinamento, nel momento in cui procede alla liceizzazione di attività il cui esplicarsi si rivela normalmente pericoloso per l’incolumità dei beni giuridici che con esse entrano in gioco, quindi nel delicato giudizio di bilanciamento tra libertà e interesse al bene, individua una costellazione di regole e di comportamenti che, almeno ad una valutazione astratta, permette la miglior composizione dei contrastanti interessi. In tal modo l’Erlaubtes Risiko trova il proprio fondamento proprio in quei limiti posti dal legislatore e che consistono nell’adozione delle necessarie cautele la cui osservanza permette di contenere il pericolo. Con questo si intende evidenziare come è appunto il dovere di diligenza a segnare il limite oltre il quale la liceità dell’attività pericolosa viene meno, in quanto rileva appunto come condizione per il suo svolgimento. Ciò vuol dire che il dovere di diligenza afferisce ad una condotta pericolosa ma lecita, che diventa illecita, dando luogo a responsabilità colposa nel momento in cui si viola il dovere di diligenza stesso: in altre parole il rischio insito in una condotta è consentito solo quando questa sia conforme al dovere di diligenza (193). Se infatti da una parte si autorizzano condotte rischiose dall’altra non si può ammettere che le stesse divengano arbitrarie legittimando una indiscriminata lesione di beni giuridici anche di fondamentale importanza. In tal modo le suddette attività vengono sottoposte a specifiche leges artis, scritte o non scritte, affinché venga salvaguardata l’utilità sociale delle stesse in vista della minimizzazione del rischio ad esse connesso. Se allora il dovere di diligenza connota il limite di rilevanza dell’Erlaubtes Risiko, l’agente risponderà per colpa solo di quei danni prevedibili o previsti ma evitabili osservando le regole di diligenza imposte a tutela del (188) In argomento vedi MILITELLO, op. cit., p. 107 ss. (189) Sulla rilevanza delle autorizzazioni amministrative vedi ad es. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 498; MAZZACUVA, Le autorizzazioni amministrative e la loro rilevanza in sede penale, in Riv. it., 1976, 774. (190) Di tale avviso MILITELLO, op. cit., p. 113. (191) Si esprime facendo riferimento a questo secondo binomio ENGISCH, Untersuchungen, p. 288. (192) MILITELLO, op. cit., p. 165; SHROEDER, StGb-LK, § 16 n. 162. (193) In tale ordine di idee GIUNTA, Illiceità, cit., p. 187; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 352; PAGLIARO, Fatto, condotta, cit., p. 623.
— 261 — bene leso. Naturalmente nel delicato gioco di valutazioni attinente alla responsabilità del soggetto il giudice dovrà tener conto della violazione, oltreché delle regole di diligenza attinentl specificamente al dato settore, anche delle ulteriori precauzioni, la cui osservanza sia imposta nel caso specifico compatibilmente alla realizzazione dell’interesse sociale alla condotta, delle quali il soggetto era a conoscenza o comunque dovevano essere a lui note. Occorre quindi, per andare esente da responsabilità, non il semplice adempimento di tutte quelle prescrizioni, collegate allo svolgimento di attività pericolose, al cui assolvimento è subordinata la loro autorizzazione da parte dell’ordinamento: è necessario che difetti la presenza in capo al singolo agente di ulteriori cognizioni supplementari che gli rendessero riconoscibile il prodursi dell’evento (194). In altre parole bisognerà accertare se, a prescindere dall’osservanza delle regole tecniche, al soggetto agente, nella specifica situazione data e per la posizione che questi si trovava ad occupare, fossero note ovvero dovessero esserlo comunque, in forza di indizi concreti che ne potessero attestare in modo univoco la presenza, circostanze che gli rendessero riconoscibile il prodursi dell’evento, nonostante l’osservanza delle norrne cautelari a lui specificamente indirizzate. Così il soggetto agente risponderà dell’evento, nonostante l’osservanza delle regole a lui specificamente imposte, se nel contesto in cui si trova ad operare si renda conto che i soggetti con i quali venga a contatto non si atterranno alle prescrizioni loro dirette (195). Se la soglia del rischio consentito è strettamente collegata alle regole di diligenza che sono ad esso pertinenti sorge allora spontaneo l’interrogativo su quale sia lo scopo della regola che impone le modalità d’azione. Una parte della dottrina (196), partendo dal presupposto che il limite del rischio consentito sia caratterizzato dal rispetto delle regole di diligenza, afferma che le stesse svolgano il compito di evitare che si ‘‘aumenti il rischio’’ o di minimizzare lo stesso e non di impedire lesioni ai beni coinvolti: ancor meglio la riduzione del rischio al minimo socialmente tollerabile. Con questo non si vuole affermare che impedire lesioni sia uno scopo socialmente irraggiungibile ma mettere in rilievo come solo la riduzione del rischio sarebbe il contenuto delle norme di diligenza compatibilmente con l’esistenza del rischio consentito. Questo perché l’unico modo per impedire una effettiva lesione dei beni o il totale azzeramento dei rischi sia quello di astenersi dall’agire: se le regole cautelari imponessero di impedire sempre e comunque la lesione del bene si contraddirebbe quella che è la stessa ratio dell’Erlaubtes Risiko che è individuazione dell’ambito in cui la regola di diligenza non può mai coincidere col dovere di astensione. In realtà tale orientamento se intende meglio individuare i confini del rischio lecito finisce per spostare la soglia del rischio consentito verso un’anticipazione della tutela dei beni in tal modo restringendo l’ambito della libertà d’azione. A questo si può poi aggiungere che per impedire che si verifichino eventi lesivi, non è necessario dover imporre quale costo la totale rinuncia all’attività pericolosa: basterà più semplicemente che le azioni vengano compiute nel rispetto delle modalità idonee ad impedire ed eliminare i pericoli, salvo che lo stato deficitario della tecnica o dell’arte permetta solo di ridurre i pericoli (197). A questo bisogna poi aggiungere l’ulteriore rilievo che se si richiede ai fini della punibilità il semplice aumento del rischio si finisce col trasformare reati di danno in reati di pericolo (198). Scopo quindi delle norme cautelari, nello specifico campo qui esaminato, è quello di determinare le modalità di condotta cui deve attenersi l’agente allo scopo di evitare che l’attività pericolosa concretizzi in lesione il rischio in essa insito. Deve pertanto concludersi che, nel delicato (194) Sulla incidenza nell’ambito del Rischio consentito delle conoscenze supplementari vedi ROXIN, Strafrecht, cit., p. 897; M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 73. (195) Sul problema dei rapporti fra Erlaubtes Risiko e principio dell’affidamento vedi la interessante monografia di M. MANTOVANI — Il principio dell’affidamento, cit. —. (196) SHÜNEMANN, Die deutschsprachige Strafrechtswissenschaft nach der Strafrechtsform im Spiegel des Leipziger Kommentars und des Wiener Kommentars, in GA, 1985, 358 ss. (197) MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 22. (198) MARINUCCI, op. ult. cit., p. 21.
— 262 — gioco di valutazioni e bilanciamenti fra interesse a permettere attività rischiose ma utili per l’ordinamento e tutela di beni altrettanto rilevanti, posizione importante se non preminente è assunta dalle regole cautelari di diligenza che permettono di individuare con certezza la soglia del rischio stesso. È infatti solo la loro violazione — si tenga comunque presente quanto detto a proposito delle conoscenze ulteriori — che permette di individuare l’ambito del penalmente illecito. Ma — v’è da chiedersi — in che modo esse rilevano nell’ambito della struttura del reato colposo: in realtà esse rappresentano la concretizzazione delle qualifiche normative di cui all’art. 43 c.p. (199). Deve infatti tenersi presente che negligenza, imprudenza, imperizia (che rappresenta un ipotesi di imprudenza e negligenza qualificata) (200) equivalgono in sostanza ad assunzione di un rischio eccessivo nelle concrete circostanze, giacché vi è un rischio l’assunzione del quale le norme sociali non considerano rimproverabile. Così come, allorquando il legislatore ha dettato regole cautelari specifiche, da osservare nel compimento di determinate attività, si viene a determinare una zona di rischio lecito più netta ed evidente sempre che in concreto non possa ravvisarsi colpa generica. Deve allora concludersi che il rischio consentito opera nello stesso ambito del reato colposo in quanto ‘‘fornisce una misura di valutazione di ogni azione che abbia involontariamente causato un evento tipico’’ (201). 14. Rapporti tra rischio e reato doloso. — Lo studio del rischio in rapporto al reato doloso, anche se affonda le sue radici negli studi del secolo scorso aventi ad oggetto la rilevanza penalistica della causalità (202), si rivela più pregnante nel tentativo attuale di affermazione nella struttura di quest’ultimo del dovere di diligenza, che viene in tal modo ad integrarne il Tatbestand obiettivo. È quindi nel tentativo di riunificazione tra dolo e colpa, nello sforzo ricostruttivo dei punti di contatto tra le due forme di responsabilità, che il rischio trova il terreno fertile che gli ha permesso di costituire la base di ogni tipo di illecito assumendo in tal modo validità generale tale da permettere l’estensione al delitto doloso di gran parte dei criteri di ascrizione dell’evento elaborati in campo colposo (203). In particolare affermandosi un’identità di fattispecie obiettiva fra reato doloso e colposo (204) — tale assimilazione è ammissibile fintantoché si considerino dolo e colpa come aspetti della condotta tipica illecita e non solamente come forme di colpevolezza (205) —, e riconosciuta la stretta incidenza nel rischio adeguato dell’osservanza delle regole di diligenza, affermata l’identità di tale ultimo requisito nei reati dolosi, ne deriverebbe una parallela rilevanza del rischio nella struttura del reato doloso (206). L’evidenza di tale impostazione la si riscontra in quei casi in cui è stato richiamato il rischio lecito per negare una responsabilità dolosa. In particolare si afferma che quelle azioni che creano un rischio consentito per un bene giuridico protetto ‘‘non tollerano l’imputazione dell’evento neppure se la volontà tendeva verso di esso’’ (207). Così il chirurgo il cui paziente muoia benché l’operazione sia stata eseguita a regola d’arte non risponderà per omicidio doloso, ‘‘neanche se tale evento corrispondesse ad (199) MILITELLO, op. cit., p. 190 ss.; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 88; MARINUCCI, La colpa, cit., p. 216. (200) Vedi ad es. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 487. (201) MILITELLO, Il rischio, cit., p. 253. (202) si veda ad es. il tentativo di VON BAR, Die Lehre vom Kausalzusammenhange im Rechte, besonders im Strafrechte, Leipzig, Tauchnitz, 1871, p. 4 ss. (203) ENGISH, Untersuchungen, p. 282 ss., MARINUCCI, La colpa, cit., p. 27. (204) Sui tentativi di ravvisare una base obiettiva comune e fondata sul dovere di diligenza vedi supra § 3. (205) Per approfondimenti vedi MARINUCCI, Il Reato, cit., p. 98 ss. (206) Questo tipo di impostazione è molto evidente in HERZBERG, Die Abgrenzung, cit., 239. (207) ROXIN, Gedanken, cit., p. 144.
— 263 — esempio alla sua volontà di sbarazzarsi di un rivale’’ (208). Quindi soltanto quel soggetto che, ponendo in essere un comportamento negligente — violando quelle regole di diligenza che rappresentano la misura normativa dell’adeguatezza del rischio stesso —, concretizza il rischio non più tollerato giuridicamente sarà imputabile a titolo di dolo per l’evento cagionato (209). Se allora l’azione non si discosta dalle regole della vita, che delimitano la liceità, non si avrà responsabilità dolosa nonostante la presenza di un’intenzione dell’agente in ordine all’evento: appunto perché manca la realizzazione di un rischio giuridicamente rilevante. Il rischio come limite generale della responsabilità, tanto dolosa quanto colposa, rappresenta in realtà il frutto di una sua considerazione quale speciale causa di giustificazione (210). Si afferma infatti che l’Erlaubtes Risiko rappresenta il punto di composizione del contrasto, che continuamente si rinnova, tra esigenze di progresso tecnico-scientifico, di promozione della mobilità sociale e del libero e massimo sviluppo della personalità e delle relazioni umane da un lato, e il pericolo di offesa a beni e ad interessi, dall’altro (211). Così l’esclusione della responsabilità viene effettuata tanto in quei casi a decorso anomalo ed inverosimile (212), tanto in quei casi in cui le probabilità di realizzazione di eventi lesivi sono statisticamente rilevanti e tuttavia l’attività mantiene un significato di conformità con l’ordinamento (213). In particolare per quanto riguarda questa seconda costellazione di casi si afferma che se il suo esercizio è regolato da norme cautelari per evitare che dall’attività scaturiscano eventi offensivi, è indifferente ai fini giuridici la presenza di una intenzione criminosa, almeno fintantoché l’evento non costituisca il risultato della deviazione da quelle regole precauzionali: in altre parole, se è l’ordinamento stesso ad operare una valutazione di liceità delle condotte rischiose, se ed in quanto queste siano conformi alle regole prestabilite normativamente, è indifferente il modo di atteggiarsi della volontà nei confronti dell’evento rilevando casomai la sola difformità della condotta dalle regole stesse. Se nei suddetti casi, si deve escludere la responsabilità anche se vi è la volontà dell’evento a maggior ragione dovrà escludersi la responsabilità in quel gruppo di situazioni in cui manca la direzione della volontà alla produzione dell’offesa (214): si fa cioè riferimento a quei casi in cui l’evento tipico (208) ROXIN, op. ult. cit. Sull’argomento vedi inoltre MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 26. (209) ZIELINSKI, Kommentar zum Strafgesetzbuch, a cura di Wasserrnann, I, 1990, §§ 15, 16, Rn 116, p. 497 ss.; PREUSS, Untersuchungen zum erlaubten Risiko im Strafrecht, Berlin, 1974, p. 15-16. (210) Vedi ad es. SCHMIDHÄUSER, Strafrecht. Lehrbuch, Allg. Teil, Tübingen, Mohr, 2. Aufl., 1975, p. 301 ss. (211) Così PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 89. (212) Si pensi al già citato nipote che, al fine di anticipare la morte del vecchio zio, gli consegni un biglietto d’aereo e lo induca a compiere un viaggio di piacere, confidando che l’aereo cada e che lo zio muoia, come poi in effetti avviene: egli risponderà a titolo di omicidio doloso se quel che ha intensamente voluto è la realizzazione di un rischio aereonautico civile che supera i limiti della prudenza e diligenza del settore; se invece la morte dello zio, seppur intensamente voluta e concausata dalla sua istigazione a prendere l’aereo, sia lo sviluppo di un rischio aereonautico non colposo, restando nei limiti della diligenza, prudenza e perizia del settore, egli sarà esente da responsabilità (cfr. MARINUCCI, Non c’e dolo, cit., p. 29). (213) Si pensi al settore degli interventi medico-chirurghici (in argomento vedi ad es. MANNA, Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico, Milano 1984). In particolare il chirurgo non risponderà per dolo se abbia rispettate le regole artis anche se la morte, eventualmente causata, al soggetto sottoposto ad operazione sia da lui voluta intensamente. Ed infatti in tale settore le regole di diligenza assumono fondamentale rilevanza essendo esse previste proprio per ridurre il pericolo insito in tal tipo di attività. Anche se si obietta che l’esclusione della responsabilità è dovuta al fatto che il soggetto comunque agiva per impedire l’evento, bisogna comunque concludere che l’esenzione si spiega in base al carattere giustificato del rischio. (214) Si pensi al caso dell’imprenditore che esercita una attività utile, ma pericolosa,
— 264 — è cagionato da un’attività in sè utile e tuttavia l’agente si rappresenta la possibilità delle conseguenze negative di esse. Non viene qui in rilievo la volontà dell’evento ma la semplice coscienza in capo al soggetto della pericolosita e rischiosità dell’azione. In effetti la mera consapevolezza di una potenzialità offensiva della condotta, ma accettata dall’ordinamento nei termini stabiliti dalla disciplina precauzionale, non può essere ritenuta sufficiente a fondare una responsabilità a titolo di dolo nel momento in cui vengano rispettate le modalità di condotta prescritte dal dovere di diligenza. Si afferma infatti come anche in questi casi la prospettiva del rischio lecito opera come negli altri gruppi di ipotesi su esaminati (215). In realtà tale tipo di costruzione, nel momento in cui riduce il rischio adeguato — inteso come strumento che imponendo delle regole di diligenza permetta di agire nonostante la pericolosità dell’azione — ad una formula indifferente alle caratteristiche della specie di illecito in cui è chiamato ad operare, svuota il criterio del rischio da autonomi contenuti di liceità e lo riduce ad un mero schema formale atto a riunire i differenti punti di vista che portano alla non punibilità e che non rientrino in altre e più tradizionali figure di esclusione del reato (216). Senza far riferimento a quelle attività che sono tipicamente realizzate per offendere beni giuridici (217), si intende qui mettere in luce come è diverso il modo di atteggiarsi del rischio rispetto ai reati dolosi. Già si è detto che inquadrare anche nell’ambito della struttura del reato doloso le regole di diligenza sia in realtà una operazione dogmatica errata che non tiene conto della funzione che le suddette norme hanno nell’ambito del reato colposo (218): individuare l’ambito del Tatbestand. Partire poi da tale presupposto per affermare che l’Erlaubtes Risiko si estrinseca rispetto alle condotte che va a legittimare in un’identica maniera, indipendentemente dal tipo di responsabilità che viene in gioco, dimostra un fraintendimento della ratio dell’istituto: si finirebbe col forzare l’impiego del criterio del rischio per coprire violazioni intenzionali ai beni giuridici (219). Deve tenersi conto che col rischio adeguato si intende legittimare quelle attività utili per la società ma lesive di determinati beni se poste in essere con determinate modalità. Ecco perché l’ordinamento individua, tramite le regole di diligenza, quelle altre modalità che invece riducono il rischio di lesione entro limiti accettabili. Pertanto, nonostante il carattere eminentemente oggettivo del giudizio in esame, l’esistenza di una finalità offensiva in capo all’agente non è irrilevante, perché prelude il valore di positività che l’ordinamento ha dato all’ambito dell’adeguatezza del rischio creato. L’ordinamento, infatti, con il prestabilire una soglia di rischio tollerabile intende da una parte esonerare da responsabilità quelle condotte che, pur dotate di una propria positività, si rivelano pericolose, ma dall’altra individuare le modalità che il soggetto deve tenere affinché la sua condotta non leda il bene protetto. Risulta pertanto un controsenso esonerare da responsabilità quei soggetti che, sfruttando la pericolosità delle attività in il quale secondo esperienza e statistiche, prevede ed accetta la possibilità che si verifichino incidenti durante l’esecuzione dei lavori, nonostante l’applicazione delle misure antiinfortunistiche prescritte (l’esempio risale a SCHAFFSTEIN, Saziale Adäquanz und Tatbestandlehre, in ZStW, 1960, 373, nt. (11), ed è stato ripreso da MILITELLO, Rischio, cit., p. 220). (215) Così PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 87. (216) II rilievo è di V. MILITELLO, Rischio, cit., p. 232. (217) Fa infatti notare MILITELLO, op. ult. cit., che se i parametri atti a determinare il livello del rischio sono la pericolosità dell’attività e l’interesse sociale al suo svolgimento, dovranno escludersi dall’ambito dell’Erlaubtes Risiko proprio quelle attività che, essendo tipicamente realizzate per offendere beni giuridici (si pensi alla rapina, al peculato), sono prive già a priori della possibilità di concretizzare un qualche interesse sociale. Viene, in altre parole, a mancare in esse uno dei due termini di paragone ed il rischio in esse insito non può che rivelarsi Unerlaubtes. Per una critica a tale esclusione vedi PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 94-95, nt. (35). (218) Vedi supra § 3; sulla rilevanza del dovere di diligenza nell’ambito del dolo eventuale vedi infra § 17. (219) Contro tale uso indebito dell’Erlaubtes Risiko vedi ad es. BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, Bd. II Hälfte 1, Shuld und Vorsatz, Leipzig, 1914, p. 248-249.
— 265 — cui operano, intendono ledere quello stesso bene che l’ordinamento intende tutelare ponendo delle regole che riducano il rischio tipico delle condotte degli agenti. Il formale rispetto delle regole d’esecuzione dell’attività ben può essere strumentalizzato dal reo per offendere beni protetti, in tal modo venendo annullato il valore dell’interesse sociale alla realizzazione della condotta. Deve comunque tenersi presente che ai fini della punibilità a titolo di dolo occorre una volontà effettiva — e non una semplice coscienza del rischio (220) o il semplice desiderio lesivo (221) — che si estrinsechi in atto. Cosi il soggetto che vuole eseguire con uno scopo lesivo un’attività normalmente accettata, per rispondere a titolo di dolo deve sfruttare la conoscenza di particolari circostanze in tal modo elevando la pericolosità della condotta al di sopra del normale (222). Nel caso in cui il soggetto invece rispetti le regole imposte per il tipo di attività ed eventualmente anche le altre che intervengano nel caso concreto, non risponderà dell’evento cagionato, anche se voluto, perché difetta il requisito del Tatbestand (in specie nesso di causalità): la sua condotta non integra una condicio sine qua non dell’evento (223). Deve infatti tenersi presente che, anche se la condotta dell’agente è pericolosa in quanto aumenta le chance di causazione dell’evento, il rispetto delle regole individuate dall’ordinamento per quel tipo di attività pemmette di mantenere la stessa nell’ambito della liceità: la volontà di cagionare l’evento si identifica in un puro proposito criminoso. Quest’ultimo rileverà, in aderenza al principio di materialità del diritto penale, soltanto quando venga concretizzato in un atto lesivo: sarà allora indifferente che la condotta si estrinsechi in una violazione di quelle specifiche regole poste dall’ordinamento a tutela del bene leso, o in una offesa diretta dello stesso. In conclusione deve quindi ritenersi non condivisibile l’individuazione di una base unitaria e comune tanto al reato doloso quanto a quello colposo, ottenuta tramite il riferimento al rischio consentito e alle regole di diligenza che ne individuano la soglia (224), in quanto diverso è il modo di atteggiarsi dell’Erlaubtes Risiko nei confronti dei due tipi di illecito: nei reati colposi esso individua lo stesso ambito dei criteri normativi di cui all’art. 43 c.p., contribuendo in tal modo ad individuarne il Tatbestand; nei reati dolosi invece esso rileverà in quanto, individuando il livello di pericolosità della condotta in astratto, determina quali sono le condotte idonee a cagionare l’evento e che rileveranno in sede di giudizio eziologico. Si avrà allora responsabilità dolosa nel caso in cui il soggetto, rappresentandosi le circostanze di fatto che determinano un innalzamento del livello di pericolosità della situazione concreta rispetto a quella astratta, unitamente alla volizione dell’evento, agisca comunque. La mancanza invece di tali coefficienti soggettivi non basta ancora per l’imputazione dell’evento a titolo di colpa, dovendosi ad essa accompagnare la violazione delle regole di diligenza unitamente alla rimproverabilità della stessa. 15. In particolare: il modo di atteggiarsi del rischio rispetto al dolo eventuale. — Occorre ora prendere in considerazione un terzo gruppo di casi, cui si è già accennato, concernente condotte in cui manca la direzione della volontà alla produzione dell’offesa, ma l’evento tipico è cagionato da una attività in sé utile e tuttavia l’agente si rappresenta la possibilità delle conseguenze negative di essa. Si tratta cioè di quei casi in cui la dottrina tradizio(220) Esclude dall’ambito del dolo la semplice coscienza del rischio HASSEMER, Caratteristiche, cit., p. 495. (221) Cfr. MILITELLO, op. cit., p. 235. (222) Così, riprendendo i casi di cui alle nt. 212-213, il nipote risponderà di omicidio se alla istigazione dello zio a imbarcarsi su un aereo non di linea si accompagna la conoscenza non manifestata sullo stato anomalo del veicolo, allo stesso modo il chirurgo rispondera di omicidio se egli ha operato comunque, pur sapendo che l’odiato paziente non avrebbe retto ad una operazione del tipo di quella praticata. (223) Si fa in particolare riferimento al criterio della causalità scientifica per il quale vedi STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale in diritto penale, Milano, 1975. (224) Dello stesso avviso, MILITELLO, op. ult. cit. p. 252.
— 266 — nale individua la forma eventuale del dolo (225). In particolare in questo genere di ipotesi è dubbio che la mera consapevolezza della potenzialità offensiva della propria condotta, possa essere sufficiente a fondare una responsabilità a titolo di dolo (226) Resta comunque da accertare se la prospettiva dell’Erlaubtes Risiko operi in questo ambito secondo i parametri propri del reato colposo o di quello doloso. Si afferma così che la consapevolezza della possibile concretizzazione del rischio statistico proprio di determinate attività pericolose, ma ordinariamente accettate, fonderebbe la responsabilità per dolo eventuale: ma proprio perché il rischio che concretizza l’evento è consentito dall’ordinamento, viene a mancare il disvalore di azione necessario per l’illecito doloso (227). Ed in questi stessi termini si affemma che integrerebbe il dolo eventuale non l’accettazione pura e semplice del rischio, bensì l’accettazione di quel rischio che superi la soglia del consentito e che, pertanto si rivela incompatibile con la misura del rischio ammessa dall’ordinamento (228). Anche in quest’ottica si spiega quel tentativo della dottrina (229), già esaminato, di costruzione del dolo eventuale quale forma di colpevolezza che si accompagna a quelle condotte eccessivamente pericolose. Si è visto però come non si possa basare la distinzione tra dolo e colpa solo sul piano di una delicata ponderazione delle caratteristiche del rischio e delle modalità in cui esso viene posto in essere: se, infatti, il dolo esige la volizione dell’evento, non si può affermarne la sussistenza sulla base della mera consapevolezza della rischiosità della propria condotta, tanto più se è stata sottoposta dall’ordinamento ad una valutazione di liceità. Resta comunque il fatto che anche nel caso in esame, intanto si potrà proporre un problema di distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente in quanto il soggetto con la propria condotta abbia superato la soglia del rischio consentito, abbia cioè violato quelle norme di diligenza che l’ordinamento ha positivizzato ai fini dell’individuazione della soglia del rischio stesso. Se la diversità del modo di atteggiarsi del rischio consentito nei confronti del reato doloso rispetto a quello colposo dipende dalla presenza nel primo della volontà di dirigere la condotta pericolosa verso la causazione dell’evento, dovrà concludersi che anche in quest’ambito, dove manca una volizione intesa in senso codicistico, il rischio consentito avrà la funzione di individuare gli specifici parametri normativi che caratterizzano il Tatbestand del reato: in altre parole il rischio consentito avrà rispetto al dolo eventuale il medesimo ambito che esso presenta rispetta al reato colposo. Se, come si è detto, scopo del rischio adeguato è quello di legittimare attività utili per la società ma lesive di determinati beni se poste in essere con determinate modalità; se l’ordinamento individua, tramite la positivizzazione di regole di diligenza, quelle altre modalità che riducono il rischio al di sotto di livelli accettabili; se solo la presenza di una finalità offensiva determina — si avrebbe altrimenti la frustrazione della ratio dell’istituto — un diverso modo di manifestarsi del rischio consentito rispetto ai reati dolosi, dovrà concludersi che l’Eraubtes Risiko, rispetto a quelle situazioni in cui vi è la mera coscienza della pericolosità della condotta, opera allo stesso modo di come opera nel reato colposo. L’aver agito nella consapevolezza del rischio o, ancora meglio, di un determinato tipo di rischio, l’aver cioè accettato la situazione di pericolosità insita nella propria condotta denota non altro che un comportamento negligente: si rientra quindi nell’ambito di competenza della responsabilità colposa. Deve allora concludersi che in un diritto penale della protezioni dei beni giuridici, il margine di liceità del rischio delineato dalle regole cautelari non può differire per il dolo eventuale rispetto a quanto accade per la colpa cosciente, poiché in entrambi manca quel requisito — volontà di dirigere l’azione pericolosa verso l’evento che determina una diversa connotazione del rischio consentito rispetto ai reati dolosi. Anche quindi per la sussistenza del dolo eventuale, come accade nel caso di colpa co(225) si occupa dei rapporti tra rischio e forme non intenzionali del dolo MILITELLO, op. cit., p. 241 ss. (226) Nega tale possibilità FRISCH, Vorsatz, cit., p. 141. (227) PREUSS, Untersuchungen, cit., p. 215. (228) PHILIPPS, Dolus, cit., p. 38; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 85. (229) Vedi supra § 12.
— 267 — sciente, occorre la violazone delle regole cautelari che determina lo ‘‘sforamento’’ della soglia del rischio. In altre parole sarà proprio tale violazione a fondare la responsabilità del soggetto a titolo di dolo eventuale (230).
E) VERSO IL SUPERAMENTO DEL DOLO EVENTUALE: IL DOLO COME EFFETTIVO E NON MERAMENTE POTENZIALE COEFFICIENTE PSICOLOGICO. 16. Analisi del dolo ed ammissibilità di una forma eventuale. — Per poter effettuare un esatto inquadramento del dolo eventuale occorre stabilire, una volta per tutte, se sia ammissibile ritenerlo una forma di dolo o se invece rappresenta una ipotesi di colpa aggravata. Individuata quindi la base comune al dolo e alla colpa nella previsione dell’evento, rispetto alla situazione in cui il soggetto ha previsto la mera probabilità del verificarsi dell’evento si dovrà prima accertare, in base al disposto di cui all’art. 42 c.p., secondo comma (231), la sussistenza del dolo. Solo se la risposta è negativa ci si può chiedere se ricorra la colpa, poiché rispetto allo stesso fatto tipico le due forme di colpevolezza sono alternative. La portata di tali affermazioni la si comprende dalla mancanza, nell’ordinamento italiano, di una definizione legislativa espressa del dolo eventuale. Non è neppure sufficiente rilevare, per affermare la sussistenza del dolo eventuale, che l’evento stesso si presenti come obiettivamente prevedibile perché secondo il tenore dell’art. 43 c.p. la previsione dell’evento non dice ancora nulla circa la reale natura dell’elemento soggettivo. Si tratta allora di appurare se, pur nell’assenza di una definizione legislativa del dolo eventuale, si possa individuare nel sistema penale italiano una qualche disposizione dalla quale possano provenire indicazioni sul punto. Certo, la nostra posizione scettica non si impunta sul fatto che, in ogni caso, i concetti di dolo e di colpa siano sempre e comunque di competenza legislativa. Deve infatti tenersi presente che il legislatore, nel positivizzare un qualche concetto, tenga conto anche del sostrato ontologico che eventualmente preesista alla propria attività normativa (232) e delle esigenze peculiari dell’ordinamento medesimo. Cosa certa è che il dolo eventuale rientra con grande difficoltà nel concetto di dolo di cui all’art. 43 c.p. Abbiamo già visto che detto articolo stabilisca che il delitto è doloso quando l’evento è preveduto e voluto come conseguenza della propria condotta. L’enunciato configura — per riprendere la definizione che ne dà M. Gallo (233) — il dolo ‘‘quale complesso di fatti interni o psicologici (volizione e rappresentazione) che, dato il termine usato (intenzione), non possono essere potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto’’. Se dalla definizione che la legge italiana dà del dolo non emergono riferimenti espressi alla figura del dolo eventuale, un dato negativo in ordine alla configurabilità dell’istituto affiora a livello di lavori preparatori (234). Se infatti nel contesto della dicotomia tra teoria della volontà e teoria della rappresentazione la scelta del legislatore è caduta sulla prima (235) ciò significa che l’evento debba comunque essere non solo preveduto ma anche voluto. ‘‘Se (agente) non ha voluto produrre quel danno benché lo abbia preveduto, ciò non basta per essere in dolo’’ (236). L’aver individuato il (230) Per la esatta qualificazione del dolo eventaule dal punto di vista della colpevolezza v. infra § 17. (231) Se infatti il dolo rappresenta la forma ordinaria di individualizzazione dell’illiceità penale, ciò significa che come prima ipotesi l’interprete deve verificare se rispetto a una data fattispecie sussite il dolo. Sul punto vedi GIUNTA, Illiceità cit., p. 289-359. (232) Da questo si deduce l’importanza che assumono nell’ambito del diritto gli studi operati in altri campi scientifici quali ad es. quello criminologico o sociologico. (233) M. GALLO, Dolo, cit., p. 751. (234) Molto interessante è sul punto il lavoro di LICCI, Dolo eventuale, cit., p. 1499 ss. (235) ROCCO, Lav. prep., vol. IV, I, p. 139. (236) ROCCO, Lav. prep., cit.
— 268 — dolo eventuale come figura secondo l’intenzione, caratterizzata da previsione e volontà, sta ad indicare la negazione dell’Eventualler Vorsatz. Ed infatti ad una interpretazione meramente letterale del dato normativo sembra doversi postulare un’equazione tra dolo e dolo intenzionale ‘‘che lascia spazio solo al nucleo forte della figura’’ (237) tanto più se si tiene conto che la colpa viene parallelamente costruita dal terzo comma dell’art. 43 c.p. come figura ‘‘contro l’intenzione’’, ove appunto l’evento, ancorché preveduto non è voluto (238). A questa stessa conclusione perviene anche parte della dottrina che si è occupata del dolo eventuale (239): si afferma, infatti, che è un controsenso ritenere da una parte che il dolo è caratterizzato dall’intenzione — lo si evince dal tenore letterale della Relazione ministeriale (I, p. 96) dove si afferma che, se intenzione è la direzione della volontà, di cui pertanto è una qualificazione, quando il legislatore prende in considerazione tale direzione della volontà, e l’evento si adegua, ‘‘si verifica il reato doloso o secondo l’intenzione’’ — e dall’altro ammettere una forma di dolo non intenzionale. Tanto più se la colpa è definita come forma di colpevolezza caratterizzata dalla produzione dell’evento ‘‘contro l’intenzione’’. Si afferma inoltre che l’accentuazione dell’elemento psichico è necessariamente determinata, oltreché dal riferimento legislativo, anche dalla ‘‘necessità di dipanare la pratica confusione che si verrebbe a determinare nei reati di mera condotta’’ (240). A quest’ordine di dubbi si obietta che essendo il dolo un concetto normativo, cioè un concetto che rispecchia le esigenze del diritto, e sebbene in linea di massima perché si abbia dolo occorre che il volere si rivolga, come intenzione, all’evento, tuttavia, secondo i fini dell’ordinamento penale, bisogna ricomprendere nella nozione di dolo anche tutti quegli altri comportamenti che non differiscono in una prospettiva teleologica dal modello citato (241). Quindi, quando il codice parla di delitto ‘‘secondo l’intenzione’’ non restringe il campo del dolo al solo dolo intenzionale, né privilegia, comunque, tale forma di dolo: essa riconosce il carattere intenzionale, finalistico della condotta umana (242). A conferma di quanto detto, si afferma che il legislatore presuppone presente l’intenzione, anche nel definire il delitto colposo ‘‘sia pure per segnalare il distacco, l’opposizione del fatto da essa’’ (243). Questo ordine di idee si spiega per la disapprovazione che ha sempre riscontrato l’inclusione in testi legislativi di definizioni di termini, il chiarimento dei quali sarebbe compito esclusivo della dottrina e della giurisprudenza (244). Ed infatti si afferma (245) che, anche se un codice penale deve essere l’espressione di un chiaro pensiero dommatico, non può ‘‘costituire esso medesimo l’espressione di una dommatica, non può, cioè, trasformarsi in un trattato’’. Così l’inclusione, nella formula dell’art. 43, terzo comma c.p., dell’inciso ‘‘o contro l’intenzione’’ non ha che un valore meramente ideologico, direttamente riferibile, cioè, all’idea che il legislatore si fa del dolo, di cui pur detta la nozione senza tener conto di quella idea (246). Si precisa allora che, nella definizione del dolo deve escludersi ogni riferimento al concetto di intenzione e riferirsi ai termini volizione e previsione dell’evento (247). In particolare ‘‘voluto come conseguenza’’ non potendosi identificare con il concetto di intenzionalmente voluto, deve essere inteso in una
(237) LICCI, op. cit., p. 1500. (238) Sostiene che il ripudio della teoria della rappresentazione abbia avuto come conseguenza l’eliminazione dal corpo norrnativo italiano del dolo eventuale PANNAIN, Manuale di diritto penale, cit., p. 321. (239) ALTAVILLA, Dolo eventuale, cit., p. 175. (240) Vedi in particolare BRICOLA, Dolus, cit., p. 70. (241) Cfr. PAGLIARO, Principi, cit., p. 272. (242) PROSDOCIMI, Reato doloso, cit., p. 244. (243) PROSDOCIMI, op. ult. cit. (244) Ritiene sempre indebito tale tipo di intervento del legislatore WELZEL, Wie Würde sich die finalistische Lehre auf den Allgemein Teil eines neuen Strafgesetzbuchs auswirken?, in Materialien zur Strafrechtsreform, I, Bonn, 1954, p. 45. (245) GALLO, voce Colpa penale (dir. vig.), in Enc. del diritto, vol. VII, 1960, p. 625. (246) GALLO, Colpa, cit., p. 626 nt. 7. (247) JACONO, Intenzione, volontà e previsione nella nozione del dolo, 1937, p. 446;
— 269 — accezione più ampia che, da parte di una dottrina, viene inteso come correlazione causale dell’evento con la propria azione (248). È facile obiettare a tale impostazione che il concetto di volizione, seppure non può essere interpretato in modo equivalente a quello di intenzione, neppure può essere svilito fino a ridurlo ad una pura dimensione intellettiva. Ed in tal senso appaiono discutibili quei tentativi affermatisi nella recente dottrina, soprattutto di lingua tedesca, che spostano il fulcro del dolo sul momento rappresentativo, con il progressivo ridimensionamento del ruolo della volontà (249). Ciò si spiega in base al fatto che la volontà, quale elemento psicologico reale costituisce un requisito di difficilissima prova sul terreno processuale — cosa che spiega il massiccio uso nella prassi applicativa di schemi presuntivi —, mentre la prova della rappresentazione dà luogo a difficoltà comparativamente minori (250). Deve tenersi presente che la rappresentazione di un dato risultato, in quanto essa si limita ad informare il soggetto circa gli atti strumentalmente necessari per conseguire uno scopo, non dice ancora nulla sul modo di rapportarsi del soggetto rispetto all’evento (251). Rinunciando poi alla dimensione volontaristica si rende il dolo indistinguibile dalla colpa (252). Deve allora concludersi che ‘‘il dolo è, nella sua struttura, volontà’’ (253). Riscontrata la inaccettabilità di ogni tipo di approccio puramente cognitivo nella teoria del dolo, occorre vedere quale sia la esatta dimensione della responsabilità dolosa. Che nell’ambito del dolo rientrano le conseguenze prese direttamente di mira nessuno dubiterebbe mai, soprattutto se si tiene conto del fatto che il legislatore, nel momento in cui ha individuato il concetto di dolo — lo dimostra d’altronde l’inciso ‘‘secondo l’intenzione’’ —, faceva riferimento alla forma intenzionale (254). Per intenzione deve riferirsi ad un concetto sintetizzabile come orientamento dell’individuo ad un risultato, nei termini di un concreto attivarsi per il conseguimento dello scopo (255). La condotta deve risultare mezzo strumentale per il raggiungimento dell’obiettivo motivante, distinto da esso e costituente il vero punto di riferimento della intenzionalità. L’evento sarà allora voluto quale risultato dell’azione quando il suo mancato conseguimento rappresenterebbe comunque per l’agente la mancata soddisfazione dello scopo preso di mira. Quindi l’agire per il conseguimento del riDE FRANCESO, Dolo eventuale, cit., p. 1501; LICCI, Dolo eventuale, cit., p. 1501; GALLO, II dolo, cit., p. 30. (248) DE FRANCESCO, op. ult. cit., p. 149. Questa impostazione si spiega per l’individuazione del dolo eventuale quale figura base del dolo del quale possiede gli elementi essenziali anche se in misura meno pregnante. (249) Per approfondimenti sul tema vedi soprattutto EUSEBI, Il dolo, cit., p. 1 ss. e 100 ss. Nella manualistica fa riferimento a questo orientamento in controtendenza FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 308. (250) Sui problemi di carattere probatorio attinenti al dolo vedi supra § 2 e bibliografia ivi citata. (251) Così, EUSEBI, II dolo, cit., p. 21. (252) Ritiene infatti SHULTZ — Eventuallvorsatz, bedingter Vorsatz und bedingter Handlungswille, in Festschrift für Spendel, Berlin-New York, 1992, p. 309 — che se il dolo viene ridotto al conoscere, ‘‘non è possibile distinguere il comportamento doloso da quello coscientemente colposo’’. (253) PAGLIARO, Principi, cit., p. 268. (254) Nella manualistica il dolo è definito intenzionale quando: ‘‘il soggetto ha di mira proprio la realizzazione della condotta criminosa, ovvero la causazione dell’evento’’ (FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 320); ‘‘la volontà ha direttamente di mira l’evento tipico, è diretta alla realizzazione del medesimo, sia esso stato previsto dall’agente come certo o anche soltanto come probabile’’ (MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 320); sono ‘‘voluti i risultati cui era diretta la volonta dell’agente, e cioè i risultati che costituiscono uno degli scopi per cui il soggetto ha operato’’ (ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1989, p. 304). In giurisprudenza distingue tra dolo diretto ed intenzionale Cass., I, 12 gennaio 1989, in Giust. pen., 1990, II, 72. (255) Per una analisi anche sotto un profilo psicologico dell’intenzione vedi DI LORENZO, I limiti, cit., p. 9 ss.
— 270 — sultato penalmente rilevante, identifica il nucleo sostanziale del dolo, ‘‘garantendone l’ancoramento in una realtà psicologica autonoma dal dato normativo’’ (256). La forma intenzionale deve allora essere considerata l’espressione tipica del reato doloso. Non potrebbe d’altronde essere altrimenti dato che, in un diritto penale ancorato alla difesa dei beni giuridici e teso agli scopi di prevenzione generale e speciale, la volontà diretta al raggiungimento dello scopo, rectius la volontà diretta alla lesione del bene protetto, rappresenta la forma più grave di manifestazione del reato e che si rivela la più pericolosa per l’ordinamento stesso. Per quanto riguarda invece il dolo diretto, cioè quella forma di dolo in cui, pur mancando la diretta volizione dell’evento, quest’ultimo è previsto dall’agente come conseguenza certa (257) o altamente probabile della propria condotta, esso rappresenta una estensione dello stesso dolo intenzionale (258). Poiché solo il risultato che dà causa all’azione è intenzionale il dolo diretto non costituisce aspetto di una nozione più vasta di intenzione o di volontà, ma è una situazione autonoma cui il legislatore decide di dare rilievo nell’ambito del dolo in forza della sua particolare contiguità alla sfera della volizione (259). In realtà nel dolo diretto manca una volontà intesa in senso naturalistico, essendo anzi caratterizzato dal ruolo pregnante della rappresentazione (260): si afferma, infatti, che il riconoscimento del dolo diretto rappresenta ‘‘la rinuncia ad una componente volitiva del dolo’’ (261). In risposta a questi rilievi basta ricordare gli insegnamenti di De Marsico (262): ‘‘È voluto — scrive quest’eminente autore — il risultato che è preso di mira, ed è voluto anche quello cui non mira, ma che prevede come certo. Già nell’aspetto psicologico è, infatti, se non inconcepibile, estremamente raro che chi cagiona un evento come certo (o altamente probabile), immancabile, non lo voglia e non lo abbia di mira’’ Se l’agente tende direttamente al conseguimento di un risultato, ma prevede che non può realizzarlo senza produrre anche un secondo, che avrà previsto come conseguenza certa o altamente probabile, quest’ultimo entrerà nella psiche del soggetto quale mezzo per il raggiungimento dello scopo. Di conseguenza l’evento prodotto dall’agente senza essere stato preso di mira, ma necessariamente connesso al risultato perseguito intenzionalmente non potrà non corrispondere alla volizione del soggetto in quanto vi è una ‘‘accettazione’’ (263) piena ed effettiva del fatto stesso. Affermata l’estensione del concetto di volontà anche a quei risultati che, anche se non sono presi direttamente di mira, sono previsti come certi o altamente probabili, resta da affrontare il problema — che coinvolge più direttamente la nostra indagine — del dolo eventuale. Affermano coloro che hanno teorizzato — o che hanno contribuito al suo studio — la figura del dolo eventuale che quest’ultimo, presentando rispetto al dolo diretto una differenza di carattere meramente quantitativo, rientrerebbe anch’esso nel concetto di volizione, nonostante che quest’ultima assumerebbe una minore pregnanza (264). Affermare però che il dolo eventuale condivida la medesima natura del dolo diretto ha portato ad una vera e propria confusione dei termini in (256) EUSEBI, Il dolo, cit., p. 56. (257) Circa il concetto di certezza del risultato, dato che di per sè una previsione certa è di per se improspettabile, dovrà venire in gioco un livello di previsione soggettiva riferito quantomeno all’alta probabilità. Vedi sul punto EUSEBI, op. cit., p. 54 e letteratura inglese ivi citata. (258) Si esprime in questi termini EUSEBI, op. ult. cit. (259) EUSEBI, op. ult. cit., p. 45. (260) Così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 320. (261) PUPPE, Der Vorstellunginhalt, cit., p. 13. (262) DE MARSICO, Coscienza, cit., p. 50. Deve comunque mantenersi la dovuta cautela perchè ‘‘l’accentuazione dell’elemento volontaristico è fatta in relazione all’azione e non all’evento’’ (DELITALA, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., p. 445). (263) L’utilizzo del termine ‘‘accettazione’’ non deve portare a fraintendimenti di sorta essendo lo stesso termine utilizzato dalla dottrina per individuare il concetto di dolo eventuale: l’accettazione in quest’ultimo si manifesta in una dimensione meramente ipotetica che si contrappone alla nozione di volontà intesa come coefficiente effettivo. (264) Vedi ad es. PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 105.
— 271 — esame. Si fa in particolare riferimento a quella prassi giurisprudenziale che ha ritenuto di ravvisare il dolo diretto anche quando le conseguenze non prese direttamente di mira siano previste soltanto come probabili (265). In realtà questa presa di posizione della S.C. dimostra il travisamento dell’esatto significato del concetto di volontà nel dolo che, se già con difficoltà riesce ad inglobare quei risultati previsti come altamente probabili ma non presi di mira, diviene ancor più evanescente nel momento in cui lo si riferisce a quei risultati previsti come solamente probabili. Ben più esatto sarebbe ammettere che in queste ipotesi, come in quelle in cui l’evento è previsto come meramente possibile, manca una volontà idonea a fondare il dolo. Solo infatti nei casi in cui il risultato è previsto come necessariamente connesso a quello preso direttamente di mira vi è la volizione dell’evento cagionato. Il soggetto che, avendo previsto come probabile o come soltanto possibile la verificazione dell’evento non preso di mira non lo collega al proprio scopo, non si propone cioè la produzione di quel determinato evento (266). Vi è soltanto la previsione che da sola è insufficiente ad integrare il dolo. Quando vi è invece previsione certa o altamente probabile dell’evento, l’agente deve fare necessariamente i conti con la verificazione dello stesso e se decide comunque di agire non può che volerlo. In realtà i comportamenti che vengono ascritti nell’ambito del dolo eventuale non rappresentano altro che un’area appartenente alla colpa cosciente. Ed infatti la teoria del dolo eventuale non fa altro che mascherare in termini psicologici una realtà che ha un indubbio carattere normativo stante la non volontà dell’evento. A ben vedere la colpevolezza per accettazione per rischio corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo, non alla più grave colpevolezza che caratterizza il reato doloso (267). D’altronde lo sforzo tendente a far a tutti i costi coincidere l’accettazione del rischio con il concetto di volontà viola il principio di legalità — in particolare il divieto di analogia e di riserva di legge — in quanto si finisce col forzare il dato normativo in tal modo creando una figura che in realtà non esiste nel nostro ordinamento e che viene ad usurpare quello che è l’ambito di competenza del reato colposo. 17. Struttura e inquadramento del dolo eventuale. — Se, come si è visto, il dolo eventuale non ha trovato cittadinanza nel nostro ordinamento occorrerà allora individuare l’ambito di quella costellazione di casi che, per comune riconoscimento della dottrina e giurisprudenza, vengono fatti rientrare nella sua orbita. Intendiamo riferirci a quei casi in cui il soggetto agente tenda ad un effetto indifferente (o illecito) per il diritto e cagioni, invece di questo od oltre a questo, altro risultato penalmente rilevante, che sia stato solamente previsto come probabile (o meramente possibile). In tali ipotesi, notiamo un processo psichico intenzionale in rapporto all’evento preso di mira ed un processo psichico di mera previsione in rapporto all’evento collaterale. È indifferente, inoltre, che lo scopo che l’agente si propone di raggiungere possa rivestire rilevanza penale, si porrà casomai un problema di concorso di reati (268). Si fa rientrare inoltre nell’ambito del dolo eventuale quell’altra cerchia di casi in cui il soggetto, pur rappresentandosi la sussistenza dei presupposti del reato, non risolva il dubbio su di essi: si afferma infatti che il dubbio sull’esistenza di un presupposto, se non sia superato o rimosso, radicherebbe inevitabilmente il dolo eventuale (269). Sarebbe però più (265) Cass., S.S. U.U., pres. Vessia, 14 Febraio 1996, in Cass. pen., 1996, n. 1419, p. 2505 ss. (266) In questi stessi termini PANNAIN, Manuale, cit., p. 374-375. (267) Sulla critica al criterio dell’accettazione del rischio vedi supra § 9. (268) In realtà che l’evento direttamente perseguito dall’agente potesse anche non essere illecito non è sempre stato un dato incontestato, affermandosi da una parte della dottrina che se l’evento preso di mira fosse lecito non si avrebbe dolo eventuale. Sulla diatriba vedi PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 76 ss. (269) Vedi ad es. M. GALLO, Dolo, cit., p. 792; DE FRANCESCO, Dolo eventuale, cit., p. 135.
— 272 — esatto ritenere il contrario, allorché sussista incertezza sull’esatta rappresentazione del fatto tipico: infatti, per aversi una volontà piena, capace di radicare il dolo in capo al soggetto agente, occorre che questi abbia una esatta cognizione della situazione in cui si trovi ad agire. In altre parole il puro stato di dubbio nel quale il soggetto si trovi va ascritto al campo della colpa, sia pure aggravata, non a quella del dolo. Non esclude però il dolo il semplice accantonamento del dubbio quale stratagemma cui l’agente può facilmente e consapevolmente ricorrere per vincere le remore ad agire (270). È necessario allora appurare se la rimozione rivesta un carattere di serietà (naturalmente soggettiva), o se invece essa consista in una macchinazione psicologica con la quale il soggetto intende vincere ogni remora. Escluso allora che lo stato di dubbio possa sempre e comunque integrare il dolo, restano nell’ambito del dolo eventuale quelle situazioni in cui da una parte vi è la volontà che dirige l’azione ad uno scopo preso di mira, dall’altra la previsione della possibilità-probabilità di provocare un evento ulteriore illecito. Deve però tenersi presente, come risulta d’altronde dagli studi effettuati in dottrina sul tema, che queste ipotesi possano essere qualificate anche nell’ambito della colpa cosciente. È evidente infatti come l’evento collaterale non sia voluto dall’agente in modo intenzionale in quanto egli persegue uno scopo diverso. Questa mobilità dei confini del dolo eventuale ne caratterizza anche il difficile inquadramento. Ciò risulta dall’analisi delle teorie prospettate per individuare il campo di tale fattispecie in relazione alla figura complementare della colpa cosciente: esse infatti dimostrano come non facile risulta delimitarne i confini, appunto per le indubbie affinità che tale fattispecie presenta con la colpa (cosciente). In realtà ogni tentativo diretto a ritenere il dolo eventuale quale forma di dolo è destinato a fallire perché si presenta fallace già nelle sue premesse. Non è infatti cercando a tutti i costi di differenziare il dolo eventuale dalla colpa con previsione, costruendolo cioè come figura a questo confinante, che si può arrivare ad una esatta soluzione del problema. In verità, per focalizzare la natura di tale figura, bisogna individuarne — innanzi tutto — le caratteristiche in via autonoma senza cadere in autentiche forzature del dato normativo (271). Il problema si snoda nei seguenti termini: individuare il tipo di nesso psicologico che lega il soggetto agente all’evento cagionato solamente rappresentato come possibile o probabile, ma non preso di mira. Le difficoltà sorgono perché, in realtà, il soggetto intendeva raggiungere uno scopo diverso. Una volta escluso che si possa parlare di dolo perché nel dolo eventuale manca una volizione in senso normativo, occorre allora chiedersi se nei casi suddetti l’evento sia stato cagionato da un comportamento negligente. Che il dolo eventuale sia qualificato da un comportamento negligente è stato ammesso anche da coloro che hanno poi cercato di individuare nel suo ambito la presenza di una componente volitiva (272). Si afferma infatti che anche per la sussistenza del dolo eventuale dovrà essere presente la violazione di regole cautelari che in tal modo diviene fattore essenziale per la individuazione di tale tipo di attività (273). La portata di tali affermazioni si spiega in base al dato che, essendo il dolo eventuale caratterizzato dall’accettazione del rischio — requisito che si è visto comune anche alla colpa cosciente —, in specie del rischio non consentito, intanto si avrà responsabilità del soggetto in quanto siano violate quelle regole, appunto cautelari, che il legislatore ha dettato per ridurre la pericolosità della condotta e delle altre che, pur non positivizzate, vengano ad interagire nel caso di specie. Si prendi il caso dell’autista di T.I.R. che, trasportando liquido infiammabile e volendo effettuare al più presto la consegna, decida di non rispettare l’obbligo di dare la precedenza all’incrocio cui sta sopraggiungendo, pur prevedendo la possibilità di investire qualche auto. Se ciò effettivamente avviene, l’evento, indipendentemente dall’affermare che il soggetto lo ha scongiurato o non vi ha consentito o, ancora, lo ha rimosso (270) Cfr. PROSDOCIMI, op. cit., 29. (271) Abbiamo infatti già visto che accettare il rischio non vuol dire affatto volere l’evento. (272) Vedi in particolare PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 90. (273) PROSDOCIMI, op. cit.
— 273 — dalla propria mente, sarà imputabile al soggetto a titolo di colpa perché conseguenza della violazione di quella specifica regola dettata dal codice stradale per ridurre la pericolosità che insidia ogni incrocio stradale. Quindi l’accettazione del rischio denota non altro che la intenzione di tenere pur sempre un comportamento negligente, che, si badi bene, non ha nulla a che vedere con la volontà dell’evento. Tali affermazioni necessitano di ulteriori approfondimenti. ‘‘La qualifica di imprudente non riguarda la condotta in sé e per sé, isolatamente considerata, ma si riferisce alla condotta in quanto produttiva di un dato evento. Si doveva agire diversamente appunto perché, agendo come si è agito, si poteva cagionare un evento che il legislatore voleva impedire’’ (274). È importante quindi come si colleghi l’evento prodotto alla violazione del dovere di diligenza. Il soggetto deve aver causato uno di quegli eventi alla cui prevenzione era destinata la norma violata; in altre parole la responsabilità non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione delle norme, ma va circoscritta a quei risultati che la norma stessa mirava a prevenire, l’evento deve cioè rappresentare la concretizzazione di quello specifico pericolo che la norma cautelare intendeva limitare (275). Ciò significa che la negligenza partecipa alla integrazione del fatto tipico nella misura in cui l’adozione della norma cautelare disattesa avrebbe potuto evitare la verificazione dell’evento causato dalla condotta pericolosa (276). Naturalmente nell’ascrizione al soggetto della responsabilità per l’evento cagionato avrà funzione essenziale l’evitabilità dello stesso nel momento in cui si fosse osservata la norma di diligenza; questo per rifuggere ogni logica del versari in re illicità (277). Se da quanto detto si deduce che la funzione del dovere di diligenza consiste nell’individuare una pretesa comportamentale, un’obbligo standardizzato, la cui osservanza permette di evitare la produzione dell’evento (278), nel caso specifico del dolo eventuale si dovrà verificare se l’evento che rappresenta la concretizzazione del rischio accettato sia conseguenza di un comportamento negligente del soggetto. In effetti, nel momento in cui l’agente intende raggiungere un determinato scopo ma cagioni altro evento — non importa se unitamente o invece di questo — che si è solamente rappresento e della causazione del quale ha accettato il rischio, egli ha in realtà omesso di prendere quelle misure precauzionali che avrebbero impedito il verificarsi dell’evento stesso. Così, nel caso del casellante che ometta di abbassare le sbarre per correre al più presto al capezzale del figlio ammalato, pur se ha previsto la possibilità di un disastro ferroviario, pur se ha accettato il rischio dello stesso, sarà ravvisabile un comportamento negligente: egli avrebbe infatti potuto farsi sostituire da altro collega o quantomeno avrebbe potuto accertare la mancanza assoluta di traffico ferroviario per il periodo della sua assenza. Lo stesso vale per il caso della persona anziana che, per porre fine agli schiamazzi dei ragazzini che giocano in cortile, lancia dalla finestra del proprio appartamento una bottiglia di vetro prevedendo ed accettando il rischio che la stessa possa colpire e ferire uno dei ragazzi, come in effetti avviene: anche qui il comportamento dell’agente si presenta negligente, cioè contrario alle norme di diligenza che impongono di non lanciare oggetti dalle finestre per non colpire eventuali passanti. Ed infatti la condotta del vecchio può essere equiparata a quella di colui che getta il medesimo oggetto per disattenzione, anche se quest’ultima non costituirà una ipotesi di colpa aggravata. Quanto detto vale nel caso in cui il soggetto persegua un fine non vietato. Quid juris, però, nel caso in cui il soggetto ponga in essere una condotta vietata perché pericolosa o addiritura illecita? È infatti stato affermato in dottrina che, se le norme di diligenza sono caratterizzate dall’imporre determinate modalità di comporta(274) DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, 1930, ora in Diritto penale, Raccolta degli scritti, cit., p. 65. (275) MARINUCCI, La colpa, cit., p. 420. (276) Cfr. GIUNTA, Illiceità, cit., p. 384. (277) Pone in evidenza tale rischio PROSDOCIMI, op. ult. cit. (278) Si è già vista supra §§ 13-14 la specifica funzione del dovere di diligenza nell’ambito del rischio consentito.
— 274 — mento per prevenire la lesione dei beni tutelati, queste sono incompatibili con il divieto di tenere la condotta stessa; in altre parole il dovere di diligenza non sarebbe configurabile nello svolgimento di attività vietate (279). Nel momento in cui il legislatore vieta il compimento di una determinata azione in base a valutazioni che prescindono necessariamente dai singoli casi concreti, egli esclude che la pericolosità della condotta possa essere fronteggiata attraverso obblighi diversi da quello di astensione. Ciò non dipende dalla mancanza di regole cautelari applicabili, non potendosi escludere l’operatività di regole di esperienza, bensì dalla volontà del legislatore di elevare l’astensione ad obbligo giuridico, ‘‘sostituendo la propria valutazione presuntiva a quella strettamente empirica circa il grado di efficacia delle norme prudenziali’’ (280). Da quanto detto risulta che l’incompatibilità tra il divieto di svolgere un’attività e l’obbligo di diligenza sia da rintracciare nella comune ratio preventiva: si afferma, infatti, che risulta assurdo e ‘‘disfunzionale l’interdizione di una determinata attività pericolosa e la contemporanea imposizione di cautele in grado di contenerne la pericolosità’’ (281). Dai rilievi che precedono emerge, come d’altronde ammette la stessa dottrina cui si fa riferimento, che l’irrilevanza del dovere di diligenza non vale in relazione a qualunque attività vietata, ma solo nel caso in cui divieto e norma cautelare intendono impedire il medesimo tipo di eventi, quando coincidono le medesime funzioni preventive. Si ipotizzi il caso di colui che lancia un sasso contro un auto per causarne il danneggiamento e non desiste dall’azione nonostante preveda la possibilità di colpire un passante ignaro, anzi ne accetta il rischio: in questa ipotesi è possibile ravvisare un comportamento negligente del reo perché, appunto, come detto sopra, l’art. 635 c.p. tutela il patrimonio, mentre l’art. 590 c.p. tutela l’integrità fisica da aggressioni negligenti (282). Deve certamente tenersi presente come l’art. 590 non abbia una funzione tipicamente preventiva ma richiami, appunto, le norme prudenziali la cui violazione ha causato l’evento. In realtà però, l’obiezione che non potrebbe aversi autentica colpa, fondata cioè sulla violazione di regole cautelari, quando il soggetto è destinatario allo stesso tempo di un divieto di tenere la condotta e dell’obbligo di porla in essere con prudenza o diligenza — il problema non sorge come si è detto per quei casi in cui le due fonti perseguono scopi diversi —, non convince perché, più che contraddittorio, è conforme ai principi del diritto penale, che chi, versando in re illicita, possa rispondere per colpa dell’evento causato da negligenza, anche se vi è stata previsione dell’evento. Ragionare diversamente riesumerebbe quella vecchia tesi che distingue fra dolo eventuale e colpa cosciente a seconda che l’evento preso di mira sia o no penalmente illecito (283). Comporterebbe inoltre la negazione, o comunque una forte restrizione, della ipotizzabilità di un concorso fra reato doloso e reato colposo; ulteriore conseguenza sarebbe la impossibilità di riportare la preterintenzione e l’aberractio delicti, neppure in una prospettiva de jure condendo, nell’ambito della colpa (284). Deve infatti tenersi presente che il dovere di astensione, per largo riconoscimento della dottrina, costituisca una tipologia di comportamento che ben può essere imposto da una norma cautelare (si pensi al divieto di mettersi alla guida di un autoveicolo che non rispetti i canoni di sicurezza previsti dal codice stradale). Ed anche in quest’ambito si dovrà includere il dovere di (279) Vedi sul punto in particolare GIUNTA, Illiceità, cit., p. 195 ss. (280) GIUNTA, op ult. cit. (281) GIUNTA, op ult. cit. (282) Sul punto v MANTOVANI, Diritto, cit., p. 359. (283) Sosteneva tale tesi ad es. PAOLI, Dolo, preterintenzione e colpa, l’elemento soggettivo nelle contravvenzioni, in Riv. it. dir. pen., 1932, p. 666. (284) Concorda nel ritenere l’ammissibilità di un concorso tra reato doloso e reato colposo LEONE, Il reato aberrante, Napoli, 1974, p. 110 ss., il quale costruisce l’aberractio delicti plurilesiva quale ipotesi di concorso fra reato doloso e reato colposo. Di recente in argomento v. E. INFANTE, Reato aberrante e colpa presunta, prossima pubblicazione su Temi Romana.
— 275 — astensione imposto da una specifica norma penale cautelare (285). Una volta ammessa la configurabilità del dovere di diligenza nello svolgimento di attività vietate, si dovrà ammettere che l’accettazione del rischio di cagionare l’evento previsto come probabile o soltanto possibile, sia un comportamento qualificato dalla violazione di norme cautelari indipendentemente dal fatto che il soggetto persegua uno scopo vietato: sia in sostanza rivelatore, sempre e comunque, di un comportamento negligente. Si pensi così al classico esempio del soggetto che, allo scopo di ricevere il premio dell’assicurazione, incendi la propria casa, pur prospettandosi la possibile presenza nello stabile dell’anziana parente. In effetti il rischio di cagionare la morte di quest’ultima è stato accettato dal soggetto: ed appunto in quanto accetta il rischio egli omette di tenere quelle cautele che avrebbero impedito l’evento morte. Avrebbe dovuto infatti accertarsi della presenza in casa dell’anziana parente e, in caso di risultato positivo, astenersi dall’agire. Ben si vede in questo caso come l’art. 423, secondo comma e l’art. 589 c.p., hanno il medesimo scopo: tutelare la vita umana. 18. L’aggravante di cui all’art. 61 n. 3 c.p.: La previsione dell’evento nella colpa come coscienza della violazione del dovere di diligenza. — Importante, per il proseguimento della nostra indagine, è procedere all’analisi della colpa cosciente, e quindi spiegarne la ratio della maggiore gravità, perché ciò ci permetterà di procedere all’esatto inquadramento del dolo eventuale. In effetti, costituendo la colpa cosciente ipotesi più grave di colpa, la sua natura è stata da sempre studiata in relazione alla nozione di dolo eventuale e quindi quale figura di confine. Ma ciò ha portato quali conseguenze il renderne evanescenti i lineamenti, allo stesso modo di quanto accadeva per il dolo eventuale. Ed infatti, nel momento in cui tale figura è stata individuata come sicura fiducia di essere in grado di scongiurare l’evento, sono emersi problemi di non facile soluzione: si è cioè finiti per controvertere sulla stessa plausibilità della scelta del legislatore di considerare la colpa cosciente quale forma aggravata di colpa. Se si interpreta la colpa con previsione quale errore di valutazione (l’errore in cui è incorso il soggetto nel momento in cui ha concluso che l’evento non si sarebbe verificato) come si spiega allora l’aumento di pena non trascurabile? Ma anche se si parlasse di semplice previsione dell’evento non si risolverebbero positivamente i forti dubbi sulla ammissibilità di tale aggravante. Se, infatti, non si riuscisse a trovare una ragione effettiva, e non puramente capziosa, che spieghi il trattamento più rigido della colpa cosciente, si finirebbe per violare gli stessi Principi costituzionali di uguaglianza (venendosi a punire in modo diverso situazioni caratterizzate da un identico disvalore), di proporzione (in quanto manca una ratio che spieghi la maggior pena) e, in via indiretta, lo stesso principio di colpevolezza (si punirebbe con maggior rigore un comportamento che non presenta un maggior grado di rimproverabilità). Non sono mancate in dottrina obiezioni circa la individuazione della colpa cosciente, almeno così come è interpretata nella prassi applicativa. In particolare si afferma che punire più gravemente coloro alla psiche dei quali si affaccia la possibilità di cagionare l’evento, significherebbe punire con maggior rigore il soggetto ‘‘dotato di un alto grado di fantasia’’ (286) o ‘‘l’agente circospetto, il quale pondera in anticipo i più lontani eventi e con più diligente esame allontana le possibilità lesive’’ (287) rispetto agli spensierati: in altre parole sembra davvero assurdo che chi, prima di agire, si soffermi a valutare le conseguenze dei propri atti sia alla fine trattato più severamente di chi, sventatamente, non si è posto alcun interrogativo o problema (288). Si finirebbe in sostanza per punire più gravemente un modo d’essere (il maggiore soffermarsi a valutare le conseguenze del proprio agire) del reo o, al contrario, col favorire la temerarietà, la sconsideratezza, l’incoscienza di coloro che sono destinatari (285) Sul punto vi è larga convergenza di opinioni, cfr., MARINUCCI, Colpa, cit., p. 219; GALLO, Colpa, cit., 642; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 400-401. (286) PADOVANI, Il grado della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 850. (287) VON LISZT, Lehrbuch des deutschen Strafrechts, 1902, p. 165. (288) MEZGER, Ein Lehrbuch, 3 Aufl., Berlin und München, 1949, 362 ss.; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 41 ss.; ID., Reato doloso, cit., p. 240.
— 276 — del precetto penale. In realtà l’errore interpretativo in cui è caduta la prassi applicativa consiste nel cercare di individuare il concetto di colpa cosciente in via autonoma, senza tener conto cioè che essa è pur sempre colpa (289). Più precisamente la colpa cosciente deve, per essere tale, essere caratterizzata dalla violazione del dovere di diligenza, più la presenza di ulteriori elementi qualificanti, che però spieghino con efficacia la ratio del trattamento più rigoroso. In altre parole la colpa cosciente, pur se partecipa dell’essenza della colpa, è caratterizzata da un particolare modo di atteggiarsi del soggetto rispetto all’evento. Se allora colpa designa la violazione di regole di diligenza la coscienza non potrà che riferirsi alla consapevolezza del soggetto di violare le regole cautelari, e che da tale violazione ne possa scaturire la causazione dell’evento (290). Detto ancora meglio: la previsione dell’evento di cui parla l’art. 61 n. 3 deve risolversi in una presa di coscienza del carattere rimproverabile della propria condotta (291) e consistente nella consapevolezza di aumentare con la propria condotta, che egli sa negligente, il rischio della causazione dell’illecito (292). Il maggior rimprovero si spiega, quindi, nella circostanza che la rappresentazione del pericolo di realizzare l’evento avrebbe dovuto costituire un richiamo più incisivo all’impiego della diligenza necessaria ad evitarlo: ma a ben vedere ciò non costituisce altro che accettazione del rischio. 19. Il dolo eventuale quale ‘‘doppione mascherato’’ della colpa cosciente. — Una volta inquadrate le strutture del dolo eventuale e della colpa cosciente non ci resta che, tirando le fila del discorso, rispondere all’interrogativo di partenza: ai confini tra dolo e colpa vi è in realtà la colpa cosciente. Ma, a ben vedere, una colpa cosciente la cui natura coincide con quella del dolo eventuale. Abbiamo infatti visto come il dolo eventuale è caratterizzato dalla violazione delle regole cautelari, violazione che ha nel suo ambito un ruolo ben preciso: non di semplice modalità della condotta, ma di ascrizione dell’evento. In altre parole il dovere di diligenza rileva rispetto al dolo eventuale, come accade per la colpa, quale tecnica di descrizione legislativa della condotta. Ed infatti chi agisce con dolo eventuale pone in essere non altro che un comportamento colposo. Se allora la ratio dell’art. 61 n. 3 va ravvisata nel ritenere più riprovevole il comportamento del soggetto che non si è astenuto dall’azione, o non ha preso maggiori cautele, nonostante si sia reso conto di violare le regole della diligenza, abbia in altre parole accettato il rischio di cagionare l’evento con la sua condotta negligente, in tal modo essendo la semplice previsione dell’evento o anche la previsione che questo non avverrà una ipotesi di colpa semplice, non ha più senso distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente in quanto essi costituiscono una stessa ed identica figura. Detta soluzione può essere avvalorata, sotto il profilo comparatistico, dal riferimento all’istituto angloamericano della Recklessness (293). Essa rappresenta una figura di confine che si colloca tra la Intention (che può essere direct oppure oblique) e la Negligence ed è definita dal Modern Penal Code alla section 2.02(2)(c): ‘‘Un soggetto agisce con indifferenza (recklessly) in rapporto ad un elemento costitutivo del reato allorché egli consapevolmente non si cura del (289)
Mettono in evidenza tale componente DE FRANCESCO, Dolo, cit., p. 139; PRO-
SDOCIMI, Dolus, cit., p. 42.
(290) In senso analogo DE FRANCESCO, Dolo, cit., p. 140, il quale giustamente ritiene come solo tale tipo di interpretazione dell’aggravante individua l’autonomia della colpa cosciente rispetto al dolo, ma effettua pur sempre il suo inquadramento nell’ambito della colpa. (291) PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 40, il quale ritiene che basta per aggravare l’evento una coscienza dubitativa o crepuscolare: ciò dimostra che il dubbio sull’esistenza dei presupposti costituisce comportamento che è preso in considerazione quale elemento aggravatore della colpa. (292) Parla soltanto di coscienza della rischiosità della propria condotta EUSEBI, Il dolo, cit., p. 175; M. MANTOVANI, Il principio, cit., p. 40. (293) In argomento vedi, fra gli autori italiani che si sono occupati dell’argomento, PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 101 ss.; VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese. I principi, Padova, 1992, 187 ss.; CADOPPI, voce Mens rea, in Dig. disc pen., VII, 1995, p. 636 ss.
— 277 — considerevole ed ingiustificabile rischio che l’elemento sussista o derivi dalla sua condotta. Il rischio deve essere di indole e grado tale che, considerando la natura e lo scopo della condotta del soggetto e le circostanze a lui note, il suo sprezzo del rischio implichi una grossa deviazione dal tipo di comportamento che una persona fedele all’ordinamento avrebbe osservato nella situazione dell’agente’’. Occorrono quindi, affinché si abbia Recklessness, tre elementi: a) la previsione del rischio; b) un rischio di un qualche grado; c) la irragionevolezza del rischio stesso (294). Si tratta in sostanza, della consapevole assunzione del rischio, contrassegnata in maniera rigidamente normativa dal riferimento al carattere ingiustificato, antidoveroso del rischio stesso che può derivare da elementi presistenti alla condotta o dallo stesso modo di estrinsecarsi della stessa. Ben si vede allora — si badi, però, solo da un punto di vista comparatistico — come la Recklessness risulta coprire lo spazio che nel nostro ordinamento appartiene al dolo eventuale. Negli ordinamenti di lingua inglese, però, essa è stata estromessa dal campo del dolo ed individuata quale categoria corrispondente ed alternativa a quella europeo-continentale della colpa con previsione (295). Se allora negli ordinamenti di Common-law la pura accettazione del rischio di realizzare la fattispecie non possa essere equiparata al dolo — e lo stesso è sostenibile, come abbiamo visto, anche nel nostro ordinamento —, ma costituisca una forma autonoma di colpevolezza che corrisponde, almeno seguendo l’interpretazione che ne abbiamo data, alla nostra colpa aggravata — è infatti tale l’inquadramento che opera la dottrina anglo-americana della Recklessness — la nostra affermazione, secondo cui il dolo eventuale non è altro che colpa cosciente, trova una conferma non trascurabile a livello comparatistico. 20. Conclusione dell’indagine e prospettive di riforma. — Se il superamento del dolo eventuale rappresenta la soluzione che meglio si adegua al nostro ordinamento in quanto esso attrae nella sua orbita condotte che in realtà andrebbero ascritte al campo della colpa, esso non è esente da rischi. Nel momento in cui si mette in discussione la stessa esistenza del dolo eventuale si va incontro, inevitabilmente, ad un vuoto di tutela con conseguente frustrazione delle esigenze general-preventive: infatti, nel momento in cui la norma penale punisce solo comportamenti dolosi, coloro che agiscono ugualmente, nonostante la previsione del possibile-probabile verificarsi dell’evento, insomma che accettano il rischio, andrebbero variamente esenti da pena laddove il fatto non contempli una corrispondente ipotesi colposa. Bisogna, però, pur sempre tener presente che una prospettiva di carattere sanzionatorio non può da sola giustificare il comportamento della giurisprudenza che finisce con lo snaturare la consistenza del dato positivo. Sarebbe allora opportuno un intervento del legislatore che estendesse la punibilità per colpa, dove naturalmente ci siano effettive esigenze di protezione di beni di rilevanza costituzionale, o, quantomeno, per quel tipo di colpa che è caratterizzata dalla coscienza del rischio di provocare l’evento. In realtà, la soluzione che meglio di tutte potrebbe porre fine alla diatriba che da sempre ha affaticato la dottrina che si è occupata del dolo, ed anche alle soluzioni oscillanti cui è pervenuta la giurisprudenza, parrebbe quella di una previsione espressa della figura che attualmente si continua a definire con il termine ‘‘dolo eventuale’’, che naturalmente rispetti il principio costituzionale di determinatezza. Certo, omnis definitio est periculosa in jure, ma a questo si può controbattere che nella materia in esame una definizione di carattere legislativo è inevitabile, specie in un ordinamento di carattere rigidamente formale quale quello italiano, in quanto ciò è imposto dalle esigenze dell’ordinamento stesso: (294) Vedi sul punto A. ASHWORTH, Principles of Criminal law, Oxford, 1991, p. 154., A.R. WHITE, Carelessness and Recklessness — A Rejoinder, in 25 Modern Law Rev, 1962, 437 ss. (295) Vedi in tal senso G.P. FLETCHER, Rethinking criminal law, Boston-Toronto, 1978, p. 443.
— 278 — non si può infatti lasciare all’insicurezza delle elaborazioni giurisprudenziali l’individuazione di concetti che andrebbero anzi descritti in termini di tassatività. D’altro canto un’esigenza di positivizzazione della figura è stata avvertita dalla stessa dottrina che si è occupata del tema. Non sono mancate, infatti, istanze volte ad individuare un tertium genus che si ponga tra il dolo e la colpa e che condivida delle stesse la natura (296). Una volta definito expressis verbis ciò che attualmente s’intende per dolo eventuale, diventa più chiaro ed intellegibile il messaggio che la norma incriminatrice rivolge al suo comune destinatario (297). Deve infatti riconoscersi che l’incertezza che oggi regna sopra il confine tra dolo e colpa contribuisce in misura notevole ad ostacolare la possibilità, già difficile per il comune cittadino, di percepire anticipatamente la esatta estensione delle norme incriminatrici. Inoltre un intervento legislativo in tal senso potrebbe comunque rendere più semplice il lavoro del giudice, costringendolo così ad abbandonare la tendenza ad un eccessivo allargamento dell’area del dolo. In effetti il legislatore ha avuto occasione di prendere posizione sul tema anche se ha mancato a tale opportunità. Basti considerare la proposta di formulare la definizione del dolo in modo che essa sia univocamente comprensiva del dolo eventuale contenuta nell’art. 12 dello Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale elaborato dalla Commissione Pagliaro (298). Si pensi ancora alla recente riforma sull’abuso d’ufficio (299) dove la dizione ‘‘intenzionalmente’’ evidenzia come il legislatore abbia preso contezza del problema. L’uso di tale termine infatti, almeno secondo l’interpretazione che ne dà una recentissima sentenza della Cassazione (300), sottolinea la consapevolezza del legislatore che ormai il dolo eventuale è jus receptum: ciò è dimostrato dal fatto che per la sua esclusione da tale fattispecie è stata necessaria una espressa previsione (301). Anche se si dà un tale significato alla riformulazione delle norme sull’abuso d’ufficio che riguardano più specificatamente l’elemento soggettivo, (296) Vedi ad es. EUSEBI, Il dolo, cit., p. 177; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 117; ID., Reato doloso, cit., p. 244. Questo ultimo autore propone che la definizione del dolo eventuale venga effettuata nei seguenti termini: ‘‘si ha dolo eventuale allorquando l’accettazione del rischio di realizzare la fattispecie si traduca in una deliberata accettazione del fatto, considerato quale potenziale prezzo di un risultato intenzionalmente perseguito’’. Manifesta l’esigenza di superare la dicotomia dolo-colpa a favore di una tripartizione dell’elemento soggettivo A. ESER, Strafrecht, I, 3. Aufl. München, 1980, sub 3 A. 35 a. (297) Di tale avviso PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 227 ss. (298) Cfr. Documenti di Giustizia, 1992, n. 3, v. anche Ind. pen., 1992, p. 583. In particolare lo schema di delega, dopo aver sancito che non può esservi responsabilità penale se il fatto non è commesso con dolo o con colpa, stabilisce che il dolo può realizzarsi, ‘‘secondo le tradizionali acquisizioni, anche nella forma del dolo eventuale’’. Con tale presa di posizione, il Legislatore, almeno in questo contesto, dimostra di aderire a quei risultati cui era giunta tanto la dottrina quanto la giurisprudenza e consistenti nella individuazione di un significato molto ampio del termine ‘‘volontà’’. Spetta certamente al Legislatore individuare le nozioni di dolo e di colpa — e, naturalmente, i rispettivi confini —, ma nel farlo deve rispettare le direttive costituzionali e quelle imposte dalla coerenza del dato ontologico: se, infatti, ciò che caratterizza il dolo eventuale, al pari della colpa, è un elemento normativo (la violazione delle regole di diligenza) che ha la funzione di imputare al soggetto l’evento cagionato, ricomprenderlo nell’ambito del dolo significa violare le summenzionate direttive. (299) In argomento si veda la recente monografia a cura di A. DALIA e M. FERRAIOLI, La modifica dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, Milano, 1997. Si v., ivoltre, MANNA, Luci ed ombre nella nuova fattispecie d’abuso d’ufficio, in Ind. pen., 1998, p. 13 ss. (300) Cass., VI, 16 ottobre 1997, n. 9357, pres. Trojano, rel. Agro. (301) In realtà l’interpretazione che la S.C. ha dato del termine non convince. Il termine ‘‘intenzionalmente’’ non può infatti che indicare la volontà del soggetto rivolta allo scopo, un intento di perseguire quel dato evento. Ciò è d’altronde dimostrato dai lavori preparatori dove si evince come l’uso del termine fosse un modo per sopperire la mancanza del dolo specifico nella nuova fattispecie di abuso. D’altro canto tale interpretazione si rivela l’unica che tiene conto del dato normativo. Se infatti il dolo eventuale consiste, come abbiamo
— 279 — resta pur sempre il problema di individuare con precisione i confini che separano il dolo dalla colpa. Per porre fine, infatti, alle rischiose oscillazioni che si riscontrano nella prassi applicativa e alle innumerevoli diatribe che si accendono in dottrina occorre un intervento espresso del legislatore che chiarisca meglio l’ambito dell’elemento soggettivo e che metta in chiara luce la reale natura del ‘‘dolo eventuale’’: nient’altro che colpa cosciente. Se, infatti, come si è d’altronde messo in evidenza, il dolo eventuale è caratterizzato da una natura squisitamente normativa (302), in quanto, a differenza del dolo, è caratterizzato dalla violazione del dovere di diligenza, il Legislatore dovrà allora qualificare expressis verbis l’accettazione del rischio quale ipotesi di colpa aggravata (303) o dar vita — in ciò uniformandosi agli ordinamenti di Common Law — ad un tertium genus che, al pari della Recklessness, condividendo la stessa natura della colpa, possa, almeno tendenzialmente, risolvere le difficoltà connesse alla individuazione dei limiti tra dolo e colpa. dott. GIACOMO FORTE cultore di Diritto penale Fac. Giur. Foggia - Univ. Bari
messo in evidenza, in una colpa aggravata, per attribuire una qualche funzione al termine occorre necessariamente interpretarlo in senso stretto ed escludere dall’ambito di tale reato anche il dolo diretto. Inoltre, se il Legislatore avesse voluto escludere dall’ambito dell’abuso d’ufficio il solo dolo eventuale avrebbe dovuto utilizzare, come è stato efficacemente evidenziato da una dottrina (E. INFANTE, Disciplina intertemporale della fattispecie di abuso di ufficio, in Ind. pen., 1998, prossima pub.), termini quali ‘‘consapevolmente’’, ‘‘prontamente’’. (302) Si è visto infatti come solo la normativizzazione del concetto di dolo permetterebbe l’inquadramento del dolo eventuale nell’ambito della suddetta categoria. Resta però il fatto che un tale tipo di soluzione si rivela impraticabile nel nostro ordinamento essendo elemento imprescindibile del reato doloso la volizione dell’evento. Devono pertanto ritenersi inaccoglibili quelle prospettive elaborate dalla dottrina cui si è fatto sopra riferimento — vedi nt. (296) — che auspicano una definizione normativa del dolo eventuale che lo individui quale forma base di dolo. (303) Effettivamente, seguendo l’interpretazione che abbiamo data dell’art. 61, n. 3 c.p., una prospettiva di tale tipo si rivela inutile in quanto si limiterebbe ad effettuare un mero mutamento di etichette. Resta però il fatto che un intervento del Legislatore in tale direzione si rivelerebbe maggiormente efficace e, peraltro, più consono al principio di determinatezza.
GIURISPRUDENZA
a) Giurisprudenza costituzionale
I CORTE COSTITUZIONALE — 26 ottobre-2 novembre 1998, n. 361 Pres. Granata — Rel. Neppi Modona Dibattimento — Persone indicate nell’art. 210 c.p.p. — Rifiuto o omissione di rispondere su fatti concernenti la responsabilità altrui — Applicabilità dell’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. in mancanza di accordo delle parti alla lettura — Possibilità — Esclusione — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 24; c.p.p., art. 513 comma 2, ultimo periodo). Dibattimento — Art. 210 c.p.p. — Applicabilità anche all’esame su fatti altrui dell’imputato nel medesimo procedimento — Possibilità — Esclusione — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 24; c.p.p., art. 210). Dibattimento — Persone indicate nell’art. 210 c.p.p. — Rifiuto o omissione di rispondere su fatti concernenti la responsabilità altrui — Art. 238 comma 4 c.p.p. — Applicabilità dell’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. in mancanza di consenso dell’imputato alla utilizzazione — Possibilità — Esclusione — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 24; c.p.p., art. 238 comma 4). È costituzionalmente illegittimo l’art. 513 comma 2, ultimo periodo, c.p.p. nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza di accordo delle parti alla lettura si applica l’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. (1). È costituzionalmente illegittimo l’art. 210 c.p.p. nella parte in cui non ne è prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero (2). È costituzionalmente illegittimo l’art. 238 comma 4 c.p.p. nella parte in cui non prevede che, qualora in dibattimento la persona esaminata a norma dell’art. 210 c.p.p. rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza di consenso dell’imputato alla utilizzazione si applica l’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. (3).
— 281 — II CORTE DI CASSAZIONE — Sez. VI — 30 novembre 1998 (dep. 8 gennaio 1999) Pres. Trojano — Est. De Roberto — Ric. De Vita Dibattimento — Dichiarazioni rese in precedenza dal dichiarante sul fatto altrui — Normativa transitoria stabilita dall’art. 6 l. 7 agosto 1997, n. 267 — Conseguenze derivanti dalla sentenza costituzionale n. 361 del 1998 — Immediata applicabilità ai procedimenti in corso — Corte di cassazione — Esclusione — Applicabilità solo a richiesta di parte (art. 6 l. 7 agosto 1997, n. 267). La sentenza costituzionale n. 361 del 1998 dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 513 c.p.p. spiega i suoi effetti nei giudizi pendenti davanti alla Corte di cassazione solo nel caso di un’esplicita richiesta di parte, trovando altrimenti applicazione le regole di assunzione (ma non le regole di giudizio, in quanto irrimediabilmente colpite dalla pronuncia di illegittimità costituzionale) stabilite dall’art. 6 della l. n. 267/1997 (4).
I CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Preliminarmente la Corte deve prendere in esame le questioni della ammissibilità della costituzione in giudizio del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino (r.o. n. 915 del 1997) e della Provincia di Bologna, qualificatasi come persona offesa nel procedimento avanti al Tribunale per i minorenni di Bologna (r.o. n. 776 del 1997). 1.1. Come questa Corte ha più volte avuto occasione di affermare (sentenze nn. 1 e 375 del 1996 e ordinanza n. 327 del 1995), la costituzione del pubblico ministero nel giudizio incidentale di costituzionalità deve ritenersi inammissibile: infatti, nonostante al pubblico ministero debba riconoscersi la qualità di parte nel processo a quo, da un lato la peculiarità della sua posizione ordinamentale e processuale, dall’altro l’attuale disciplina (artt. 20, 23 e 25 della l. 11 marzo 1953, n. 87; artt. 3 e 17 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale), che tiene distinti il ‘‘pubblico ministero’’ e le ‘‘parti’’, inducono ad escludere la costituzione in giudizio di tale soggetto. La peculiarità del ruolo del pubblico ministero fa poi ritenere non irragionevole la scelta discrezionale del legislatore di distinguere tale organo rispetto alle parti del procedimento a quo, non prevedendone la legittimazione a costituirsi nel giudizio sulle leggi. Appare pertanto priva di fondamento la questione di legittimità costituzionale degli artt. 23 e 25 della l. 11 marzo 1953, n. 87, nella parte in cui non contemplano il pubblico ministero tra i soggetti che possono costituirsi, prospettata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino nelle deduzioni scritte presentate sotto forma di atto di costituzione, nonché nell’illustrazione delle ragioni che è stato ammesso a rendere nell’udienza pubblica.
— 282 — 1.2. È del pari inammissibile la costituzione della persona offesa Provincia di Bologna, che non era parte nel procedimento a quo. 2. Le numerose questioni di legittimità costituzionale sottoposte all’esame della Corte riguardano l’art. 210, comma 4, c.p.p., nonché gli artt. 238, commi 2bis e 4, e 513, commi 1 e 2, c.p.p. — questi ultimi nelle parti modificate, rispettivamente, dagli artt. 3 e 1 della l. 7 agosto 1997, n. 267 (Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove) — e l’art. 6, commi 2 e 5, della predetta legge, contenente norme transitorie circa la nuova disciplina dell’art. 513 c.p.p. In estrema sintesi, tutte le questioni attengono alle regole di acquisizione probatoria di dichiarazioni sul fatto altrui rese in precedenza da imputati, sia nel medesimo procedimento, sia in procedimento separato, non comparsi in dibattimento, ovvero che rifiutino di sottoporsi all’esame o si avvalgano della facoltà di non rispondere. Le questioni si riferiscono dunque, nell’ambito dell’articolato e complesso sistema normativo che disciplina la formazione della prova in dibattimento, ad una peculiare categoria di dichiarazioni, caratterizzate dall’essere rese da imputati e dall’avere per oggetto fatti concernenti la responsabilità di altri imputati. In particolare, le questioni investono: — con riguardo all’art. 513, comma 1, c.p.p., la regola che subordina al consenso degli altri imputati l’utilizzazione delle dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato nel medesimo procedimento che in dibattimento rifiuti di sottoporsi all’esame; — con riguardo all’art. 513, comma 2, c.p.p., la regola che condiziona all’accordo delle parti la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato in procedimento separato che in dibattimento si avvale della facoltà di non rispondere; — con riguardo alle disposizioni transitorie dettate dall’art. 6 della l. n. 267 del 1997 in relazione all’art. 513 c.p.p., la diversità di disciplina circa l’utilizzazione delle dichiarazioni nei giudizi in corso, a seconda che, al momento di entrata in vigore della legge, non fosse ancora ovvero fosse sia stata disposta la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza; — con riguardo all’art. 238, commi 2-bis e 4, c.p.p., la disciplina che prevede la utilizzazione delle dichiarazioni rese in altro dibattimento soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato all’assunzione della prova nel procedimento separato, ovvero soltanto nei confronti dell’imputato che vi consenta: — infine, con riguardo all’art. 210, comma 4, c.p.p., non modificato dalla l. n. 267 del 1997, la facoltà di non rispondere riconosciuta all’imputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato. Poiché le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, comunque coinvolgenti complessivamente gli articoli del codice di procedura penale sostituiti o modificati dalla l. n. 267 del 1997 e le relative norme transitorie, nonché l’art. 210, comma 4, c.p.p., ad essi strettamente collegato, è opportuno disporre la riunione dei relativi giudizi. 2.1. L’esame delle molteplici questioni prospettate dai giudici rimettenti presuppone l’individuazione preliminare dei valori costituzionali coinvolti dal complesso sistema normativo sottoposto al giudizio della Corte.
— 283 — Viene innanzitutto in gioco l’inviolabilità del diritto di difesa dell’imputato, nella sua dimensione di diritto fondamentale della persona, garantito dall’art. 24 della Costituzione, con particolare riferimento, per quanto qui interessa, sia all’imputato che ha reso dichiarazioni sul fatto altrui, sia all’imputato nei cui confronti tali dichiarazioni sono rivolte. Quanto al primo, l’intangibilità del diritto di difesa, sotto forma del rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e conseguentemente del diritto al silenzio, si manifesta nella garanzia dell’esclusione, anche quando l’imputato abbia reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, dell’obbligo di rispondere in dibattimento a domande che potrebbero coinvolgere responsabilità proprie. Quanto al secondo, è manifestamente irrinunciabile del diritto di difesa che all’imputato sia assicurata la possibilità, salvo che egli stesso vi abbia rinunciato, di sottoporre al vaglio del contraddittorio le dichiarazioni che lo riguardano, in conformità al metodo di formazione dialettica della prova davanti al giudice chiamato a decidere. Sul piano costituzionale, viene inoltre in gioco la funzione del processo penale, che è strumento, non disponibile dalle parti, destinato all’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità. Tale funzione non può essere utilizzata per attenuare la tutela — piena e incoercibile — del diritto di difesa, coessenziale allo stesso processo. Sono invece censurabili, sotto il profilo della ragionevolezza, soluzioni normative che, non necessarie per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la funzione del processo. 3. La maggior parte delle ordinanze sollevano problemi di costituzionalità dell’art. 513, comma 2, c.p.p. riguardante il rifiuto di rispondere in dibattimento della persona imputata in separato procedimento connesso o collegato, che abbia in precedenza reso dichiarazioni sul fatto altrui. Il Tribunale per i minorenni di Bologna (r.o. n. 776/1997), il Tribunale di Bergamo (r.o. n. 81/ 1998), il Tribunale militare di Torino (r.o. n. 898/1997), il Tribunale di Savona (r.o. n. 908/1997), il Tribunale di Trani (r.o. n. 913/1997) e il Tribunale di San Remo (r.o. n. 861/1997) dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, c.p.p., nella parte in cui subordina all’accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni predibattimentali delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. (imputati del medesimo reato, di reati connessi ovvero di reati probatoriamente collegati nei confronti dei quali si procede o si è proceduto separatamente), che si avvalgono in dibattimento della facoltà di non rispondere. Il Tribunale di San Remo (r.o. n. 861/1997) formalmente impugna, unitamente all’art. 513, comma 2, c.p.p., che detta i criteri cui è subordinata la lettura delle suddette dichiarazioni, anche l’art. 514 c.p.p., che al contrario, quale norma di chiusura, disciplina le letture vietate. Il Tribunale di Bergamo (r.o. n. 81/1998), il Tribunale militare di Torino (r.o. n. 898/1997) e il Tribunale di Trani (r.o. n. 913/1997) impugnano inoltre il regime processuale delle letture dettato dall’art. 513, comma 2, c.p.p. in relazione al comma 4 dell’art. 210 c.p.p., che attribuisce la facoltà di non rispondere ai soggetti indicati nel comma 1 del medesimo articolo. 3.1. A parere dei rimettenti l’art. 513, comma 2, c.p.p. violerebbe gli artt. 3 e 24 della Costituzione:
— 284 — a) perché l’ingresso delle dichiarazioni rese in precedenza fra il materiale probatorio sottoposto alla valutazione del giudice viene fatto dipendere dalla volontà delle parti (r.o. n. 776/1997 con esclusivo riferimento alla intrinseca irragionevolezza): in particolare, attribuendo ad una qualsiasi di essa, compresa la parte civile, la facoltà di paralizzare l’acquisizione della prova, anche se favorevole ad un imputato (r.o. n. 908/1997), violando la parità tra accusa e difesa nella partecipazione al processo, la garanzia del diritto delle parti private e del pubblico ministero ad ottenere l’ammissione e l’acquisizione dei mezzi di prova, ed impedendo al giudice di assumere le prove a discarico e a carico dell’imputato (r.o. n. 861/1997); b) in quanto tale disposizione determina una irragionevole disparità di trattamento tra la disciplina della utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal testimone che rifiuti in dibattimento di rispondere e quella delle dichiarazioni rese dagli imputati in un procedimento connesso, « giacché mentre nel caso in cui il testimone si rifiuti di rispondere possono, ai sensi del comma 2-bis dell’art. 500 c.p.p., recuperarsi le sue dichiarazioni, viceversa nel caso in cui il dichiarante ex art. 210 c.p.p. (che sostanzialmente altri non è che un testimone seppure fornito di particolari garanzie) si rifiuta di rispondere, il recupero delle sue dichiarazioni non può avvenire che con l’accordo delle parti » (r.o. n. 913/1997); c) perché, in riferimento anche agli artt. 2, 25, 101, 102, 111 e 112 Cost., la norma impugnata — comportando la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia oggettivamente irripetibile in tale sede, per via della decisione di non rispondere a dibattimento di persone che avevano precedentemente scelto di non avvalersi di tale facoltà rendendo dichiarazioni indizianti nei confronti di altri — pone il giudice nell’impossibilità di emettere una giusta decisione e viola ad un tempo i principi di uguaglianza, legalità, esercizio dell’azione penale, funzione conoscitiva del processo, indefettibilità della giurisdizione ed essenzialmente lo stesso diritto al contraddittorio (« il conflitto reale non è tra diritto di difesa e giurisdizione, ma, tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti » - r.o. n. 898/1997). 3.2. Facendo riferimento agli stessi parametri sopra indicati, richiamati per lo più congiuntamente, alcune ordinanze denunciano inoltre la violazione: a) del principio di indefettibilità della giurisdizione, del libero convincimento del giudice e della sua soggezione solo alla legge, in quanto il diritto riconosciuto all’imputato di opporsi ad libitum all’utilizzazione di prove a suo carico gli consentirebbe di disporre del processo e impedirebbe al giudice di conoscere i fatti oggetto del giudizio, nonché di valutare complessivamente il materiale probatorio (r.o. n. 81/1998, r.o. n. 776/1997, r.o. n. 861/1997, in riferimento agli artt. 111 e 112 Cost. e r.o. n. 898/1997, in riferimento all’art. 101, comma 2, Cost.); b) del principio di non dispersione della prova, enucleato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 254 e 255 del 1992 e tendente a contemperare il rispetto del principio guida dell’oralità con l’esigenza di evitare la perdita di quanto acquisito prima del dibattimento, così che non sia sacrificato lo scopo essenziale del processo penale, che consiste nella ricerca della verità e in una decisione giusta; nonché, sotto altro profilo, del diritto di difesa della parte civile la quale, non potendo chiedere né partecipare all’incidente probatorio nella fase delle indagini preliminari, potrebbe vedere irrimediabilmente compromesso il suo interesse all’acquisizione della prova a carico dell’imputato, e tuttavia potrebbe anche, per il
— 285 — suo singolare interesse, opporsi alla acquisizione di dichiarazioni che scagionino l’imputato (r.o. n. 81/1998, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 101, 102, 111 e 112 Cost.); c) del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, in quanto la disciplina impugnata produrrebbe l’effetto di paralizzare ex post l’iniziativa penale, così di fatto violando il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale che comporta che l’organo della pubblica accusa sia messo nelle condizioni di esercitare validamente l’azione promossa (r.o. n. 913/1997, in riferimento all’art. 112 Cost.). Per il Tribunale militare di Torino e per il Tribunale di Trani sarebbero inoltre violati l’art. 25, comma 2, Cost., perché i principi in esso affermati implicano le punibilità dei colpevoli di reati (r.o. n. 898/1997), e l’art. 97 Cost., in quanto la norma impugnata « determina un rilevante spreco di attività amministrativa, finalizzata all’espletamento delle indagini e all’introduzione del giudizio dibattimentale, (...) vanificata in conseguenza della impossibilità non prevedibile di poter utilizzare una fonte di prova » (r.o. n. 913/1997). 3.3. Il Tribunale di Savona e il Tribunale di San Remo censurano il medesimo art. 513, comma 2, c.p.p. per la irragionevole diversità dei regimi di utilizzabilità dettati nel caso in cui l’imputato — dello stesso reato, di reato connesso o di reato probatoriamente collegato — sia giudicato contestualmente (art. 513, comma 1, c.p.p.) o separatamente (art. 513, comma 2, c.p.p.) (r.o. n. 861/1997 e n. 908/1997). 4. Le censure mosse all’art. 513, comma 2, c.p.p. sono sostanzialmente riconducibili a quattro profili, sovente prospettati come concorrenti o interdipendenti. In primo luogo viene eccepita, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., l’illegittimità costituzionale della norma in esame per l’irragionevolezza di una disciplina che subordina alla volontà delle parti l’acquisizione del materiale probatorio suscettibile di essere valutato dal giudice ai fini della decisione, attribuendo ad una qualsiasi delle parti, ivi compresa la parte civile, la facoltà di paralizzare l’acquisizione della prova. Verrebbe cioè introdotto un inammissibile principio dispositivo in materia di prova, e si consentirebbe allo stesso imputato di disporre del processo, attribuendogli ad libitum il diritto di opporsi all’utilizzazione di prove a suo carico e impedendo correlativamente al giudice di conoscere i fatti di causa e di valutare complessivamente il materiale probatorio. Consequenziali a questo profilo sarebbero la violazione del principio della parità tra accusa e difesa e del diritto delle parti di ottenere l’ammissione e l’acquisizione dei mezzi di prova. La violazione del principio di ragionevolezza viene eccepita anche sotto il diverso profilo della ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal testimone, che poi rifiuta o omette in tutto o in parte di rispondere durante l’esame in dibattimento, e quella riservata alle dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato in un procedimento connesso, che poi si avvale in dibattimento della facoltà di non rispondere: nel primo caso, infatti, le dichiarazioni del testimone possono essere ‘‘recuperate’’ mediante il meccanismo delle contestazioni, operante ex art. 500, comma 2-bis, c.p.p. anche nel caso di rifiuto parziale o totale di rispondere, mentre nel caso in cui l’imputato in procedimento connesso, che sostanzialmente non sarebbe altro che un testimone, seppure fornito di particolari garanzie, si avvale in dibattimento della fa-
— 286 — coltà di non rispondere, le dichiarazioni rese in precedenza possono essere recuperate solo se vi è l’accordo delle parti. Un ulteriore profilo pone l’accento sulla violazione del diritto al contraddittorio, in riferimento alI’art. 24 Cost.: a seguito della disciplina impugnata, il ‘‘conflitto reale’’ non si porrebbe tra diritto di difesa ed esercizio della giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono rispettivamente titolari l’imputato in procedimento connesso ‘‘dichiarante contra alios’’ che si avvale della facoltà di non rispondere, e l’imputato destinatario delle dichiarazioni, che perderebbe il diritto al contraddittorio. Infine, un quarto gruppo di censura chiama in causa anche la violazione degli artt. 101, comma 2, 102, comma 1, 111 e 112 Cost.: la norma impugnata, in quanto comporta la perdita, ai fini della decisione, di elementi di prova divenuti oggettivamente irripetibili in dibattimento a causa della decisione di non rispondere di persone che in precedenza non si erano avvalse di tale facoltà ed avevano reso dichiarazioni a carico di altri, porrebbe il giudice nell’impossibilità di emettere una giusta decisione e incidere sul libero convincimento del giudice e sulla sua soggezione solo alla legge, sulla funzione conoscitiva del processo, sull’indefettibilità della giurisdizione, sull’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale. 4.1. Le questioni sono fondate, nei limiti di seguito precisati, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. L’art. 513, comma 2, c.p.p. prevede i casi in cui è possibile procedere alla lettura in dibattimento delle dichiarazioni rese in precedenza al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. (imputati in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 c.p.p. e imputati di un reato probatoriamente collegato a norma dell’art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., nei cui confronti si procede o si è proceduto separatamente). Si tratta di persone che, proprio in quanto esaminate in un procedimento diverso da quello a loro carico, sono necessariamente sentite su fatti concernenti la responsabilità di altri imputati. In base all’originaria disciplina del codice, ove il dichiarante, presente, si fosse avvalso della facoltà di non rispondere, riconosciutagli dall’art. 210, comma 4, c.p.p., secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale non era possibile disporre la lettura delle precedenti dichiarazioni, espressamente ammessa solo nel caso in cui lo stesso non fosse presente. Alla stregua di tale interpretazione, si ritenne che la disciplina differisse da quella stabilita nell’art. 513, comma 1, c.p.p. in caso di rifiuto dell’imputato nel medesimo procedimento di sottoporsi all’esame: tale norma prevedeva infatti che, a richiesta di parte, poteva esser disposta la lettura-acquisizione delle precedenti dichiarazioni sia nei casi d contumacia o assenza, sia in quello di rifiuto dell’imputato, presente, di sottoporsi all’esame. La ritenuta disparità di trattamento tra i commi 1 e 2 dell’art. 513 c.p.p. venne giudicata da questa Corte (v. sentenza n. 254 del 1992) « del tutto sfornita di ragionevole giustificazione »: da un lato la Corte ha rilevato che, essendo riconosciuta anche all’imputato in procedimento connesso la facoltà di non rispondere, e di sottrarsi quindi, in tutto o in parte, all’esame, si versava in una situazione di impossibilità sopravvenuta di ripetizione dell’atto del tutto analoga alla indisponibilità dell’imputato di sottoporsi all’esame, che a norma del comma 1 determinava la lettura delle precedenti dichiarazioni; dall’altro, che la palese irragio-
— 287 — nevolezza della norma impugnata si manifestava con particolare evidenza ove si considerasse che la diversità di disciplina in ordine alla possibilità di lettura delle dichiarazioni rese in precedenza, a seconda che si procedesse in un unico processo cumulativo ovvero separatamente, dipendeva da « scelte o valutazioni contingenti di natura strettamente processuale..., se non da eventi del tutto casuali »: con la conseguenza che « la circostanza che al simultaneus processus non si addivenga per qualsiasi causa non può ragionevolmente mutare il regime di leggibilità in dibattimento (e quindi di utilizzabilità ai fini della decisione) delle dichiarazioni rese durante le indagini preliminari dagli imputati di detti procedimenti ». L’art. 513, comma 2, c.p.p. è stato pertanto dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., che si erano avvalse della facoltà di non rispondere. La disciplina risultante da tale intervento additivo è stata radicalmente modificata dalla l. n. 267 del 1997. Dalla nuova formulazione dell’art. 513, comma 2, c.p.p. emerge in primo luogo che è stata reintrodotta, ai fini della disciplina della lettura, la distinzione tra impossibilità di ottenere la presenza del dichiarante (ovvero di procedere all’esame a domicilio o alla rogatoria internazionale o all’esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio) e esercizio da parte del dichiarante presente della facoltà di non rispondere. Ove ricorra la prima situazione, il giudice, a richiesta di parte, dispone a norma dell’art. 512 c.p.p. la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza qualora la impossibilità di ripetizione dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Ove il dichiarante, presente, si avvalga della facoltà di non rispondere, la lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni può invece essere disposta soltanto con l’accordo delle parti. Si è quindi ritornati, sia pure con alcune variazioni, ad una disciplina analoga a quella vigente prima della sentenza n. 254 del 1992: in caso di esercizio della facoltà di non rispondere, la lettura non è preclusa in modo assoluto, ma risulta condizionata all’accordo delle parti: in caso di impossibilità di ottenere la presenza del dichiarante, la lettura non è ammessa sempre, ma solo nelle ipotesi in cui la impossibilità di ripetizione dell’atto dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. 4.2. La scelta del legislatore del 1997 è venuta incontro all’esigenza di precludere, in mancanza del consenso dei soggetti interessati, l’acquisizione meramente « cartolare » delle dichiarazioni precedentemente rese sul fatto altrui dall’imputato di reato connesso o collegato che in dibattimento rifiuti di rispondere: il metodo di acquisizione di queste dichiarazioni, raccolte in un contesto in cui non è assicurata la garanzia del contraddittorio, impediva infatti all’imputato a cui erano rivolte di esercitare in dibattimento il fondamentale diritto di confrontarsi con la fonte di accusa. Lo stesso legislatore del 1997 ha poi allargato le ipotesi in cui è possibile disporre con incidente probatorio l’esame su fatti concernenti la responsabilità di altri sia della persona sottoposta alle indagini nel medesimo procedimento, sia delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p.(art. 392, comma 1, lett. c e d, c.p.p.), ed ha esteso all’udienza preliminare la possibilità di esaminarle con le forme dell’esame diretto e del controesame (art. 421, comma 2, c.p.p.), ampliando, mediante strumenti attivabili anche per iniziativa della difesa dell’imputato, gli spazi del contraddittorio (sia pure anticipato) su atti destinati ad essere utilizzati in dibattimento.
— 288 — Ciò che invece nella l. n. 267 del 1997 delinea un sistema privo di ragionevole giustificazione è che la utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni venga fatta dipendere dalla scelta meramente discrezionale dell’imputato in procedimento connesso di rispondere in dibattimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, dopo che il medesimo imputato, pur avendo la facoltà di non rispondere a norma dell’art. 210, comma 4, c.p.p., si era in precedenza consapevolmente risolto a rendere dichiarazioni erga alios. Va infatti considerato che, da un lato, l’ordinamento consente di assumere nel corso delle indagini preliminari dichiarazioni dell’indagato o dell’imputato su fatti concernenti la responsabilità di altri; dall’altro lato, la norma impugnata subordina la possibilità di fare rientrare le precedenti dichiarazioni tra il materiale suscettibile di valutazione probatoria alla scelta del dichiarante, assolutamente discrezionale e potestativa, di non avvalersi della facoltà di non rispondere. Specularmente, la scelta del dichiarante di rifiutare in dibattimento di sottoporsi al contraddittorio con il destinatario delle sue precedenti dichiarazioni viene a combinarsi con la prevedibile mancanza dell’accordo di tutte le parti — portatrici di contrastanti interessi processuali — alla lettura. L’irragionevolezza e l’incoerenza di tale meccanismo sono di immediata evidenza: l’esclusione delle dichiarazioni rese in precedenza dal patrimonio di conoscenze del giudice risulta infatti rimessa alla concorrente volontà dell’imputato in procedimento connesso e della parte processualmente interessata a impedire l’acquisizione e l’utilizzazione delle dichiarazioni stesse. Ne risulta pregiudicata la stessa funzione essenziale del processo, che è appunto quella di verificare la sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative responsabilità. Da un lato, non è conforme al principio costituzionale di ragionevolezza una disciplina che precluda a priori l’acquisizione in dibattimento di elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare; dall’altro la tutela del diritto di difesa impone che l’ingresso di tali elementi nel patrimonio di conoscenze del giudice sia subordinato alla possibilità di instaurare il contraddittorio tra il dichiarante e il destinatario delle dichiarazioni. La mancata previsione di contestazioni in caso di esercizio della facoltà di non rispondere preclude invece in modo assoluto la possibilità di esaminare il dichiarante. L’effetto che ne consegue — perdita definitiva delle precedenti dichiarazioni — impedisce, proprio in virtù della disciplina contenuta nell’art. 513, comma 2. c.p.p., la formazione dialettica della prova davanti al giudice. Diversamente, nel disciplinare l’esame dei testimoni, i commi 2-bis e 4 dell’art. 500, c.p.p. — introdotti dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356, dopo che questa Corte, con sentenza n. 255 del 1992, aveva dichiarato illegittima la precedente disciplina nella parte in cui non prevedeva l’acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se erano state utilizzate per le contestazioni, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone — stabiliscono che le parti possono procedere alle contestazioni anche quando il teste rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni, e che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento e valutate come prova dei fatti in esse affermati se sussistono altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità. Ebbene, il meccanismo disegnato dall’art. 500, comma 2-bis, c.p.p. indica la
— 289 — soluzione, offerta dallo stesso ordinamento, per porre rimedio ai vizi di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, c.p.p. Va tenuto infatti presente che sul terreno processuale l’imputato in procedimento connesso è in gran parte già sottoposto alla disciplina propria dei testimoni: l’art. 210, comma 2, c.p.p. prevede la citazione mediante le norme per i testimoni, l’obbligo di presentazione al giudice e l’accompagnamento coattivo. Tali simmetrie trovano appunto spiegazione e giustificazione nella analogia tra le posizioni processuali di soggetti le cui dichiarazioni sono contraddistinte dall’essere rivolte, e dall’essere destinate a valere, nei confronti di altri. È dunque coerente con il rispetto dei principi costituzionali di cui è stata denunciata la violazione che alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. vengano applicate le regole relative alle contestazioni previste per i testimoni in caso di rifiuto di rispondere: mediante il sistema delle contestazioni di cui all’art. 500, comma 2bis, c.p.p., alla parte che ha chiesto l’esame è infatti data la possibilità di portare direttamente davanti al giudice il contenuto delle dichiarazioni rese in precedenza e alle controparti di sottoporle al vaglio, critico, sollecitando e favorendo eventuali ritrattazioni, correzioni e chiarimenti. Risulta così possibile: — superare la manifesta irragionevolezza di disposizioni che consentono all’autorità giudiziaria di raccogliere legittimamente dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari e che, poi, ne affidano la possibilità di acquisizione in dibattimento alla scelta discrezionale di chi in precedenza ha liberamente reso quelle dichiarazioni; — salvaguardare il diritto di difesa dell’imputato dichiarante e insieme dell’imputato destinatario delle dichiarazioni: il diritto al silenzio non viene scalfito ove il dichiarante venga sottoposto alle contestazioni sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni; il diritto al contraddittorio dell’accusato non può identificarsi con il potere di veto, ma va correttamente inteso come diritto a contestare tali dichiarazioni in contraddittorio con le altre parti e davanti al giudice, adottando il meccanismo già previsto dal legislatore in caso di rifiuto totale o parziale di rispondere del testimone. Al riguardo, è opportuno precisare che, ove le dichiarazioni sul fatto altrui risultino inscindibilmente connesse con i profili di responsabilità sul fatto proprio, la contestazione ad iniziativa delle parti di singoli contenuti narrativi appare un meccanismo idoneo a consentire al soggetto chiamato all’esame di identificarne concretamente la portata probatoria e, quindi, l’eventuale pregiudizio che potrebbe derivarne alla sua difesa. In particolare, poiché l’acquisizione mediante contestazione di singoli contenuti narrativi potrebbe in ipotesi esporre l’imputato in procedimento connesso a nuovi o più gravi profili di responsabilità, diversi e ulteriori rispetto a quelli risultanti dalle sue precedenti dichiarazioni, la garanzia di un consapevole esercizio del diritto di difesa del dichiarante, nel rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e, nello stesso tempo, quella del diritto al contraddittorio di tutte le parti, sono assicurate dalla più ampia esplicazione del metodo dialettico-contestativo proprio del dibattimento, cui è funzionale l’onere, per la parte che chiede l’esame ex art. 210 c.p.p., di presentare la lista dei soggetti da esaminare « con l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame », secondo il disposto dell’art.
— 290 — 468, comma 1, c.p.p., implicitamente richiamato dal rinvio, contenuto nell’art. 210, comma 2, c.p.p., alle norme per la citazione dei testimoni. 4.3. In accoglimento delle questioni elencate sub 3.1.a), 3.1.b) e 3.1.c), in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 513, comma 2, ultimo periodo, c.p.p. va pertanto dichiarato illegittirno nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura si applica l’art. 500, commi 2-bis e 4 c.p.p. Risultano così assorbite le questioni — indicate sub 3.1.c) e 3.2. — sollevate in riferimento agli artt. 2, 25, 97, 101, 102, 111 e 112 Cost. È opportuno precisare che nell’intervento additivo sull’art. 513, comma 2, c.p.p. il richiamo anche al comma 4 dell’art. 500 c.p.p. è funzionale a rendere applicabile il meccanismo di acquisizione nel fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni: il criterio di giudizio che subordina il valore probatorio delle precedenti dichiarazioni alla sussistenza di altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, stabilito per i testimoni nello stesso comma 4, è infatti dettato dall’analoga regola prevista in via generale dall’art. 192, comma 3, c.p.p. per il coimputato e per l’imputato in procedimento connesso. Non è invece necessario alcun richiamo all’art. 500, comma 5. c.p.p., in quanto la situazione ivi contemplata rimane attratta nella disciplina delle contestazioni prevista in via generale in caso di rifiuto o di omissione totale o parziale di rispondere; né vi è motivo di applicare la regola di valutazione probatoria dettata dal comma 5, in quanto le dichiarazioni sul fatto altrui rese dall’imputato in procedimento connesso continuano ad essere sottoposte, proprio perché provenienti da un imputato, alla regola di giudizio dettata dall’art. 192, comma 3, c.p.p. La valutazione dell’efficacia probatoria di tali dichiarazioni — raccolte dall’autorità giudiziaria fuori del contraddittorio, rese da un imputato che si è poi avvalso in dibattimento della facoltà di non rispondere, acquisite mediante il meccanismo delle contestazioni — dovrà avvenire con la cautela e il rigore richiesti da tali caratteristiche, ferma restando la facoltà del legislatore di tradurre queste ovvie esigenze in una appropriata formula normativa. 4.4. Le questioni sollevate dal Tribunale di San Remo e dal Tribunale di Savona esposte sub 3.3., relative al comma 2 dell’art. 513 c.p.p., in riferimento all’art. 3 Cost. per disparità di trattamento rispetto al regime di utilizzabilità dettato dal comma 1 del medesimo articolo, difettano di rilevanza. Tenendo presenti le differenze di disciplina tra i commi 1 e 2 dell’art. 513 c.p.p., risulta che entrambe le ordinanze di rimessione si riferiscono all’ipotesi del rifiuto di rispondere del soggetto citato ex art. 210 c.p.p., accompagnato dal dissenso sulla utilizzazione da parte dell’imputato a cui si riferiscono le dichiarazioni rese in precedenza: situazione nella quale la disciplina dei commi 1 e 2 dell’art. 513 c.p.p. conduce alle medesime conseguenze in punto di lettura e di utilizzabilità erga alios delle dichiarazioni predibattimentali. Le questioni vanno pertanto dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza. 4.5. Il Tribunale di San Remo (r.o. n. 861/1997) impugna, unitamente all’art. 513, comma 2. c.p.p., anche l’art. 514 dello stesso codice. In realtà, la disciplina cui si riferiscono i dubbi di legittimità costituzionale è
— 291 — interamente contenuta nell’art. 513, comma 2, mentre l’art. 514 non ha autonomo contenuto normativo rispetto alle regole di utilizzazione probatoria delle dichiarazioni rese in precedenza. Ne consegue che, essendo l’art. 514 c.p.p. erroneamente evocato dal rimettente, la relativa questione deve essere dichiarata inammissibile. 5. Il Tribunale di Cagliari (r.o. n. 153/1998) dubita della legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 1, c.p.p., nella parte in cui, in assenza di consenso degli altri imputati, esclude l’utilizzabilità nei confronti di ciascuno di essi delle dichiarazioni rese da un imputato nel corso delle indagini preliminari qualora in dibattimento questi si sia avvalso della facoltà di non rispondere. 5.1. A giudizio del rimettente sarebbero violati: a) l’art. 3 Cost., in quanto irragionevolmente la norma impugnata « fa dipendere il dispiegarsi del contraddittorio dibattimentale dall’esercizio della facoltà di non sottoporsi all’esame da parte di imputati che in sede di indagini abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri » e alla mancanza del contraddittorio fa conseguire l’impossibilità per il giudice di conoscere le dichiarazioni sul fatto altrui da essi precedentemente rese, sacrificando il principio di non dispersione degli elementi di prova; b) l’art. 3 Cost., per la irragionevole disparità di trattamento che la norma impugnata determina fra la disciplina delle dichiarazioni in precedenza rese dal coimputato che si avvalga in dibattimento della facoltà di non rispondere, dichiarazioni delle quali è vietata l’utilizzabilità nei confronti di altri senza il loro consenso, e quella riservata agli atti irripetibili per cause originarie o sopravvenute, delle quali è invece sempre consentita la lettura; c) ancora l’art. 3 Cost., in quanto sarebbe irragionevole non attribuire alcun rilievo alle ragioni sopravvenute di irripetibilità dell’atto, mentre tali ragioni comportano che, previo ricorso al meccanismo delle contestazioni di cui all’art. 500 c.p.p., venga attribuito valore di prova alle precedenti dichiarazioni del testimone che sia stato indotto a non deporre o a deporre il falso in dibattimento; d) gli artt. 3 e 101 Cost., in quanto la norma impugnata determinerebbe « l’aberrante conseguenza » che il dichiarante potrebbe in un determinato procedimento sottrarsi all’esame dibattimentale e in un diverso procedimento sottoporsi all’esame nei confronti di altri imputati, consentendo o negando a suo arbitrio ingresso in dibattimento delle stesse precedenti dichiarazioni. 5.2. Ad avviso del rimettente la norma impugnata si pone inoltre in contrasto con: a) gli artt. 25 e 112 Cost., in quanto produrrebbe l’effetto di paralizzare ex post l’iniziativa penale, così di fatto violando il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale il quale comporta che l’organo della pubblica accusa sia messo nelle condizioni di esercitare validamente l’azione promossa; b) l’art. 101 Cost., in quanto la norma censurata, subordinando ad « insondabili scelte del dichiarante » la conoscenza delle prove da parte del giudice, si pone in contrasto con il principio della sottoposizione del giudice soltanto alla legge. 6. L’art. 513, comma 1, c.p.p., sia nella formulazione originaria, sia a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 267 del 1997, si riferisce alle dichiara-
— 292 — zioni rese in precedenza (al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare) dall’imputato nel medesimo procedimento, sia sul fatto proprio, sia su fatti concernenti la responsabilità di altri. Al riguardo, va precisato che le eccezioni di legittimità costituzionale si riferiscono esclusivamente alle dichiarazioni aventi per oggetto la responsabilità di altri, la cui utilizzazione è subordinata, in caso di contumacia, assenza o rifiuto dell’imputato di sottoporsi all’esame, al consenso degli altri imputati. Rimane ferma la disciplina relativa alla utilizzazione delle dichiarazioni sul fatto proprio, per la quale non sono stati sollevati dubbi di costituzionalità. 6.1. Le questioni di legittimità costituzionale ricalcano sostanzialmente quelle prospettate in ordine all’art. 513, comma 2, c.p.p. Viene in primo luogo eccepita l’intrinseca irragionevolezza di una disciplina che fa dipendere il dispiegarsi del contraddittorio dibattimentale dall’insindacabile scelta di non sottoporsi all’esame dell’imputato che in precedenza aveva reso dichiarazioni nei confronti di altri, e poi, in caso di dissenso degli imputati alla loro utilizzazione, comporta l’esclusione di tali dichiarazioni dal patrimonio di conoscenze del giudice. Sotto un diverso profilo, viene denunciata l’irragionevole disparità di trattamento tra la disciplina riservata a tali dichiarazioni, utilizzabili solo se vi è il consenso degli altri imputati, e la disciplina degli atti irripetibili per cause originarie o sopravvenute, dei quali è invece sempre consentita la lettura, con particolare riferimento alla sentenza n. 179 del 1994, con la quale sono state ritenute utilizzabili le dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle indagini preliminari dal prossimo congiunto che in dibattimento abbia poi esercitato la facoltà di astenersi. La disciplina impugnata viene denunciata sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento anche perché non attribuisce alcun rilievo alle ragioni della sopravvenuta irripetibilità dell’atto, mentre di tali ragioni il legislatore tiene conto in tema di esame dei testimoni, attribuendo valore di prova piena, previo ricorso al meccanismo delle contestazioni di cui all’art. 500 c.p.p., alle precedenti dichiarazioni del teste che sia stato indotto a non deporre o a deporre il falso in dibattimento. In riferimento anche all’art. 101 Cost., viene infine denunciata l’irragionevolezza della disciplina impugnata in quanto consentirebbe al dichiarante di rifiutarsi di sottoporsi all’esame dibattimentale in un determinato procedimento, così rendendo non conoscibili al giudice di quel procedimento le precedenti dichiarazioni, e di sottoporsi all’esame in un diverso procedimento a carico di altri imputati, così facendo entrare nel patrimonio di conoscenze di quel giudice le medesime dichiarazioni e attribuendovi valore di prova. 6.2. I dubbi di costituzionalità sono fondati in riferimento all’art. 3 Cost., nei termini di seguito precisati, ma vanno più propriamente risolti intervenendo sull’art. 210, c.p.p. Occorre in via preliminare tenere presente che, mediante la modifica dell’art. 513, comma 1, c.p.p., la l. n. 267 del 1997 ha introdotto una particolare disciplina per il caso in cui si intenda utilizzare nei confronti di altri le dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato: ove l’imputato sia contumace, assente o rifiuti di sottoporsi all’esame, la norma impugnata prevede appunto che le precedenti dichiara-
— 293 — zioni su fatti concernenti la responsabilità di altri non siano utilizzabili senza il loro consenso, mentre continuano ad essere utilizzabili a richiesta di parte le dichiarazioni riguardanti il fatto proprio. Tale differenza di regole in tema di utilizzabilità implica un’autonomia concettuale e sistematica delI’esame su fatti concernenti la responsabilità di altri, del resto già desumibile dalla specifica disciplina ad esso riservata nella fase delle indagini preliminari e in tema di valutazione della prova. Il codice del 1988 ha infatti preso atto dell’indiscutibile fenomeno processuale, sempre più frequente non solo nei procedimenti per fatti di criminalità organizzata, rappresentato da soggetti che abbinano alla qualità di imputati quella di ‘‘dichiaranti’’ sulla posizione di altri imputati, dettando appunto regole peculiari per l’esame su fatti concernenti la responsabilità di altri, comuni sia per l’imputato nel medesimo procedimento, sia per l’imputato in procedimento connesso. Tra i casi in cui è possibile ricorrere all’incidente probatorio — non ammesso per l’esame dell’imputato sul fatto proprio — l’art. 392, comma 1, lett. c), c.p.p. contempla l’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri e la lett. d) l’esame delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., cioè dei soggetti nei cui confronti si è proceduto o si procede separatamente e che vengono quindi esaminati su fatti concernenti la responsabilità di altri. Ove si presenti la necessità di anticipare rispetto al dibattimento la formazione della prova relativa a dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri, le due categorie di imputati risultano così accomunate dalla possibilità di sottoporli ad esame mediante incidente probatorio. Al fine di procedere all’esame mediante incidente probatorio sui fatti concernenti la responsabilità di altri, è inoltre possibile ordinare l’accompagnamento coattivo sia dell’imputato nel medesimo procedimento, sia dell’imputato in procedimento connesso. Previsto dall’art. 399 c.p.p. quando la persona sottoposta alle indagini non compaia senza addurre alcun legittimo impedimento e la sua presenza sia necessaria per compiere un atto da assumere mediante incidente probatorio, l’accompagnamento coattivo è espressamente richiamato in via generale dall’art. 210, comma 2, c.p.p. per l’esame dell’imputato in procedimento connesso e, quindi, anche per l’esame di cui all’art. 392, comma 1, lett. d), c.p.p. Infine in tema di valutazione della prova l’art. 192, comma 3, c.p.p. detta una specifica regola di giudizio per le dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, rese sia dal coimputato, sia dall’imputato in un procedimento connesso. Ma tali simmetrie di disciplina vengono meno nella fase dibattimentale. Mentre per l’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato sono sempre previsti l’obbligo di presentarsi al giudice e l’accompagnamento coattivo (art. 210, comma 2, c.p.p.), in dibattimento l’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri è in tutto e per tutto assimilato all’esame sul fatto proprio. L’art. 503 c.p.p. prevede, infatti, che l’esame venga disposto solo se l’imputato ne abbia fatto richiesta o vi abbia consentito, a norma dell’art. 208 c.p.p.; non è previsto l’obbligo di comparire e non è consentito l’accompagnamento coattivo dell’imputato (art. 490 c.p.p.). Tali regole sono conformi all’intangibilità del diritto di difesa dell’imputato esaminato sul fatto proprio: la decisione di chiedere l’esame ovvero di consentirvi, alla stregua della valutazione dei rischi che può rispettivamente comportare il con-
— 294 — tro-esame ovvero l’esame diretto ad iniziativa della parte che lo ha chiesto, rientra tra le insindacabili scelte relative alla strategia difensiva adottata; conseguentemente, è congeniale all’esercizio del diritto di difesa che non sia contemplato l’obbligo di comparire e che non possa essere ordinato l’accompagnamento coattivo. Ma quando l’esame verte su fatti non propri, bensì concernenti la responsabilità di altri, assumomo prevalenza la specificità di tale istituto rispetto all’esame sul fatto proprio, la sostanziale coincidenza tra questa forma di esame e l’esame dell’imputato in procedimento connesso, che dal primo si distingue solo perché disposto in un separato procedimento, l’esigenza di non escludere a priori il diritto dell’imputato destinatario delle dichiarazioni di confrontarsi con il dichiarante in contraddittorio. La disciplina dell’esame dibattimentale dell’imputato nel medesimo procedimento sul fatto altrui risulta pertanto priva di ragionevole giustificazione sotto una duplice prospettiva. Ove la si confronti, da un lato, con quanto previsto per l’esame mediante incidente probatorio, che altro non è che una anticipazione della prova assunta in dibattimento, dall’altro con la disciplina dell’esame dell’imputato in procedimento connesso, che si svolge separatamente solo per circostanze processuali meramente occasionali e contingenti, è incoerente che per l’esame dell’imputato nel medesimo procedimento sul fatto altrui non siano contemplati anche nella fase dibattimentale l’obbligo di presentarsi e l’eventuale accompagnamento coattivo, analogamente a quanto disposto, rispettivamente, dagli artt. 399 e 210, comma 2, c.p.p. Questa duplice asimmetria si è ovviamente riflessa sulle regole dettate dall’art. 513, comma 1, c.p.p. in tema di lettura e di utilizzazione delle dichiarazioni rese in precedenza sul fatto altrui; il suo superamento costituisce pertanto la premessa logica e sistematica per ricondurre a legittimità costituzionale la disciplina riservata all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri. 6.3. Al riguardo, occorre tenere presente che, come sopra precisato, le censure del rimettente, significativamente coincidenti con quelle sollevate nei confronti del comma 2 dell’art. 513 c.p.p., attengono esclusivamente all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri. L’esame di tali censure deve pertanto muovere dalla constatazione che la figura del dichiarante erga alios, sia esso imputato nel medesimo procedimento o in separato procedimento connesso, è sostanzialmente identica, in quanto l’esame sul fatto altrui viene condotto su un imputato che assume l’una piuttosto che l’altra veste per ragioni meramente processuali e occasionali (v. sentenza n. 254 del 1992). Ne deriva che le censure, benché formalmente rivolte all’art. 513, comma 1, c.p.p., debbono più propriamente intendersi riferite all’art. 210 c.p.p., del quale va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non ne è prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. L’equiparazione tra imputato nel medesimo procedimento e imputato in procedimento connesso consente di concentrare nell’art. 513, comma 2, c.p.p. la di-
— 295 — sciplina, unitaria, di tutti i casi di rifiuto del dichiarante di rispondere sul fatto altrui, rendendo omogenea la disciplina dell’esame avente ad oggetto fatti concernenti la responsabilità di altri, e così superando anche le ulteriori disparità di trattamento tra il comma 1 e il comma 2 dell’art. 513 c.p.p.; conseguentemente, il comma 1 risulta ora riservato esclusivamente all’esame dell’imputato sul fatto proprio (art. 208 c.p.p.), per il quale è pienamente conforme all’esercizio del diritto di difesa che l’imputato scelga di rimanere assente o contumace, ovvero rifiuti di sottoporsi all’esame. Le questioni formalmente sollevate nei confronti dell’art. 513, comma 1, c.p.p. rimangono pertanto risolte attraverso l’intervento additivo sull’art. 210 c.p.p. 6.4. La sfera di applicazione rispettivamente riservata al primo e al secondo comma dell’art. 513 c.p.p. implica che, ove le dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato nel medesimo procedimento riguardino fatti concernenti la responsabilità di altri, spetterà al pubblico ministero, o alle parti private interessate, fare richiesta perché l’imputato venga sottoposto ad esame su tali dichiarazioni a norma dell’art. 210 c.p.p. Anche nei confronti dell’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri giova precisare che, ove le dichiarazioni sul fatto altrui risultino inscindibilmente connesse con i profili di responsabilità sul fatto proprio e il meccanismo della contestazione-acquisizione di singoli contenuti narrativi possa in concreto recare pregiudizio alla posizione dell’imputato dichiarante, valgono le considerazioni svolte in precedenza (par. 4.2.) per rendere effettivo il rispetto del principio nemo tenetur se detegere e garantire il diritto al contraddittorio di tutte le parti. Ove, invece, nessuna delle parti abbia presentato specifica richiesta di esame sui fatti concernenti la responsabilità di altri, né tale esame sia stato disposto dal giudice a norma dell’art. 507 c.p.p., è coerente con la piena esplicazione del diritto di difesa che l’imputato nel medesimo procedimento rimanga contumace, assente o rifiuti di sottoporsi all’esame, anche se le sue precedenti dichiarazioni si riferiscono a fatti concernenti la responsabilità di altri; specularmente, è coerente con l’esercizio del diritto di difesa degli altri imputati che tali dichiarazioni possano essere utilizzate solo con il loro consenso, secondo quanto previsto dall’art. 513, comma 1, c.p.p. 7. Il Tribunale per i minorenni di Bologna (r.o. n. 776/1997) e il Tribunale di Perugia (r.o. n. 787/1997) dubitano della legittimità costituzionale dei commi 2-bis e 4 dell’art. 238 c.p.p., nella parte in cui limitano l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. agli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione, o che consentano a tale utilizzazione. 7.1. Ad avviso del Tribunale per i minorenni di Bologna le norme censurate violano l’art. 3 Cost., perché discriminano irragionevolmente, quanto a utilizzabilità, le dichiarazioni testimoniali, che sono sempre utilizzabili, e quelle rese ex art. 210 c.p.p., che sono utilizzabili solo se il difensore dell’imputato era presente nel momento in cui le dichiarazioni venivano rese nel procedimento connesso. 7.2. Sarebbero inoltre violati: a) l’art. 24 Cost., perché mentre non sono utilizzabili le dichiarazioni rese a norma dell’art. 210 c.p.p., possono essere utilizzate le sentenze irrevocabili, in forza dell’art. 238-bis dello stesso codice; b) gli artt. 3,
— 296 — 111 e 112 Cost., perché la normativa impugnata fa irragionevolmente dipendere la utilizzabilità delle dichiarazioni dal consenso dell’imputato, determinando una disparità tra accusa e difesa. 7.3. Per il Tribunale di Perugia le medesime norme si pongono in contrasto con l’art. 3 Cost.: a) perché, in riferimento alle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., assunte senza la presenza del difensore dell’imputato, derogano irragionevolmente al principio di non dispersione dei mezzi di prova e determinano una ingiustificata diversità di disciplina rispetto al regime previsto per altre dichiarazioni (quelle testimoniali o quelle divenute irripetibili), delle quali è invece consentito il recupero in sede dibattimentale; b) perché è irragionevole far dipendere il regime di utilizzazione da contingenti valutazioni opportunistiche dell’imputato sul contenuto degli atti da utilizzare; c) perché la disposizione del comma 2-bis postula un contradditorio che a volte non avrebbe potuto essere realizzato, come nel caso del procedimento a quo, nel quale non si procedeva a carico del dichiarante divenuto imputato solo successivamente; d) perché, ove il dichiarante nel precedente dibattimento abbia avuto la veste di testimone, e solo successivamente sia divenuto, per indizi sopraggiunti, imputato di reato connesso, il pubblico ministero avrebbe potuto confidare nella utilizzabilità delle sue dichiarazioni; e) perché è irragionevole che si imponga una serie indeterminata di ripetizioni delle dichiarazioni nei vari processi a scapito dell’economia processuale, della chiarezza e della verità, quando è utilizzabile la sentenza irrevocabile pronunciata a carico di terzi, ex art. 238-bis c.p.p.; f) perché si discrimina tra soggetti che hanno la qualità di imputato di reato connesso, ex art. 210 c.p.p., e di imputato nello stesso procedimento qualora quest’ultimo abbia dichiarazioni in un separato procedimento. Secondo lo stesso rimettente sarebbero inoltre violati gli artt. 101, comma secondo, e 111 Cost., in quanto la giurisdizione non viene esercitata dal giudice in base al suo convincimento, espresso sulla base del materiale probatorio raccolto, ma è condizionata da elementi spuri, quali la selezione del materiale utilizzabile ad opera dell’imputato, e cioé del soggetto la cui condotta forma oggetto dell’accertamento penale. 7.4. Ancora, per il Tribunale di Perugia l’art. 238 c.p.p. violerebbe l’art. 3 Cost. perché mentre per le dichiarazioni acquisite ai sensi dell’art. 513 c.p.p. l’art. 6 della l. n. 267 del 1997 introduce una disciplina transitoria che consente, in caso di nuovo rifiuto di rispondere del soggetto chiamato all’esame ex art. 210 c.p.p., una utilizzazione attenuata (correlata alla sussistenza di altri elementi di conferma), irragionevolmente nulla di simile è previsto per le analoghe dichiarazioni acquisite (prima dell’entrata in vigore della legge) da altro procedimento a norma dell’art. 238, le quali, in mancanza di consenso dell’imputato, restano radicalmente inutilizzabili. 8. L’art. 238 c.p.p., inserito nel Libro III (Prove), Titolo II (Mezzi di prova), Capo VII (Documenti), disciplina l’acquisizione dei verbali di prove provenienti da altri procedimenti; prove che, appunto perché non formate nello stesso procedimento in cui sono destinate ad essere utilizzate, sono considerate documenti, aventi natura giuridica di mezzi di prova. Nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dalla l. n. 267 del 1997, l’art. 238 c.p.p. prevedeva che i verbali delle prove assunte nell’incidente
— 297 — probatorio o in dibattimento fossero in ogni caso utilizzabili come prove nel procedimento ad quem. Mediante l’inserimento nell’art. 238 c.p.p. di un apposito comma 2-bis, questa regola generale, contenuta nel comma 1, rimasto formalmente immutato, ha subito una deroga per le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p.: l’utilizzabilità di tali dichiarazioni come prova nel procedimento ad quem è stata infatti subordinata al presupposto della partecipazione alla loro assunzione nel procedimento a quo dei difensori degli imputati nei cui confronti dovrebbero essere utilizzate. In mancanza di tale partecipazione, la nuova formulazione dell’art. 238, comma 4, c.p.p. prevede che le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. siano utilizzabili come prova nel dibattimento ad quem solo nei confronti dell’imputato che vi consenta. L’ultima parte del comma 4 stabilisce poi che, in mancanza di consenso, le dichiarazioni possono essere utilizzate solo per le contestazioni, a norma, per quanto qui interessa, dell’art. 503 c.p.p, che disciplina l’esame delle parti, tra cui rientra, appunto, l’esame dell’imputato in procedimento connesso. Al riguardo, si deve precisare che l’art. 503 c.p.p. non consente, a differenza di quanto previsto per l’esame dei testimoni dall’art. 500 c.p.p., anch’esso richiamato per la prova testimoniale dall’art. 238, comma 4, c.p.p., di impiegare per le contestazioni le dichiarazioni rese in precedenza nel caso in cui il dichiarante rifiuti o ometta in tutto o in parte di rispondere: ne deriva che, in mancanza di consenso dell’imputato, il silenzio del dichiarante determina la non utilizzabilità delle dichiarazioni da lui rese in precedenza in sede di incidente probatorio o nel dibattimento del procedimento a quo. Si deve inoltre tenere presente che l’art. 238 c.p.p. costituisce il veicolo di trasmigrazione da altri procedimenti non solo di atti costituenti « mezzi di prova », assunti in incidente probatorio o in dibattimento, ma anche di atti di natura investigativa (o, comunque, predibattimentali), assunti nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare. Come si ricava dall’esordio dell’art. 238, comma 4, c.p.p., ove si fa riferimento a « verbali di dichiarazioni » diversi da quelli relativi agli atti menzionati nel comma 1 (prove assunte nell’incidente probatorio o in dibattimento), le « dichiarazioni diverse » non possono che riferirsi agli atti assunti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o dal giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare. Si tratta, cioè, di atti formati in un contesto predibattimentale, utilizzabili in giudizio per le contestazioni nel corso dell’esame a norma degli artt. 500 e 503 c.p.p., a seconda della loro natura di deposizioni testimoniali o di dichiarazioni delle parti, e presi in considerazione anche da varie altre disposizioni che ne ammettono a determinate condizioni la lettura, tra cui l’art. 513 c.p.p., che fa appunto riferimento a dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. Anche tale categoria di atti dichiarativi risulta pertanto compresa nella disciplina dell’art. 238, comma 4, c.p.p., così come modificato dalla l. n. 267 del 1997. 8.1. Le questioni relative all’art. 238, commi 2-bis e 4, c.p.p. ricalcano sostanzialmente le argomentazioni poste a sostegno delle censure sollevate nei confronti dell’art. 513, comma 2, c.p.p. In sintesi, viene denunciata l’irragionevole disparità tra la disciplina riservata alle dichiarazioni testimoniali, recuperabili, in caso di rifiuto o di omissione totale o parziale di rispondere, mediante il meccanismo delle contestazioni di cui all’art.
— 298 — 500, comma 2-bis, c.p.p., e quella prevista dalle norme impugnate, che in caso di rifiuto di rispondere da parte dell’imputato in procedimento connesso subordinano la utilizzazione delle precedenti dichiarazioni al dato estrinseco ed eventuale della partecipazione dei difensori nel momento della loro assunzione nel procedimento a quo, ovvero, in mancanza della partecipazione, al consenso degli imputati nel procedimento ad quem. 8.2. Le censure rivolte all’art. 238, comma 4, c.p.p. muovono dal rilievo che, ove le dichiarazioni delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. siano state acquisite a norma dell’art. 238 c.p.p. in quanto assunte in un diverso procedimento, non vi è ragione di non assoggettarle alle regole previste per le dichiarazioni raccolte nel medesimo procedimento. In effetti, la disciplina di cui all’art. 238, comma 4, c.p.p. appare priva di ragionevole giustificazione proprio in quanto non prevede che trovi applicazione una normativa analoga a quella stabilita dall’art. 513, comma 2, c.p.p., così come modificato dalla contestuale declaratoria di illegittimità della Corte. L’analogia tra le due situazioni (tanto più stretta ove si consideri che le dichiarazioni rese nell’incidente probatorio o in dibattimento hanno natura di veri e propri mezzi di prova), comporta di conseguenza che, in caso di rifiuto del dichiarante di rispondere e di mancanza di consenso dell’imputato alla utilizzazione di tali dichiarazioni, ne venga prevista la possibilità di recupero stabilita in tema di deposizioni testimoniali dall’art. 500, commi 2-bis e 4, c.p.p. In accoglimento delle questioni indicate sub 7.1. e 7.2., va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 238, comma 4, c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede che, qualora in dibattimento la persona esaminata a norma dell’art. 210 c.p.p. rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza di consenso dell’imputato alla utilizzazione si applica l’art. 500, commi 2-bis e 4 c.p.p. La dizione « precedenti dichiarazioni » consente, formalmente, di comprendere nella disciplina delle contestazioni non solo le dichiarazioni assunte in sede di incidente probatorio o in dibattimento, ma anche quelle altrimenti rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. Tale conseguenza, peraltro, discende già dall’intervento additivo sull’art. 513, comma 2, c.p.p.: come si ricava implicitamente dalla sentenza della Corte n. 254 del 1992 — riguardante appunto un caso di rifiuto di un imputato di reato connesso di rispondere su fatti già oggetto di sue precedenti dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari di altro procedimento — deve infatti ritenersi che, una volta confluite nel fascicolo del pubblico ministero, tali dichiarazioni siano assoggettate, al pari di quelle rese nel medesimo procedimento, alla disciplina dell’art. 513, comma 2, c.p.p. È opportuno, infine, rilevare che l’intervento sull’art. 238, comma 4, c.p.p., collegato con quello sull’art. 210 c.p.p., consente di eliminare una irragionevole disparità di trattamento provocata dalla disciplina impugnata. Tenendo presente che le dichiarazioni concernenti il fatto altrui acquisite da altro procedimento possono essere state rese da un soggetto che nel procedimento ad quem riveste la qualità di imputato, alla stregua della disciplina dichiarata costituzionalmente illegittima tali dichiarazioni erano incondizionatamente e direttamente utilizzabili, mentre l’utilizzazione delle analoghe dichiarazioni rese dall’imputato in procedi-
— 299 — mento connesso o collegato era subordinata al consenso dell’imputato nei cui confronti dovevano essere utilizzate. Questo profilo di irragionevolezza viene appunto a cadere a seguito dell’unificazione sub art. 210 c.p.p. dell’esame dell’imputato nel medesimo procedimento all’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato quando sia l’uno che l’altro abbiano comunque reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri: risulta infatti applicabile ad entrambi la disciplina delle contestazioni conseguente all’intervento additivo sull’art. 238, comma 4. c.p.p. 8.3. Sono infondate tutte le censure indicate sub 7.3., prospettate dal Tribunale di Perugia. Il rimettente chiede, infatti, esclusivamente il recupero delle precedenti dichiarazioni mediante la lettura dei verbali assunti in altro procedimento (senza che si sia proceduto, in quanto non richiesto da alcuna delle parti, all’esame del dichiarante, e senza che il giudice abbia provveduto a disporlo d’ufficio ex art. 507 c.p,p.), mentre il meccanismo che consente la salvaguardia di tutti i beni costituzionali coinvolti è quello delle contestazioni, secondo le modalità indicate nel par. 8.2. 8.4. Infine, circa la questione indicata sub 7.4., la censura, benché formalmente rivolta all’art. 238, comma 4, c.p.p., è riferita in realtà alla disciplina transitoria contenuta nell’art. 6 della l. n. 267 del 1997, nella parte in cui non prevede un meccanismo di recupero delle dichiarazioni già acquisite ex art. 238 c.p.p. nel momento di entrata in vigore della legge, analogo a quello stabilito per le dichiarazioni già acquisite a norma dell’art. 513, comma 2, c.p.p. La questione verrà pertanto trattata unitamente alle altre relative alla disciplina transitoria (parr. 11 e 12). 9. Il Tribunale di Bergamo (r.o. n. 81/1998), il Tribunale militare di Torino (r.o. n. 898/1997) e il Tribunale di Trani (r.o. n. 913/1997) dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 210, comma 4, c.p.p. nella parte in cui prevede che l’imputato in procedimento connesso, per il quale si procede o si è proceduto separatamente, che abbia in precedenza reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di terzi, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facoltà di non rispondere. L’art. 210, comma 4, c.p.p. viene impugnato unitamente all’art. 513, comma 2, c.p.p., per i riflessi che l’eliminazione del diritto al silenzio produrrebbe sulla disciplina delle letture nel caso in cui i soggetti indicati dall’art. 210, comma 1, rifiutino di rispondere in dibattimento. 9.1. A parere dei rimettenti risulterebbero violati: a) l’art. 3 Cost., in quanto si determina una irragionevole disparità di trattamento tra la disciplina delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal testimone che rifiuti in dibattimento di rispondere (dichiarazioni di cui è consentita, ex art. 500, comma 2-bis, c.p.p., l’utilizzazione attraverso le contestazioni) e la disciplina delle dichiarazioni rese dagli imputati in un procedimento connesso (la cui utilizzazione in caso di esercizio della facoltà di non rispondere è possibile solo su accordo delle parti) (r.o. n. 913/1997); b) l’art. 24 Cost., perché la salvaguardia del contraddittorio dibattimentale può essere realizzata solo se il soggetto che è sottoposto all’esame incrociato, e che abbia consapevolmente rilasciato dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari, sia gravato dell’obbligo di rispondere alle domande che gli vengono ri-
— 300 — volte, mentre l’attuale disciplina consente al soggetto esaminato di essere arbitro di vanificare l’altrui diritto all’esame e controesame (r.o. n. 898/1997); c) gli artt. 3 e 24 Cost. perché, escludendo l’obbligo di rispondere del soggetto sottoposto ad esame, viene irragionevolmente sacrificato l’equilibrio tra i diritti di difesa di cui sono titolari i soggetti del procedimento (r.o. n. 81/1998); d) gli artt. 2, 3, 25, comma secondo, 101, comma secondo, 102 e 111 Cost. perché, tutelandosi sino all’estremo limite, con la norma impugnata, il diritto degli imputati a non sottoporsi all’esame dibattimentale, e mediante l’art. 513, comma 2, c.p.p. il diritto all’assunzione delle prove in contraddittorio, viene ad essere sacrificato l’esercizio della giurisdizione penale e la possibilità di una decisione giusta (r.o. n. 81/1998). 10. L’art. 210 c.p.p., non modificato dalla l. n. 267 del 1997, detta specifiche regole per l’esame delle persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 c.p.p. ovvero imputate di un reato probatoriamente collegato, nei confronti delle quali si è proceduto o si procede separatamente. La peculiarità della disciplina sostanzialmente analoga a quella dettata dall’art. 9 della l. 8 agosto 1977, n. 534, con il quale venne introdotto nel codice di procedura penale del 1930 l’art. 348-bis, sotto la rubrica « Interrogatorio libero di persona imputata di reati connessi » — rispecchia la particolare condizione dell’imputato in procedimento connesso esaminato su fatti concernenti la responsabilità di altri. Mentre sono previsti l’obbligo di presentarsi al giudice, con la possibilità di ordinare l’accompagnamento coattivo, nonché la citazione mediante le norme sui testimoni (art. 210, comma 2, c.p.p.), ed è contemplata l’applicazione dell’art. 194 c.p.p., relativo all’oggetto e ai limiti della testimonianza (art. 210, comma 2, c.p.p.). il permanere della qualità di imputato emerge dal diritto di essere assistito da un difensore (art. 210, comma 3, c.p.p.), dal richiamo all’art. 503 c.p.p., relativo all’esame delle parti private (comma 5) e dal riconoscimento della facoltà di non rispondere (comma 4), nei cui confronti sono appunto dirette le censure di legittimità costituzionale. 10.1. Le doglianze dei giudici rimettenti sono sostanzialmente riconducibili a due profili, entrambi connessi alle ricadute della disciplina denunciata sul regime di utilizzazione probatoria dettato dall’art. 513, comma 2. c.p.p., così come modificato dalla l. n. 267 del 1997: in riferimento all’art. 3 Cost., viene denunciata l’irragionevole disparità di trattamento tra il regime previsto per le dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato in procedimento connesso che si sia avvalso in dibattimento della facoltà di non rispondere, la cui utilizzazione è subordinata all’accordo delle parti, e la disciplina riservata alle dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle indagini preliminari, delle quali, in caso di rifiuto o omissione totale o parziale del testimone di rispondere, è consentita l’utilizzazione, previa contestazione a norma dell’art. 500, comma 2-bis, c.p.p.; in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., viene censurato lo squilibrio tra i diritti di difesa degli imputati, a causa dell’irragionevole sacrificio del diritto al contraddittorio dell’imputato nei cui confronti sono rivolte le dichiarazioni e della prevalenza della tutela del diritto al silenzio del dichiarante, che diviene così arbitro del diritto degli altri imputati di sottoporre al contraddittorio dibattimentale la fonte delle accuse a loro mosse. 10.2. Nei termini in cui sono poste, e in riferimento all’attuale formulazione dell’art. 210, comma 4, c.p.p., le questioni sono infondate.
— 301 — Così come regolato dalla norma impugnata, il diritto al silenzio non è suscettibile di censure di costituzionalità. Il carattere ibrido della disciplina contenuta nell’art. 210 c.p.p., ove sono appunto richiamate alcune delle regole operanti nei confronti dei testimoni, è una conseguenza della peculiarità della posizione dell’imputato in procedimento connesso, chiamato a rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, ma comunque non identificabile, sul terreno sostanziale, con la figura del testimone, sicché appare coerente la scelta del legislatore di attribuirgli la facoltà di non rispondere, irrinunciabile manifestazione del diritto di difesa dell’imputato. Altri sono gli strumenti offerti dall’ordinamento processuale penale per porre rimedio alle censure dei giudici rimettenti, già indicati da questa Corte mediante il contestuale intervento additivo sull’art. 513, comma 2, c.p.p. (par. 4.2. e 4.3.). L’estensione della disciplina delle contestazioni prevista dall’art. 500, comma 2bis, c.p.p. all’esame dell’imputato in procedimento connesso su fatti concernenti la responsabilità di altri consente infatti di garantire sia il diritto dell’imputato dichiarante di avvalersi della facoltà di non rispondere, sia il diritto al contraddittorio dell’imputato destinatario delle dichiarazioni, nel rispetto del principio della formazione dialettica della prova in dibattimento. Le questioni sollevate vanno pertanto dichiarate infondate, non essendo riscontrabili i denunciati vizi di costituzionalità nell’attuale disciplina del diritto al silenzio riconosciuto dall’art. 210, comma 4, c.p.p. anche agli imputati in procedimento connesso chiamati a rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri. 11. Il Tribunale di Torino (r.o. n. 915/1997) e il Tribunale di Bologna (r.o. n. 143/1998) impugnano la disciplina transitoria introdotta dall’art. 6 della l. n. 267/1997; la stessa disciplina è censurata, unitamente alle norme a regime, dal Tribunale per i minorenni di Bologna (r.o. n. 776/1997), nonché dal Tribunale di Cagliari (r.o. n. 153/1998), dal Tribunale di San Remo (r.o. n. 861/1997), dal Tribunale di Savona (r.o. n. 908/1997), dal Tribunale di Trani (r.o. n. 913/1997). Il Tribunale di Perugia (r.o. n. 787/1997) denuncia poi, in riferimento all’art. 238, commi 2-bis e 4, c.p.p., la mancata previsione di una disciplina transitoria analoga a quella prevista per le dichiarazioni acquisite ai sensi dell’art. 513 c.p.p., mentre il Tribunale di Savona, che pure impugna autonomamente la disciplina transitoria, e specificamente i commi 2 e 5 dell’art. 6 della l. n. 267 del 1997, solleva nei confronti della disciplina a regime (art. 513, comma 2, c.p.p.) censure che in realtà afferiscono alla regola di valutazione di cui all’art. 6, comma 5. Tutti i rimettenti denunciano la disciplina transitoria nella parte in cui esclude o limita l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese in altra fase del procedimento o in altro dibattimento da coimputati o imputati in procedimento connesso, già acquisite ai sensi dei previgenti art. 513, comma 2 (Tribunale di Torino, di Bologna, di San Remo, di Savona e di Trani) e comma 1 (Tribunale di Cagliari), nonché art. 238 c.p.p. (Tribunale per i minorenni di Bologna e Tribunale di Perugia). Le censure appaiono quindi rivolte ai commi 2 e 5 dell’art. 6 della l. n. 267 del 1997, anche quando non vi è formale impugnativa di tali commi (r.o. nn. 776/1997, 153/1998, 913/1997), ovvero quando il vulnus viene riferito alla disciplina a regime in quanto immediatamente applicabile (r.o. n. 787/1997 e 908/1997, per quanto sopra specificato).
— 302 — 11.1. I rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della disciplina transitoria perché, in relazione ad atti già acquisiti prima della entrata in vigore della l. n. 267 del 1997, irragionevolmente contraddice il principio tempus regit actum, limitandone o escludendone la utilizzabilità in ragione dello stato del procedimento nonostante la prova concerna reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge, senza offrire rimedio diretto alla conservazione delle dichiarazioni erga alios rese, da coimputati o imputati in procedimento connesso, quando la normativa in vigore non consentiva di ricorrere all’incidente probatorio a norma dell’art. 392, comma 1, lett. c) e d), c.p.p., ovvero all’assunzione ai sensi degli artt. 498 e 499 c.p.p. in udienza preliminare a norma dell’art. 421 c.p.p., come novellati dalla l. n. 267 del 1997. La censura viene formulata in riferimento all’art. 3 Cost. dal Tribunale per i minorenni di Bologna, nonché dai Tribunali di Torino, San Remo e Trani; in riferimento anche all’art. 24 dal Tribunale di Torino; in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost. dal Tribunale di Savona; in riferimento all’art. 112 dal Tribunale di Cagliari. Il Tribunale di Savona e il Tribunale di Trani prospettano la violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento, in quanto il giudice può pervenire alla condanna di un imputato e alla assoluzione di un altro imputato pur in presenza di una identica posizione processuale, utilizzando nei confronti di ciascun imputato un materiale probatorio diverso, a causa: a) del consenso prestato o meno dagli imputati alla utilizzazione delle dichiarazioni acquisite prima dell’entrata in vigore della legge (r.o. n. 908/1997); b) della circostanza che alcuni imputati siano stati raggiunti da dichiarazioni acquisite ex art. 503 c.p.p. per avere il dichiarante rifiutato di rispondere a singole domande, altri solo da dichiarazioni acquisite in virtù del previgente art. 513, altri infine da dichiarazioni acquisite ex art. 512 c.p.p. (r.o. n. 908/1997); c) ovvero della scelta del chiamante in correità di avvalersi della facoltà di non rispondere, occasionalmente esercitata prima invece che dopo l’entrata in vigore della legge (r.o. n. 913/1997). Il Tribunale di Bologna ritiene che la normativa transitoria violi anche gli artt. 24, 101 e 112 Cost., perché impone al giudice, soprattutto in processi con numerosi imputati, alcuni dei quali soltanto esaminati prima dell’entrata in vigore della legge, « metodiche decisionali » contrarie ai principi di legalità, di soggezione del giudice soltanto alla legge e dell’obbligatorietà dell’azione penale, costringendolo ad ignorare nei confronti di alcuni (per effetto della immediata applicabilità ad essi della nuova disciplina a regime) quanto è tenuto invece a valutare in relazione alla posizione di altri (in virtù della disciplina transitoria contenuta nei commi 2 e 5 impugnati). Il Tribunale di Savona prospetta inoltre la lesione degli artt. 3, 101, comma 2, 111, comma 1, Cost., ritenendo che la disciplina in questione sia irrazionale nella parte in cui prevede l’utilizzabiIità ai fini della decisione delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone indicate dall’art. 513 c.p.p., se la loro intrinseca attendibilità è confermata anche soltanto da altri elementi di natura logica, ma vieta l’utilizzazione come riscontro di dichiarazioni della stessa natura, così imponendo al giudice una motivazione contrastante con la propria intima convinzione. Infine, il Tribunale di Torino rivolge alla disciplina transitoria censure analoghe a quelle espresse in relazione alla disciplina a regime da altri rimettenti, in particolare censurando il comma 5 dell’art. 6 in riferimento: a) all’art. 3 Cost.,
— 303 — perché è irragionevole il diverso trattamento processuale riservato a chi si rende irreperibile per non rispondere, rispetto a chi « a viso aperto dichiari di non volere rendere la dichiarazione », in quanto il rifiuto dei soggetti di cui al comma 1 o al comma 2 dell’art. 513 c.p.p. di rispondere in dibattimento rende le precedenti dichiarazioni da costoro rese « irripetibili », al pari delle altre situazioni « imprevedibili » di cui all’art. 512 c.p.p.; b) all’art. 101, comma 2, Cost., perché risulterebbe vulnerato il principio per il quale il giudice è soggetto soltanto alla legge, in quanto consente che la utilizzazione delle dichiarazioni precedentemente rese dal coimputato in procedimento connesso sia impedita dal « veto » delle parti; c) all’art. 112 Cost., in quanto l’esercizio dell’azione penale verrebbe ostacolato da facoltà attribuite ad una delle parti: con conseguente « completo stravolgimento » del processo: d) al principio di non dispersione della prova più volte riconosciuto dalla Corte costituzionale. 12. Pur nella loro articolazione assai analitica, le censure di illegittimità delle norme transitorie sono tutte riconducibili alla denuncia di irragionevolezza, e delle relative ricadute in termini di ingiustificata disparità di trattamento, di una disciplina che subordina la valutazione probatoria delle dichiarazioni acquisite a norma dell’art. 513, commi 1 e 2, c.p.p. ad un nuovo criterio di giudizio, ovvero ne sottopone l’utilizzazione alle nuove regole introdotte dalla l. n. 267 del 1997, in base al dato meramente occasionale che al momento di entrata in vigore della legge le dichiarazioni fossero già state acquisite mediante lettura, ovvero. pur essendo già stato disposto il rinvio a giudizio, non si fosse ancora proceduto all’esame del dichiarante. In sostanza, i rimettenti vorrebbero ripristinare integralmente nei procedimenti in corso la disciplina antecedente alla riforma del 1997, e conseguentemente mantenere ferma la già intervenuta acquisizione delle precedenti dichiarazioni, ovvero, se il dichiarante non è ancora stato sottoposto all’esame, procedere, in caso di rifiuto di rispondere. all’acquisizione mediante lettura. Occorre al riguardo considerare che la disciplina risultante dal contestuale intervento della Corte sugli artt. 513, comma 2, e 210 c.p.p. incide su entrambi i termini di riferimento delle censure rivolte alle norme transitorie: il meccanismo di acquisizione, previa contestazione, di singoli contenuti narrativi delle precedenti dichiarazioni delinea, infatti, una disciplina diversa sia da quella antecedente al 1997, che prevedeva l’acquisizione delle precedenti dichiarazioni mediante la loro lettura integrale, sia da quella introdotta dalla l. n. 267 del 1997, che subordinava l’acquisizione al consenso delle parti. Si impone pertanto la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, perché valutino se le questioni sollevate sulle norme transitorie conservano la loro rilevanza, oppure se risultano superate alla luce della disciplina che ora permette di recuperare mediante il sistema delle contestazioni singole contenuti narrativi delle dichiarazioni rese in precedenza. (Omissis).
II (Omissis). — 10. Con sentenza n. 361 del 1998 la Corte costituzionale ha dichiarato, fra l’altro, l’illegittimità dell’art. 513 comma 2 c.p.p. ultimo periodo c.p.p., quale risultante a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 267 del
— 304 — 1998, nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura, si applica l’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. Relativamente alla disciplina intertemporale risultante dalla l. n. 267 del 1997, la Corte, premesso che, pur nella loro articolazione assai analitica, le censure di illegittimità delle norme transitorie sono tutte riconducibili alla denuncia di irragionevolezza e delle relative ricadute in termini di ingiustificata disparità di trattamento, di una disciplina che subordina la valutazione probatoria delle dichiarazioni acquisite a norma dell’art. 513 commi 1 e 2 ad un nuovo criterio di giudizio, ovvero ne sottopone l’utilizzazione alle nuove regole dettate dalla l. n. 267 del 1997, in base al dato meramente occasionale che al momento di entrata in vigore della legge le dichiarazioni fossero già state acquisite mediante lettura, ovvero, pur essendo già stato disposto il rinvio a giudizio, non si fosse ancora proceduto all’esame del dichiarante, così da ripristinare integralmente nei procedimenti in corso la disciplina antecedente alla riforma del 1997, e conseguentemente mantenere ferma la già intervenuta acquisizione delle precedenti dichiarazioni, ovvero, se il dichiarante non è ancora stato sottoposto all’esame, procedere, in caso di rifiuto di rispondere, all’acquisizione mediante lettura, ha precisato che la disciplina risultante dal contestuale intervento della Corte sugli artt. 513 comma 2 e 210 c.p.p. incide su entrambi i termini di riferimento delle censure rivolte alle norme transitorie: il meccanismo di acquisizione, previa contestazione, di singoli contenuti narrativi delle precedenti dichiarazioni delinea, infatti, una disciplina diversa sia da quella antecedente al 1997, che prevedeva l’acquisizione delle precedenti dichiarazioni mediante la loro lettura integrale, sia da quella introdotta dalla l. n. 267 del 1997, che subordinava l’acquisizione al consenso delle parti. Tanto da disporre la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, perché valutino se le questioni sollevate sulle norme transitorie conservano la loro rilevanza, oppure se risultano superate alla luce della disciplina che ora permette di recuperare mediante il sistema delle contestazioni singoli contenuti narrativi delle dichiarazioni rese in precedenza. Resta dunque da stabilire se i nuovi meccanismi di acquisizione probatoria additati dalla Corte costituzionale trovino applicazione nei processi in corso davanti alla Corte di cassazione ed in caso di risposta positiva al primo quesito, le modalità attraverso le quali il nuovo contraddittorio debba instaurarsi e modellarsi in tale sede. 11. Quanto al primo punto, non possono certamente ritenersi inconferenti le statuizioni delle due decisioni delle sezioni unite pure con riguardo alla applicabilità delle nuove regole di giudizio derivanti dall’intervento della Corte costituzionale. Poiché anche le regole conseguenti dall’invalidazione delle norme denunciate concernono la valutazione della prova, è evidente che esse debbano trovare immediata applicazione ai giudizi davanti alla Corte di cassazione. Il tutto considerando che l’intervento additivo sugli artt. 513 comma 2 (dichiarato illegittimo nella parte in cui prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura, si applica l’art. 500 commi 2-bis e 4), 210 (dichiarato illegittimo nella parte in cui non ne è
— 305 — prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudindaria su delega del pubblico ministero), e 238 comma 4 (dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevede che, qualora in dibattimento la persona esaminata a norma dell’art. 210 rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza del consenso dell’imputato alla utilizzazione si applica l’art. 500 commi 2-bis e 4) concernono esclusivamente tali norme nel testo vigente in forza della l. n. 267 del 1997. Né appare in grado di disorientare il punto 12 del Considerato in diritto della C. cost. n. 361 del 1998, nella parte in cui evoca una disciplina di acquisizione diversa sia da quella prevista dalla l. n. 267 del 1997 sia dalla normativa anteriormente vigente. Appare, infatti, chiaro che tale precisazione ha esclusivo riferimento alle modalità acquisitive per il recupero del contraddittorio realizzato « attraverso il sistema delle contestazioni », di « singoli contenuti narrativi delle dichiarazioni rese in precedenza dal dichiarante su fatto altrui », non certo alla relatività dei criteri di utilizzazione delineata dalla disciplina transitoria. Nel senso, cioè, che il recupero del contraddittorio dovrà avvenire, attraverso il modulo cruciale della « capitolazione » di cui all’art. 468 c.p.p., secondo le prescrizioni dell’art. 500 commi 2-bis e 4 dello stesso codice, solo nel caso di una esplicita richiesta di parte, trovando altrimenti applicazione le regole di assunzione (ma non le regole di giudizio, in quanto irrimediabilmente colpite dalla pronuncia di illegittimità costituzionale) stabilite dall’art. 6. Resta fermo, beninteso — e qui la problematica sottesa alle regole di giudizio viene quasi a sovrapporsi a quella concernente le modalità del recupero del contraddittorio — che nel giudizio di legittimità lo strumento mediante il quale sarà possibile pervenire alla formulazione della nuova regola di giudizio non potrà essere diverso da quello già indicato dalle sezioni unite, cioè l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata. Ne deriva che la decisione della Corte costituzionale sembra avere inciso non sui modelli di recupero indicati nell’art. 6 ma esclusivamente sulle regole di giudizio indicate nel comma 6 dello stesso articolo, le sole, oltre tutto, ad essere state chiamate in causa dai giudici a quibus. Occorre infatti non trascurare che, mentre, per un verso, le uniche vere e proprie disposizioni di diritto intertemporale contenute nell’art. 6, risultano quelle desumibili dai commi 5 e 6, l’immediata applicabilità nei procedimenti in corso non potendo avvenire se non alla stregua dei modelli indicati nei commi 2, 3, per un altro verso, il regime così come conformato dal complessivo assetto dell’art. 6 demanda alla volontà delle parti iI recupero del contraddittorio. Con la conseguenza, che, in mancanza di una specifica richiesta delle parti interessate non potrà che trovare applicazione l’art. 513 c.p.p. nel testo anteriormente vigente. In tali termini ritiene il Collegio debba essere interpretato il provvedimento di restituzione degli atti ai giudici a quibus da parte della Corte costituzionale, la quale non avrebbe, in caso contrario, mancato di censurare — non solo obiter, ma in vista della permanente vigenza di tale norma sul piano del diritto intertemporale anche in forza del suo decisum, in mancanza di una richiesta di recupero del contraddittorio ad opera delle parti — lo stesso art. 513 nel testo anteriormente vigente. Una soluzione che sarebbe apparsa comunque irrime-
— 306 — diabilmente preclusa, per il derivare la detta disciplina dal principio di « non dispersione della prova » enucleato da plurime sentenze costituzionali, e per essere stato denunciato l’assetto normativo derivante dalla l. n. 267 del 1997, ed il concomitante effetto parzialmente conservativo conseguente alla disciplina transitoria. Attraverso il provvedimento di restituzione degli atti si è così fatto salvo il principio della « inutilizzabilità relativa », demandando ai soggetti interessati il compito di reintegrare il contraddittorio al fine di ottenere la presenza dei dichiaranti su fatto altrui. Né è da trascurare che la soluzione della questione concernente la permanenza dei criteri di recupero additati dal regime transitorio compete esclusivamente all’interpretazione di questa Corte; e non può, a tal riguardo, omettersi di rilevare come corrisponde ad un’elementare esigenza di conservazione inferirne che la norma transitoria non sia stata incisa dalla sentenza di illegittimità costituzionale se non per la parte strettamente conseguente al detto decisum, quella, cioè, che si ricollega alle norme dichiarate incostituzionali. Senza contare che appare intrinsecamente contraddittorio ritenere, rispetto ad una decisione fondata sul corrispondente rispetto del principio di conservazione della prova purché ciò non avvenga a costo dell’impossibilità di instaurare il contraddittorio, farne scaturire un regime di immediata operatività anche della normativa che non coinvolge le regole di giudizio indicate dalla Corte costituzionale, tanto da ravvisare, in assenza di strumenti di recupero un così irragionevole effetto di ricaduta da farne derivare conseguenze esorbitanti lo stesso regime delineato dalla l. n. 267 del 1997. Nel giudizio di merito è, dunque, solo con la citazione della persona coimputata o imputata in reato connesso o collegato (citazione da richiedere con le modalità stabilite dall’art. 468 c.p.p.) che diviene possibile per la parte accusata da persona che si era rifiutata di rendere l’esame in dibattimento sfuggire alla utilizzazione delle dichiarazioni rese nella fase anteriore al dibattimento. Con la conseguenza che questa persona dovrà necessariamente identificarsi con la parte privata su cui si riversano gli effetti sfavorevoli delle accuse rese nel corso delle indagini preliminari e non certo — come pure si è sostenuto — con il pubblico ministero che, in mancanza della citazione, potrà utilizzare le dichiarazioni accusatorie rese nelle fasi ora ricordate. Fermo restando che le regole di giudizio indicate nel comma 5 dell’art. 6 l. n. 267 del 1997 devono ritenersi ormai demolite da quelle additate dalla C. cost. n. 361 del 1998 che, superando il non davvero comprensibile sincretismo utilizzato dall’art. 6, ha fatto opportuno richiamo alla regola di giudizio indicata nell’art. 192 c.p.p. Le precisazioni ora proposte assumono un rilievo assolutamente decisivo al fine di determinare se e con quali modalità è possibile instaurare il contraddittorio nel giudizio di cassazione. In ciò, ancora una volta, seguendo i tracciati interpretativi additati dalle sezioni unite di questa Corte Suprema, può qui ripetersi che il recupero del contraddittorio e dell’oralità deve avvenire « con le forme imposte dalla peculiare natura del giudizio di legittimità, ossia mediante il passaggio obbligato dell’annullamento della sentenza pronunciata in base a prove ritenute inutilizzabili e del rinvio al giudice di merito, dinanzi al quale le parti potranno richiedere la rinnovazione parziale del dibattimento, a norma del comma 4 dell’art. 6, per ottenere la citazione di coloro che avevano reso dichiarazioni per le quali è sopravvenuto il divieto di uso ». Il procedimento da seguire in cassazione ai fini del
— 307 — recupero del contraddittorio resta, pertanto, quello derivante dal coordinamento degli artt. 606 comma 3 e 609 comma 2 c.p.p., che presuppone, a sua volta, un corrispondente coordinamento con le regole che sanciscono, alla stregua delle due norme prima considerate, la proponibilità del novum a condizione che non abbia operato un regime di preclusioni. 12. La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste per consentire al ricorrente di procedere, con le modalità indicate dalle due decisioni delle sezioni unite sopra ricordate — ma utilizzando le regole di giudizio scaturite dalla C. cost. n. 361 del 1998 — alla citazione dei dichiaranti su fatti altrui che nel dibattimento si erano rifiutati di rendere l’esame. (Omissis).
——————— (1-2) L’art. 513 c.p.p. tra esigenze di accertamento e garanzia del contraddittorio. SOMMARIO: 1. L’art. 513 c.p.p. e le tre ipotesi acquisitive varate dal legislatore nel 1997. — 2. La distinzione tra fatto adddebitato a sé e fatto addebitato ad altri, fulcro della sentenza costituzionale n. 361 del 1998. — 3. L’incerto trattamento riservato al silenzio parziale sul fatto proprio. — 4. La scelta di mantenere la facoltà di non rispondere. — 5. La discutibile compensazione del contraddittorio attraverso le manifestazioni consensuali. — 6. Il raddoppio dei canali acquisitivi: lettura e contestazione. — 7. Il silenzio sintomo di vulnerabilità dell’esaminando.
1. L’art. 513 c.p.p. e le tre ipotesi acquisitive varate dal legislatore nel 1997. — Con la legge n. 267 del 1997 gli argomenti spinosi che già si addensavano nell’art. 513 c.p.p. sono riemersi in numero maggiore. Infatti, il legislatore ha rinviato l’atteso riordino degli istituti a disposizione della persona incolpata per manifestare il sapere di cui è portatrice: rivolgendo tutta la sua attenzione al metodo probatorio (1), specie alle regole acquisitive, ne ha introdotte ben tre differenti. La stragrande maggioranza della dottrina ha salutato con favore il cambiamento di fisionomia dell’art. 513 c.p.p., reputandolo un ripristino dell’assetto accusatorio tradizionale — ossequioso delle disposizioni pattizie — dopo i « guasti culturali » del 1992 (2). (1) Apparentemente volta alla « [m]odifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove », la portata della legge n. 267 del 1997 si riflette, in realtà, sulle regole di acquisizione probatoria che « disciplina[no]... l’introduzione processuale degli elementi di prova su cui si fonderà il convincimento del giudice » (G. UBERTIS, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino, 1995, p. 67). La « rubrica della legge » sembra, allora, « tradi[re] il wishful thinking di chi l’ha formulata »: eccetto « un marginale cenno in sede di disciplina transitoria, infatti, di criteri di valutazione della prova non c’è segno nella nuova legge, che, al contrario, si preoccupa in ogni sua disposizione di dettare regole di formazione e di utilizzazione di una prova in particolare » (G. GIOSTRA, Ritorna la « cultura della prova » nel processo penale, in Gazz. giur., l997, n. 43, p. 10). (2) ... « provocati dagli interventi della Corte costituzionale »: così G. GIOSTRA, Ritorna la ‘‘cultura della prova’’ nel processo penale, cit., p. 11, il quale precisa, inoltre, che in tale rinnovato contesto, la « tendenziale inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio... dà doverosa attuazione all’art. 6 par. 3 lett. d della Convenzione europea dei diritti dell’uomo » (p. 10). Dal canto suo, P. FERRUA, Un errore di diritto della Suprema Corte, in Gazz. giur., 1998, n. 17, p. 1, definisce « meritoria [l’]opera di ricostituzione del contraddittorio, che si è espressa con la riforma dell’art. 513 c.p.p.; della quale bisogna semmai lamentare la settorialità e, di riflesso, l’inevitabile incoerenza, perché con analoga logica si sarebbe dovuto intervenire anche in rapporto alla prova testimoniale ». Spunti in questa direzione, si rinvengono anche in G. FRIGO, Ritornano l’oralità e il contraddittorio
— 308 — Per i critici, viceversa, ci troveremmo di fronte a elementi interpolati, prodotto esasperato del modello adversary puro. Elementi da espungere, quindi, in nome soprattutto del principio di non dispersione del sapere, avvalendosi del quale la Corte costituzionale aveva, a suo tempo, censurato l’originaria formulazione dell’art. 513 c.p.p. (3): nel fare ciò, rimarca qualcuno, non si sarebbe di certo dimenticata dell’art. 6 comma 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo (4). Con assillante insistenza tornano, in tutte le riflessioni, l’idea del contraddittorio, il diritto alla prova e il principio dispositivo; e non manca chi esalta la natura compensativa del consenso (5). Pur partendo da posizioni violentemente contrapposte, sostenitori convinti e denigratori ostinati della riforma che ha investito i due commi dell’art. 513 c.p.p., aggiungendone un terzo, non hanno dubitato dell’archetipo processuale prescelto dal legislatore: l’accusatio. E invece, qualche dubbio sarebbe stato bene, forse, insinuarlo subito, allo scopo di verificare le credenziali epistemologiche e politiche dei nuovi vincoli acquisitivi, rilevando, altresì, quanto questi ultimi siano realmente accreditati presso il modello accusatorio e in costante funzionalità con il giusto processo. In questa prospettiva, non dovrebbe costituire valido parametro, per controllare la legittimità del sistema di acquisizioni ex art. 513 c.p.p., il criterio di non dispersione probatoria. La stessa Corte, nel giro di pochi anni, ha avuto modo di ricredersi — tanto che « [n]on ha più ripetuto l’affermazione intransigente... che era stata posta alla base delle sentenze n. 254 e 255 del 1992 » (6) — e, nel vagliare la ragionevolezza della debole triade partorita nel 1997, ha disconosciuto questo principio spumentre cresce il rischio di una controriforma, in Guida dir., 1997, n. 32, p. 70 ss.; F. PERONI, La nuova disciplina delle letture di dichiarazioni provenienti dall’imputato, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, p. 175; M. PISANI, ‘‘Italian Style’’: il nuovo codice di procedura penale, in Riv. dir. proc., 1998, p. 273; G. RICCIO, Letture più circoscritte e forme ‘‘alternative’’ di acquisizione probatoria, in Dir. pen. proc., 1997, spec. p. 1184; E. ZAPPALÀ, Processo penale ancora in bilico tra sistema accusatorio e sistema inquisitorio, ivi, 1998, p. 892. Con maggiore cautela G. CASCINI, La giustizia in Parlamento, in Quest. giust., 1997, p. 228, nel dare informazioni sulla modifica ancora in itinere, parlava di « accettabile mediazione tra esigenze di garanzia del contraddittorio e le esigenze fatte proprie dalla Corte costituzionale in punto di ‘‘non dispersione dei mezzi di prova’’ ». (3) Per tale posizione, v. P. DUBOLINO, Prospettive di vita movimentata per il nuovo art. 513 c.p.p.?, in Arch n. proc. pen., 1997, p. 385; G. LOCATELLI, La riforma dell’art. 513 c.p.p.: profili di incostituzionalità, effetti processuali e prime applicazioni giurisprudenziali, in Gazz. giur., 1997, n. 38, p. 2; M. NUNZIATA, Profili di incostituzionalità dell’art. 513 comma 2 c.p.p., come novellato dalla l. 7 agosto 1997, n. 267, in Arch n. proc. pen., 1997, p. 531. Si confrontino pure R. BERTONI, Diritto al silenzio dell’imputato in dibattimento e divieto di utilizzare le sue precedenti dichiarazioni, in Giust. pen., 1997, III, c. 555 ss.; M. MADDALENA, La riforma dell’art. 513, la ricerca della verità e l’uguaglianza di trattamento, in Crit. pen., 1998, n. I-II, p. 31 ss.; A. MAMBRIANI, La delimitazione del materiale probatorio utilizzabile ai fini della decisione. Le questioni concernenti il contenuto del fascicolo per il dibattimento. Gli atti irripetibili. L’art. 513, in Arch. n. proc. pen., 1998, p. 332 ss. Le medesime osservazioni ricorrono con frequenza nelle ordinanze con le quali i magistrati hanno ben presto iniziato a diffidare della legittimità costituzionale dell’art. 513 c.p.p.: v., tra le prime, a titolo d’esempio, Trib. min. Bologna, 19 settembre 1997, Ciavardini, in Guida dir., 1997, n. 37, spec. p. 69; Trib. Milano, 24 ottobre 1997, Dell’Aglio, in Quest. giust., 1997, p. 863. (4) V., a questo proposito, la memoria presentata da P. IELO, al presidente della sezione III penale del Tribunale di Milano, sulla eccezione di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 6 l. n. 267/1997, in data 9 ottobre 1997, inedita, p. 4, nota 12, del dattiloscritto, dove si respingono le censure mosse — nel corso dei lavori parlamentari e nella stessa relazione al testo legislativo — « all’argomentare della Corte, che non avrebbe tenuto conto della convenzione dei diritti dell’uomo ». (5) Si allude all’« indiscutibile opzione ideologica — messa in luce da G. RICCIO, Letture più circoscritte e forme ‘‘alternative’’ di acquisizione probatoria, cit., p. 1182 — « per la quale il consenso sopperisce alla mancanza di legittimazione dell’atto non concepito in contraddittorio ». (6) P. TONINI, Una sentenza additiva molto discussa a) Il diritto a confrontarsi con l’accusatore, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1507. V., pure, S. CORBETTA, Art. 513 c.p.p.: intervento della Consulta e prospettive di riforma, in Corr. giur., 1998, p. 1423-1424.
— 309 — rio (7), essenziale per la metodologia d’« ascendenza inquisitoria » (8), ma decisamente rovinoso per le tecniche dialettiche. 2. La distinzione tra fatto addebitato a sé e fatto addebitato ad altri, fulcro della sentenza costituzionale n. 361 del 1998. — È sufficiente uno sguardo d’insieme per rendersi conto di quanto complesso sia l’intervento dei giudici di Palazzo della Consulta che conducono un’operazione stratiforme, avente ad oggetto, per giunta, tre norme cardine della trama codicistica. Essi ordinano, tra l’altro, la restituzione degli atti ai molti rimettenti che avevano denunciato la disciplina transitoria; l’art. 6 della l. n. 267 del 1997 è, quindi, incolume, ma il quadro che si delinea è incerto, perché ingolfato da una ‘‘sovrapposizione normativa’’. Come sembra sorprendentemente dimostrare anche la Suprema Corte con la sentenza in epigrafe, successiva alla pronuncia costituzionale annotata, con la quale il giudice di legittimità, per prima cosa affronta il problema del destino degli atti compiuti quasi che, invece di una decisione costituzionale, fossimo di fronte a un’abrogazione provocata dal susseguirsi di norme. E, in quest’ottica, la medesima Corte invoca immediatamente le statuizioni, considerate « non... inconferenti », delle ben note sentenze delle sezioni unite (9), proseguendo sulla scia di un’opinabile interpretazione che, indifferente al criterio espresso dal tempus regit actum, include tra i giudizi pendenti ex art. 6 anche quelli in corso davanti alla corte di cassazione. Tutta questa premessa serve, poi, per ritenere determinante « un’esplicita richiesta di parte », in assenza della quale dovrebbero continuare ad applicarsi le « regole di assunzione » predisposte dal menzionato art. 6 (10). Soprattutto viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 513 comma 2, ultimo periodo, dell’art. 210, e pure, dell’art. 238 comma 4 c.p.p. Ne esce, per un verso, rivoluzionato lo status dei soggetti ai quali si applica l’art. 513 c.p.p. In particolare, la Corte unifica « la posizione dell’imputato da esaminarsi nel processo cumulativo... con la posizione dell’imputato da esaminarsi in separata sede » (11). D’ora in avanti, anche gli accusati nello stesso processo, che abbiano già deposto su fatti concernenti la responsabilità di altri, andranno ad affollare quell’art. 210 c.p.p., da sempre regolatore dell’escussione di un numero esorbitante di soggetti: imputati in un procedimento connesso, le cui vicende giudiziarie si sono ormai concluse, imputati nei confronti dei quali si sta ancora procedendo in via separata, persone accusate di reato probatoriamente collegato, sottoposti a indagine. Spesso, poi, il dichiarante altro non è che un collaboratore di giustizia. Inoltre, si complicano ulteriormente i congegni già presenti: la sentenza costituzionale moltiplica, mandandole in frantumi, le ipotesi acquisitive. Al momento, se ne contano troppe. Due riguardano il comma 1: c’è un’acqui(7) « [E]straneo al sistema... va abbandonato ad ogni livello: nella giurisprudenza costituzionale... nell’interpretazione delle norme... e anche nell’attività del legislatore »: in questi termini si esprimeva O. DOMINIONI, Oralita, contraddittorio e principio di non dispersione della prova (1997), in AA.VV., Il giusto processo, Milano, 1998, p. 95. (8) P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in ID., Studi sul processo penale. II. Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, p. 164. (9) V. Cass., sez. un., 25 febbraio 1998, Gerina, in Cass. pen., 1998, p. 1951 ss., con motivazione e nota di D. CARCANO, nonché Cass., sez. un., 13 luglio 1998, Citaristi, in Gazz. giur., 1998, n. 37, p. 48 ss. (10) L’argomento è sviscerato da O. MAZZA, Illegittimità costituzionale dell’art. 513 c.p.p. e processi pendenti, in Dir. pen. proc., 1999, n. 1 (in corso di pubblicazione), cui si rinvia per ogni altra questione relativa agli effetti prodotti dalla sentenza costituzionale in esame sui processi in corso. (11) V., per un auspicio in tal senso, V. GREVI, ll diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in questa Rivista, 1998, p. 1147.
— 310 — sizione ad personam per l’imputato contumace, assente, che rifiuti l’esame sul fatto proprio, e una ‘‘consensuale’’ per gli ‘‘altri’’, quando il contenuto delle dichiarazioni lette, in potenza scindibile, non lo sia stato in concreto, a causa dell’inattività probatoria delle parti e del giudice (12). Almeno tre concernono il comma 2 sempre dell’art. 513 c.p.p.; si acquisisce con efficacia erga omnes, se un evento imprevedibile è d’ostacolo all’esame (13) e, come si vedrà, in presenza di accordo sulla lettura, o anche in mancanza di esso, attraverso la contestazione. Invariato, poi, da questo punto di vista, l’ultimo comma. Per distinguere quali conseguenze la Corte faccia discendere dagli atteggiamenti di non collaborazione, in senso lato, è indispensabile verificare le liste depositate dalle parti, a norma dell’art. 468 comma 1 c.p.p. Il tenore delle pregresse affermazioni viene incasellato avvalendosi del binomio fatto ‘‘proprio/altrui’’: la coppia — enucleata dalla dottrina (14), in qualche occasione impiegata nel corpus codicistico (art. 392 comma 1 lett. c c.p.p.), variamente accolta dalla giurisprudenza di legittimità (15) — diviene, all’improvviso, essenziale. L’inserimento nelle liste del nome di uno degli accusati, nella vicenda in corso o aliunde, mette in chiaro la sua appartenenza alla categoria dei dichiaranti erga alios (16): i giudici di Palazzo della Consulta collegano espressamente l’onere di (12) Mancando « una specifica richiesta » — conferma G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme legislative del codice di procedura penale, in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Seconda Appendice di aggiornamento, Padova, 1998, p. 23 — « l’esame sarà soggetto alle regole dell’art. 513 comma 1 c.p.p., ed è quindi legittimo che l’imputato vi si sottragga e che l’eventuale lettura delle precedenti dichiarazioni valga nei confronti dei coimputati con il loro consenso ». (13) A. NAPPI, La decisione della Corte costituzionale sull’art. 513 c.p.p.: un’importante innovazione che lascia aperti molti problemi, in Gazz. giur., 1998, n. 40, p. 2, apprezza la sentenza in commento, in quanto supererebbe la distinzione che « si era riprodotta anche nella riforma del 1997, che... aveva previsto esplicitamente l’utilizzabilità a norma dell’art. 512 c.p.p. delle dichiarazioni... ma solo con riferimento agli interrogatori degli imputati in procedimento connesso o collegato »; « mentre è evidente » — prosegue l’Autore — « come la norma generale dell’art. 512 c.p.p. rimanga, comunque, applicabile anche agli interrogatori di persone coimputate nel medesimo procedimento ». (14) Cenni al distinguo si rinvengono in F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 191. Più di recente, è tornato ad occuparsene V. GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’imputato, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari, Milano, 1995, p. 42, secondo il quale il legislatore « in funzione di specifiche strategie di politica criminale applicata al processo... potrebbe... definire artificialmente una simile linea di confine. Come sarebbe... se venissero stabilite le premesse affinché l’imputato confesso sul fatto proprio potesse, senza timore di pregiudizi contra se, rendere dichiarazioni di natura testimoniale sul fatto altrui ». Cfr., da ultimo, ID., Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., p. 1136 e 1139. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1998, p. 685, nel criticare — anteriormente alla pronuncia costituzionale in esame — la novella dell’agosto 1997, scrive che sarebbe stata « preferibile quest’altra soluzione: poteva tacere ma ha parlato; rispetto alle dichiarazioni sul fatto altrui diventa testimone ». La stessa proposta varrebbe anche per il comma 2 dell’art. 513 c.p.p.: infatti, « se l’attuale o ex-imputato nel procedimento connesso ha dichiarato qualcosa sul fatto altrui, in tali limiti diventa testimone » (p. 688). Reputa « coerente anche con la storia dell’istituto » il « principio interpretativo della Corte », I. RUSSO, Complessa e di difficile lettura la sentenza costituzionale sull’art. 513 c.p.p., in Gazz. giur., 1998, n. 45, p. 5. Vi sono Autori che non condividono questa impostazione e, nell’additare le loro ragioni, rimarcano, di frequente, l’impossibilità pratica di separare in modo netto il fatto proprio dall’altrui (cfr. infra, nota 19). Secondo G. UBERTIS, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’ e dialettica probatoria (1993), in ID., Verso un ‘‘giusto processo’’ penale, Torino, 1997, p. 68, il « diritto al silenzio salvaguarda pure la libertà di scelta della strategia difensiva, in base alla quale si può ritenere utile confessare alcune cose su di sé, ma non parlare dei complici; magari per evitare di essere implicato in altri reati, diversi da quello per cui si procede ». (15) Oltre ai provvedimenti riportati da P. GIORDANO, Una scelta coerente con il sistema processuale che elimina le incongruenze della riforma, in Guida dir., 1998, n. 44, p. 70, v., a titolo d’esempio, Cass., sez. I, 30 marzo 1997, Capriati, in Dir. pen. proc., 1998, p. 322, con motivazione e nota di A. SCALFATI. (16) Per una prima applicazione, v. Trib. Milano, 15 dicembre 1998, inedita: con ordinanza, i giu-
— 311 — chiedere l’esame ex art. 210 c.p.p. con la presentazione della lista; era necessario, poiché, in questi anni, la Cassazione aveva spesso rinunciato a correlare le due previsioni (17). Le varie circostanze oggetto d’esame dovranno riferirsi all’altrui imputazione (18): se riguardassero anche la propria, infatti, finirebbero divelte le coordinate spazio-temporali che ordinano l’assunzione della prova e, principalmente, le prerogative sancite dall’art. 150 norme att. c.p.p. Mentre le persone indicate nell’art. 210 c.p.p. sono escusse, al pari dei testi, secondo l’ordine che il richiedente ritiene più opportuno, per l’imputato e il coimputato nel processo cumulativo, che in precedenza abbiano rilasciato dichiarazioni sul fatto proprio, bisogna attendere che si sia conclusa l’assunzione probatoria a carico. Fino all’ultimo, costoro hanno facoltà di rinunciare alla deposizione. I giudici costituzionali paiono accorgersi che, non sempre, nel corso dell’esame, domande e risposte potranno distribuirsi secondo la classificazione fatto ‘‘proprio/altrui’’. Tra i due termini estremi, la Corte individua una zona intermedia. Essa è occupata da fatti nei quali i profili di responsabilità dei singoli protagonisti si intersecano tra loro (19) — qui, più che altrove, sarebbe « idoneo », a parere della Consulta, il « meccanismo » delle contestazioni — e fatti ove questi profili, pur virtualmente scindibili, mantengono un aspetto unitario, non avendo le parti, e nemmeno il giudice in forza dell’art. 507 c.p.p., puntualizza la Corte, « presentato specifica richiesta di esame » su quanto addebitato ad altri. Al termine, si profila uno schema di certo pregevole (20), ma anche un po’ contorto. Criticare drasticamente o esaltare in maniera esclusivistica è meno facile dici hanno dichiarato inammissibili gli esami dei coimputati, richiesti dall’accusa, nella parte in cui avevano « ad oggetto fatti concernenti la responsabilità di altri imputati poiché tale esame non [era] stato indicato nella lista da depositarsi... entro sette giorni prima del dibattimento ». (17) V., ad esempio, Cass., sez. I, 14 febbraio 1994, Pino ed altri, in Giust. pen., 1995, III, c. 435, m. 231, nonché Cass., sez. VI, 5 ottobre 1994, Celone, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 219. (18) In questa direzione, v. S. CORBETTA, Art. 513 c.p.p.: intervento della Consulta e prospettive di riforma, cit., p. 1425, che non ravvisa alcun « onere di indica[zione] nelle liste ex art. 468 c.p.p. » qualora l’esame sia concernente « la responsabilità per il fatto proprio: in questo caso trova applicazione l’art. 208 c.p.p.; l’esame può, dunque, essere dedotto per la prima volta nel momento dell’esposizione introduttiva e delle richieste probatorie, ai sensi dell’art. 493 c.p.p. ». G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme legislative del codice di procedura penale, cit., p. 23, non cela la sua preoccupazione per un « sistema » che « presuppone una diligenza e una puntualità nella procedura di richiesta e di ammissione delle prove, soprattutto per quanto riguarda l’onere di indicare le circostanze su cui debbono vertere gli esami, che sembrano molto lontane dalla prassi attuale dei tribunali »; l’Autore ritiene, inoltre, che se « l’imputato » venga « sottoposto ad esame solo sul fatto proprio », non « si possa estendere l’esame anche a fatti altrui ». V., altresì, I. RUSSO, Complessa e di difficile lettura la sentenza costituzionale sull’art. 513 c.p.p., cit., p. 4. Di tutt’altro avviso sembra essere A. NAPPI, La decisione della Corte costituzionale sull’art. 513 c.p.p.: un’importante innovazione che lascia aperti molti problemi, cit., p. 2, per il quale « dall’indicazione delle circostanze... potrà desumersi se l’esame riguardi la responsabilità altrui o quella dello stesso imputato da esaminare, e, quindi, se questi abbia o meno la facoltà di rifiutarlo ». (19) In momenti diversi è stata segnalata « la difficoltà di distinguere, nell’ambito di ciò che viene narrato, tra fatti riguardanti il dichiarante e fatti riguardanti altre persone, il più delle volte inscindibilmente uniti » (G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme del codice di procedura penale, cit., p. 7 e 20-21). V. anche A. BERNASCONI, La collaborazione processuale. Incentivi, protezione e strumenti di garanzia a confronto con l’esperienza statunitense, Milano, 1995, p. 306, e ivi le indicazioni bibliografiche nella nota 24; G. GIOSTRA, La riforma dell’art. 513 c.p.p.: evitare forzature discutibili per la disciplina transitoria, in Gazz. giur., 1997, n. 21, p. 2; A. SANNA, Il contributo dell’imputato in un diverso procedimento: forme acquisitive e garanzia di attendibilità, in questa Rivista, 1995, p. 524. Mentre per A. GIARDA, Le ‘‘novelle’’ di una notte di mezza estate, in AA.VV., Le nuove leggi penali, cit., p. 139, questa obiezione, avanzata da gran parte della dottrina, « non regge perché prova troppo; essa... perde di rilevanza osservando che proprio il distinguo in esame potrebbe trovare in una ricca casistica giurisprudenziale il terreno più fertile per consolidarsi e diventare effettivo ». (20) La « soluzione » è « difficilmente attaccabile dal punto di vista della tecnica decisionale »; la « motivazione che la sorregge si » lascia apprezzare per lo sforzo « di equilibrio argomentativo »: tuttavia, si aprono « molteplici interrogativi... non... di tutto riposo ». Le parole sono di M. CHIAVARIO, Una nuova svolta nella tormentata vicenda del regime di utilizzabilità delle dichiarazioni di coimputati e di imputati in procedimenti connessi: impressioni congetture e saggestioni ‘‘a prima lettura’’ sulla sentenza n. 361/98
— 312 — rispetto al recente passato. Bisogna, dapprima, cercare di comprendere: compito arduo perché sulla norma continuano a convergere questioni intricate, tali da provocare un serio disorientamento. Il problema di fondo, la potenziale utilizzabilità delle dichiarazioni di chi è accusato nel procedimento in corso o in altro, è un autentico crocevia di indirizzi socio-politici e di soluzioni tecnico-giuridiche, che mette in luce il divario esistente tra il sistema inquisitorio e quello adversary (21): resta, pertanto, d’attualità, domandarsi se vi sia antinomia tra ‘‘questo’’ art. 513 c.p.p., le continue versioni consigliano di bandire l’aggettivo ‘‘nuovo’’, e i principi accusatori in tema di prova. Anzi, ai vecchi dilemmi si aggiunge, adesso, un ulteriore quesito originato dall’incremento delle interferenze tra lettura e contestazione; in effetti i canali acquisitivi risultano raddoppiati: talvolta si legge, talaltra si contesta. 3. L’incerto trattamento riservato al silenzio parziale sul fatto proprio. — Non essendo stata sollevata censura alcuna, « [r]imane ferma » — avvisa la Corte — la « disciplina » dell’art. 513 comma 1 c.p.p. « relativa alla utilizzazione delle dichiarazioni sul fatto proprio ». In assenza del conferimento di un assetto coerente e completo alle tante sfaccettature che ricompongono lo ius tacendi, le manifestazioni del cosiddetto silenzio parziale — che si concretizza nel lasciare senza risposta una o più domande ammissibili — sono ancora collocate in una sorta di limbo normativo. Ciò potrebbe favorire il protrarsi di quella concezione ‘‘artificiosa’’ del diritto di tacere che — sostenuta da buona parte della dottrina — tende a escludere ogni differenza fra « chi si sottopone all’esame e non risponde e chi non si sottopone neppure all’esame » (22). Manca una soluzione precisa, meglio, non la si vuole trovare in quel passo della Relazione, ove la Commissione avvertiva che « il rifiuto di rispondere... assumerà legittimamente valore di argomento di prova » (23). L’imputato può, dunque, negare una risposta, sfuggendo, in questo modo, alla lettura ex art. 513 comma 1 e anche a quella ex art. 512 c.p. p., poiché la sua stessa presenza in iudidella Corte costituzionale, Supplemento a Leg. pen., 1998, p. 17. Apprezza i singoli passaggi della sentenza e, in particolare, la « limpid[a] analisi del diritto di difesa », P.P. RIVELLO, La possibilità di procedere al controesame salva il principio del contraddittorio, in Guida dir., 1998, n. 44, p. 66. (21) L’uso di quanto dichiarato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria nella fase investigativa « da soggetti non comparsi o rimasti silenti in dibattimento è la cartina di tornasole del carattere accusatorio del processo »: così si legge ne Il processo penale dopo la sentenza n. 361/1998 della Corte costituzionale (Un appello di Magistratura democratica), in Quest. giust., 1998, p. 1020. (22) M. TERRILE, Utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese fuori del dibattimento, in Cass. pen., 1990, I, p. 1623. In questi termini, v. tra gli altri, P.P. RIVELLO, Giudizio ordinario di primo grado, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, primo aggiornamento, Torino, 1993, p. 777. In senso contrario, v. M. NOBILI, sub art. 513, ivi, secondo aggiornamento, Torino, 1993, p. 279. (23) Relazione al prog. prel. c.p.p., in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, IV, Padova, 1990, p. 601. In altre parole, « la conclusione preferibile continua ad essere quella secondo cui, essendo tassative le ipotesi di lettura, non sarebbero applicabili », né l’art. 513 comma 1 c.p.p., né l’art. 500 comma 2 c.p.p., bensì il solo art. 503 c.p.p. « che non prevede la contestazione del silenzio ». E questa tendenza interpretativa « sembrerebbe convalidata », seppur « [i]ncidentalmente » dalla sentenza in commento, poiché la contestazione è ora « specificamente prevista in una diversa fattispecie », e la lettura « ove consentita, avrebbe assorbito anche la necessità di estendere l’art. 500 c.p.p. » (G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme legislattve del codice di procedura penale, cit., p. 22). Sull’argomento, successivamente alla legge dell’agosto 1997, v. P. MOSCARINI, L’esame del coimputato dopo la L. 7 agosto 1997, n. 267: dal suo parziale silenzio al regime delle contestazioni, in questa Rivista, 1998, p. 70 ss.; F. PERONI, La nuova disciplina delle letture di dichiarazioni provenienti dall’imputato, in AA.VV., Le nuove leggi penali, cit., p. 173-174.
— 313 — cio impedisce alla prova di divenire irripetibile (24). Egli evita, inoltre, il sorgere di contraddizioni risultanti dal raffronto con la versione fornita, caso mai, nelle sedi anteriori. Il diniego, però, riserva un’insidia, rimanendo traccia di esso « nel verbale per l’eventuale apprezzamento da parte del giudice » (25). Astenersi dal ribattere a una domanda non costituisce, allora, una manovra produttiva di un risultato favorevole, anzi, reca nocumento all’imputato dal punto di vista probatorio: e per ogni risposta non fornita cresce l’intensità degli effetti negativi, destinati a riversarsi esclusivamente sul soggetto che si è proposto di non parlare. Il perdurante disinteresse per il distinguo tra le due forme di silenzio, appena individuate, è davvero inspiegabile, e continua a ripercuotersi negativamente pure sull’inquadramento dogmatico dell’esame ex art. 210 c.p.p. La linea di confine, invece, assume notevole importanza, laddove si consideri quanto può riuscire dannoso il rifiuto opposto, seppure ad una sola domanda, sul fatto proprio. Il pregiudizio, vistosamente eccessivo, che l’imputato subisce è identificabile nella « lettura di tutti i verbali anteriori (ciascuno nella sua integralità) » (26). Anche a voler persistere nell’accostamento dell’omessa risposta alla rinuncia globale dell’esame, bisognerebbe almeno diversificare il profilo acquisitivo, disponendo — quale conseguenza di un silenzio ‘‘parziale’’ — una lettura altrettanto ‘‘parziale’’ delle dichiarazioni rese nelle sedi predibattimentali. In caso contrario, rimarrebbe la dissimetria rispetto all’ipotesi contemplata dall’art. 500 comma 2-bis c.p.p.: infatti, nei confronti del teste e dello stesso accusato — sentito sui fatti concernenti la responsabilità di altri — che tacciono in iudicio, pur essendo obbligati a deporre nei limiti di cui all’art. 198 c.p.p., è possibile procedere alla contestazione delle sole circostanze precedentemente riferite. Una contestazione inconsueta questa, poiché parrebbe infrangere il tradizionale schema dialettico del confronto fra due versioni narrative. Ma è un altro l’aspetto che qui preme porre in risalto: al rifiuto o all’omissione di rispondere fa seguito l’allegazione nel fascicolo del dibattimento delle sole parti utilizzate a fini contestativi, sempre che non prevalga la prassi opposta di acquisire tutto il verbale pure quando si sono contestate « circostanze magari irrilevanti » (27). Secondo un opinabile orientamento giurisprudenziale vi sarebbe l’esigenza — poco plausibile, in particolar modo nel caso del comma 2-bis dell’art. 500 c.p.p. — di acquisire integralmente, per meglio valutare il contenuto delle dichiarazioni pregresse « in considerazione della loro contraddittorietà con quanto riferito in dibattimento » (28). 4. La scelta di mantenere la facoltà di non rispondere. — La Corte, non ritenendo degno di censura l’art. 210 comma 4 c.p.p. (29), continua ad attribuire (24) V. G. ICHINO, Il giudice del dibattimento, le parti e la formazione della prova nel nuovo processo penale, in questa Rivista, 1989, p. 712. (25) C. cost., sent. 24 maggio 1991 n. 221, in Giur. cost., 1991, p. 1953. Cfr., sul punto, V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., p. 1132. (26) M. NOBILI, sub art. 513, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., secondo aggiornamento, cit., p. 279. (27) A dimostrazione della fondatezza dei timori manifestati da G. LOZZI, I principi dell’oralità e del contraddittorio nel processo penale, in questa Rivista, 1997, p. 689, cfr. Cass., sez. IV, 18 aprile 1997, Caterino, in Dir. pen. proc., 1997, p. 948. (28) Cass., sez. I, 1o febbraio 1996, Buzzone ed altri, in Dir. pen. proc., 1996, p. 561. (29) Al riguardo, v. O. DOMINIONI, Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova, cit., il quale preliminarmente si domanda se l’art. 210 comma 4 c.p.p. sia o no « corrett[o] in base ai principi » ed « adeguat[o] alle necessità di funzionamento proprie di un processo a struttura dialettica » (p. 100); dopo un’accurata indagine rileva come la norma « preveda un diritto di tacere non giustificato dalle reali esigenze di tutela insite, pur in misura differente, nelle singole situazioni in cui versano i soggetti... e come tali esigenze trovino invece adeguata soddisfazione nelle garanzie che competono in via ge-
— 314 — all’imputato in procedimento connesso — che rilascia, a detta della Corte stessa, « necessariamente » dichiarazioni sul fatto altrui — la facoltà di non rispondere. Spetta al giudice, prima di dar inizio all’esame rendere edotto il dichiarante di questa sua facoltà. La previsione produce qualche fraintendimento, introducendo una nota di disordine che nulla ha a che vedere con la natura ‘‘ibrida’’ comunemente attribuita all’esame ex art. 210 c.p.p.: all’uso dell’aggettivo non si sottrae neppure la Corte che lo adopera per rappresentare i caratteri specifici di questo veicolo conoscitivo, ove pur « permane[ndo] la qualità di imputato », « sono richiamate alcune... regole operanti nei confronti dei testimoni ». L’ibrido, di solito, è realizzato con elementi che stentano ad amalgamarsi; i componenti sono, quindi, tra loro mal assortiti, ma, indipendentemente da ciò, appartengono al patrimonio genetico di due species diverse, poste alla base dell’unione. Nel caso concreto, l’ibridazione nasce dall’incrocio dell’art. 500 con l’art. 503 c.p.p.: mentre la facoltà di non rispondere, stricto sensu intesa, rientra nella specie interrogatorio, rimanendo al contrario sconosciuta alle specie d’esame. L’avviso correlato al diritto di tacere è, infatti, una regola generale alla quale deve esser data materiale attuazione ogniqualvolta si effettui, appunto, un interrogatorio. L’adempimento introdotto dall’art. 64 comma 3 c.p.p. dovrebbe, pertanto, incombere esclusivamente sugli inquirenti, essendo connaturale alle fasi anteriori al giudizio (30), allorché venga a mancare un’escussione con modalità dialettiche. L’inserimento di una guarentigia del genere tra i preliminari dell’esame pare, allora, porsi in accentuato contrasto con la natura probatoria di questo strumento, al quale è conferita, inoltre, un’esatta posizione spaziale: si assume « [n]el dibattimento » (art. 210 comma 1 c.p.p.). I soggetti ex art. 210 c.p.p. non hanno alcun modo di sottrarvisi, se presenti, versando, da questo angolo prospettico, nella stessa condizione del teste (31). Eventualmente, essi potranno solo rinunciare a fornire una o più risposte. Un simile atteggiamento mantenuto in iudicio non ha nulla in comune con il diritto a tacere durante l’interrogatorio predibattimentale: il silenzio, in questa seconda ipotesi, resta inutilizzabile ai sensi dell’art. 503 comma 3 c.p.p. mancando, per definizione, la deposizione « sui fatti e sulle circostanze da contestare ». Tutto il contrario di quel che capita quando si verifica l’astensione dal parlare nerale al testimone in un conseguente assetto normativo che salvaguardi, ad un tempo, tutti gli interessi in campo: la compiutezza della ricostruzione probatoria, il metodo dialettico, il nemo tenetur se detegere della persona chiamata a deporre, il diritto di difesa dell’imputato » (p. 102). (30) Sembra corretto ipotizzare che le persone indicate nell’art. 210 c.p.p., debitamente avvertite, si avvalgano dello ius tacendi se interrogate dal pubblico ministero, in via diretta o delegata (art. 363 comma 1 c.p.p.), oppure qualora riferiscano alla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 351 comma 1-bis c.p.p., sebbene in quest’ultima norma non si faccia menzione alcuna dei comportamenti doverosi dell’interrogante (cfr. V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., p. 1130). Sul punto, v. A. BERNASCONI, La collaborazione processuale, cit., p. 321, e nota 58 per le indicazioni bibliografiche. (31) In senso contrario, v. P. DUBOLINO, 513 e 500 c.p.p.: accoppiata vincente, o no?, in Arch. n. proc. pen., 1998, p. 676: a suo parere, l’aver lasciato sopravvivere il comma 4 dell’art. 210 c.p.p. implicherebbe, almeno « di fatto », oltre al « diritto di rifiutarsi formalmente... di rispondere a qualsivoglia domanda », anche quello di non « sottoporsi in toto all’esame », nel caso in cui la facoltà venga esercitata all’inizio dell’escussione. L’avvertimento è un’incombenza cui il giudice deve adempiere « prima che abbia inizio l’esame » (art. 210 comma 4 c.p.p.), ma di un esame, bisogna aggiungere, per rendere il quale la persona ex art. 210 c.p.p. « ove occorra è accompagnata coattivamente » (comma 2). Cfr. A. NAPPI, La decisione della Corte costituzionale sull’art. 513 c.p.p.: un’importante innovazione che lascia aperti molti problemi, cit., p. 2 e I. RUSSO, Complessa e di difficile lettura la sentenza costituzionale sull’art. 513 c.p.p., cit., p. 5, che sottolinea come l’art. 490 c.p.p. abbia subito una « modifica indiretta », « con la conseguenza che... potrà essere disposto l’accompagnamento coatto in dibattimento anche dell’imputato nello stesso processo se deve essere esaminato su fatti altrui ».
— 315 — nella sedes dibattimentale: qui, alcuni frammenti di silenzio appaiono destinati a trasformarsi in argomento di prova. Dovrebberlo esserlo solo quelli che avanzano dopo aver ritagliato la parte di silenzio garantita dall’art. 198 comma 2 c.p.p. Di fatto, un rimando espresso a questa norma non è, ad oggi, presente (32). La lacuna — sintomo, forse, delle anomalie che, fin dall’inizio, hanno afflitto l’esame disciplinato dall’art 210 c.p.p. — sorprende, e fa sì che l’imputato aliunde sia sprovvisto di tutela contro il rischio di autoincriminazioni (33). Resta incomprensibile il motivo di questo trattamento, differente da quello previsto non solo per il testimone vero e proprio, ma anche per la persona accusata nel procedimento in corso, la quale, grazie al comma 2 dell’art. 209 c.p.p., può negare una risposta ad una o più domande ammissibili, mentre in base al comma 1, può tacere invocando il privilege against self incrimination. Si teme ora, la perdita di un simile privilegio, quando l’esame dell’imputato venga richiesto, con le forme dell’art. 210 c.p.p., per provare la responsabilità d’altri (34). L’assenza di questa garanzia minima — sancita dall’art. 198 comma 2 c.p.p. — sfugge all’attenzione dei giudici costituzionali che insistono sulla facoltà di non rispondere. Facoltà che, esibita con pertinacia come « irrinunciabile manifestazione del diritto di difesa » (35), si riduce, nella pratica, a ben poca cosa. Dal suo esercizio discendono almeno due conseguenze: in caso di accordo delle parti, la lettura; altrimenti, la contestazione — sulla falsariga di quella opposta al teste taciturnus (art. 500 comma 2-bis c.p.p.) — di quanto affermato in precedenza su fatti concernenti la responsabilità d’altri. Ambedue i rimedi, alternativamente predisposti per fronteggiare la recusatio respondendi, posseggono qualche difetto. Da un lato, la lettura, per così dire, patteggiata — simbolo delle operazioni condotte dal legislatore del 1997 attorno al procedimento probatorio — è soluzione sovrabbondante, in risposta ad altrettanti eccessi raggiunti, sia pure sul versante antitetico, dalla sentenza costituzionale n. 254 del 1992 (36); una pronun(32) Le indicazioni provenienti dalla prassi giurisprudenziale sono nel senso di impiegare probatoriamente il contenuto della dichiarazione dell’imputato ex art. 210 c.p.p. quand’anche assunta in modo irrituale nella forma di una testimonianza — sempreché « non sia stata violata alcuna garanzia sostanziale, in particolare quella » del capoverso dell’art. 198 c.p.p. (Cass., sez. V, 13 ottobre 1995, Scarano, in Dir. pen. proc., 1996, p. 44) v., pure, Cass., sez. VI, 25 marzo 1994, Palumbo, in Giust. pen., 1995, III, c. 567, con motivazione e nota di M. MURONE. Secondo E. MARZADURI, Una sentenza additiva molto discussa b) Il diritto al silenzio del coimputato, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1514, nota 15, l’art. 198 comma 2 c.p.p. sarebbe applicabile analogicamente: « [i]n effetti » — egli scrive — « il ricorso all’analogia appare nel caso di specie ancora più giustificato alla luce dei contenuti della... decisione costituzionale » che qui si commenta. (33) Per di più, la sua escussione non risulterebbe invalida qualora la pars quaerens omettesse gli avvertimenti che le competono; « manca una nullità comminata ad hoc, né sarebbe applicabile l’art. 178, lett. c... dove il riferimento all’imputato tocca solo chi lo sia nel processo de quo »: coglie nel segno il rilievo avanzato da F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 686. (34) Lo esclude A. NAPPI, La decisione della Corte costituzionale sull’art. 513 c.p.p.: un’importante innovazione che lascia aperti molti problemi, cit., p. 2, il quale precisa che la « tutela del principio nemo tenetur se detegere rimane affidata alla facoltà di rifiutare la risposta a singole domande, pur sempre riconosciuta all’imputato dall’art. 209 comma 1 c.p.p., analogamente a quanto l’art. 198 comma 2 c.p.p. fa per il testimone ». (35) V., in proposito, le osservazioni di E. MARZADURI, Una sentenza additiva molto discussa b) Il diritto al silenzio del coimputato, cit., p. 1513 che prende spunto proprio da questa definizione dei giudici costituzionali. (36) La sentenza — unitamente agli altri due provvedimenti grazie ai quali, nel 1992, la Corte ha modellato il principio di non dispersione del sapere (v. supra, § 1) — è stata frequente oggetto d’esame e di osservazioni critiche. Fra gli studi dedicati, in modo esclusivo, alla sentenza in questione, v. — oltre al saggio di V. GREVI citato infra, nella nota 38 — M. FERRAIOLI, Dubbi sull’acquisibilità delle dichiarazioni in precedenza rese dall’imputato (o coimputato) che rifiuti l’esame in dibattimento, in Giur. cost., 1992, p. 1949 ss.; M. MURONE, Deformazione della prova dibattimentale e lettura degli interrogatori resi da im-
— 316 — cia, questa, denotata da varie imperfezioni, sintetizzabili tutte però, nella negazione del contraddittorio (37). L’inconveniente della lettura a seguito di assenso delle parti è, ancora una volta, la propensione ad acquisire le dichiarazioni rese ex ante nella loro globalità, senza rispettare il momento in cui il deponente inizia a manifestare l’intenzione di non rispondere. Dall’altro lato, il ricorso all’art. 500 comma 2-bis c.p.p. si mostra dotato, per certi versi, di maggiore equilibrio (38), permettendo, infatti, di allegare al fascicolo del dibattimento le sole affermazioni utilizzate a fini contestativi; il punto di instabilità — come si avrà modo di osservare in seguito — potrebbe risiedere nell’operazione di adeguamento condotta dalla Corte. Queste due strade al momento percorribili costituiscono un ripiego, che non soddisfa a pieno, perché prendono avvio da un presupposto rivelatosi, e non potrebbe essere diversamente, nient’altro che una espressione priva di reale consistenza della facoltà di non rispondere: ciò causa un persistente dissesto nella struttura morfologica dell’esame ex art. 210 c.p.p. che non accenna ad attenuarsi. L’ipotesi preferibile dalla quale ripartire rimane — si ritiene — l’estensione a tutti i soggetti esaminati del privilegio conferito dall’art. 198 comma 2 c.p.p. (39): l’esclusione dall’obbligo di deporre su fatti che potrebbero far emergere una reputati dello stesso reato o di reato connesso, in Giust. pen., 1992, II, c. 325 ss. Per ulteriori suggerimenti bibliografici, v. P.P. RIVELLO, Il dibattimento nel processo penale, Torino, 1997, p. 282-284. (37) ... tanto macroscopica che l’art. 513, dopo la sentenza costituzionale n. 254 del 1992, era diventato « indifendibile » (G. GIOSTRA, La riforma dell’art. 513 c.p.p.: evitare forzature discutibili per la disciplina transitoria, cit., p. 1). S. BARRESI, Processo penale e dibattimento. Appunti sulla realtà palermitana, in Quest. giust., 1995, p. 609, considera « assolutamente inaccettabile » l’inserimento automatico, nel fascicolo del dibattimento, ai sensi dell’art. 513 c.p.p., delle dichiarazioni pregresse, e asserisce che « l’unico momento di verifica... nel contraddittorio tra le parti viene meno, impedendosi di fatto ogni possibile contestazione da parte della difesa che vede del tutto precluso l’espletamento del suo mandato in uno dei passaggi essenziali del dibattimento ». E di « contraddittorio... monco » parla anche F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 747. V., infine, M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un diverso procedimento, cit., p. 136. O. DOMINIONI, Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova, cit., p. 98, rammenta come « [v]igente l’art. 513 comma 2 c.p.p. nel testo del 1989 le scelte del pubblico ministero dovevano essere molto accorte », mentre a partire dal giugno 1992, l’accusa « non ha più il problema di assicurars[i] l’esame » della persona escussa ai sensi dell’art. 210 c.p.p. Il « diritto al silenzio » — aggiunge D. SIRACUSANO, Introduzione, in AA.VV., Il giusto processo, cit., p. 33 — « si traduce in una vera e propria ‘aspettativa’ del pubblico ministero... lo spettacolo dei ‘cori a bocca chiusa’... avvalora quasi l’ipotesi di programmate e pianificate scelte ». (38) Nel commentare la sentenza costituzionale n. 254 del 1992, V. GREVI, Facoltà di non rispondere delle persone esaminate ex art. 210 c.p.p. e lettura dei verbali di precedenti dichiarazioni, in questa Rivista, 1992, p. 1130, confidava in una ricezione « per via logica... dell’art. 500 comma 2-bis c.p.p. », aggiungendo — a p. 1131 — che la « disciplina relativa alle conseguenze dell’esercizio della facoltà di non rispondere da parte delle persone... ex art. 210 c.p.p. risulterebbe molto più razionale e coerente di quanto non risulti oggi — a seguito dell’intervento della Corte costituzionale — per effetto della generalizzata estensione del regime di lettura ex art. 513 comma 2 c.p.p. ». Dopo la l. n. 267 del 1997, P.P. RIVELLO, Inutilizzabili le dichiarazioni dell’imputato se non sono state raccolte in udienza, in Guida dir., 1997, n. 32, p. 84, constata che il legislatore ha trascurato « di affrontare il problema concernente l’ipotesi in cui l’imputato di reato connesso non si avvalga della facoltà di non rispondere e si sottoponga pertanto all’esame, ma taccia a una o più domande, o dichiari di non ricordare ». L’Autore sembra escludere che « la soluzione... debba essere offerta dalla lettura (subordinata all’accordo delle parti)... bensì dalla contestazione delle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni ». V., inoltre, M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, cit., p. 139 ss.; A. BERNASCONI, La collaborazione processuale, cit., p. 327; A. SANNA, Il contributo dell’imputato in un diverso procedimento: forme acquisitive e garanzie di attendibilità, cit., p. 511. (39) V., di nuovo, O. DOMINIONI, Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova, cit., p. 102 ss., nonché G. RICCIO, Mentre continua il lungo iter per la riforma dell’art. 513, in Dir. pen. proc., 1997, p. 861, e A. SANNA, Il contributo dell’imputato in un diverso procedimento: forme acquisitive e garanzie di attendibilità, cit., p. 524 ss. Cfr., inoltre, le più recenti riflessioni di M. CHIAVARIO, Una nuova svolta nella tormentata vicenda del regime di utilizzabilità delle dichiarazioni di coiumputati e di imputati in procedimenti connessi: impressioni congetture e suggestioni ‘‘a prima lettura’’ sulla sentenza n. 361/98 della Corte costituzionale, cit., spec. p. 27-28.
— 317 — sponsabilità penale è in grado di salvaguardare il deponente in ogni evenienza, specie in quella più pregiudizievole, originata dalla contestazione di dichiarazioni, ove il fatto altrui è inseparabile dal proprio. 5. La discutibile compensazione del contraddittorio attraverso le manifestazioni consensuali. — La Corte sembra prediligere le scelte intermedie: ne scaturisce un sistema dai tratti singolari, ispirato a principi contrastanti. Sono tuttora presenti le manifestazioni consensuali, nonostante abbiano partecipato — assieme all’esercizio della facoltà di non rispondere (art. 210 comma 4 c.p.p.) — a quel « meccanismo » che i giudici costituzionali non esitano a bollare come « irragionevole e... incoeren[te] ». Il contraddittorio viene così sostituito chiamando gli « altri » ad esprimersi sul dilemma se acquisire o porre il veto all’acquisizione (art. 513 comma 1 c.p.p.), e le « parti » a scegliere tra un consenso alla lettura e un dissenso che preclude la lectio, ma non ostacola l’impiego delle dichiarazioni pregresse a scopi contestativi (art. 513 comma 2 c.p.p.). Tutto ciò è possibile, a patto di esser coscienti dell’operazione neutralizzante alla quale si sta sottoponendo il principio che tanto preme tutelare. Le approvazioni, le unanimi volontà, trovandosi in netta inconciliabile antitesi con il contraddittorio, lo rendono inefficace, ne annullano gli effetti benefici. E non serve invocare il rito abbreviato, ove manca la selezione del materiale investigativo su richiesta di una persona imputata nei cui confronti verrebbe, altrimenti, emessa una decisione, dopo aver rispettato la tecnica probatoria ordinaria (40). Al pari dei monologhi, gli accordi sono capaci di nuocere in modo grave e irreparabile al metodo dialettico che si alimenta dei dialoghi autentici ed aggressivi (41). Di solito, non c’è rinuncia alla contrapposizione, tranne che nell’ipotesi estrema, quando alle parti è dato di disporre dell’oggetto del processo. Allora, la giurisdizione penale perde la sua natura ‘‘contenziosa’’ per acquistare quella ‘‘volontaria’’ (42): è la giustizia negoziata, lontana dai nostri cardini costituzionali, specie dall’art. 112 (43), e diversa, pure, dal rito abbreviato. Ogni tassello — ad eccetto di ciò che è incontestabile (44), ininfluente (45) o (40) Questa alternativa è difficilmente paragonabile alle conseguenze che producono le manifestazioni di volontà ex art. 513 comma 1 c.p.p. (v., in tal senso, A. GAITO, Art. 513 c.p.p. e giudizio abbreviato: due istituti davvero incompatibili?, in Dir. pen. proc., 1998, p. 883). L’imputato, optando per l’abbreviazione del rito, non blocca l’acquisizione, bensì rinuncia all’acquisizione in iudicio. Sul punto, per un diverso atteggiamento, v. G. GIOSTRA, Ritorna la ‘‘cultura della prova’’ nel processo penale, cit., p. 13; P. MOSCARINI, L’esame del coimputato dopo la L. 7 agosto 1997, n. 267: dal suo parziale silenzio al regime delle contestazioni, cit., p. 70. (41) Mentre l’autenticità deriva dal fatto che il dialogo « non riesce mai come volevamo che fosse » (H.G. GADAMER, Verità e metodo [1960], trad. it., Milano, 1990, p. 441), l’aggressività dipende dal difficile appianarsi delle divergenze che non sono apparenti. (42) La giurisdizione « volontaria... non presuppone » alcun conflitto « dialettic[o] di parti in contrasto fra loro »: v. le indicazioni offerte, sul versante processualcivilistico, da L.P. COMOGLIO, Difesa e contraddittorio nei procedimenti in camera di consiglio, in Riv. dir. proc., 1997, p. 721 ss., e meno di recente, dello stesso Autore. Contraddittorio (principio del), in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, p. 5 ss. (43) Pone l’accento su ciò, E. AMODIO, Il modello accusatorio statunitense e il nuovo processo penale italiano: miti e realtà della giustizia americana, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di E. Amodio-M. Cherif Bassiouni, Milano, 1989, p. XLVII, puntualizzando che il « ripudio » dell’inquisitio non ha indotto « il legislatore a rendere le parti ‘padrone dell’oggetto della contesa’ ». È di sicuro rilievo che la Corte costituzionale nella sentenza in commento, accantonato il principio di non dispersione del sapere, abbia voluto precisare « la funzione del processo penale, che è strumento, non disponibile dalle parti, destinato all’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità ». (44) Emblematico, in proposito, un passo di PLATONE (Eutifrone, 7 b-d), dal quale può trarsi un insegnamento: non si discute, nel corso di una controversia giudiziaria, di quanto è incontestabile. Secondo D. SIRACUSANO, Vecchi schemi e nuovi modelli per l’attuazione di un processo di parti, in
— 318 — ha scarsa rilevanza (46) — necessita di esser ‘‘tradotto’’ nel contraddittorio, poiché, secondo la logica dell’ordine selettivo, che ha a sua disposizione il metodo delle griglie dialettiche, elaborato dai rituali accusatori, non esistono fatti neutri. In un duplice senso, per giunta. Non ci sono « dati percettivi... indipendenti da qualsiasi filtro interpretativo » (47); neppure elementi ‘‘estranei’’, non riferibili, cioè, né all’una, né all’altra delle due tesi in conflitto: infinitamente complesso sarà, poi, individuare le circostanze a favore e quelle contrarie a ciascun antagonista, « molteplici essendo », a tacer d’altro, « le possibili chiavi di lettura del medesimo atto » (48). Per queste ragioni, la regolamentazione negativa del fenomeno probatorio non è assoggettabile ai mutevoli calcoli delle parti. Calcoli, inclusivi di operazioni di storno, finalizzate ad allontanare l’eventuale valorizzazione di versioni narrative che potrebbero riuscire ‘‘dannose’’ sul piano processuale: lo hanno già constatato la dottrina (49) e la stessa Corte costituzionale che, nel censurare l’art. 513 c.p.p., prende le mosse, congiuntamente, dall’esercizio della facoltà di non rispondere e dalla « prevedibile mancanza dell’accordo di tutte le parti — portatrici di contrastanti interessi processuali — alla lettura ». La « dialettica probatoria esterna » esce priva di energia vitale e si mortifica anche quella « interna » (50). La prima rischia di risultare avvelenata dall’ubris e dai ragionamenti eristici. La seconda, che afferisce all’excursus gnoseologico del giudicante, sarebbe parzialmente inondata da una serie di flussi informativi ‘‘disordinati’’, perché fatti affluire sulla base dei giudizi favorevoli espressi dai titolari del consenso e non secondo i criteri di cernita propri di un ordine selettivo, che Leg. pen., 1989, p. 87, « non vale sottoporre a prova i fatti ammessi o non contestati (e non contestabili). Non serve alle parti del possibile contraddittorio e non serve, quindi, al processo ». (45) In determinati casi, « né accusa, né difesa... hanno interesse a contestare la formazione di un certo dato conoscitivo », presentandosi esso, « ininfluente nel procedimento in cui viene acquisito », anche se — ed è questo l’aspetto più delicato — « potrebbe risultare decisivo, una volta » che iniziasse a « migra[re] in altro contesto processuale » (G. GIOSTRA, Il processo penale ‘‘contro’’ la criminalità organizzata: rischi di strumentalizzazione, in Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, a cura di G. Giostra-G. Insolera, Milano, 1995, p. 159). Prima ancora, cfr. G. UBERTIS, Pericolose proposte di modifica alla disciplina della prova documentale (1991), in ID., Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione del sistema, Torino, 1993, p. 250. (46) Non è senza significato che il diritto alla prova venga da taluno configurato non come il diritto ad ottenere l’assunzione di una prova qualsiasi, bensì solo di quella che continua ad essere rilevante, non inutile, rispetto « all’esito delle prove già assunte »: v. M. TARUFFO, Il diritto alla prova nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1984, spec. p. 78 e 97. L’irrilevante, allora, non interessa: cfr. A. GIULIANI, Prova in generale a) filosofia del diritto, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, p. 519 ed anche, C. PIZZI, Oggettività e relativismo nella ricostruzione del fatto: riflessioni logico-filosofiche, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, p. 206. (47) C. PIZZI, Fatti, coerenza, informazione, in Dir. pen. proc., 1996, p. 245. (48) L’espressione è tratta da G. GIOSTRA, Commento all’art. 8, in Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, a cura di V. Grevi, Padova, 1995, p. 127, che evidenzia con ciò le difficoltà incontrate dall’organo dell’accusa nell’operare la cernita ex art. 291 comma 1 c.p.p. tra ‘‘elementi cautelari’’; avanza analoghe considerazioni M. NOBILI, La difesa nel corso delle indagini preliminari. I rapporti con l’attività del pubblico ministero, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Milano, 1997, p. 75. (49) « [I]potesi improbabilissima » quella del consenso ex art. 513 comma 1 c.p.p.; per non parlare poi, dell’accordo che subordinava, nel comma 2 riformulato dalla l. n. 267 del 1997, l’uso del verbale: una simile « clausola equivale[va] a un ghigno » (F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 685 e 688). V., tra gli altri, S. CARNEVALE, Dichiarazioni del coimputato, diritto di difesa ed esigenze di non dispersione della prova: nuovo assetto di un difficile equilibrio, in Cass. pen., 1997, p. 3642; G. GARUTI, sub art. 513, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., quarto aggiornamento, Torino, 1998, p. 115; A. GIARDA, Le ‘‘novelle’’ di una notte di mezza estate, cit., p. 146; V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., p. 1148. (50) Definisce il « [d]uplice... andamento di tale dialettica probatoria », G. UBERTIS, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, cit., p. 14-15.
— 319 — respinge non solo le informazioni irrilevanti, ma anche si cautela contro il pericolo opposto, quello cioé di « omettere informazioni » (51). Alla fine, non resta che una traccia abbastanza labile del ritmo dialettico, modulato secondo le cadenze del diritto di difendersi e di accusare provando. Scomposto in tutti i suoi aspetti questo diritto è fatto di richieste nel momento dell’ammissione, dell’effettiva assunzione, della valutazione degli esiti (52): presente nel dettato costituzionale (art. 24 Cost.), al diritto alla prova è conferita una maggiore intensità dall’art. 6 comma 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo (53). Nella disposizione pattizia — una delle più rappresentative e precise della Convenzione — non sembrano trovare corrispondenza ‘‘consensi’’ ed ‘‘accordi’’. Di contro, è fuori discussione che la clausola sconvolga le letture (54), senza però, sopprimerle del tutto: emblematiche paiono le vicende in tema di testimonianza « relativamente » anonima ritenuta spesso compatibile con il « valore cruciale » del giusto processo (55). Dalle sentenze risalta, in modo nitido, come la Corte europea non pretenda un contraddittorio ‘‘a trecentosessanta gradi’’, bensì esiga che, nel corso della sequenza procedimentale, all’imputato sia sempre concesso un ‘‘momento’’ per controinterrogare in maniera adeguata e sufficiente il dichiarante (56): un’occasione che la difesa non può lasciarsi sfuggire, rimanendo inerte (57). 6. Il raddoppio dei canali acquisitivi: lettura e contestazione. — La persistenza — nei primi due commi dell’art. 513 c.p.p. — dei congegni consensuali sembra sintomo di una certa ostilità verso i dettami della dialettica giudiziaria, sviluppatasi in seno alle pratiche accusatorie. Non solo. Essa è alle origini di un incontro: lettura e contestazioni — due delicati fenomeni acquisitivi che, per i più, minaccerebbero, addirittura, le linee pure dell’accusatio, si disturbano l’un l’altro, indebolendosi. Mentre il dissenso, espresso ai sensi del comma 1, comporta l’inutilizzabilità, nei confronti dell’imputato titolare del potere di veto, delle dichiarazioni scindibili, ma non scisse in concreto, il disaccordo sulla lettura, dopo la pronuncia costituzionale in epigrafe — dischiude la porta alle pseudo contestazioni, nate dall’aggiunta del comma 2-bis all’art. 500 c.p.p. (58). (51) Sarebbe una « selettività arbitraria » (C. PIZZI, Oggettività e relativismo nella ricostruzione del fatto: riflessioni logico-filosofiche, in La conoscenza del fatto nel processo penale, cit., p. 206). (52) Per un esame penetrante si rinvia a G. UBERTIS, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, cit., spec. p. 68-69. (53) Al riguardo, cfr., almeno, M. CHIAVARIO, Considerazioni sul diritto alla prova nel processo penale, in Cass. pen., 1996, p. 2012, nonché M. TARUFFO, Il diritto alla prova nel processo civile, cit., p. 77 e ivi, nota 9. (54) In questi termini, G. VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale (1967), in Riv. it. dir. proc. pen., 1968, p. 46. (55) V., ampiamente, M. VOGLIOTTI, La logica floue della Corte Europea dei diritti dell’uomo tra tutela del testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle ‘‘testimonianze anonime’’, in Giur. it., 1998, p. 854 e ivi, nota 35. (56) Deve sempre garantirsi « un contraddittorio almeno differito sulla fonte di prova » (G. UBERTIS, Doppio binario, contraddittorio sulla fonte di prova e incompatibilità del giudice, in AA.VV., Il giusto processo, cit., p. 190). Cfr. la giurisprudenza della Corte europea riportata dallo stesso Autore, Diritto alla prova nel processo penale e Corte europea dei diritti dell’uomo (1994), in ID., Verso un ‘‘giusto processo’’ penale, cit., p. 101 ss., e pure, da E. SELVAGGI, Il difficile bilanciamento tra esigenze di difesa della società e diritti della difesa: il teste anonimo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1996, p. 2420 ss. (57) Sul punto, v. C. eur. dir. uomo, 10 giugno 1996, Pullar, una cui sintesi è pubblicata in Dir. pen. proc., 1996, p. 1209. (58) Per P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in ID., Studi sul processo penale. II. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 176, la l. n. 356 del 1992 avrebbe inserito inutilmente il comma 2-bis all’art. 500 c.p.p.: « in ipotesi del genere già il 1o comma ... permette di contestare le precedenti dichiarazioni (anche i ‘vuoti’ nella deposizione dibattimentale sono ‘difformità’) ».
— 320 — In questo modo, la Consulta completa quel processo di interferenza (59), le cui avvisaglie risalgono agli esordi del codice. Allora, però, si era trattato di occasioni isolate che non avevano minato la differenza sostanziale. L’area di ‘‘ciò che è contestabile’’ ha sempre mantenuto un’identità ben visibile, garantita, forse, dalle solide radici. E si è, nell’insieme, contraddistinta, rispetto alla lectio, per tempi, contenuto, soggetti, efficacia probatoria. I giudici costituzionali sono così attratti dalla formula abbozzata dall’art. 500 comma 2-bis c.p.p. che la elevano a strumento di « salvaguardia di tutti i beni costituzionali coinvolti », capace di ristabilire l’equilibrio funzionale dell’art. 513 comma 2 c.p.p., sanandone i vizi di legittimità, e di assicurare, al tempo stesso, la « formazione dialettica della prova davanti al giudice » (60). Il rimedio escogitato per far fronte ai possibili silenzi dei dichiaranti erga alios suggerisce, poi, alla Corte di applicare il criterio valutativo dell’art. 500 comma 4 c.p.p. (61), anziché avvalersi delle precedenti affermazioni solo per screditare il taciturnus (62). La Consulta è persuasa di ciò (63) e, nella motivazione della sentenza annotata, reputa « il richiamo... al comma 4 dell’art. 500 » c.p.p. « funzionale a rendere applicabile il meccanismo di acquisizione nel fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni ». Il risultato raggiunto si prospetta accettabile sul piano della politica criminale, Non è dello stesso avviso C. TAORMINA, Il processo di parti di fronte al nuovo regime delle contestazioni e delle letture dibattimentali, in Giust. pen., 1992, III, c. 458. Mentre D. SIRACUSANO, Urge recuperare l’oralità, in Dir. pen. proc., 1997, p. 528, sottolinea che nell’« ipotesi del ‘silenzio’ del teste o dell’imputato viene a mancare quel momento indispensabile per l’esercizio del diritto alla prova, costituito dal controesame o dal controinterrogatorio ». (59) Secondo S. CARNEVALE, Sulla lettura degli atti di indagine integrativa a norma dell’art. 513 c.p.p., in Cass. pen., 1998, p. 3331, la Corte avrebbe « pericolosamente avvicinat[o] » due « istituti, nati con funzioni ben diverse (l’uno per ovviare all’irripetibilità dell’atto, l’altro per appurare la credibilità di chi depone) ». (60) Non ne sono convinti G. FRIGO, Un’involuzione dell’impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, in Guida dir., 1998, n. 44, p. 62; P. TONINI, Una sentenza additiva molto discussa a) Il diritto a confrontarsi con l’accusatore, cit., p. 1512, secondo il quale la Corte ristabilisce sì il contraddittorio, ma solo « di facciata ». Ed anche ne Il processo penale dopo la sentenza n. 361/1998 della Corte costituzionale (Un appello di Magistratura democratica), cit., p. 1020, si collega al congegno delle contestazioni « una parvenza di contraddittorio inappagante ». V., infine, R. BRICCHETTI, Il meccanismo individuato dalla Corte lascia l’accusato senza un’effettiva tutela, in Guida dir., 1998, n. 44, p. 56. (61) Auspica, invece, più in generale, la soppressione di questo, come di ogni altro « criterio legale di valutazione della prova », P. FERRUA, Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, in Quest. giust., 1998, p. 599. (62) Far « ritenere non credibile » chi tace sarebbe un obiettivo che si presta a essere criticato per la sua inconsistenza: per tale posizione, v. E. FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità organizzata, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Roma-Bari, 1993, p. 245; se « si vuole dare un senso alla norma » — egli prosegue — ci sarebbe, quindi, « la necessità logica di leggere in modo combinato il comma 2-bis e il comma 4o del nuovo art. 500 c.p.p. ». Anche se, si potrebbe ribattere, la « difformità » che condiziona il rango probatorio è quella ‘‘persistente’’ — e non « sussistente » come vorrebbe il legislatore (v., in proposito l’osservazione di P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in ID., Studi sul processo penale. II. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 177) — tra la dichiarazione impiegata a scopi contestativi e il « contenuto della deposizione » dibattimentale (art. 500 comma 4 c.p.p.). Il « contenuto », appunto non il silenzio che, della deposizione rappresenta, semmai, il lato oscuro e lacunoso. Pure P. DUBBOLINO, 513 e 500 c.p.p.: accoppiata vincente, o no?, cit., p. 676, si domanda quale « ‘difformità’ possa mai esservi fra le dichiarazioni rese in precedenza e le ‘non dichiarazioni’ », ravvisando il « problema » nella « non del tutto felice formulazione del comma 2-bis dell’art. 500 c.p.p., in relazione al successivo comma 4 ». (63) Ed ancor prima, F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 688, sembrava non aver dubbi: se l’imputato in procedimento connesso « resta a bocca chiusa o parla diversamente, passi nel fascicolo il verbale delle dichiarazioni anteriori » — sul fatto altrui — « rievocate dall’escussore (art. 500.4) ». Giudica « coerente il percorso interpretativo della Corte e conseguenziale a[lle]... premesse l’individuazione del meccanismo di cui all’art. 500 commi 2-bis e 4 » c.p.p., I. RUSSO, Complessa e di difficile lettura la sentenza costituzionale sull’art. 513 c.p.p., cit., p. 6, che, nel contempo, critica l’opinione sostenuta da A. NAPPI, La decisione della Corte costituzionale sull’art. 513 c.p.p.: un’importante innovazione che lascia aperti molti problemi, cit., p. 3.
— 321 — ma andrebbe accompagnato da una consapevolezza a livello dogmatico: che la diversità tra ‘‘parlare’’ e ‘‘tacere’’ — tanto profonda da investire, probabilmente, la natura stessa dei comportamenti (64) — non può essere separata dall’individuazione degli obblighi e dei diritti in capo al deponente. Occorre, insomma, riflettere senza scordare che la suddetta opposizione ‘‘parlare/tacere’’, voluta dal legislatore del 1992 per il teste, viene ora adattata dalla Corte su di un’altra figura, il cui silenzio, lungi dal possedere natura abnorme, potrebbe rappresentare una condizione ‘‘normale’’, priva di conseguenze penalmente rilevanti (65). 7. Il silenzio sintomo di vulnerabilità dell’esaminando. — Dietro una lunga serie di risposte negate potrebbe nascondersi una coartazione: un fenomeno determinato da fattori esterni che esulano dalle linee comportamentali spontaneamente adottate dalla persona indicata nell’art. 210 c.p.p. Fattori perturbativi che, purtroppo, sono dappertutto e, come se ciò non bastasse, si spostano velocemente in coincidenza del ‘‘baricentro probatorio’’, limitando la possibilità di parola durante l’udienza dibattimentale. Rivelare la natura autentica del silenzio è impresa particolarmente impegnativa quando si voglia rimanere fedeli alla metodologia dialettica (66): il silenzio è pur sempre un enigma da decifrare e la decisione di scoprire le circostanze che influiscono, ab extra, su questo atteggiamento spetta al legislatore. Quello del 1997 sembra almeno in parte, essersi sottratto a un simile compito, dopo aver affidato all’incidente probatorio, in condizioni di monopolio, ogni funzione deterrente, in grado di porre al riparo dalle pressioni esercitabili sull’imputato ex art. 210 c.p.p. (67). Prima ancora, nel 1992, la Corte costituzionale (64) Non è del tutto pacifico che le due condotte siano contrassegnate da una semplice discordanza, misurabile con il metro della ‘‘difformità’’. Ciò nonostante, la dottrina ha, da tempo, notato che « la dichiarazione dell’imputato » di non voler rispondere « non è altro che la risposta alla domanda rivoltagli. Qualora questa risposta sia difforme da quella resa in un precedente interrogatorio al p.m. », l’accusa « potrà legittimamente procedere alla relativa contestazione » (M. TERRILE, Utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, cit., p. 1623). In senso conforme, v. P.P. RIVELLO, Giudizio ordinario di primo grado, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., primo aggiornamento, cit., p. 778. Dal canto suo, A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 1997, p. 112, equiparando « il rifiuto di rispondere » alla « risposta contraddittoria » si dichiarava favorevole all’applicazione analogica dell’art. 500 comma 2-bis c.p.p. « anche all’esame delle parti, perché il rifiuto o l’omissione della risposta, da parte di chi abbia accettato di sottoporsi all’esame, rappresenta una modalità della deposizione, che rivela di per sé un contrasto con la dichiarazione predibattimentale ». Contrario a questa « proposta d’... estensione analogica », successivamente apprezzata dai giudici costituzionali, era M. NOBILI, sub art. 513, in Commento al nuovo codice di prooedura penale, cit., secondo aggiornamento, cit., p. 280. V. le perplessità avanzate da F. TRAVERSO, ‘Circolazione probatoria’ e diritto al silenzio del coimputato, in Dir. pen. proc., 1997, p. 991. Stigmatizzava l’ampliamento del concetto di ‘‘difformità’’, impiegato in maniera pretestuosa per « consentire l’allegazione di corposi verbali dell’indagine preliminare », D. SIRACUSANO, Urge recuperare l’oralità, cit., p. 529. (65) Un « fatto... fisiologico »: P. TONINI, Una sentenza additiva molto discussa a) Il diritto a confrontarsi con l’accusatore, cit., p. 1507; cfr., altresì, G. FRIGO, Un’involuzione dell’impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, cit., p. 62 e G. DI CHIARA, Nota a Corte cost. n. 361 del 1998, in F. it., 1998, I, c. 3445. (66) Il contraddittorio dovrebbe essere strumento impareggiabile per acquistare la conoscenza fattuale attraverso parole e gesti — che sottolineano uno stato d’animo o un’intenzione —, scontri verbali e raffronti di versioni narrative; per smascherare, inoltre, colui che depone il falso, perché minacciato o corrotto. Di recente, rimarca ciò P. FERRUA, Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, cit., p. 601. (67) Molti studiosi si sono rammaricati per l’assenza di una ‘‘clausola di riserva’’ sul tipo di quella che compare nell’art. 500 c.p.p. al comma 5: P.L. VIGNA, Reati associativi e processo penale, in AA.VV., I reati associativi, Milano, 1998, p. 188, ritiene incomprensibile questa lacuna « specie quando si tratta di procedimenti relativi ad associazioni che, come quelle mafiose, hanno iscritto nel loro ‘‘patrimonio sociale’’ — così dice l’art. 416-bis c.p. — il gene dell’intimidazione ». In proposito, cfr. tra gli altri, M. CHIAVARIO, L’art. 513 taglia il traguardo ma la riforma attende già nuovi interventi, in Guida dir., 1997, n. 30, p. 11, il quale rilancia la proposta, troppo frettolosamente accantonata di rovesciare la « regola dell’inutilizzabilità quando si sia in presenza di violenze o minacce al dichiarante per costringerlo a tacere »; G. GIO-
— 322 — aveva trascurato le ragioni sottese allo ius tacendi, imponendo, con ostinazione ed indistintamente, la lettura, qualora le persone accusate in via separata si fossero avvalse della facoltà di non rispondere (68). La trama attuale dell’art. 513 c.p.p. — nell’assetto approntato dai giudici costituzionali con la sentenza in commento — non offre rimedi al silenzio coartato, seguendo, in generale, i suggerimenti forniti dall’art. 500 comma 2-bis c.p.p. Anziché affidarsi a un’improbabile panacea andrebbero coordinati tra loro molteplici strumenti, tutti piuttosto vantaggiosi per il conseguimento del fine desiderato (69). L’impressione è che i condizionamenti siano destinati ad allentarsi quando l’esame « si svolga a distanza, mediante collegamento audiovisivo » (art. 147-bis comma 2 norme att. c.p.p.) (70). Dei benefici indiretti si trarrebbero anche da un riassestamento complessivo dell’art. 210 c.p.p., più che mai necessario, data l’odierna tendenza a dilatare la sua già ampia sfera applicativa, senza dimenticare le peculiarità che circondano l’esame di un collaboratore di giustizia. In quanto tale, egli risulta esposto « a grave e attuale pericolo » (art. 9 comma 1 l. 15 marzo 1991, n. 82) per la sua incolumità; diverrebbe, si ritiene, quantomeno in parte refrattario alle ritorsioni, se ottenesse una sorta di ‘‘immunizzazione’’. La parola fa pensare, soprattutto, alle esperienze processuali nordamericane ove ciò è reso possibile dalla sussistenza della discretion in capo al prosecutor (71). Da noi, si usa ripetere, l’azione penale obbligatoria sbarra il passo a ogni ‘‘stato di immunità’’, mentre non è d’ostacolo alla revoca del programma di protezione cagionata dall’inosservanza degli impegni assunti (72): tra questi, il « sottoporsi... ad esame » (73). STRA, I limiti di una ‘‘strategia processuale differenziata’’ per i delitti di mafia, in Gazz. giur., 1997, n. 32,
p. 3, è favorevole ad una norma che « consenta... un recupero delle dichiarazioni rilasciate al pubblico ministero, che a causa di un’interferenza esterna non hanno potuto subire il necessario vaglio dialettico » a patto che « un tale recupero non » faccia « perdere di vista la minore caratura probatoria delle dichiarazioni stesse rispetto a quelle rese nel contraddittorio »; V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., p. 1143 e 1146. D. SIRACUSANO, Oralità e contraddittorio dei processi di criminalità organizzata, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1306, dà notizia del disegno di legge d’iniziativa del sen. Fassone, tendente ad integrare l’art. 513 c.p.p. con una « disciplina più precisa di quella dettata con riferimento al ‘silenzio’ del testimone », ma nel contempo, intravede, « il rischio che l’intimidazione o la corruzione possano schiudere la via a ‘letture’, che diano per scontata l’attendibilità della precedente dichiarazione ». (68) « Semmai, e piuttosto » — asserisce G. FRIGO, La formazione della prova nel dibattimento: dal modello originario al modello deformato, in Dif. pen., 1992, n. 37, p. 34, nota 25, nel criticare la sentenza costituzionale n. 254 del 1992 — « si sarebbe potuto definire una situazione eccezionale di lettura per il caso in cui il rifiuto di rispondere fosse attribuibile a intimidazione o corruzione ». (69) Ne Il processo dopo la sentenza n. 361/1998 della Corte costituzionale (Un appello di Magistratura democratica), cit., p. 1021, in alternativa a una generica abolizione dello ius tacendi dell’imputato, « che aprirebbe delicati problemi sul piano delle garanzie », viene individuata « una pluralità di interventi contestuali » per condurre entro « limiti fisiologici il silenzio dibattimentale ». (70) Simili accorgimenti — il cui « utilizzo » è stato inopportunamente « circoscritto al solo dibattimento » (O. MAZZA, Pubblicità e collaboratori di giustizia, in questa Rivista, 1994, p. 1530) — sono apprezzati da altri sistemi processuali (cfr. R. VOGLER, Il problema della protezione dei testimoni in Inghilterra, in Leg. pen., 1996, p. 638-639) che, in tal modo, non hanno inteso uscire dal tradizionale alveo accusatorio e neppure tenere in scarsa considerazione i principi del giusto processo (come, invece, sostiene G. FRIGO, Quella ‘‘fragile’’ disciplina eccezionale contraria ai principi del diritto internazionale, in Guida dir., 1998, n. 7, p. 47 ss.). (71) Per una sintesi, rapida ma interessante, sull’argomento, v. S.P. HEYMANN, Il diritto al silenzio e la testimonianza dell’imputato. Il processo USA e l’art. 513 a confronto, relazione introduttiva al convegno (tenutosi a Milano nel febbraio 1998) su Diritto al silenzio e testimonianza dell’imputato, p. 3 ss. del dattiloscritto. (72) V., tra gli altri, S. BARRESI, Processo penale e dibattimento. Appunti sulla realtà palermitana, cit., p. 609; V. BORRACCETTI, Collaboratori di giustizia e processo penale, in Quest. giust., 1997, p. 331; V. GREVI, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., p. 1139 e 1146. Dal canto suo, P.P. RIVELLO, Inutilizzabili le dichiarazioni dell’mputato se non sono state raccolte in udienza, cit., p. 84, non giudica « risolutive (seppur dotate di... concretezza)... le soluzioni » talora prospettate, poiché « an-
— 323 — Sarebbe, comunque, interessante tentare un avvicinamento all’istituto dell’immunity (derivative) che non « mette al riparo » dal « futuro esercizio dell’azione penale » (74), rimanendo il fatto ammesso dal criminal witness perseguibile ad una condizione: che nel materiale probatorio non si mescolino tra loro elementi di diversa provenienza, alcuni dei quali siano stati contaminati dalla dichiarazione, rilasciata a suo tempo, dal collaboratore. In altre parole, è ancora elevabile nei confronti dell’immunized witness un’imputazione « per qualunque reato sul quale egli abbia deposto se le prove contro di lui possono essere ottenute prescindendo completamente dalla sua deposizione resa sotto immunità » (75). Da un lato, questa variazione dell’intensità probatoria delle dichiarazioni sarebbe regola meno rigida di quella che, inizialmente racchiusa nell’art. 210 comma 5 del progetto preliminare, non ha più trovato collocazione nel corpus codicistico, avendo, piuttosto, una certa analogia con l’inutilizzabilità ex art. 63 c.p.p. (76); dall’altro, potrebbe contribuire a sciogliere il vistoso groviglio rappresentato dalla scissione, all’interno della sequenza narrativa proposta dall’esaminando, tra fatto proprio e fatto altrui. Silvia Buzzelli Ricercatrice di Procedura penale nell’Università di Pavia
che in tal caso la remora rappresentata dalla successiva perdita di talune garanzie non può essere considerata più significativa e rilevante della minaccia concreta formulata dalle organizzazioni criminali ». (73) Cfr. il disegno di legge Modifica alla disciplina sulla protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia, e in particolare, gli art. 5 e 8. (74) ... a differenza della transactional immunity: v. A. BERNASCONI, La collaborazione processuale, cit., p. 45. Cfr., inoltre, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Torino, 1987, p. 100. (75) Questa precisazione è di S.P. HEYMANN, Il diritto al silenzio e la testimonianza dell’imputato. Il processo USA e l’art. 513 a confronto, cit., p. 3 del dattiloscritto, il quale ammette, poi, che nonostante « sia possibile aprire un procedimento contro il testimone basandosi su altre, ben distinte prove, sarà molto pesante per lo Stato l’onere di provare che l’investigazione e il procedimento contro il criminale testimone non è stato influenzato, direttamente o indirettamente, dalla sua testimonianza » (p. 4). (76) V. le considerazioni svolte da V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., p. 1139.
— 324 — b) Giudizi di cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. un. — 12 febbraio 1998 Pres. Scorzelli — Est. Di Noto — P.M. (diff.) Ric. Di Battista Procedimento ordinario — Decreto che dispone il giudizio — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Nullità — Trasmissione degli atti al g.i.p. — Abnormità — Insussistenza (Artt. 429 1o comma lett. c) e 2o comma, 181 3o comma, 185 3o comma, 491 1o comma c.p.p.). Procedimento ordinario — Decreto che dispone il giudizio — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Nullità — Rinnovazione — Competenza (Artt. 429 1o comma lett. c) e 2o comma, 181 3o comma, 185 3o comma, 491 1o comma c.p.p.; Corte cost., sent. n. 88/94). Procedimento pretorile — Decreto di citazione a giudizio — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Nullità — Trasmissione degli atti al P.M. — Abnormità — Insussistenza (Artt. 555 1o comma lett. c) e 2o comma, 181 3o comma, 185 3o comma, 491 1o comma c.p.p.). Procedimento pretorile — Decreto di citazione giudizio — Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione — Nullità — Rinnovazione — Competenza (Artt. 555 1o comma lett. c) e 2o comma, 181 3o comma, 185 3o comma, 491 1o comma c.p.p.). Procedimento — Ordinanza del giudice di nullità del decreto che dispone il giudizio ordinario — Ricorso per cassazione — Inammissibilità. A seguito di dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio per omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione la trasmissione degli atti al g.i.p. non è abnorme (1). A seguito di dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio per omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione, il g.i.p., rifissata l’udienza preliminare, ha il potere-dovere di invitare il P.M. a precisare l’imputazione (2). A seguito di dichiarazione di nullità del decreto di citazione a giudizio per omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione, la trasmissione degli atti al P.M. non è abnorme (3). A seguito di dichiarazione di nullità del decreto di citazione a giudizio per omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione, competente alla rinnovazione dello stesso è il P.M. (4). È inammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza, inoppugnabile, con la quale il tribunale trasmette gli atti al g.i.p., previa declaratoria di nullità del decreto che dispone il giudizio per omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione. Tale ordinanza non assume natura decisoria e si concretizza in mero impulso processuale strumentale, non lesivo delle parti, che bene potranno esplicarsi nelle sedi previste (5). (Omissis). — 1. Il tribunale di Bari, nel processo penale a carico di Cifarelli Francesco ed altri, tra i quali Liborio ed Antonio Di Battista, su eccezione ritual-
— 325 — mente proposta dai difensori, con ordinanza in data 10 ottobre 1996, dichiarava la nullità del decreto che aveva disposto il giudizio limitatamente ai capi compresi dalla lettera A) alla lettera E) ed ordinava formarsi autonomo fascicolo processuale da trasmettersi al g.i.p. per quanto di sua competenza. 1.1. Ai fini del presente giudizio, giova precisare che Liborio ed Antonio Di Battista, nella loro qualità di titolari dell’omonima ditta, e quest’ultimo, inoltre, quale amministratore unico della società Di Battista Antonio s.r.l., con sede in Gravina di Puglia, erano stati citati a giudizio, insieme ad altri, per rispondere dei seguenti reati, unificati dal medesimo disegno criminoso, ex art. 81 cpv. c.p.: A) delitto di cui all’art. 416, 1o, 2o, 3o e 5o comma c.p. perché si associavano tra loro allo scopo di commettere i sottospecificati delitti; B) delitto di cui all’art. 4, 1o comma p. 5. l. n. 516/82 perché, al fine di evadere le imposte e di conseguire un indebito rimborso, nonché di consentire l’evasione e indebiti rimborsi a terzi, emettevano, utilizzavano fatture ed altri documenti per operazioni inesistenti come da schema allegato; specificatemente: Di Battista Liborio, utilizzava fatture per lire 286.000.000; Di Battista Antonio, utilizzava fatture per lire 3.124.913.000 e lire 408.768.000. Comunicazione definitiva di notizia di reato in data 21 marzo 1994 a cura del Comando Brigata G. di. F. di Altamura. Con la recidiva di Di Battista Antonio. 1.2. L’ordinanza del tribunele veniva motivata sul duplice rilievo: a) che le menzionate imputazioni erano state formulate in violazione dell’art. 429, 2o comma, c.p.p., non essendo stato sufficientemente specificato il fatto, a causa dell’omessa indicazione del tempus commissi delicti e delle singole fatture delle quali si assumeva la falsità, sì da pregiudicare il diritto di difesa dell’imputato; b) che il decreto non poteva ritenersi integrato dallo schema che il P.M. asseriva essere allegato alla relativa richiesta. Detto schema, infatti, non risultava allegato al decreto e comunque non conteneva alcuna indicazione circa le date di commissione dei fatti e gli estremi delle fatture delle quali si contestava la falsità. Tanto meno il decreto poteva essere integrato dal p.v. di constatazione, che si presume contenesse più specifica indicazione delle fatture in ipotesi false. Trattandosi, invero, di un atto di polizia giudiziaria e non del pubblico ministero esso poteva utilmente concorrere all’individuazione del contenuto e dell’oggetto dell’azione penale solo ove fosse stato espressamente richiamato, mediante specifico e formale rinvio, nella richiesta e nel pedissequo decreto che dispone il giudizio. 2. Ricorrono per cassazione Liborio ed Antonio Di Battista e censurano, a mezzo del comune difensore — avv. Temistocle Gurrado —, il provvedimento impugnato « limitatamente alla parte in cui ‘‘veniva disposto formarsi autonomo fascicolo processuale da trasmettersi al g.i.p. per quanto di sua competenza’’ », essendo questa una disposizione da ritenersi comunque abnorme ed in ogni caso capace di produrre una stasi processuale, comunque non rimuovibile, in quanto il g.u.p. — e giammai il g.i.p., privo di qualsivoglia potere — non avrebbe competenza funzionale, spettando essa al pubblico ministero. Viene al riguardo precisato che ove l’autonomo fascicolo processuale venisse trasmesso al g.i.p., per quanto di sua conpetenza, ‘‘lo stesso rimarrebbe al g.i.p., si fermerebbe al g.i.p. Questi, infatti, non avendo competenza funzionale, in quanto organo giurisdizionale diverso dal g.u.p. essendo giudice ad acta nell’am-
— 326 — bito del procedimento e non del processo, non potrebbe adottere iniziative di sorta, dovrebbe al limite trasmettere gli atti al pubblico ministero. Viene censurato altresì il richiamo fatto dal tribunale, nella parte motiva del provvedimento impugnato, all’art. 423 c.p.p. — ‘‘La pronuncia di nullità sarà pertanto parziale, alla stessa consegue la trasmissione degli atti al g.i.p., davanti al quale il P.M. provvederà, ex art. 423 c.p.p., all’integrazione dei capi d’imputazione da a) ad e)’’ — trattandosi di norma del tutto estranea alla subiecta materia, al pari del 52o comma dell’art. 2 della legge delega che prevede il ‘‘potere del P.M. nell’udienza preliminare di modificare l’imputazione e di procedere a nuove contestazioni’’, come tale inapplicabile poiché vi difettano i presupposti di legge. Ed invero, l’art. 423, 1o comma, c.p.p. consente al pubblico ministero, una volta instauratosi regolarmente il contraddittorio, di integrare o modificare l’imputazione, quando, nel corso dell’udienza, il fatto risulta diverso da come descritto nel capo d’imputazione, ovvero emerge una circostanza aggravante o un reato connesso ex art. 12 1o comma lett. b). Il tribunale, pertanto, una volta accertata e dichiarata la nullità del decreto dispositivo del giudizio per insufficiente specificazione dei fattireato, avrebbe dovuto ordinare la trasmissione di quel fascicolo processuale al pubblico ministero per l’esercizio ex novo dell’azione penale, dopo aver corretto gli errori e superato le manchevolezze. E ciò in conformità a quanto affermato dal giudice delle leggi con le sentenze n. 76 del 1993 e n. 70 del 1996, in tema di trasmissione degli atti nell’ipotesi in cui il giudice del dibattimento dichiari con sentenza la propria incompetenza per territorio. Si sottolinea, inoltre, che la trasmissione al g.i.p. degli atti del fascicolo del dibattimento pone in evidenza un assurdo iato normativo, in quanto egli non ha alcun potere di ordinare o chiedere al pubblico ministero la trasmissione degli atti, né può ordinare allo stesso che la trasmissione avvenga in un certo tempo dato. Viene sollevata dai ricorrenti, infine, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 112 Cost., questione di legittimità costituzionale delle norme che prevedono la trasmissione al giudice dell’udienza preliminare e non al pubblico ministero degli atti processuali (fascicolo per il dibattimento) ogni qualvolta il tribunale dichiari la nullità del decreto dispositivo del giudizio per apprezzabile ed apprezzato vizio nell’esercizio dell’azione penale. 3.
Il ricorso veniva assegnato alla III Sezione penale di questa Corte.
4. Il p.g., nella sua requisitoria scritta, chiedeva, in via principale, l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata, poiché abnorme in quanto funzionale alla regressione del processo alla fase antecedente a quella dibattimentale, vale a dire l’udienza preliminare: regressione indebita in quanto, in presenza di un’ipotesi accusatoria asseritamente deficitaria o imprecisa, andava disposta non già la restituzione degli atti al pubblico ministero, ma l’attivazione dei meccanismi processuali previsti dagli artt. 516 e 517 c.p.p. proprio per stimolare l’iniziativa delle parti e risolvere così eventuali situazioni di stallo. In via subordinata segnalava l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto, per l’eventuale rimessione della questione alle Sezioni unite. 5. Il difensore dei ricorrenti, con brevi note ritualmente depositate nella cancelleria di questa Corte, richiamando giurisprudenza di legittimità e di merito (Sez. II, 8 novembre 1996, P.M. c. Borgna; Sez. III, 21 febbraio-26 aprile 1997,
— 327 — Cazzaniga; Trib. Locri, 25 gennaio 1996, in proc. Branca Domenico ed altri), insisteva per l’abnormità del provvedimento impugnato, essendo indebita la trasmissione al g.i.p. di un processo che sarebbe dovuto tornare alla fase procedimentale delle indagini preliminari, o, a tutto concedere, sarebbe dovuto tornare al giudice dell’udienza preliminare per consentire al pubblico ministero, nel corso della rinnovata udienza preliminare, di correggere gli errori e superare ogni deficiente contestazione, rilevata ed evidenziata dal tribunale nella parte motiva della sua ordinanza. 6. La terza Sezione penale, con ordinanza del 1o luglio 1997, ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., rilevando l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza sull’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti e sul destinatario stesso di tale restituzione. 7. Il Primo Presidente Aggiunto di questa Suprema Corte, assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fissava l’odierna udienza per la sua trattazione. 8. Il Procuratore Generale presso questa Suprema Corte, con requisitoria scritta, si riportava alle precedenti conclusioni. MOTIVI DELLA DECISIONE.. — 9. La questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite è la seguente: se il giudice possa dichiarare la nullità (e disporre la restituzione degli atti) del decreto che dispone il giudizio ovvero del decreto di citazione a giudizio per l’omessa o insufficiente specificazione del fatto contestato. Il contrasto di giurisprudenza denunciato dall’ordinanza di rimessione, tuttavia, non verte sulla dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio bensì sull’identificazione del soggetto cui spetti rimuoverne la nullità operando una ridescrizione esaustiva del fatto. 10. Un primo indirizzo ritiene abnorme l’ordinanza che dichiari la nullità del decreto di citazione a giudizio, con conseguente restituzione degli atti al pubblico ministero o al giudice per le indagini preliminari (a seconda che si tratti di procedimento davanti al tribunale o al pretore), perché si verificherebbe un’indebita regressione alla fase degli atti introduttivi, sussistendo d’altro canto la possibilità di utilizzare meccanismi processuali come quelli previsti dagli artt. 516 e 517 c.p.p. (o dagli artt. 506 e 507 c.p.p. come specificato da Sez. VI, 8 marzo 1993, P.M. c. Presutti, m. CED 193797) attraverso i quali possono essere superate situazioni di stasi del processo stimolando l’iniziativa delle parti, così da consentire una compiuta decisione sulla regiudicanda (Sez. III, 15 dicembre 1992, P.M. c. Antinori, m. CED 192600; Sez. V, 2 agosto 1993, P.M. c. Bonardini, m. CED 194456; Sez. V, 11 febbraio 1994, P.M. c. Marino, m. CED 197091; Sez. II, 16 dicembre 1996, P.M. c. Borgna, m. CED 206495; Sez. III, 26 aprile 1997, Piccoli, m. CED 207297). In particolare, nella sentenza 16 dicembre 1996, P.M. c. Borgna, in fattispecie analoga a quella di cui trattasi, è stata affermata l’abnormità del provvedimento proprio per la restituzione degli atti al g.i.p., poiché essa determinerebbe ‘‘un’inammissibile regressione del processo ad una fase anteriore, creando una situazione di paralisi in quanto il giudice per le indagini preliminari cui gli atti sono rimessi non dispone dei poteri necessari per sanare la nullità predetta dovendosi
— 328 — escludere che gli spetti un autonomo potere integrativo o correttivo, né tantomeno può ordinare a sua volta la restituzione degli atti al pubblico ministero, perché proceda all’eventuale integrazione dell’imputazione, in quanto anche tale provvedimento, determinando un’inammissibile regressione processuale, sarebbe abnorme’’. 11. L’opposto orientamento opera invece sul concetto di atto abnorme limitandone l’ambito e restringendo quindi la portata della deroga al principio di tassatività delle impugnazioni (Sez. III, 30 gennaio 1997, P.M. c. Maffei; Sez. V, 14 gennaio 1997, P.M. c. Biancucci, m. CED 207257; Sez. III, 18 novembre 1996, P.M. c. Diop; Sez. VI, 6 giugno 1996, P.M. c. Gaslini, m. CED 205879; Sez. VI, 26 aprile 1996, P.M. c. Del Brocco; Sez. V, Z5 marzo 1996, P.M. c. Ceccarini; Sez. III, 21 marzo 1996, P.M. c. Delle Fabbriche; Sez. VI, 19 maggio 1995, P.M. c. Cutillo; Sez. VI, 21 settembre 1994, P.M. c. Domenico, m. CED 200830; Sez. V, 11 marzo 1994, P.M. c. Luchino, m. CED 197999; Sez. V, 25 febbraio 1994, P.M. c. Manduca; Sez. V, 25 gennaio 1994, P.M. c. Santangelo). Su tale linea la sentenza della Sez. V, 11 marzo 1994, P.M. c. Luchino, proprio in tema di insufficiente specificazione del fatto, ha negato il carattere di abnormità all’ordinanza che aveva annullato il decreto di citazione a giudizio e restituito gli atti al P.M., in base al principio secondo il quale ‘‘l’atto processuale può essere qualificato abnorme sotto il profilo strutturale (quando per la sua singolarità si pone fuori dal sistema organico della legge processuale) o funzionale (quando pur non estraneo al sistema normativo, determina la stasi del processo, con l’impossibilità di proseguirlo). Non può, quindi, essere inquadrato in nessuna delle due forme di abnormità l’ordinanza con la quale il pretore dichiari la nullità del decreto di citazione, ritenendo insufficiente l’enunciazione del fatto, per non essere stata specificata la condotta di ciascuno dei concorrenti nel reato, ove dagli atti emergano gli elementi utili alla precisazione del contributo causale recato da ognuno di essi alla realizzazione dell’illecito. Sotto l’aspetto strutturale, infatti, non può dirsi abnorme il provvedimento sol perché eventualmente viziato da errata interpretazione di norme sostanziali o processuali; sotto l’aspetto funzionale, poi, un siffatto provvedimento non è suscettibile di produrre alcuna paralisi’’. In questa direzione si colloca, pertanto, l’affermazione secondo cui è abnorme la trasmissione degli atti al pubblico ministero (Sez. VI, 6 giugno 1996, P.M. c. Gaslini, m. CED 205879) in quanto viola il principio della irretrattabilità dell’azione penale, esercitata definitivamente dall’organo dell’accusa con la richiesta di rinvio a giudizio; mentre non è da ritenersi nella situazione anzidetta la trasmissione degli atti al g.i.p. L’abnormità dell’ordinanza che aveva trasmesso gli atti al g.i.p. dopo avere dichiarato la nullità del decreto dispositivo del giudizio per assoluta genericità dell’imputazione è stata altresì negata da questa Corte (Sez. I, 11 febbraio 1997, Comito, m. CED 207096), in sede di risoluzione di conflitto negativo di competenza, essendo la regressione del procedimento espressamente prevista dall’art. 185, 3o comma, c.p.p. (con riferimento alla trasmissione degli atti al P.M., ma sempre in sede di conflitto tra tribunale e g.i.p., vedi anche Sez. I, 18 dicembre 1996, Giorno, m. CED 206520). 12. Le Sezioni unite della Corte ritengono di dover aderire a quest’ultimo orientamento.
— 329 — 12.1. Occorre innanzi tutto ribadire che un provvedimento può definirsi abnorme quando, per la singolarità e stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, tanto da legittimare il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., essendo questo il solo strumento processuale utilizzabile per rimuoverne gli effetti (Sez. un., 26 aprile 1989, Goria). Le Sezioni unite, richiamando l’articolata giurisprudenza di questa Corte, hanno inoltre di recente precisato (Sez. un., 9 settembre 1997, Quarantelli), che è abnorme non solo il provvedimento che, per la sua singolarità, non sia inquadrabile nell’ambito dell’ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. Hanno infine le Sezioni unite posto in rilievo che l’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché, per la sua singolarità, si ponga fuori dal sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo (Sez. III, 14 luglio 1995, P.M. c. Beggiato; Sez. V, 11 marzo 1994, P.M. c. Luchino). In tali ipotesi non rientra di certo l’ordinanza del giudice del dibattimento che abbia dichiarato la nullità del decreto che dispone il giudizio per mancata o insufficiente enunciazione del fatto contestato, e disposto la trasmissione degli atti al giudice per l’udienza preliminare, ‘‘per quanto di competenza’’. Il provvedimento, infatti, non è affetto da vizio alcuno, in procedendo o in iudicando; tanto meno il suo contenuto può definirsi talmente singolare da determinare un’indebita regressione del procedimento o una stasi dello stesso. Esso, invece, è in piena coerenza con l’ordinamento processuale vigente. Ed invero, l’art. 429, 2o comma, c.p.p. espressamente prevede la nullità del decreto che dispone il giudizio ‘‘se manca o è insufficiente’’ l’indicazione del requisito previsto dal 1o comma lett. c): l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge. L’art. 181, 3o comma, c.p.p., a sua volta dispone che le nullità concernenti il decreto che dispone il giudizio debbono essere eccepite entro il termine previsto dall’art. 491, 1o comma. Quest’ultimo, infine, al 1o comma, sancisce che le questioni preliminari sono precluse se non sono proposte subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti e sono decise immediatamente; mentre al 5o comma, precisa che sulle questioni preliminari il giudice decide con ordinanza. 12.2. Tanto meno l’ordinanza impugnata può ritenersi abnorme per il suo contenuto, in particolare per avere disposto la trasmissione degli atti al giudice per le indagini preliminari, per quanto di sua competenza, previa formazione di un autonomo fascicolo processuale. Inconferente e comunque errato è il richiamo agli artt. 516, 517 c.p.p. Dalla mancata applicazione degli stessi anche nell’ipotesi di dichiarata nullità del decreto che dispone il giudizio per insufficiente enunciazione del fatto, non può, invero, arguirsi l’illegittima regressione del processo alla fase delle indagini preliminari, come affermato in talune sentenze di questa Corte (Sez. III, 21 febbraio 1997, Piccoli; Sez. II, 8 novembre 1996, Borgna; Sez. V, 13 gennaio 1994, P.M. c. Marino) e sostenuto dal Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta.
— 330 — Gli specifici mezzi processuali in essi previsti per stimolare l’iniziativa delle parti e superare così eventuali situazioni di stallo, senza far regredire il procedimento alla fase precedente, non possono trovare applicazione anche in presenza di un’ipotesi accusatoria asseritamente deficitaria o imprecisa. Occorre innanzi tutto sottolineare che la modifica dell’imputazione, secondo il chiaro dettato delle norme in esame, è consentita, infatti, ‘‘nel corso dell’istruzione dibattimentale’’; in una fase cioè che implica il superamento di tutte le questioni di ordine preliminare, tra le quali quella relativa all’eventuale nullità del decreto che dispone il giudizio, dovendo questa essere eccepita, per non rimanere preclusa, e decisa, ex art. 491 c.p.p., prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. In secondo luogo i casi che consentono al pubblico ministero di procedere alla modifica dell’imputazione sono nettamente distinti e per nulla assimilabili a quello che di luogo alla nullità del decreto che dispone il giudizio, per insufficiente indicazione del fatto, oggetto d’imputazione. Tanto basta ad escludere che si possa far ricorso alle disposizioni in esame per sanare la nullità del decreto che dispone il giudizio, ove sia stata ritualmente dedotta, ed evitare così la regressione del processo ‘‘allo stato o grado in cui è stato compiuto l’atto nullo’’, secondo il dettato dell’art. 185, cpv., c.p.p. Ciò vale anche per il richiamo fatto agli artt. 506 e 507 c.p.p. (Sez. VI, 8 marzo 1993, P.M. c. Presutti) che disciplinano i poteri del presidente in ordine all’assunzione delle prove in dibattimento considerato che gli stessi possono essere esercitati nel corso dell’istruzione dibattimentale. Di nessun pregio è poi il rilievo concernente l’individuazione del ‘‘giudice’’ funzionalmente competente a rinnovare il decreto dichiarato nullo, che il ricorrente indica nel ‘‘giudice dell’udienza preliminare’’, in quanto organo giurisdizionale diverso da quello indicato nell’ordinanza. La distinzione tra ‘‘giudice per le indagini preliminari’’ (g.i.p.) e ‘‘giudice dell’udienza preliminare’’ (g.u.p.), sebbene corretta, non va oltre l’aspetto funzionale. Entrambi, infatti, pur nella peculiarità delle funzioni loro rispettivamente attribuite, sono espressione dello stesso ufficio giudiziario, di quell’unico organo giurisdizionale monocratico, che il codice denomina ‘‘giudice per le indagini preliminari’’, costituito all’interno degli uffici giudicanti (tribunale e pretura) — con il procedimento ‘‘tabellare’’ di cui all’art. 7-bis r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 — istituzionalmente preposto, ex art. 328 c.p.p., a provvedere sulle specifiche richieste delle parti, tra le quali: la richiesta di rinvio a giudizio presentata dal pubblico ministere, a norma dell’art. 416 c.p.p. Ciò si evince chiaramente dal sistema delle disposizioni che disciplinano le indagini e l’udienza preliminare, contenuto nel libro V del codice di procedura penale. La norma che contempla il ‘‘giudice per le indagini preliminari’’ è collocata, infatti, nel titolo I, tra le disposizioni generali. Egli è pertanto il giudice ‘‘naturale’’ che deve intervenire nel corso ovvero alla chiusura delle indagini preliminari. Come previsto nel caso dell’udienza preliminare, disciplinata nei titolo IX, in relazione alla quale al ‘‘giudice’’ è stata attribuita una vera e propria competenza ad processum, funzionalmente ordinata al controllo sul corretto esercizio dell’azione penale. Né rileva che nell’elenco dei criteri e dei principi il punto 64 dell’art. 2 della
— 331 — legge di delega al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (l. 16 febbraio 1987, n. 81), menzioni espressamente il ‘‘giudice dell’udienza preliminare’’. Il legislatore delegante, con la direttiva in questione, si è limitato ad attribuire al medesimo il potere di disporre misure di coercizione personale, ma non ha inteso incidere affatto sulle modalità organizzative del ‘‘giudice’’ deputato a provvedere sulle specifiche domande presentate dalle parti nel corso o alla chiusura delle indagini preliminari. Tant’è che nella direttiva in questione il ‘‘giudice dell’udienza preliminare’’ è menzionato insieme al ‘‘giudice del dibattimento’’, ma non è stato mai contrapposto al ‘‘giudice per le indagini preliminari’’, che peraltro il legislatore delegante ha sempre indicato con il semplice nome di ‘‘giudice’’. Tanto basta a far ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale ‘‘delle norme codicistiche che ignorano espressamente il giudice dell’udienza preliminare, non lo istituiscono, né espressamente lo diversificano dal g.i.p.’’ per violazione dell’art. 76 Cost., in relazione alla direttiva n. 64 dell’art. 2 della legge delega n. 81, del 16 febbraio 1987. E ciò proprio alla luce della giurisprudenza del giudice delle leggi che in più occasioni ha negato l’incompatibilità a partecipare all’udienza preliminare del ‘‘giudice per le indagini preliminari’’ che abbia in precedenza disposto la misura cautelare personale nei confronti della persona sottoposta alle indagini (ordinanze n. 24/96; 232/96; 279/96; 333/96; 410/96; 26/97) riconoscendo così che il ‘‘giudice dell’udienza preliminare’’, pur nella peculiarità delle funzioni ad esso attribuite, non è organo giurisdizionale distinto dal ‘‘giudice per le indagini preliminari’’. Aggiungasi che la stessa Corte costituzionale, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 328, comma 1o-bis c.p.p., sollevata in riferimento all’art. 25, 1o comma Cost., ha indicato proprio nel ‘‘g.i.p. del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente’’ il magistrato competente a svolgere le funzioni di giudice dell’udienza preliminare per i procedimenti indicati nell’art. 51, comma 3o-bis c.p.p. (ordinanza n. 481/95). E ciò per una serie di considerazioni che è opportuno qui richiamare: — la mancanza di una norma che preveda una ‘‘differente distribuzione della competenza per il medesimo organo in dipendenza delle funzioni ontologicamente diverse che l’ordinamento gli attribuisce nelle indagini e nell’udienza preliminare, fasi, queste, che, non a caso, il legislatore ha invece inteso correlare sistematicamente nell’ambito dello stesso libro V, con cui esordisce la parte seconda del codice di rito’’; — la sussistenza, invece, di « alcune disposizioni dell’ordinamento giudiziario, come quella, che mira a privilegiare, nell’assegnazione degli affari, la ‘‘concentrazione’’ in capo allo stesso g.i.p. ‘‘di tutti i provvedimenti relativi allo stesso procedimento’’, senza operare distinzioni di sorta a seconda della natura dei provvedimenti stessi (art. 7-ter); quella che stabilisce tabellarmente un’apposita ‘‘sezione dei giudici singoli incaricati dei provvedimenti previsti dal codice di procedura penale per la fase delle indagini preliminari’’, prescindendo da qualsiasi peculiare previsione per il giudice chiamato a celebrare l’udienza preliminare (art. 46); il differente regime — che dimostra quindi l’opposta regola — previsto per il processo minorile, ove sono devolute ad un organo a composizione collegiale, e, quindi, funzionalmente diverso, le attribuzioni retative alla fase dell’udienza preliminare (art. 50-bis); la disciplina, infine, dettata dall’art. 238 delle disposizioni di
— 332 — ordinamento del codice di rito, ove, nell’individuare ratione loci il g.i.p. nel caso di procedimenti relativi a reati di competenza della Corte di assise, e pertanto il giudice davanti al quale deve svolgersi anche l’udienza preliminare, viene fatta espressamente salva proprio la previsione derogatoria introdotta, evidentemente non soltanto per le indagini preliminari, dall’art. 328 comma 1o-bis c.p.p. ». 12.3. Manifestamente errato è altresì il richiamo al pubblico ministero quale soggetto cui gli atti avrebbero dovuto essere trasmessi. Esso è privo di riferimenti normativi e contrasta inoltre con il chiaro dettato dell’art. 185, 3o comma, c.p.p., che in tema di effetti della dichiarazione di nullità così recita: ‘‘la dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo, salvo che sia diversamente stabilito’’. Ciò significa che nell’ipotesi di dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio il procedimento deve necessariamente regredire allo stato nel quale essa si è verificata: l’udienza preliminare, non rientrando nei poteri del giudice del dibattimento procedere alla rinnovazione dello stesso. E gli atti pertanto debbono essere trasmessi al giudice per le indagini preliminari perché provveda alla rinnovazione dell’atto nullo previa fissazione dell’udienza, a norma degli artt. 418 e segg. c.p.p. 12.4. Né basta invocare il principio della irretrattabilità dell’azione penale, per far ritenere abnorme il provvedimento che dispone la trasmissione degli atti al giudice per le indagini preliminari. Le Sezioni unite, proprio in tema di dichiarazione di nullità del decreto di citazione a giudizio, con restituzione degli atti al P.M., pronunciata dal Pretore, hanno affermato che spetta al giudice del dibattimento provvedere alla rinnovazione dell’atto nullo (citazione a giudizio o relativa notificazione) ad esclusione dei casi nei quali vengano rilevate invalidità o carenze incidenti sulla regolarità della stessa costituzione del rapporto processuale attinente al giudizio (Sez. un., 18 giugno 1993, Garonzi). Ed hanno poi ribadito che la rinnovazione della citazione compete al giudice del dibattimento, tranne l’ipotesi in cui sia resa necessaria da una nullità che ha impedito un valido passaggio dalla fase delle indagini preliminari a quella del giudizio: in quest’ultimo caso, al quale sono riconducibili anche la nullità della notificazione del decreto di citazione a giudizio e l’inosservanza del termine per comparire di cui al 3o comma dell’art. 555 c.p.p., l’invalidità attiene ad un ‘‘atto propulsivo’’, necessario, cioè, alla progressione del procedimento, di talché, risultando impedita la regolare costituzione del rapporto processuale, la rinnovazione del decreto non può che spettare al P.M. al quale, perciò, vanno restituiti gli atti (Sez. un., 24 marzo 1995, Cirulli). Assolutamente corretta si dimostra pertanto la trasmissione degli atti al giudice per le indagini preliminari perché rinnovi il decreto che dispone il giudizio, poiché la sua nullità investendo l’atto propulsivo ha impedito il passaggio dalla fase procedimentale a quella processuale. 12.5. È da escludere poi che la regressione del processo alla fase precedente determini una stasi non altrimenti rimuovibile se non mediante il ricorso per cassazione, essendo il g.i.p. privo dei poteri necessari per far sì che il fatto enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio venga compiutamente descritto dal pubblico ministero. Come è noto, il giudice delle leggi, con sentenza n. 88 del 1994, ha dichiarato
— 333 — non fondata la questione di legittimità dell’art. 424 c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede che il g.i.p. possa, all’esito dell’udienza preliminare, trasmettere gli atti al pubblico ministero per descrivere il fatto diversamente da come ipotizzato nella richiesta di rinvio a giudizio’’, sul rilievo che nulla vieta che alle modifiche dell’imputazione ritenute opportune il pubblico ministero possa essere sollecitato mediante un provvedimento del giudice, il quale, ravvisando l’emergere di fatti diversi da quelli contestati, lo inviti espressamente a tali adempimenti. Provvedimento questo non solo pienamente coerente con la necessità di correlare sempre l’imputazione a quanto di diverso può emergere nell’udienza preliminare ma doveroso anche ai fini del rispetto del diritto di difesa. Senza considerare poi che il giudice, nell’inerzia del pubblico ministero, può ben apportare al fatto nei limiti enunciati nella richiesta di rinvio a giudizio tutte le precisazioni che si rendano necessarie, considerato che il decreto che dispone il giudizio deve contenere, a norma dell’art. 429 lett. d) c.p.p., l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui essi si riferiscono. 12.6. Per ragioni di completezza mette conto osservare che nella ipotesi di nullità del decreto di citazione a giudizio dichiarata, ex art. 555 c.p.p., gli atti dovranno invece essere trasmessi al pubblico ministero, essendo suo compito rinnovare l’atto nullo, considerato che nel giudizio pretorile, mancando l’udienza preliminare, il decreto di citazione a giudizio è atto del pubblico ministero. 12.7. Occorre infine brevemente sottolineare che il provvedimento che dispone la trasmissione degli atti al g.i.p., in conseguenza della dichiarazione di nullità del decreto che ha disposto il giudizio, secondo la giurisprudenza di questa Corte non è suscettibile di doglianza immediata ed incidentale, ed è pertanto inoppugnabile, poiché non assume natura decisoria e si concretizza in mero impulso processuale strumentale non lesivo dei diritti delle parti, che bene potranno esplicarsi nelle sedi previste (sez. VI, 21 settembre 1994, P.M. c. De Stefano; Sez. I, 8 marzo 1994, Curcas, m. CED 196645; Sez. I, 3 febbraio 1994, Dell’Ara, m. CED 196229; Sez. m. CED 191371). 12.8. Esclusa, pertanto, l’abnormità dell’ordinanza impugnata i ricorsi vanno dichiarati inammissibili, a norma dell’art. 591, 1o comma, lett. b), c.p.p., poiché proposti avverso un provvedimento non impugnabile, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende che si reputa di giustizia determinare in lire un milione ciascuno in considerazione della natura delle questioni dedotte. (Omissis).
—————— (1-5)
Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione, nullità della vocatio in iudicium e autorità competente alla rinnovazione.
1. Non è frequente che la Suprema Corte, nel dichiarare l’inammissibilità di un ricorso, affronti le problematiche sottoposte al proprio vaglio in una motivazione articolata, complessa e ricca di spunti sistematici. Tutto ciò è avvenuto, viceversa, nella sentenza che si annota delle Sezioni
— 334 — unite, sollecitate in tal senso dalla rilevanza della questione esaminata e risolta in vario modo da numerose pronunce delle Sezioni semplici: l’individuazione del soggetto competente sotto il profilo funzionale a rimuovere la nullità del decreto che dispone il giudizio o del decreto di citazione a giudizio, rispettivamente nel procedimento davanti al tribunale (o corte d’assise) e davanti al pretore, per omessa o incompleta descrizione del fatto contestato, ai sensi dell’art. 429 1o comma lett. c) e 2o comma c.p.p. ed art. 555 1o comma lett. c) e 2o comma c.p.p. (1). 2. Prima di analizzare l’iter argomentativo, pare opportuno fissare la fattispecie concreta che ha dato origine alla decisione che ne occupa. Un Tribunale, in sede di questioni preliminari al dibattimento, dichiarava, con ordinanza, la nullità della vocatio in iudicium nei confronti di taluni imputati, accusati di associazione a delinquere finalizzata al compimento, fra l’altro, di una frode fiscale mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Il decreto che aveva disposto il giudizio, con riferimento per lo meno ad alcuni capi di imputazione, risultava generico, non indicando il tempus commissi delicti, né specificando le fatture delle quali si assumeva la falsità. Da qui la nullità del decreto e la trasmissione degli atti al g.i.p. ‘‘per quanto di sua competenza’’. Gli imputati, a mezzo del proprio difensore, proponevano ricorso per cassazione, sulla base di un primo indirizzo giurisprudenziale (2), sostenendo in particolare l’abnormità dell’ordinanza del Tribunale, in quanto la regressione del processo alla fase dell’udienza preliminare ne avrebbe determinato la paralisi. Il giudice delle indagini preliminari sarebbe risultato sprovvisto di ‘‘un autonomo potere integrativo o correttivo, né, tantomeno’’, avrebbe potuto ‘‘ordinare, a sua volta, la restituzione degli atti al pubblico ministero, perché proced[esse] all’eventuale integrazione dell’imputazione, in quanto anche tale provvedimento, determinando un’inammissibile regressione processuale, sarebbe [stato] abnorme’’. Al più gli atti dovevano essere trasmessi direttamente all’organo dell’accusa. Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, a sua volta, nella requisitoria scritta, sulla base di altre pronunce delle Sezioni semplici (3), sosteneva l’abnormità della restituzione degli atti al g.i.p. (e al pubblico ministero nel ‘‘giudizio’’ davanti al pretore) sotto altro profilo: tale provvedimento avrebbe determinato un’indebita regressione del procedimento ad una fase anteriore, pur in presenza di meccanismi processuali, come quelli previsti dagli artt. 516 e 517 c.p.p. o dagli artt. 506 e 507 c.p.p., che avrebbero consentito in limine al dibattimento di sollecitare le parti, e specificatamente il pubblico ministero, ad una compiuta definizione della regiudicanda. A questi indirizzi giurisprudenziali se ne contrapponeva un altro (4), anch’esso piuttosto consistente, il quale riconosceva la conformità all’ordinamento (1) Erroneamente, come rilevato dalle Sezioni unite, era stata sottoposta la diversa questione, incontroversa, circa l’esistenza del potere per il giudice di ‘‘dichiarare la nullità (e disporre la restituzione degli atti) del decreto che dispone il giudizio ovvero del decreto di citazione a giudizio per l’omessa o insufficiente specificazione del fatto contestato’’. (2) Cass., Sez. II, 16 dicembre 1996, P.M. c. Borgna, CED, 206495. (3) Cass., Sez. III, 26 aprile 1997, Piccoli, CED, 207297; Id., Sez. II, 16 dicembre 1996, P.M. c. Borgna, cit.; Id., Sez. V, 11 febbraio 1994, P.M. c. Marino, CED, 197091; Id., Sez. V, 2 agosto 1993, P.M. c. Bonardini, CED, 194456; Id., Sez. III, 15 dicembre 1992, P.M. c. Antinori, CED, 192600. (4) Cass., Sez. III, 30 gennaio 1997, P.M. c. Maffei, inedita; Id., Sez. V, 27 febbraio 1997, P.M. c. Biancucci, CED, 207257; Id., Sez. III, 18 novembre 1996, P.M. c. Diop, inedita; Id., Sez. VI, 2 luglio 1996, P.M. c. Gaslini, CED, 205879; Id., Sez. VI, 19 maggio 1995, P.M. c. Cutillo, inedita; Id., Sez. V, 18 aprile 1994, P.M. c. Luchino, CED, 197999; Id., Sez. V, 25 febbraio 1994, P.M. c. Manduca, inedita; Id., Sez. V, 25 gennaio 1994, P.M. c. Santangelo, inedita.
— 335 — della trasmissione degli atti al g.i.p. o al P.M., nel caso di nullità della vocatio in iudicium derivante dall’inosservanza del requisito previsto dall’art. 429 1o comma lett. c) e 555 1o comma lett. c) c.p.p. Si negava, in particolare, l’abnormità (5) dell’atto ‘‘sotto il profilo strutturale (quando per la sua singolarità si pone fuori dal sistema organico della legge processuale), o funzionale (quando, pur non estraneo al sistema normativo, determina la stasi del processo, con l’impossibilità di proseguirlo)’’ (6). 3. Le Sezioni unite hanno aderito a quest’ultimo orientamento sviluppandone le motivazioni in modo lineare e completo. Il che non esime l’interprete dal far risaltare i principi di fondo della decisione e di tentare di evidenziare qualche passaggio argomentativo, che si presta ad un rispettoso dissenso. Innanzi tutto i Giudici di legittimità si sono soffermati sul concetto di abnormità strutturale. La stessa sussiste non solo quando un atto, per la stranezza e la singolarità del suo contenuto, si colloca del tutto al di fuori dell’ordinamento processuale, producendo taluni effetti la cui eliminazione è possibile esclusivamente mediante il ricorso per cassazione (7), ma anche quando l’atto ‘‘pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e dalle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite’’ (8). La Suprema Corte parte da tale premessa per escludere qualsiasi vizio del provvedimento de quo. La restituzione degli atti, nel caso di cui si discute, al g.i.p. (o al P.M. nel procedimento pretorile) è del tutto conforme alle regole ed ai principi del sistema processuale. L’art. 429 1o comma lett. c) e 2o comma c.p.p. ed il correlativo art. 555 1o comma lett. c) e 2o comma c.p.p. stabiliscono che la vocatio in iudicium è nulla, se manca o è insufficiente ‘‘l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge’’. Purché la questione sia sollevata tempestivamente ‘‘subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti’’, secondo il combinato disposto degli artt. 181 3o comma e 491 1o comma c.p.p. (9), l’eventuale dichiarazione di nullità da parte del tribunale o del pretore, investendo l’atto propulsivo del giudizio, determina correttamente la regressione del procedimento ‘‘allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo’’ (art. 185 3o comma c.p.p.), ovvero (5) Per una ricca casistica in tema di abnormità, v. P. CORVI, sub art. 177 c.p.p., in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA - G. SPANGHER, Milano, 1997, p. 627 ss.; G. DI CHIARA, Le nullità, in AA.VV., Atti del procedimento penale. Forma e struttura. Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. CHIAVARIO-E. MARZADURI, Torino, 1996, p. 198 ss. Vedi inoltre, anche per i richiami alla dottrina vigente il vecchio codice, S. LORUSSO, Epiloghi dell’udienza preliminare e provvedimento abnorme, in Cass. pen., 1995, p. 3046 ss. (6) Così Cass., Sez. V, 18 aprile 1994, P.M. c. Luchino, cit. (7) Cass., Sez. un., 26 aprile 1989, Goria, in questa Rivista, 1990, p. 743 ss., con nota di S. SAU, Sulla nuova disciplina dei procedimenti in materia di reati ministeriali. (8) Così Cass., Sez. un., 31 luglio 1997, Quarantelli, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p. 434. (9) La Suprema Corte, fissando quale termine di rilevazione a pena di decadenza della nullità de qua la fase delle questioni preliminari al dibattimento, si pone in linea al costante orientamento giurisprudenziale che considera tale nullità come relativa. In senso conforme Cass., Sez. V, 21 novembre 1996, Pieroni, in CED, 206623; Id., Sez. II, 6 febbraio 1996, Pellegrino, CED, 204751; Id., Sez. III, 15 dicembre 1992, P.M. c. Antinori, cit. La dottrina, viceversa, si è espressa nel senso della riconducibilità dell’ipotesi di cui si discute ad una nullità di ordine generale assoluta, in quanto attinente ‘‘all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale’’ ai sensi dell’art. 178 lett. b) c.p.p., o, per lo meno, a regime intermedio in quanto relativa all’intervento e all’assistenza dell’imputato ai sensi dell’art. 178 lett. c) c.p.p. Così A. PIGNATELLI, Il procedimento davanti al pretore, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, 4a ed., Padova, 1995, p. 938 ss. V. anche, seppure con taluni distinguo, M.M. MONACO, Sui contenuti del decreto che dispone il giudizio, in Giur. it., 1997, II, c. 239.
— 336 — rispettivamente alla fase dell’udienza preliminare o alla fase conclusiva delle indagini preliminari. A tale affermazione non si può obiettare che già in limine al dibattimento è possibile rimuovere la nullità di cui si discute, mediante il ricorso agli strumenti disciplinati dagli artt. 516 e 517 c.p.p. e dagli artt. 506 e 507 c.p.p.: condivisibili appaiono le ragioni espresse sul punto dalla Suprema Corte, alle quali sembra comunque opportuno aggiungere talune considerazioni. In primo luogo il pubblico ministero, secondo la lettera della norma, può procedere ad una ‘‘nuova contestazione’’ esclusivamente ‘‘nel corso dell’istruzione dibattimentale’’. Un’interpretazione sistematica di tale locuzione impone, inoltre, di affermare come il potere-dovere per l’organo dell’accusa di modificare il capo di imputazione si ricollega strettamente a nuove risultanze processuali, che possono emergere solo dopo l’inizio dell’assunzione delle prove; non, di certo, ‘‘ad una riconsiderazione sul contenuto della propria iniziativa’’ (10). In modo analogo i meccanismi disciplinati dagli artt. 506 e 507 c.p.p. sono attivabili rispettivamente al termine dell’escussione probatoria o dell’esame dei testimoni e delle parti private, e ‘‘terminata l’acquisizione delle prove’’. Ed anche a voler aderire all’interpretazione della Suprema Corte, fornita nella sentenza a Sezioni unite 6-21 novembre 1992, n. 11227 (11), sul significato di tale ultima espressione (indicherebbe ‘‘non il presupposto per l’esercizio del potere del giudice, ma solo il momento dell’istruzione dibattimentale a partire dal quale... può avvenire l’assunzione delle nuove prove), si deve comunque sostenere la necessità, anche in questo caso per l’esercizio di tale potere per lo meno del superamento delle questioni preliminari. In secondo luogo gli strumenti de quibus si riferiscono ad ipotesi per nulla assimilabili ad un’imputazione deficitaria o imprecisa e, pertanto, correttamente i Giudici di legittimità definiscono il relativo richiamo inconferente ed erroneo. Gli artt. 516 e ss. c.p.p. (12) attengono alla modifica di elementi costitutivi del fatto di reato contestato (azione, omissione, evento, nesso di causalità, elemento soggettivo, condizioni obiettive e soggettive di punibilità) e delle relative modalità spazio-temporali e presuppongono, di conseguenza, una compiuta e concreta definizione degli stessi, rispetto al modello legale, nella vocatio in iudicium. In altri termini, la loro attivazione implica una contestazione completa nei suoi elementi essenziali, in modo esattamente opposto alla fattispecie che ne occupa. Gli artt. 506 e 507 c.p.p., a loro volta, disciplinano i poteri probatori del (10) Così, T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 112 ss., al quale si rimanda per un approfondimento; in giurisprudenza da ultimo: Cass., Sez. III, 29 aprile 1998, Picchioni, in CED, 210745; Cass., Sez. III, 22 marzo 1996, Iaccarino, CED, 205460; Trib. Sondrio, 19 aprile 1996, Traversi, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 329, con nota di T. RAFARACI, L’assestamento tardivo degli addebiti contestati. Sotto il codice del 1930 cfr. A. GIARDA, sub art. 477 c.p.p., in G. CONSO-V. GREVI, Commento breve al c.p.p., Padova, 1987, p. 1270 e 1271. (11) Vedila pubblicata in questa Rivista, 1993, p. 822 ss., con nota di L. MARAFIOTI, L’art. 507 c.p.p. al vaglio delle Sezioni unite: un addio al processo accusatorio e all’imparzialità del giudice dibattimentale. Cfr. in dottrina A. GIARDA, « Astratte modellistiche » e principi costituzionali del processo penale, in Praxis Criminalis, Milano, 1994, p. 528 ss.; G. SPANGHER, L’art. 507 davanti alla Corte costituzionale: ulteriore momento nella definizione del sistema accusatorio compatibile con la Costituzione, in Giur. cost., 1993, p. 949 ss. (12) Per un’analisi completa di tali norme v. T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, op. cit. Cfr. anche V. SGROMO, sub artt. 516 ss., in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit, p. 2301 ss.; I. CALAMANDREI, Diversità del fatto e modifica dell’imputazione nel codice di procedura penale del 1988, in questa Rivista, 1996, p. 634 ss. Sotto il vecchio codice, A. GIARDA, sub art. 477, cit., p. 1269 ss.; ID., Sul principio di correlazione dell’« accusa » con la « sentenza » fra presente e futuro del processo penale, in questa Rivista, 1976, p. 572.
— 337 — « presidente » e del « giudice » in sede di istruzione dibattimentale; non introducono, di certo, eventuali poteri integrativi in tema di descrizione dell’imputazione. La mancanza di strumenti processuali idonei a rimuovere l’invalidità del decreto che dispone il giudizio, mediante la ridescrizione esaustiva dell’accusa nella fase preliminare al dibattimento, si correla strettamente all’impossibilità per il giudice, in tale sede, di rinnovare l’atto nullo. Al riguardo le Sezioni unite richiamano un indirizzo giurisprudenziale oramai consolidato (13). Il presidente o il pretore può rinnovare la citazione a giudizio, ai sensi dell’art. 143 disp. att. c.p.p. e 487 1o comma c.p.p., solo nel caso in cui si sia correttamente passati dalla fase delle indagini preliminari a quella del giudizio. La nullità del primo atto di impulso processuale, nelle ipotesi previste dagli artt. 429 e 555 c.p.p., la nullità della relativa notifica e l’inosservanza del termine a comparire impediscono, per l’appunto, che il dibattimento possa considerarsi regolarmente instaurato, con la conseguente regressione del procedimento alla fase anteriore secondo i principi generali dell’art. 185 c.p.p. 4. Di maggiore interesse i passaggi argomentativi utilizzati dalle Sezioni unite per escludere l’abnormità dell’ordinanza di trasmissione degli atti al g.i.p. (14) ed al P.M. sotto il profilo funzionale. Tale problema non pone particolari difficoltà interpretative nel procedimento pretorile. Mancando in quest’ultimo l’udienza preliminare, l’invalidità del decreto di ci(13)
Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, Cirulli, in Cass. pen., 1995, p. 2829 ss, con nota di A. GA-
LANTI, Una nuova decisione delle Sezioni unite sull’autorità competente alla rinnovazione della citazione
degli imputati nel procedimento pretorile; Cass., Sez. un., 18 giugno 1993, Garonzi, in Cass. pen., 1993, p. 2511. Più di recente Cass., Sez. un., 31 luglio 1997, P.M. in proc. Baldan, in Gazz. giur. Giuffrè, n. 36, 1997, p. 41. In dottrina, da ultimo, A. CIAVOLA, Termini di comparizione e organo legittimato a disporre la citazione nel giudizio di rinvio davanti al pretore, in Cass. pen., 1998, p. 1189 ss.; G. VARRASO, Annullamento con rinvio al pretore, citazione del pretore e termine a comparire, in questa Rivista, 1997, p 1038 ss. (14) Occorre sottolineare come i giudici di legittimità nella sentenza in commento si siano soffermati a lungo a chiarire come il soggetto destinatario di tale trasmissione degli atti non può che essere il giudice dell’udienza preliminare, il quale si identifica con il giudice per le indagini preliminari. È stato così superato il rilievo proposto dai ricorrenti (non certo oggetto anch’esso del dibattito giurisprudenziale esaminato e risolto) del g.u.p. quale organo diverso dal g.i.p., e la questione di legittimità costituzionale, proposta in via subordinata, ‘‘delle norme codicistiche che ignorano espressamente il giudice dell’udienza preliminare, non lo istituiscono, né espressamente lo diversificano, per violazione dell’art. 76 della Cost., in relazione alla direttiva n. 64 dell’art. 2 della legge delega n. 81/87’’. Sul primo rilievo la Suprema Corte ha sottolineato l’appartenenza allo stesso ufficio dei due soggetti, pur evidenziandone la diversità funzionale e si è richiamata ad argomentazioni pacificamente sostenute dalla dottrina (cfr. fra gli altri D. GROSSO, L’udienza preliminare, Milano, 1991, p. 20 ss.; M. FERRAIOLI, Il ruolo di ‘‘garante’’ del giudice per le indagini preliminari, Padova, 1993, passim). Sulla questione di legittimità costituzionale la Corte di cassazione, nel dichiararla manifestamente infondata, si è riallacciata alle sentenze della Consulta, che riconoscono l’impossibilità di un distinguo, se non unicamente funzionale, tra i due giudici ed in particolare alle motivazioni contenute nella pronuncia n. 481/95 (leggila in Giur. cost., 1995, p. 4089 ss.). È da segnalare che a partire dal 2 giugno 1999, salvo ulteriori proroghe, il quadro normativo di riferimento cambierà con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 51 del 1998, di introduzione del giudice unico di primo grado. Fra le novità più significative di tale riforma vi è proprio l’incompatibilità assoluta tra g.i.p. e g.u.p. nello stesso procedimento (secondo il nuovo comma 2o-bis dell’art. 34 c.p.p.) e la correlativa modifica ordinamentale dell’art. 7-ter ord. giud. con la ‘‘concentrazione ove possibile, in capo allo stesso giudice dei provvedimenti relativi al medesimo procedimento e la designazione di un giudice diverso per lo svolgimento delle funzioni di giudice dell’udienza preliminare’’. Rimane, comunque, anche a seguito di tali novità normative, l’appartenenza dei due giudici allo stesso ufficio giudiziario e la possibilità per un organo giurisdizionale di svolgere entrambe le funzioni in procedimenti distinti. Vedi, volendo, G. VARRASO, sub art. 171 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, in AA.VV., Processo civile e processo penale. Le riforme del 1998, a cura di C. CONSOLO-F.P. LUISO-A. GIARDA-G. SPANGHER, Milano, 1998, p. 125 ss.
— 338 — tazione per omessa o insufficiente descrizione del fatto contestato determina immediatamente la restituzione degli atti al pubblico ministero, ‘‘essendo suo compito rinnovare l’atto nullo’’ (15). Meno facile la soluzione della questione nel processo per i reati di competenza del tribunale o della corte d’assise: nel quale il g.u.p. non può rimuovere direttamente la nullità de qua, in ossequio al principio di obbligatorietà dell’azione penale, della quale l’organo dell’accusa è il dominus assoluto. Le motivazioni sul punto espresse dalla Suprema Corte per superare l’impasse processuale necessitano di un approfondimento, nonché di talune precisazioni. Le Sezioni unite chiariscono, in primis, come il giudice delle indagini preliminari, ricevuti gli atti a seguito della declaratoria di nullità della vocatio in iudicium, debba fissare una nuova udienza preliminare, mediante la notifica alle parti dell’avviso ‘‘a norma degli artt. 418 e ss. c.p.p.’’ (16). Il g.i.p., riaperta l’udienza, al fine di porre rimedio all’invalidità dichiarata dal giudice del dibattimento, può e deve sollecitare il pubblico ministero a ridescrivere, in modo esaustivo, il fatto di reato contestato. La fonte di tale potere-dovere è rinvenuta nella sentenza della Corte costituzionale 7-15 marzo 1994, n. 88 (17), pronuncia interpretativa di rigetto con cui la Consulta ha individuato un terzo possibile epilogo dell’udienza preliminare. Il giudice, all’esito della stessa, non solo può, secondo la lettera dell’art. 424 c.p.p., pronunciare sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio, ma anche, in base ad un’interpretazione sistematica degli artt. 423 e 521 c.p.p., invitare il pubblico ministero a descrivere il fatto diversamente da come ipotizzato nella richiesta di rinvio a giudizio e disporre la restituzione degli atti all’organo dell’accusa per operare in tal senso (18). Si viene, cioè, ‘‘a prefigurare una sequenza composta da due provvedimenti giudiziali’’ (19): il primo interno alla fase (l’invito), il secondo (la trasmissione degli atti), al quale ricorrere nel caso di dissenso immediato del P.M. A questo risultato i Giudici della Consulta sono pervenuti sulla base di un’affermazione fondamentale. ‘‘Dal principio generale della necessaria correlazione tra accusa e sentenza, (15) Così la sentenza in commento, retro. (16) Pare opportuno ricordare che la dichiarazione di nullità della vocatio in iudicium del giudice dibattimentale è vincolante per il g.i.p. ai sensi dell’art. 28 2o comma parte finale, che attribuisce, in ogni caso, prevalenza alla decisione del primo. In giurisprudenza Cass., Sez. I, 25 gennaio 1997, Confl. comp. in proc. Giorno, CED, 206520. In dottrina F. CORDERO, Proc. pen., 4a ed., Milano, 1998, p. 165; C. DI BUGNO, sub art. 28 c.p.p., in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 137 ss. (17) Si può leggerla in Giust. pen., 1994, I, c. 161, con nota di A. VIRGILIO, Fatto diverso: trasmissibilità degli atti dal giudice dell’udienza preliminare al pubblico ministero? Sui poteri di modifica dell’imputazione ad opera del P.M. e dei relativi poteri del g.i.p. nel corso dell’udienza preliminare, v. R.E. KOSTORIS, sub art. 423 c.p.p., in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA-G.SPANGHER, cit, p. 1753 ss.; B. PIATTOLI, Modificazione dell’imputazione e poteri del g.u.p., in questa Rivista, 1998, p. 655 ss.; E. ZURLI, Osservazioni in tema di modificazione dell’imputazione da parte del giudice dell’udienza preliminare, in Cass. pen., 1997, p. 1470; A. BASSI, Il giudice dell’udienza preliminare e il potere di modifica dell’imputazione, ivi, 1997, p. 1463 ss.; T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, cit., p. 477 ss.; G. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Padova, 1996, p. 249 ss.; T. BENE, Diversità ontologiche e difformità di effetti delle « modificazioni dell’imputazione », in Giur. it., 1995, II, c. 313. (18) Il g.i.p., all’esito dell’udienza preliminare, può dare al fatto contestato anche una diversa qualificazione giuridica in applicazione del principio generale dell’art. 521 1o comma c.p.p. In questo senso Cass., Sez. un., 19 giugno-22 ottobre 1996, Di Francesco, in Gazz. giurid. Giuffrè, 1996, n. 43, p. 51 ss. In dottrina v., fra gli altri. A. NAPPI, Guida al c.p.p., 6a ed., Milano, 1997, p. 355. (19) Così T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, cit., p. 499. Tale Autore accoglie la tesi sostenuta da A. MACCHIA, Nota a Corte cost., sent. 15 marzo 1994, n. 88, in Cass. pen., 1994, p. 1800. Cfr. nello stesso senso G. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, cit., p. 263.
— 339 — posto non solo a tutela del diritto di difesa dell’imputato ed a garanzia del contraddittorio, ma anche al fine del controllo giurisdizionale sul corretto esercizio dell’azione penale, può desumersi che la costante corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti è un’esigenza presente in ciascuna fase processuale, e quindi anche nell’udienza preliminare » (20). Per chiarire le ragioni del richiamo operato dalla Suprema Corte a tale interpretazione, che riguarda, con tutta evidenza, un’ipotesi diversa da quella considerata, è necessario riallacciarsi ad un’altra importante decisione della Consulta: l’ordinanza 14 aprile 1995, n. 131 (21). Con questo ulteriore intervento additivo la stessa ha esteso i principi espressi nella sentenza n. 88/94 e reso applicabili i poteri individuati in tale sede (direttamente o, per lo meno, più esplicitamente riferiti ad ipotesi di modifica dell’imputazione ai sensi dell’art. 423 c.p.p.), alla fattispecie, che ne occupa, di genericità nella formulazione della stessa. È in linea, pertanto, direttamente con l’ordinanza n. 131/95 la possibilità e, allo stesso tempo, l’obbligo riconosciuto nel caso de quo dalle Sezioni unite in capo al giudice delle indagini preliminari di sollecitare il pubblico ministero a ridescrivere l’imputazione, a seguito della riapertura dell’udienza preliminare, e di far regredire il procedimento mediante la trasmissione degli atti all’organo dell’accusa. ‘‘Tutto ciò presuppone [anche se non è stato rilevato nella sentenza in commento] che l’imputazione, così come formulata dal P.M., sia, ad avviso del giudice, inadeguata rispetto alle obiettive risultanze degli atti, poiché altrimenti il problema investirebbe evidentemente il merito della decisione, che il giudice è chiamato a pronunciare ai sensi dell’art. 424 c.p.p.’’ (22). Rilevanti le implicazioni di tipo sistematico. Il principio della correlazione tra accusa e sentenza non solo, in questo modo, finisce per esser posto a garanzia di un corretto esercizio ad opera della parte pubblica del potere-dovere di modifica del capo di imputazione nei casi legislativamente disciplinati, ma anche a presidio di imputazioni complete nella loro descrizione fattuale. Occorre, però, segnalare i rischi insiti in questa interpretazione o, meglio, nel presupposto implicito di tale interpretazione. Si ricorre all’applicazione analogica dell’art. 521 2o comma c.p.p. quale rimedio a fronte di ‘‘contestazioni’’ inadeguate, poiché si esclude che l’inosservanza dell’art. 417 lett. b) c.p.p. determini una nullità che il g.i.p. possa dichiarare d’ufficio o rilevare su eccezione di parte. Questo presupposto, oramai pacifico in giurisprudenza (23) e avallato dalla Corte costituzionale, non pare condivisibile. Il mancato rispetto di questa norma non è sanzionato in modo specifico, ma è riconducibile alle nullità di ordine generale o attinenti all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, secondo la previsione dell’art. 178 1o comma lett. b) c.p.p., o, per lo meno, relative all’intervento e all’assistenza dell’imputato ai sensi dell’art. 178 1o comma lett. c) c.p.p. (24). (20) Così Corte cost., sentenza 7-15 marzo 1994, n. 88, cit., c. 164. (21) Si può leggerla in Cass. pen., 1995, p. 2088. Con tale pronuncia la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 417 c.p.p., nella parte in cui non prevede alcuna sanzione per l’inosservanza del requisito disciplinato dalla lett. b) dello stesso articolo. (22) Così Corte cost., ord. 14 aprile 1995, n. 131, cit., p. 2089. (23) V., Cass., Sez. III, 6 giugno 1996, Gaslini, in Riv. pen., 1997, p. 197; Id., Sez. VI, 26 febbraio 1992, Pellegrino, in questa Rivista, 1994, p. 292, con nota di C. CESARI, Modifica dell’imputazione e poteri del giudice dell’udienza preliminare; Id., Sez. VI, 5 maggio 1991, P.M. in proc. c. Nichele ed altri, in Giur. it., 1993, II, c. 705, con nota di A.M. ROMANO, Declaratoria di nullità della richiesta di rinvio a giudizio: un problema di abnormità. (24) La dottrina è pressoché unanime: v., fra gli altri, R.E. KOSTORIS, sub art. 417 c.p.p., in
— 340 — Escludere tale nullità significa, di fatto, far perdere di incisività all’obbligo per il pubblico ministero di formulare l’accusa in modo suffficientemente chiaro e preciso ab initio, e rendere l’udienza preliminare una fase di possibile ‘‘perfezionamento’’ dell’imputazione generica, in modo del tutto analogo a quanto avveniva nella fase istruttoria del vecchio codice. Il rispetto dell’obbligo di cui si discute è, viceversa, imprescindibile per la realizzazione in sede di udienza preliminare di un effettivo contraddittorio e l’esercizio consapevole dei poteri difensivi da parte dell’imputato, in ordine soprattutto alla scelta dei riti alternativi, alla richiesta di interrogatorio e di incidente probatorio. Non bisogna, poi, dimenticare come tale udienza, dopo la soppressione dell’aggettivo ‘‘evidente’’ nell’art. 425 c.p.p., ad opera della l. 8 aprile 1993, n. 105, è ‘‘una fase giurisdizionale di valutazione piena del merito della regiudicanda’’ (25) seppure in termini prognostici e richiede, di conseguenza, in modo ancora più pregnante rispetto al passato un’immediata ed esaustiva descrizione dell’imputazione, all’atto di esercizio dell’azione penale. Un’ulteriore conseguenza tutt’altro che trascurabile della soluzione, prospettata dalla Corte costituzionale e ripresa dalle Sezioni unite, risiede nell’assoluta mancanza di garanzie difensive per l’imputato e, in particolare, nell’impossibilità per lo stesso di chiedere un termine a difesa a fronte dell’eventuale integrazione dell’accusa (26). La disciplina dell’art. 519 c.p.p. non è richiamata in sede di udienza preliminare ed il diritto garantito dall’art. 24 2o comma della Costituzione finisce così, ancora una volta, per perdere di effettività; risultato criticabile in presenza dei nuovi canoni di giudizio fissati per il g.u.p. e la sempre maggiore valenza probatoria degli atti di indagine (27). 5. Un’ultima problematica si ricollega al potere del g.i.p. di sollecitare il pubblico ministero a precisare l’imputazione. Tale invito rappresenta un esempio scolastico di atto normativo (28), ovvero di un atto che fa sorgere nel soggetto destinatario (nel caso di specie la parte pubblica) un dovere di adeguarsi alle indicazioni ricevute (29). AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 1730; O. DOMINIONI, sub art. 179, in AA.VV., Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. AMODIO-O. DOMINIONI, vol. 2o, Milano, 1989, p. 279; G. FRIGO, sub art. 417 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, IV, Torino, 1989, p. 586; D. GROSSO, Udienza preliminare, cit., p. 90 ss.; A. MOLARI, Indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Manuale di proc. pen., 2a ed., Bologna, 1997, p. 392. (25) Così A. GIARDA, L’esegeta e il legislatore, in Praxis Criminalis, Milano, 1994, p. 464; cfr. anche P. CORVI, L’udienza preliminare: sempre più udienza, sempre meno preliminare, in questa Rivista, 1993, p. 1081 ss. Non bisogna, però, dimenticare come la Corte costituzionale ancora di recente (leggi Corte cost., sent. 7-18 luglio 1998, n. 290, in Guida al diritto, 1998, n. 34, p. 68 ss., con nota di G. FRIGO, La precedente valutazione di merito può compromettere il giudizio cautelare) ha ribadito come il g.i.p., in sede di udienza preliminare, sia chiamato ad una pronuncia esclusivamente di natura processuale. (26) La giurisprudenza sul punto, a quanto risulta, è unanime. V. ad esempio, Cass., 28 aprile 1994, Tomasello, CED, 197875; Id., 4 giugno 1993, Carnazza, CED, 196009. Fortemente critica la dottrina, che solleva anche dubbi di legittimità costituzionale: cfr., fra gli altri, R.E. KOSTORIS, sub art. 423 c.p.p., cit., p. 1755; G. FRIGO, sub art. 423 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, IV, Torino, 1989, p. 639 ss.; A. GALATI, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, in AA.VV., Dir. proc. pen., 2a ed., vol. II, Milano, 1995, p. 204. Cfr. anche A. GIARDA, Nuove contestazioni e diritto alla prova: l’oralità in pericolo, in Praxis Criminalis, Milano, 1994, p. 431; M. GAMBARDELLA, sub art. 423 c.p.p., in AA.VV., C.p.p. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di G. LATTANZI-E. LUPO, Milano, 1998, pp. 573 e 574. (27) Cfr. A. GIARDA, Nuove contestazioni e diritto alla prova: l’oralità in pericolo, cit., p. 431. (28) Cfr. F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 53 ss. (29) Vedi, seppure con riferimento all’ipotesi disciplinata dall’art. 409 5o comma c.p.p., da ultimo M. ATZEI, Limiti oggettivi ed efficacia vincolante dell’ordine di formulare l’imputazione ex art. 409, 5o comma c.p.p., in Giur. it., 1997, II, c. 223 ss.
— 341 — L’art. 112 della Costituzione assegna al pubblico ministero la titolarità esclusiva dell’azione penale, ma non esclude meccanismi di esercizio coatto della stessa azione (30). Il P.M. dovrebbe, pertanto, ritenersi vincolato alle indicazioni del giudice delle indagini preliminari (31), consentendo la prosecuzione dell’udienza preliminare secondo le regole ordinarie. Accade, però, nella prassi che l’organo dell’accusa si limiti a volte ad un non liquet, o riproponga pedissequamente la richiesta di rinvio a giudizio già avanzata. A parte le riserve che tale comportamento genera a livello di responsabilità disciplinare, se non addirittura penale (32), occorre pur sempre identificare un congegno normativo che impedisca il verificarsi di tale stallo funzionale: suscita più di una perplessità il meccanismo individuato dalle Sezioni unite. Il g.i.p., ‘‘nell’inerzia del pubblico ministero, può ben apportare al fatto nei limiti enunciati nella richiesta di rinvio a giudizio tutte le precisazioni che si rendono necessarie, considerato che il decreto che dispone il giudizio deve contenere, a norma dell’art. 429 lett. d) c.p.p., l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui essi si riferiscono’’. A dire il vero questa interpretazione ha un suo precedente nella sentenza 23 marzo-31 marzo 1994, n. 112 della Corte costituzionale (33). Anche in questa pronuncia si affermava, in modo del tutto analogo, che ‘‘sotto il profilo della necessaria aderenza del fatto contestato all’imputazione formulata, ..., nulla vieta al g.i.p. di descrivere con la completezza che ritiene necessaria il fatto storico oggetto dell’accusa’’. Senonché sembrerebbe che tale descrizione esaustiva debba avvenire proprio in sede di emissione del decreto che dispone il giudizio. Ma se questa conclusione è corretta, i risultati a cui si perviene sono difficilmente accettabili. Al di là dei dubbi che sorgono circa il rispetto del principio sancito dall’art. 112 della Costituzione ed al richiamo, forse inconferente, dell’art. 429 lett. d) c.p.p., l’udienza preliminare finirebbe per svolgersi interamente in presenza di un’imputazione generica, se non addirittura del tutto deficitaria, secondo quanto stabilito da un giudice dibattimentale, con grave lesione del diritto di difesa dell’imputato. Questi si vedrebbe privato dell’esercizio di tutti i poteri difensivi esperibili in tale fase ed, in particolar modo, non potrebbe adeguatamente valutare, senza sua colpa, l’opportunità di richiedere il giudizio abbreviato (34). (30) Sollevano critiche e dubbi di legittimità costituzionale dell’imputazione coatta, sempre con riferimento all’art. 409 5o comma c.p.p. fra gli altri, C. TAORMINA, Dir. proc. pen., I, Torino, 1995, p. 604 ss.; DIDDI, Il dissenso del gi.p. dalla richiesta di archiviazione: tra configurabilità del conflitto e problemi di costituzionalità, in Giust. pen., 1991, III, c. 238 ss.; A. SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, p. 311 ss. (31) È da escludere che il pubblico ministero, ricevuti gli atti, possa chiedere l’archiviazione o esercitare in altro modo l’azione penale. Così C. CESARI, Modifica dell’imputazione e poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit., p. 299. (32) V. F. CORDERO, Proc. pen., op. cit., p. 420. (33) Si può leggerla in Giur. cost., 1994, p. 959 ss. Con tale sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato, fra l’altro, manifestamente inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità in relazione agli artt. 3, 24 e 101 Cost., dell’art. 429 c.p.p. (in combinato-disposto con gli artt. 417 e 423 c.p.p. e 2 n. 52 legge delega n. 81/87), perché tali norme imporrebbero al g.i.p. di adottare nel decreto che dispone il giudizio la definizione giuridica del fatto formulata dal P.M. (34) È da sottolineare, poi, che la Corte costituzionale ha negato la possibilità per l’imputato di richiedere il giudizio abbreviato in sede dibattimentale nel caso di mancata ‘‘nuova contestazione’’ imputabile a colpa del pubblico ministero e, viceversa, la possibilità nello stesso caso, di proporre istanza di applicazione di pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. con la sentenza n. 265/1994 (si può leggerla in Giur. cost., 1994, p. 2153 ss., con nota di V. RETICO, Contestazione suppletiva e limiti cronologici per il patteggiamento). In dottrina cfr. ancora V. SGROMO, sub artt. 516 ss., in AA.VV., Codice di procedura penale com-
— 342 — Molto probabilmente le Sezioni unite sono state ‘‘costrette’’ a ricorrere ad una simile interpretazione perché la giurisprudenza, oramai consolidata (35), esclude la possibilità di ricorrere all’unico (36) meccanismo processuale praticabile per ovviare allo stallo decisorio, conseguente all’inerzia del P.M.: il conflitto analogo di competenza previsto dall’art. 28 2o comma c.p.p. Si nega tale possibilità, facendo leva sostanzialmente sulla natura di parte dell’organo dell’accusa. Forse, però, non sono state sondate a sufficienza le implicazioni derivanti sul punto dalle decisioni n. 88/94 e n. 131/95 della Corte costituzionale. Nel momento in cui questa assegna al g.i.p. il potere di sostituirsi al pubblico ministero nel precisare o adeguare l’imputazione alle risultanze degli atti nel corso dell’udienza preliminare, pur riconoscendo al pubblico ministero stesso il ruolo che gli deriva dalla previsione dell’art. 112 della Costituzione (vale a dire di esercitare formalmente il potere di azione penale), amplia la sfera funzionale dell’organo giurisdizionale. Si creano due funzioni tra loro coordinate, che attraggono il pubblico ministero nella sfera del giudice delle indagini preliminari, consentendo di sostenere che si è di fronte ad un caso analogo di conflitto di competenza. A tale riguardo è il caso di ricordare, come autorevolmente si è sottolineato, che si è di fronte ad un’ipotesi prevista dall’art. 28 2o comma c.p.p. ‘‘quando il pubblico ministero dissenta dall’ordinanza che l’ha reinvestito ex art. 521 2o comma’’ (37). È facilmente riscontrabile la correlazione analogica con le fattispecie emerse dalla sentenza n. 88/94 e dall’ordinanza n. 131/95 e, quindi, è ben sostenibile la eadem ratio che impone la eadem dispositio. Non rimane che auspicare un revirement giurisprudenziale. 6. Un ulteriore tassello interpretativo, ai molti già incasellati, chiude la sentenza in commento. Le Sezioni unite, in conformità ad una giurisprudenza costante, sottolineano come l’ordinanza di trasmissione degli atti al g.i.p., a seguito di declaratoria di nullità del decreto che dispone il giudizio, è inoppugnabile, ‘‘poiché non assume natura decisoria e si concretizza in mero impulso processuale strumentale, non lesivo dei diritti delle parti, che bene potranno esplicarsi nelle sedi previste’’ (38). Inevitabile la dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto dagli imputati. 7. Per concludere un auspicio. La fluidità dell’accusa, che caratterizza in modo significativo il nuovo codice mentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 2304 ss.; L. MARINI, sub artt. 516 ss., in AA.VV., Commento al c.p.p., coordinato da M. CHIAVARIO, 3o agg., Torino, 1998, p. 539 ss. (35) Cass., 16 aprile 1997, Vanoni, CED, 207656; Cass., Sez I, 24 gennaio 1996, Confl. Comp. in proc., Laureti, in Riv. pen., 1996, p. 900; fra le moltissime emanate nei primi anni di vigore del codice. Id., Sez. I, 12 luglio 1991, Coperino, in Giur. it., 1992, II, c. 348; Id., Sez. I, 19 febbraio 1990, Rinchi, in Cass. pen., 1990, II, 35, 85. (36) A dire il vero è ipotizzabile, almeno formalmente, il ricorso all’istituto dell’avocazione delle indagini da parte del procuratore generale. V. D. GROSSO, L’udienza preliminare, cit., p. 78 ss. (37) Così F. CORDERO, Proc. pen., op. cit., p. 165. Nello stesso senso D. GROSSO, L’udienza preliminare, cit, p. 73 ss.; G. TRANCHINA, I soggetti, in AA.VV., Dir. proc. pen., vol. 1o, 2a ed., 1996, p. 120. Contra G. SPANGHER, Soggetti, in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo c.p.p., 4a ed., 1996, p. 22; F. PERONI, Sul dissenso tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari come fattispecie di conflitto analogo, in Cass. pen., 1991, II, p. 154; V. GREVI, Archiviazione per inidoneità probatoria ed obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, p. 1303, nota 70; A. DALIA-M. FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, 2a ed., Padova, 1999, p. 89. (38) Conforme Cass., Sez IV, 23 aprile 1996, P.M. in proc. Garber, CED, 204455.
— 343 — di rito rispetto alla « cristallizzazione » che era dimensione essenziale del processo per il codice Rocco, non va confusa con la possibilità, inaccettabile, per il pubblico ministero di ‘‘aggiustare’’ liberamente imputazioni generiche. L’omessa o insufficiente descrizione del fatto contestato deve rimanere circoscritta alla patologia del processo. Non deve diventare espressione di un ‘‘cattivo’’ costume giudiziario, anche se questo è dovuto più a serie difficoltà operative che a negligenza funzionale. Il rispetto dei ruoli e delle funzioni, fondamentale in materia, si fonda sulla lealtà processuale; un valore guida, al quale tutte le parti devono ispirarsi. GIANLUCA VARRASO Addetto alle esercitazioni Cattedra di Procedura penale Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
— 344 — I CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 7 gennaio 1997 (dep. 4 marzo 1997) Pres. TROIANO — Rel. DE ROBERTO — P.M. PERSIANI (concl. conf.) Pacini Battaglia (207362-8) Prova — Mezzi di ricerca della prova — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni — Ammissibilità (limiti) — Intercettazioni ambientali — Nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. — Reati di « criminalità organizzata » — Ambito di tale concetto — Indicazione. (C.p.p. art. 266; d.l. 13 maggio 1991, n. 125; l. 12 luglio 1991, n. 203; d.l. 8 giugno 1992, n. 306; l. 7 agosto 1992, n. 356). La nozione di « criminalità organizzata » cui si richiama l’art. 13 del d.l. 8 luglio 1992, n. 306, convertito dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, nel consentire le intercettazioni ambientali nei luoghi di cui all’art. 614 c.p., anche a prescindere da fondato timore che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, deve essere intesa con riguardo alla finalità della norma de qua. In tale concetto rientrano pertanto le attività criminose più diverse purché realizzate da una pluralità di soggetti che, per la commissione di più reati abbiano costituito un apparato organizzativo: nei reati, quindi, in cui la struttura organizzata assume ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti (1).
II CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 16 maggio 1997 (dep. 20 novembre 1997) Pres. PISANTI — Rel. F. TRIFONE — P.M. V. MARTUSCELLO (concl. conf.) Pacini Battaglia Prova — Mezzi di ricerca della prova — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni — Ammissibilità (limiti) — Intercettazioni ambientali — Nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. — Reati di criminalità organizzata — Ambito di tale concetto — Indicazione. (C.p.p. art. 266; d.l. 13 maggio 1991, n. 125; l. 12 luglio 1991, n. 203; d.l. 8 giugno 1992, n. 306; l. 7 agosto 1992, n. 356). Per qualificare un reato come di « criminalità organizzata » è alla finalità della norma di cui all’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991 che occorre fare riferimento. In tale concetto rientrano le attività criminose più diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti che, per la commissione di più reati, abbiano costituito un apparato organizzativo: reati, quindi, in cui la struttura organizzata assume un ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti (2).
I (Omissis). — 2. Ben più complesse si presentano le censure concernenti l’impiego della disciplina prevista dall’art. 13, comma 1, del d.l. 13 maggio 1991,
— 345 — n. 152, convertito dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, successivamente modificato dall’art. 3-bis del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla l. 7 agosto 1992, n. 306, censure riproposte nella memoria depositata dall’avv. Fabrizio Lemme. 2.1. Sulla significazione normativa dell’espressione « delitti di criminalità organizzata », ai fini delle intercettazioni (anche) ambientali, questa Corte ha avuto già occasione di soffermarsi, pervenendo alla conclusione che, nel vigente ordinamento penale, una simile formulazione descrittiva ha una ben precisa valenza giuridica, dato che essa tende ad individuare non una fattispecie autonoma, ma una categoria di reati definita chiaramente attraverso l’analitica individuazione delle fattispecie, alla stregua degli artt. 407, comma 2, lett. a), 372, comma 1-bis, e 54 c.p.p. Infatti — si è argomentato — il riferimento ai delitti di criminalità organizzata, poiché incide sui provvedimenti limitativi della libertà personale, è tassativo e non può andare oltre le ipotesi espressamente previste. Si è anche precisato, però, che, se il delitto per cui il perseguimento è stata disposta l’intercettazione non rientra fra quelli per i quali trova applicazione il regime particolare per l’autorizzazione alle intercettazioni introdotto con l’art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, l’intercettazione deve ritenersi legittimamente disposta ed è perciò utilizzabile a fini di prova quando sia stata autorizzata con riferimento ad un’ipotesi delittuosa rientrante nella categoria dei reati di criminalità organizzata ed all’esito dell’istruttoria l’azione penale venga esercitata per un reato non compreso nella detta categoria (cfr. Sez. VI, 24 febbraio 1995, Galvanin). L’affermazione di quest’ultimo principio, che conduce comunque a ricondurre la legittimità dell’intercettazione disposta adottando la disciplina dell’art. 13 al momento procedimentale in cui la captazione viene richiesta e autorizzata, con impossibilità, quindi, di una verifica della sua legittimità sulla base del panorama retrospettivamente derivante dal prosieguo delle intercettazioni e delle altre acquisizioni, è la risultante di una soluzione interpretativa alla quale questa Corte era già pervenuta nell’indicare il regime di utilizzazione delle intercettazioni. Si era, più in particolare, precisato che nell’ipotesi in cui una intercettazione venga ritualmente ordinata con riferimento al reato per il quale si procede, che in astratto preveda la pena massima superiore a 5 anni, e successivamente l’imputazione venga mutata in altra, per la quale l’intercettazione stessa non sarebbe stata ammissibile, la prova acquisita è utilizzabile, in quanto il divieto di cui all’art. 271 c.p.p. è imposto soltanto con riferimento ai provvedimenti adottati in casi non consentiti (Sez. III, 28 febbraio 1994, Roccia, 197616). Una soluzione interpretativa, oltre che del tutto corretta, anche di assoluto rilievo, perché con essa vengono fissati ambiti di puro ordine formale al sindacato sui provvedimenti autorizzatori delle intercettazioni e che è da ritenere ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte Suprema che mentre, per un verso, ha affermato l’insindacabilità dell’atto di autorizzazione, ha, per un altro verso, sotto il profilo della utilizzazione del contenuto della captazione, comunque riferito all’opera di controllo della richiesta nel momento della sua proposizione il rispetto delle regole riguardanti il regime di utilizzabilità. Ciò posto — fermo restando l’assoluto rigore della seconda parte della statuizione, da adottare come la necessaria premessa di ogni ulteriore argomentazione in proposito — la tesi seguita dalla ricordata sentenza di questa Corte in punto di individuazione della nozione « delitti di criminalità organizzata » deve essere oggetto di una correzione ermeneutica. Nel senso che le esigenze teleologiche alla
— 346 — base della deroga dell’art. 266, comma 2, attenendo esclusivamente alla prova, prescindono da un paradigma che non sia funzionale al fine divisato dalla norma che adesso dà rilievo. Con la conseguenza che sembrerebbe anche da superare la tematica del c.d. « doppio binario » (tecnicamente inteso), così da pervenire ad un modello normativo che non necessariamente debba ricollegare la nozione di « criminalità organizzata » ad uno specifico contesto organizzativo (ovvero, addirittura, al radicamento nel territorio), venendo meno ogni riscontro interpretativo che prescinda dall’esigenza funzionale all’utilizzazione di un simile presupposto. 2.2. Si è notato in dottrina come, almeno ai fini che qui direttamente interessano, l’espressione « criminalità organizzata » e i delitti rientranti nella corrispondente tipologia risultino difficilmente enucleabili sul piano normativo. Ciò che considerando — pur nell’ottica di una costellazione di fattispecie di tipo lato sensu, associativo — che la definizione dei fatti di reato compresi nella categoria non può perdere di vista profili di ordine sociologico e criminologico; tanto da operare una generica distinzione — dai contorni, peraltro, non sempre ben definiti — tra criminalità organizzata e criminalità comune. In quest’ottica si giustifica, ancora, tentando un avvicinamento, se non una giustapposizione, tra nozione socio-criminologica e nozione giuridica di criminalità organizzata, la definizione che include nella categoria, non soltanto i delitti associativi, ove l’« organizzazione » penetra come elemento strutturale della fattispecie (e ciò, va precisato, è vero pure per il reato di cui all’art. 416 c.p.) ma anche le ipotesi concorsuali, se e sempreché sia ravvisabile quell’articolata suddistinzione di compiti per consentire un’efficace collaborazione di raggiungimento del medesimo obiettivo antigiuridico, di norma, peraltro, destinato a reiterarsi, senza che la struttura organizzativa travalichi dal concorso di persone nel reato. 2.3. Come è stato autorevolmente rilevato, la problematica di tipo processuale concernente definizioni di genere, clausole generali in funzione di un maggiore rigore repressivo, si prospettò per la prima volta allorché la Corte costituzionale fu richiamata a vagliare la legittimità, in riferimento all’art. 13, comma 2, della Costituzione, dell’art. 1, comma 3, della l. 22 maggio 1975, n. 152, che escludeva la concessione della libertà provvisoria quando lo richiedessero « le esigenze di tutela della collettività ». La Corte, con sentenza n. 1 del 1980, pur non mancando di precisare che il « concetto è indubbiamente assai generico, tale da potersi riferire, a un livello massimo d’astrazione teorica, a qualsiasi reato », ne colse una delimitazione in senso concreto « ne e dal contesto » della l. n. 152 del 1975, scorgendo alla base dell’intervento legislativo « recenti gravissimi episodi di criminalità comune e politica... per lo più caratterizzati dall’uso della violenza, dalla riferibilità ad organizzazioni criminose e, in definitiva, all’impatto sulle condizioni di vita civile e politica del paese ». Così da individuare una serie di figure delittuose che « segnano, per così dire, il filo che unifica disposizioni di svariata natura e contenute nella stessa legge ». In tal modo la clausola generale adottata nell’art. 1, comma 3, della l. n. 152 del 1975, viene a riempirsi di significato ben definito, riguardando i reati commessi con « uso di armi o di altri mezzi di violenza contro le persone », con « riferibilità ad organizzazioni criminali comuni o politiche », ovvero con « direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza collettiva o dell’ordine democratico ». Quel che occorre ancora rimarcare dall’ora ricordata decisione — e che ne fa,
— 347 — quanto a metodologia, nonostante il tempo trascorso, un modello interpretativo davvero insostituibile — è l’individuazione della nozione di genere in funzione di un connotato essenzialmente finalistico, da ricollegare, appunto, alla norma di cui era stata contestata la conformità della Costituzione. Un profilo che, come si vedrà più avanti, assume una valenza assolutamente significativa al fine di ritenere non fondato il secondo motivo di ricorso. Il fatto che l’espressione « criminalità organizzata » possa assumere un diverso significato in rapporto alla particolare tipologia del trattamento processuale non deve, dunque, disorientare; pure se il raccordo fra le singole disposizioni che alla nozione direttamente o indirettamente si riferiscono è necessario si caratterizzi di connotazioni specifiche, tanto da qualificarsi come la risultante di un procedimento interpretativo estremamente rigoroso. 2.4. Come è noto, l’espressione « reati di criminalità organizzata » fa il suo ingresso nel linguaggio legislativo con la l. 6 febbraio 1980, n. 15, che, nel convertire, con modificazioni, il d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, novellava l’art. 340, comma 3, c.p.p., così da rendere delegabile alla polizia giudiziaria il sequestro presso banche « per verificare indizi o accertare reati di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico nonché di criminalità organizzata »; un’espressione che al suo apparire convinse i primi commentatori del fatto che un simile connotato non è in grado di identificare una precisa figura di illecito penale, con il rischio di conferire al magistrato margini estremamente ampi di delegabilità di atti. L’espressione, peraltro, era stata già da tempo adottata nel linguaggio della giurisprudenza con riferimento alle misure di prevenzione, nell’area di operatività della l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (cfr. Sez. I, 17 gennaio 1968, Chirco), mentre, a seguito dell’introduzione dell’art. 416-bis c.p. (in forza dell’art. 13 della l. 13 settembre 1982, n. 646), il lessico precedentemente utilizzato anche per designare le caratteristiche dei reati di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p. (Sez. II, 26 novembre 1984, Mantegna) e di sequestro di persona a scopo di estorsione (Sez. II, 29 aprile 1986, Cocuzza), subì un ulteriore processo di definizione (ma non di corrispondente limitazione) in conseguenza dell’aggiunta dell’attributo « di tipo mafioso ». 2.5. Su altro versante, quello della riforma del sistema codicistico, la nozione « criminalità organizzata » compare in due degli emendamenti presentati il 21 febbraio 1980 dal guardasigilli alla Commissione giustizia della Camera: il 55bis (« previsione in ogni caso dell’obbligatorietà del provvedimento di custodia in carcere anche nei confronti di imputati di reati che siano manifestazione delle più gravi forme di criminalità organizzata ») e l’84-bis (« coordinamento dell’attuazione della delega coi principi della legislazione vigente relativa alla prevenzione e alla repressione della criminalità terroristica e organizzata »). Ma, a prescindere da tali prescrizioni, rimaste senza esito in sede legislativa, l’espressione « criminalità organizzata » riemerge nella successiva legislatura (la IX); più in particolare, nella seduta dell’Assemblea della Camera del 18 luglio 1984 fu approvato un emendamento destinato a divenire poi la direttiva n. 48 della legge-delega, che prevedeva la « possibilità di concludere le indagini preliminari entro due anni in caso di processi di criminalità organizzata ». 2.6. Significative, al di fuori della normativa concernente la riforma del codice di rito, alcune prescrizioni nel frattempo intervenute. In primo luogo, il disposto dell’art. 4 del d.l. 10 luglio 1987, n. 272, che, nel
— 348 — modificare, ancora una volta, l’art. 340, ultimo comma, c.p.p., aggiungeva ai reati in ordine ai quali era consentita la delegazione ad ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, per procedere al sequestro presso banche, il delitto di cui all’art. 630 c.p., già considerato, peraltro, dalla giurisprudenza come delitto di criminalità organizzata. In secondo luogo, l’art. 13, comma 2, della l. 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), il quale stabiliva che « La detenzione domiciliare non può essere concessa quando è accertata l’attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata o di una scelta di criminalità ». Né è, poi, da trascurare che lo Stato italiano, all’atto del deposito dello strumento di ratifica dell’atto finale, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 e a l’Aja il 28 febbraio 1986 (l. 23 dicembre 1986, n. 909), aveva formulato la seguente dichiarazione: « Infine, così come non hanno avuto luogo gli auspicati progressi significativi nel campo della unione economica e monetaria, le competenze comunitarie non sono state estese a settori importantissimi della vita dell’Europa, quali la cultura, la sanità, la lotta contro il terrorismo, la criminalità organizzata e la droga ». 2.7. Nella nuova disciplina (lato sensu) codicistica la nozione fa la sua comparsa nell’art. 274, lett. c), c.p.p. riguardante le esigenze cautelari e neglia artt. 23 e 37 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, in tema di provvedimenti in materia di libertà personale e di applicazione di misure di sicurezza nei processi a carico di imputati minorenni. Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta si assiste ad un uso ancor più frequente dell’espressione (cfr. ex plurimis, l’art. 1-quinquies, comma 7, e l’art. 1-ter della l. 15 novembre 1988, n. 486, recante disposizioni in materia di coordinamento della lotta contro la delinquenza di tipo mafioso; l’art. 12 della l. 19 marzo 1990, n. 15, che escludeva dal regime dei permessi-premio, tra gli altri, i condannati « di criminalità organizzata nonché per il reato indicato nell’art. 630 c.p. », a meno che non fossero acquisiti elementi tali da escludere la attualità di collegamenti con la criminalità organizzata; il d.l. 12 gennaio 1991, n. 5, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa); nel frattempo, la disciplina codicistica, attenta una prima volta dal d.l. 1o marzo 1991, n. 60 (Interpretazione autentica degli artt. 297 e 304 c.p.p. e modifiche di norme in tema di durata della custodia cautelare), non convertito in legge, viene modificata, proprio nella materia che qui interessa, in forza del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla l. 12 luglio 1991, n. 203. L’art. 13, comma 1, introdotto in sede di conversione, stabiliva che, in deroga a quanto disposto dall’art. 267 c.p.p., l’autorizzazione a disporre le operazioni previste dall’art. 266 dello stesso codice è data con decreto motivato, quando l’intercettazione è necessaria per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o di minaccia con il mezzo del telefono in ordine al quale sussistono sufficienti indizi ». Ma, più in generale, come è stato autorevolmente puntualizzato, pur nella complessità delle relative previsioni e nelle varianti apportate per il succedersi delle varie stesure — nonché, va aggiunto, nella eterogeneità delle materie entro le quali la nozione risulta coinvolta con inevitabili riverberi sul piano teleologico — è possibile enucleare dal contesto una prima categoria di delitti comprendente, accanto ai delitti commessi per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordinamento
— 349 — costituzionale, i « delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 c.p. » ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni previste dallo stesso articolo, nonché i delitti di cui agli artt. 416-bis e 630 c.p. e all’art. 74 del testo unico in materia di stupefacenti (art. 1, comma 1, prima parte) e una seconda categoria comprendente i delitti di cui agli artt. 575, 628, comma 3, 629, comma 2 c.p. e all’art. 73 del testo unico sugli stupefacenti, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80 dello stesso testo unico. Ancora, l’art. 3, comma 1, del d.l. 9 settembre 1991, n. 292, convertito dalla l. 8 novembre 1991, n. 356, nel modificare, attraverso l’inserimento di un comma 1-bis nell’art. 372 c.p.p., la disciplina dell’avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata, conferiva al procuratore generale presso la Corte di appello, onde rendere effettivo il coordinamento delle indagini, il potere di avocare le indagini relative a taluno dei delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., nonché dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, così da esorbitare dall’ambito della previsione codicistica, pur rimanendo nella stessa ottica, anche se allargata, dell’art. 416-bis. Il d.l. 20 novembre 1991, n. 367, istitutivo della procura nazionale antimafia, ha comportato una riduzione dell’area di rilevanza della criminalità organizzata, proprio nell’ambito della cognizione affidata a detto organo, da intendersi — come, ancora, è stato autorevolmente precisato — quale cognizione dei delitti di criminalità organizzata in senso stretto. Più precisamente, attraverso l’inserimento nel codice degli artt. 59-ter, 51, comma 3-bis, vengono ad essere considerati come procedimenti per delitti di criminalità organizzata in senso stretto i procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 416-bis e 630 c.p., per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall’art. 74 del testo unico sugli stupefacenti. Relativamente agli altri reati, in quanto rientrati nella previsione dell’art. 407, comma 2, lett. a), ed anch’essi presi in considerazione dal d.l. n. 292 del 1991 ai fini della possibilità di avocazione, l’art. 8 del decreto ha novellato il testo dell’art. 372, comma 1-bis, c.p.p., nel senso che i procedimenti presi in considerazione per l’avocabilità delle indagini preliminari non sono più indicati attraverso il rinvio ad altra norma, ma individuano quelli già contemplati dal precedente rinvio dell’art. 407, comma 2, lett. a), ed ora non ricompresi tra i reati indicati nei nuovi artt. 54ter e 51, comma 3-bis (delitti previsti dagli artt. 270-bis, 280, 285, 286, 289-bis, 305, 306, 416, nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza, e 422 c.p.); così da potersi parlare, pure qui, di criminalità organizzata in senso tecnico (ma l’espressione, può, ancora una volta, provocare soluzioni interpretative non sempre lineari) anche se intesa in senso lato. 2.8. In sede di conversione del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, ad opera della l. 7 agosto 1992, n. 356, una norma che ha direttamente inciso sul regime delle intercettazioni, l’art. 3-bis della detta legge di conversione ha inserito il seguente periodo, nell’art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 203: « Quando si tratta di intercettazioni di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo ad un delitto di criminalità organizzata e che avvenga nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., l’intercettazione è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti non si stia svolgendo l’attività criminosa ».
— 350 — 2.9 La silloge normativa che precede, anche se, certo, non esaustiva, è però sufficiente al fine di ravvisare — pur nel non sempre ordinato succedersi dei singoli precetti — quasi una sorta di giustapposizione della nozione di criminalità organizzata a fini, a un tempo, latu sensu, ordinamentali ed a fini strettamente processuali. Così, volendo proseguire nel tracciato percorso dalla dottrina cui si è spesso fatto riferimento, è possibile constatare una sorta di relativizzazione del concetto in funzione delle specifiche esigenze teleologiche cui la legge segna valore esponenziale. Prendendo per primi in esame i delitti attribuiti dall’art. 51, comma 3-bis, alla cognizione dell’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (delitti previsti dagli artt. 416-bis e 630 c.p., delitti commessi avvelendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste nello stesso articolo, nonché delitti previsti dall’art. 74 del testo unico in materia di stupefacenti) risulta evidente la ragione di uno squilibrio che, essendo di ostacolo ad un’omogenea definizione categoriale, impone di delimitare l’ambito della criminalità organizzata in senso proprio, tipica delle fattispecie a carattere associativo qualificato: si tratta dell’inserimento — per la verità, come si è già visto, assai risalente nel tempo — del delitto previsto dall’art. 630 c.p., figura di reato a concorso solo eventuale, tale, comunque da non poter essere rigorosamente inserita in una nozione di criminalità organizzata in senso stretto (v., sul punto, reiteratamente, la giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 306 del 1993, la quale ebbe a rilevare — certo non obiter — come il sequestro di persona a scopo di estorsione « può bensì far capo ad organizzazioni criminali stabili, ma non di rado è il frutto di aggragazioni occasionali o comunque di organizzazioni criminali circoscritte »). Tutto ciò nonostante che dalla rubrica dell’art. 54-ter c.p.p. (« Contrasti tra pubblici ministeri in materia di criminalità organizzata ») sembrerebbe che un simile attributo competa esclusivamente ai reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, ivi compreso, dunque, il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione. La conseguenza che può trarsi è, dunque, nel senso che, salvo per quel che attiene agli aspetti processual-ordinamentali ed a quelli strettamente legati ad una disciplina inscindibilmente connessa a fenomenologie o strutture che richiamino direttamente la nozione di criminalità organizzata « in senso stretto » (si pensi, a puro titolo di esempio — con le « correzioni » derivanti dalle reiterate dichiarazioni di illegittimità costituzionale di tale precetto, relativamente all’ipotesi di reato prevista dall’art. 630 c.p. — ai reati della « prima fascia » di cui all’art. 4-bis della l. 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, in un ambito, peraltro, non di tipo processuale), ovvero contenenti specifici attributi (da restringere ora all’aggettivo « mafiosa ») è alla finalità della norma che occorre aver riguardo allo scopo di qualificare un reato come di « criminalità organizzata », così da poter definire tale concetto nell’area delle attività criminose più diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti che, per la commissione di più reati, abbiano costituito un apparato organizzativo. Quei reati, quindi, in cui la struttura organizzativa assume un ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti. 2.10. Non è inutile ricordare come la norma che consente di procedere ad autorizzazioni ambientali nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. anche a prescindere dal fondato motivo di ritenere che in quei luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa
— 351 — nasce dalla interpolazione dell’art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, che, a seguito della legge di conversione 13 luglio 1991, n. 203, aveva introdotto per i delitti di criminalità organizzata e — dato quanto mai significativo al fine di un’ermeneusi in chiave teleologica della norma in esame, considerata la natura contravvenzionale della violazione — per il reato di minaccia col mezzo del telefono, la necessità della presenza (non di « gravi » ma) di « sufficienti » indizi. Con la conseguenza che la stessa nozione di criminalità organizzata cui si richiama l’art. 13 del d.l. 8 luglio 1992, n. 306, convertito dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, non può che identificarsi con quella antecedente, non solo alla detta disciplina, ma anche alla introduzione dell’art. 54-ter c.p.p., in quanto inserito solo successivamente, in forza dell’art. 2 del d.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito dalla l. 20 gennaio 1992, n. 8. Una soluzione che sembra ulteriormente confortata dalla circostanza che lo stesso art. 3-bis del d.l. n. 306 del 1992, modificativo del più volte ricordato art. 13, cita lo stesso art. 51-bis c.p.p. (e dunque, implicitamente, l’art. 54ter) solo al fine di consentire « l’intercettazione di comunicazioni tra presenti quando si tratta di agevolare le ricerche di un latitante in relazione ad uno dei delitti previsti da detto articolo ». 2.11. Non essendo, dunque, possibile istituire — sia per ragioni connesse alla successione della legge nel tempo sia per ragioni testuali — qualsivoglia legame tra la nozione di criminalità organizzata di cui all’art. 13, comma 1, e la nozione di criminalità organizzata in senso stretto, occorre, poi, verificare se sia percorribile l’interpretazione seguita dalla Corte di cassazione nella sentenza sopra ricordata. Non può soccorrere, al riguardo, il catalogo dei reati contenuto né nell’art. 372, comma 1-bis, ai fini dell’avocazione delle indagini da parte del Procuratore Generale, non foss’altro perché l’elencazione contiene anche delitti a struttura monosoggettiva e solo eventualmente concorsuale (si pensi ai reati di cui agli artt. 280 e 422, reati, certo non definibili attraverso una nozione che richiami necessariamente l’esistenza di una struttura organizzativa) né, a fortiori, nell’art. 407, comma 2, c.p.p., che sembra contenere (si vedano, come fattispecie più chiaramente non qualificabili — almeno di regola — come reati di criminalità organizzata neppure in « senso lato »: il n. 1, omicidio; il n. 2, rapina aggravata ex art. 628, comma 3, n. 1, prima parte, e n. 2; lo stesso n. 3, art. 630, sequestro di persona a scopo di estorsione; il n. 5, reati in materia di armi; il n. 6, prima parte, cessione di stupefacente in quantità ingente), per di più, fattispecie di reato che solo occasionalmente possono inserirsi nell’area dei reati-fine. Con la conseguenza che la lettura della espressione « criminalità organizzata » contenuta nel d.l. n. 306 del 1992 resta rigorosamente ancorata a criteri sociologici e criminologici che sono in grado di definire con sufficiente specificità il rapporto tra deroga alla disciplina generale e finalità della deroga stessa. 2.12. L’eccessiva genericità addebitata ad una simile definizione resta così agevolmente contestabile attraverso un rigoroso riscontro delle esigenze teleologiche che ne giustificano l’utilizzazione sempre nell’area della sua ontologica rispondenza al concetto di criminalità organizzata elaborato, non soltanto sul piano pregiuridico, ma anche in funzione di un lessico normativo che non aveva ancora assegnato un univoco valore semantico alla definizione stessa. Una precisazione di estremo rilievo in una materia direttamente presidiata sul piano costituzionale. Solo, dunque, una verifica di assoluta congruità della disciplina alle finalità
— 352 — perseguite dalla legge consente, infatti, una corretta interpretazione, alla stregua degli artt. 14 e 15 della Costituzione, del rispetto dell’inviolabilità del domicilio e della segretezza di ogni forma di comunicazione; considerando che nella materia delle intercettazioni, sia telefoniche sia ambientali, presupposto della stessa liceità delle captazioni è l’esistenza di un atto dell’autorità giudiziaria. Una garanzia ancor più rafforzata perché, pur trattandosi di operazioni riservate all’iniziativa ed all’ambito dei poteri del pubblico ministero, la loro esecuzione è comunque subordinata (salva l’ipotesi prevista dall’art. 267, comma 2, c.p.p., che non contraddice, però, alla riserva di giurisdizione) alla previa autorizzazione del giudice. — (Omissis).
II (Omissis). — In tema di interpretazione della norma di cui all’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991, inoltre, è stato precisato che occorre avere riguardo alla finalità della stessa allo scopo di qualificare un reato come di « criminalità organizzata », così da poter definire tale concetto nell’area delle attività criminose più diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti che, per la commissione di più reati, abbiano costituito un apparato organizzativo, la cui struttura assume un ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti (Cass. pen, Sez. VI, 4 marzo 1997, n. 7, ric. Pacini Battaglia). — (Omissis).
——————— (1-2)
Le intercettazioni ambientali in relazione alla normativa del 1991 sui reati di criminalità organizzata.
Le sentenze della Suprema Corte n. 7 del 7 gennaio 1997 e n. 1972 del 16 maggio 1997 vertono entrambe sulla stessa materia e cioè sull’ambito di applicazione e limiti di ammissibilità delle intercettazioni ambientali. Prima di passare ad affrontare tale argomento, occorre brevemente soffermarsi sulla questione, che la Corte peraltro risolve positivamente, se il ricorrente possa avanzare le stesse censure proposte in sede di riesame del provvedimento custodiale del giudice delle indagini preliminari del tribunale di La Spezia, sulle quali si è espressa definitivamente la Suprema Corte con la prima sentenza (1). In realtà la Corte non ritiene operante la preclusione derivante dal precedente giudicato, in quanto, in materia cautelare, il provvedimento adottato dal giudice competente ex art. 27 c.p.p. è completamente autonomo e non può essere definito di conferma o reiterazione rispetto al precedente ad effetti interinali del giudice incompetente. Il giudice competente gode infatti di un’autonomia piena nella valutazione delle condizioni richieste e degli elementi posti a fondamento della misura cautelare, ed inoltre anche ove difettassero elementi nuovi sopravvenuti (e quindi la decisione si basasse sui medesimi fatti), egli non sarebbe tenuto a reiterare la misura cautelare. La Cassazione risolve poi rapidamente la censura in ordine all’omesso depo(1)
Cass. pen., 7 gennaio 1997, n. 7.
— 353 — sito degli originali o di copia autentica degli atti posti a fondamento della misura, sostenendone la mera valenza endoprocedimentale e, pertanto, la piena libertà di forme (principio che può agevolmente dedursi dall’art. 234 c.p.p. e dalla direttiva n. 1 della legge delega, ove stabilisce « la massima semplificazione processuale con eliminazione di ogni atto non essenziale ») (2), e quindi passa ad occuparsi della validità ed ammissibilità delle intercettazioni ambientali disposte alla stregua dell’art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (3). La « criminalità organizzata » secondo l’interpretazione giurisprudenziale. — L’art. 13 del decreto legge in questione prevede una deroga all’art. 267 c.p.p. nel caso in cui l’intercettazione di cui all’art. 266 c.p.p., autorizzata con decreto motivato, sia « necessaria per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata... » e continua affermando che l’intercettazione è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. si stia svolgendo attività criminosa. Ciò che viene in rilievo è dunque l’espressione normativa « delitti di criminalità organizzata », la cui portata risulta di fondamentale importanza per l’esatta interpretazione della disciplina in esame. Nella seconda censura, il ricorrente lamenta infatti l’assenza di tale presupposto da cui scaturisce la conseguente inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali. Il ricorrente, in realtà, si sforza, in omaggio al principio di stretta legalità, di circoscrivere l’ambito di operatività di tale categoria tramite un riferimento analitico a specifiche ipotesi di reato. Delitti di criminalità organizzata, alla stregua di questa interpretazione, sarebbero i reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., escludendo da tale categoria quelli contemplati dall’art. 372, comma 1-bis, c.p.p., in quanto tale norma non comprende necessariamente i delitti in questione. orientamento questo che si ritiene confermato dal disposto degli artt. 54-ter, c.p.p., e 371-bis, comma 3, lett. c), c.p.p. La Suprema Corte, nel rigettare tale motivo di ricorso, si preoccupa di individuare la valenza giuridica dei delitti di « criminalità organizzata ». Invero, la stessa Cassazione, dapprima orientata a fornire un’analitica individuazione tramite puntuali riferimenti codicistici, sembra poi cambiare orientamento volgendosi ad un’interpretazione ermeneutica incentrata sul dato teleologico. In un primo momento il Collegio, ponendo l’attenzione sulla insopprimibile esigenza di tutela della libertà personale, che può essere compressa solo in ipotesi tassativamente previste, finisce, del pari tassativamente, per elencare i reati compresi nella categoria in esame come quelli di cui agli artt. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., 372, comma 1-bis, c.p.p. e 54 c.p.p. Ma il concetto di criminalità organizzata sembra, alla luce di un successivo orientamento, esulare dalle angustie in cui era stato confinato. Ed anzi la stessa Suprema Corte si sforza di ampliare tale concetto svincolandolo da quella interpretazione che lo voleva strettamente connesso ad una organizzazione stabile e radicata nel territorio, finendo così per ricomprendere nella categoria « reati di criminalità organizzata » sia i reati associativi che le ipotesi di concorso ove vi sia un’articolata suddistinzione di compiti tra coloro che collaborano per raggiungere il medesimo obiettivo antigiuridico. Ma c’è di più: ricordando una precedente pronuncia del 1980, la Cassazione delinea il modello interpretativo cui riferirsi per individuare i reati che rientrano nella categoria in esame. In realtà l’espressione « criminalità organizzata » sembra assumere un diverso significato a seconda della finalità della norma di volta in volta considerata. E comunque « il fatto che l’espressione criminalità organizzata (2) Cass. pen., 27 aprile 1994, La Torre, in CED 200375. (3) Convertito dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, successivamente modificato dall’art. 3-bis del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla l. 7 agosto 1992, n. 306.
— 354 — possa assumere un diverso significato in rapporto alla particolare tipologia del trattamento processuale, non deve disorientare; pure se il raccordo tra le singole disposizioni che alla nozione direttamente o indirettamente si riferiscono è necessario si caratterizzi di connotazioni specifiche, tanto da qualificarsi come la risultante di un procedimento interpretativo estremamente rigoroso » (4). I delitti di criminalità organizzata nelle disposizioni codicistiche. — La Corte procede poi ad un excursus storico sui reati di criminalità organizzata, partendo dalla prima volta in cui tale espressione viene utilizzata nel linguaggio legislativo (5), fino ad approdare all’attuale disciplina codicistica. Nonostante le difficoltà nascenti dal succedersi delle varie stesure che, inevitabilmente, hanno apportato una serie di varianti, è possibile individuare due distinte categorie di delitti che rientrano nel concetto di « criminalità organizzata ». Più precisamente, a seguito del d.l. 20 novembre 1991, n. 367, istitutivo della procura nazionale antimafia, sono stati introdotti nel codice gli artt. 54-ter e 51, comma 3-bis, c.p.p. che hanno delineato un concetto di criminalità organizzata in senso stretto, riferito ai delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 416-bis e 630 c.p. per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui al predetto art. 416bis ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti di cui all’art. 74 del T.U. sugli stupefacenti. Mentre una nozione di criminalità organizzata in senso lato si desume dall’art. 372, comma 1-bis, c.p.p. (novellato dall’art. 8 del d.l. n. 292 del 1991) che si riferisce ai delitti previsti dagli artt. 270-bis, 280, 285, 286, 289-bis, 305, 306, 416, nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza, e 422 c.p. Prendendo ora in esame l’art. 51, comma 3-bis, una corretta interpretazione dello stesso dovrebbe essere volta a delimitare « l’ambito della criminalità organizzata alle sole fattispecie a carattere associativo qualificato » (6). A una tale ricostruzione sembrerebbe ostare l’art. 630 c.p. che si presenta « ambiguo » potendo far capo sia a vere e proprie fattispecie associative, sia ad organizzazioni circoscritte ed occasionali. Considerando la portata letterale dell’art. 54-ter c.p.p., qualsiasi dubbio resta fugato, in quanto esso riferisce il concetto di criminalità organizzata esclusivamente ai reati di cui all’art. 51, comma 3-bis, in cui è compreso anche il sequestro di persona a scopo di estorsione. Pertanto, escluse le ipotesi che ricadono nell’ambito dei reati di criminalità organizzata in senso stretto, per poter definire un reato come appartenente a tale categoria, è alla finalità della norma che occorre riferirsi. Perciò nel concetto in esame sono ricomprese le ipotesi più disparate purché « realizzate da una pluralità di soggetti, che per la commissione di più reati abbiano costituito un apparato organizzativo. Quei reati, quindi in cui la struttura organizzativa assume un ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti » (7). Anche a voler considerare un diverso elemento, e cioè il dato cronologico, sembra doversi desumere che la nozione di criminalità organizzata dell’art. 13, d.l. n. 203 del 1991, non si riferisce all’art. 54-ter c.p.p. (e cioè ai casi di criminalità organizzata in senso proprio), ma ad una nozione di criminalità organizzata intesa in senso finalistico. Infatti il decreto legge introduttivo del secondo capoverso del (4) Cass. pen., 7 gennaio 1997, n. 7. (5) Il termine sembra essere emerso per la prima volta nell’art. 14, d.l. 15 dicembre 1979, n. 625 (convertito nella l. 6 febbraio 1980, n. 15) che, modificando il terzo comma dell’art. 340 c.p.p., permise di delegare alla polizia giudiziaria l’esame di corrispondenza, atti e documenti presso banche, purché le indagini riguardassero specifici reati (tra cui quelli di « criminalità organizzata »). (6) Cass. pen. cit. (7) Cass. pen. in ultimo cit.
— 355 — comma 1, art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, è antecedente rispetto all’art. 54ter c.p.p., inserito in forza dell’art. 2, d.l. 20 novembre 1991, n. 367. Ciò induce a ritenere perfettamente legittima, e quindi valida e utilizzabile, la prova acquisita a seguito di intercettazione disposta adottando la disciplina dell’art. 13 al momento in cui la captazione viene richiesta e autorizzata, anche se, in prosieguo d’indagini, con valutazione ex post, si evinca che il reato per cui si procede è sussumibile sotto un diverso capo d’imputazione per il quale l’intercettazione stessa non sarebbe stata ammissibile. Il sindacato di merito sulla normativa utilizzata risulta perciò limitato a censure concernenti macroscopiche violazioni della disciplina legislativa che inducano a prospettare « un uso surrettizio delle modalità della captazione stessa » (8). Interpretazioni dottrinali. — Lo sforzo ermeneutico volto a sceverare il significato dell’espressione criminalità organizzata ha occupato anche la dottrina, la quale, pur rendendosi conto della fondamentale importanza racchiusa in una corretta interpretazione di tale formula normativa, non è però riuscita a raggiungere un’univoca conclusione. Le teorie prospettate dalla dottrina, davvero numerose, possono ricomprendersi in due gruppi. Ad un primo gruppo appartengono le tesi di quanti non riconducono l’espressione in esame a specifiche disposizioni normative, ma si rifanno ad un piano meramente descrittivo. Così taluno ha ritenuto di poter qualificare di « criminalità organizzata » tutti i reati « che necessariamente presuppongono l’esistenza di un livello alto di capacità criminale di chi ne è responsabile » (9); altri invece si sono riferiti ai reati « che in qualsiasi modo siano collegabili, a qualsiasi titolo, ad associazioni criminali o alle attività di tali associazioni » (10); altri ancora hanno considerato tutte le ipotesi « di concorso di persone nel reato allorquando vi sia comunque una suddivisione di compiti al fine di collaborare al raggiungimento del medesimo obiettivo antigiuridico » (11). Appare evidente che le definizioni suesposte forniscono una nozione piuttosto sfumata ed incerta di « criminalità organizzata », tale concetto sembra infatti essere ancorato ad un piano socio criminologico, ove può tollerarsi l’uso di categorie poco tassative, più che ad un piano ordinamentale, ove più pregnante è l’esigenza di specificità (12). Senz’altro preferibili sono quindi le tesi di quanti si sforzano di riferire il concetto a delitti tassativamente previsti. Un primo tentativo fu nel senso di guardare all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. che ha dato attuazione alla direttiva 48 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, la quale prevedeva una durata delle indagini preliminari sino a due anni « in caso di processi per criminalità organizzata ». Ma tale impostazione è ormai quasi abbandonata poiché la lett. a) dell’art. 407 c.p.p. è stata radicalmente modificata dall’art. 6, comma 3, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, n. (8) Cass. pen. cit. (9) A. SPATARO, Le intercettazioni telefoniche: problemi operativi e processuali, in Quaderni C.S.M., 1994, n. 69, pag. 137. (10) M. MADDALENA, I problemi pratici delle inchieste di criminalità organizzata nel nuovo processo penale, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 83. (11) D. MANZIONE, Una normativa d’emergenza, pag. 852. (12) Ma, vedi contra: G. MELILLO in Cass. pen., dicembre 1997, pag. 1930, il quale afferma che « Ben si comprende la indispensabilità del ricorso alle categorie socio-criminologiche, le quali definiscono con sufficiente specificità, attraverso il riflesso normativo delle specifiche fattispecie incriminatrici, « il rapporto tra deroga alla disciplina generale e finalità della deroga stessa »; ove, peraltro, l’autore sembra abbracciare, senza nulla aggiungere, la tesi « finalistica » (su riportata) della Cassazione.
— 356 — 356 (13), per cui sarebbe difficile ritenere che la novella sia anch’essa vincolata alle direttive della legge delega. Bisognerebbe quindi guardare al testo originario dell’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., cioè ad una norma che il legislatore ha mostrato di ritenere superata (14). Impostazioni più recenti riferiscono il concetto di « criminalità organizzata » ai reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis c.p.p. (15), oppure in aggiunta a questi reati anche a quelli di cui all’art. 372, comma 1-bis, c.p.p. (16). Vi è poi chi opta per una posizione intermedia ritenendo i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. come di « criminalità organizzata in senso stretto », mentre quelli di cui all’art. 372, comma 1-bis, c.p.p. come di « criminalità organizzata in senso lato » (17). In omaggio ad una interpretazione rigorosa, che miri a circoscrivere l’ambito di applicazione della norma ad ipotesi tassativamente previste, sembra doversi preferire la prima delle tesi su riferite. Ciò è suffragato da vari elementi: innanzi tutto l’art. 371-bis, comma 3, lett. c), c.p.p. (18) disciplinante le funzioni del procuratore nazionale antimafia, dispone che costui « provvede all’acquisizione e all’elaborazione di notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata », e (il comma 1 dello stesso articolo) che quest’organo esercita le proprie funzioni « in relazione ai procedimenti indicati nell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. Ed inoltre nel 1992, con la stessa disposizione (19) il legislatore ritenne, da un lato, ammissibili le intercettazioni ambientali « quando si tratta di agevolare le ricerche di un latitante in relazione ad uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3bis », e, dall’alto, stabilì presupposti meno rigorosi di quelli ordinari, per le intercettazioni ambientali disposte in un « procedimento di criminalità organizzata ». ll fatto che il legislatore abbia in un caso indicato in modo specifico i reati cui si riferiva e, nell’altro, si sia espresso con una formula ambigua, non sembra esser dipeso dalla volontà di differenziare l’ambito applicativo dei due istituti, ma da una diversa ragione. Nelle intercettazioni per la ricerca del latitante, il legislatore poteva fare esplicito riferimento alle ipotesi delittuose considerate dalla norma in quanto « si trattava di intervenire su un articolo vergine, che ancora non faceva riferimento alcuno a fenomeni criminal-associativi » (20), mentre nelle intercettazioni come mezzi di ricerca della prova la modifica veniva ad inserirsi in un articolo che già parlava di « criminalità organizzata » (21). Pertanto è ragionevole de(13) E, successivamente, dall’art. 21, comma 1, l. 8 agosto 1955, n. 332, ma questa volta solo per effetto della contestuale riscrittura dell’art. 275, comma 3, c.p.p., cui la citata lett. a) dell’art. 407, nella sua seconda versione, faceva rinvio. (14) Inoltre, la menzionata direttiva 48 prevedeva un termine di due anni sia per i processi di criminalità organizzata, sia per « ipotesi eccezionali specificamente indicate »: se non si vuole apoditticamente affermare che queste « ipotesi eccezionali » si sono tradotte solo nelle successive lettere b), c), d), dell’art. 407, diventa arduo stabilire quali, tra i reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), siano da riportare alla prima oppure alla seconda delle previsioni della direttiva 48. Perciò l’art. 407 non è un segnale particolarmente utile a questi fini. In A. CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Giuffrè, 1995, pag. 85. (15) O. LUPACCHINI, La definizione legislativa di criminalità organizzata in Giust. pen., 1992, I, c. 183 ss. (16) P.L. VIGNA, Le nuove indagini preliminari nei procedimenti per delitti « di criminalità organizzata », in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, pag. 74. (17) G. CONSO, La criminalità organizzata nel linguaggio del legislatore, in Giust. pen., 1992, III, c. 391. L’autore non affronta, peraltro, il tema delle intercettazioni in modo specifico, cosicché dubbi rimangono in ordine al se, in tale ambito si debba fare riferimento alla criminalità organizzata « in senso stretto » o « in senso lato ». (18) La norma è stata inserita nel c.p.p. dall’art. 7, d.l. 20 novembre 1991, n. 8. (19) Art. 3-bis della l. 7 agosto 1992, n. 356. (20) A. CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, cit., pag 87. (21) Si tratta dell’art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152.
— 357 — durre che il legislatore abbia introdotto una normativa più snella di quella ordinaria per lo stesso tipo d’indagini (22). Sembra quindi potersi concludere che la disciplina derogatoria introdotta dal decreto legge in esame (23) possa applicarsi nei soli casi previsti dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. Arbitrium iudicis o tassatività? — Alla luce di quanto su esposto sembra utile soffermarsi su alcune osservazioni conclusive. La disciplina delle intercettazioni ambientali di cui all’art. 266, n. 2, c.p.p. risulta improntata a specifiche cautele, in quanto il sistema di captazioni ivi previsto si presta, proprio per le modalità particolarmente intrusive nella sfera privata (24), ad essere lesivo di diritti costituzionalmente garantiti. È per tale ragione che il legislatore ha introdotto presupposti rigorosi per l’applicazione di questo articolo in modo da rendere lo stesso perfettamente rispondente al principio di tassatività. Per quanto riguarda invece la disciplina derogatoria introdotta dall’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991, sorgono problemi di non poco momento. In primo luogo l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, effettuata alla stregua del d.l. in esame, affievolisce i presupposti della stessa captazione sotto un triplice punto di vista: indizi meno convincenti di quelli richiesti in via ordinaria (si passa da « gravi » a « sufficienti »); spostamento verso i primi passi delle indagini preliminari (da « assolutamente indispensabili per proseguire le indagini », le intercettazioni diventano ammissibili se « necessarie per lo svolgimento delle investigazioni »); abolizione del principio di « sussidiarietà » delle intercettazioni medesime (parlare di « svolgimento » vuol dire tendere a fare delle intercettazioni lo strumento d’avvio dell’attività investigativa). In secondo luogo il regime derogatorio introdotto si riferisce al concetto di « criminalità organizzata » la cui connotazione giuridica risulta tanto sfumata quanto fondamentale. In realtà l’arretramento delle garanzie si spiega con l’esigenza di potenziare il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, restituendo loro importanti strumenti investigativi: le caratteristiche organizzative del fenomeno mafioso e camorristico, la forza intimidatrice di queste associazioni e la piaga dell’omertà (che rende malsicure le fonti di prova testimoniali) spingono gli inquirenti ad utilizzare i così detti atti a sorpresa. Ma se tale esigenza è giustificabile non si può del pari disconoscere che siffatto orientamento suscita forti riserve sul piano delle garanzie poste a difesa delle libertà personali. Ed infatti, qualora si accogliesse un’interpretazione « ampia » del termine « criminalità organizzata », come fa la giurisprudenza su riportata e parte della dottrina che si basa su un approccio sociologico, si potrebbero ricomprendere nella categoria un numero indefinito di reati. L’individuazione di ciò che è da intendersi come delitto di « criminalità organizzata » sarebbe lasciata alla discrezionalità del giudice, orientato solo dal dato teleologico (secondo l’interpretazione della Cassazione); pertanto potrebbero profilarsi dubbi di (22) Ma, contra, G. MELILLO, in Cass. pen., cit., pag. 3518, il quale a sostegno della tesi che esclude la coincidenza dei delitti di criminalità organizzata con quelli di cui all’art. 51, comma 3-bis, adduce il fatto che « sul piano letterale, la specificità della formula adottata dall’art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152 e inequivoca, specie se considerata, dal punto di vista sistematico, alla luce dell’innesto riformatore dell’art. 3-bis cpv. d.l. n. 306 dell’8 giugno 1992, con il quale il legislatore, nel delimitare l’ambito della rimozione del presupposto delle intercettazioni ambientali costituito dalla suspicio perdurantis criminis, ha accuratamente evitato ogni richiamo alla norma dell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.... ». Ove, tra l’altro, il citato art. 3-bis cpv. sembra doversi riferire non al d.l. 13 maggio 1991, n. 152, ma più correttamente alla legge di corversione dello stesso, l. 7 agosto 1992, n. 356. (23) Vedi nota 17. (24) L’intercettazione ambientale riguarda un dialogo riservato, (cioè non percepibile da estranei) di conseguenza è necessario che l’ascolto sia reso possibile da particolari congegni meccanici o elettronici; tra persone presenti; all’insaputa degli interlocutori (o di uno tra essi); infine l’iniziativa di solito proviene da un terzo e non da chi partecipa direttamente al colloquio.
— 358 — costituzionalità sotto il profilo del rispetto del principio di legalità e, più precisamente, di uno dei suoi corollari: la tassatività (25). Conseguenze inaccettabili deriverebbero, allora, sia sotto il profilo della salvaguardia dei cittadini dagli eventuali abusi del potere giudiziario: sia sul piano del diritto alla difesa, data la difficoltà di confrontarsi con un’imputazione ben precisa in assenza di una puntuale descrizione legale del fatto contestato (26). Ed inoltre, sotto diverso angolo prospettico, l’evanescenza della locuzione creerebbe il rischio, in un certo senso opposto, di divergenze interpretative tra il giudice delle indagini preliminari e quello dibattimentale, con la possibile conseguenza di un azzeramento delle prove. Ove invece si accogliesse, come si ritiene di dover accogliere, la tesi rigorosa di coloro che riferiscono il concetto in esame ai reati di cui all’art. 51, comma 3bis, c.p.p., non per questo resta fugato ogni dubbio. Infatti se è vero che « la scelta riduttiva » de qua si traduce nel recupero normativo del nucleo più genuino della concezione socio-criminologica della « criminalità organizzata », è del pari vero che resta indeterminato il concetto di « delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo », locuzione del pari contenuta nell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. (27). In realtà se ci si basa sul disvalore penale della norma richiamata, anche reati in concreto monosoggettivi possono ritenersi in essa compresi, ove la condotta delittuosa specifica sia ascrivibile al modus operandi dell’associazionismo mafioso, « secondo il duplice schema della ripetizione della metodologia tipica dell’agire mafioso, ovvero della finalizzazione all’agevolazione delle attività del sodalizio » (28). Tale interpretazione tende però ad allargare eccessivamente l’ambito dei reati cui si riferisce l’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., stante l’esigenza di adeguata e rigorosa valutazione delle esigenze di politica criminale poste a fondamento della novella del 1991 e dei successivi sviluppi (d.l. 8 giugno 1992, n. 306). In altri termini: neanche quest’ultimo articolo sembra formulato secondo quei criteri di rigorosa tassatività che la natura dei diritti coinvolti avrebbe richiesto. Si può pertanto concludere che nell’attuale contesto il problema centrale è quello di garantire la prova e il suo utilizzo processuale contro le intimidazioni, i ripensamenti, gli inquinamenti; rimane però sullo sfondo — ad alimentare dubbi e inquietudini — la questione di come garantire l’indagato rispetto a meccanismi probatori al cui snodarsi egli rimane estraneo. Ed allora l’interrogativo più pressante in tema di garanzie per l’accusato sembra essere non come salvaguardarle, ma fino a che punto sia consentito restringerle (29). CLAUDIA CARMONA Cattedra di Diritto Penale dell’Economia Università di Siena
(25) Nel parere formulato sul Progetto preliminaredalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, durante i lavori preparatori del codice, viene espresso il suggerimento di sostituire l’espressione, definita « troppo generica », di delitti di criminalità organizzata di cui alla lett. c) dell’art. 274 con formule maggiormente specifiche, sul modello di quella dell’art. 165-ter c.p.p. 1930; vedi, CONSO, La criminalità organizzata nel linguaggio del legislatore, in Giust. pen., 1992, III, c. 385 ss. (26) L’esigenza di una « effettiva osservanza del principio di tassatività » soprattutto poiché si tratta di « istituti direttamente connessi alla tutela di interessi costituzionalmente protetti » è ribadita anche da chi (G. MELILLO), in Riv., cit.) è contrario alla tesi della coincidenza dei delitti di criminalità organizzata con quelli ex art. 51, comma 3-bis, c.p.p. (27) Insieme al riferimento ai delitti di cui all’art. 416-bis e 630 c.p., nonché all’art. 74 del T.U. sugli stupefacenti e sostanze psicotrope. (28) G. MELILLO, in Riv, cit., pag. 3520. (29) Vedi: Giurisprudenza sistematica di diritto penale diretta ad F. BRICOLA, V. ZAGREBELSKY, UTET, 1995, pag. 163.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
A proposito del ‘‘caso Baraldini’’ (**) Strasburgo, 12 giugno 1998
CDPC (98) 19
COMITATO EUROPEO PER I PROBLEMI CRIMINALI 47a sessione plenaria Strasburgo, 8-12 giugno 1998 QUESTIONE ALL’ORDINE DEL GIORNO 26 - Composizione amichevole Osservazioni del CDPC (1) Le seguenti osservazioni sono state formulate dal CDPC sulla base dei fatti contenuti nell’Allegato, che è stato concordato da Italia e Stati Uniti. Osservazioni sulla Convenzione. — Il trasferimento ai sensi della Convenzione è questione rimessa alla discrezionalità, sebbene le Parti si siano impegnate a prestarsi la più ampia cooperazione reciproca possibile, allo scopo di facilitare i trasferimenti e di favorire così la buona amministrazione della giustizia e il reinserimento sociale delle persone condannate. La Convenzione contiene regole dettagliate quanto alle condizioni alle quali i trasferimenti possono essere richiesti ed eseguiti. In particolare, l’art. 9.3 chiarisce che, dopo il trasferimento, solo lo Stato di esecuzione è competente ad adottare ogni decisione in merito all’esecuzione della condanna. Mentre lo Stato di condanna può chiedere allo Stato di esecuzione informazioni sulle possibili modalità in cui la persona condannata, se trasferita, potrà essere trattata ai sensi delle leggi e delle procedure dello Stato di esecuzione, lo Stato di condanna non ha naturalmente titolo per chiedere assicurazioni vincolanti a questo riguardo. Osservazioni sui fatti. — Il CDPC ha preso atto che il problema di fondo riguarda la richiesta degli Stati Uniti di ricevere informazioni capaci di rassicurarli quanto alla durata e alla natura della pena che verrebbe scontata se X (2) fosse trasferita. Il CDPC rileva che, dipendendo la questione della durata dall’esercizio di valutazioni discrezionali, non può esservi certezza sull’effettiva durata della pena che X sconterebbe se ve(*) A cura di MARIO PISANI. (**) Se ne vedano i riferimenti in Ind. pen., 1992, p. 84 e p. 437; in questa Rivista, 1998, p. 1443. La traduzione del testo che qui si pubblica è stata curata da ELENA ZANETTI, a completamento della raccolta, per l’editore Giuffrè (coll. ‘‘Giustizia penale e problemi internazionali’’) in tema di trasferimento dei condannati (1999, pp. XII-276). (1) La sigla indica il Comitato europeo per i problemi criminali, al quale l’art. 23 della Convenzione per il trasferimento delle persone condannate affida il compito di fare ‘‘quanto necessario per facilitare la composizione amichevole di ogni difficoltà che può nascere per la sua applicazione’’. (2) È opportuno notare che nel documento non compare il nome dell’interessata (Baraldini), sostituito da una X.
— 360 — nisse trasferita — come pure non può essere certo che a X non sarà concesso il parole negli Stati Uniti prima del 2008, se rimanesse lì. L’Allegato tenta di prospettare gli scenari possibili nell’eventualità del trasferimento. Questi sembrano dimostrare che, qualunque di essi si verificasse, il periodo di detenzione che X verosimilmente sconterebbe in Italia non sarebbe poi molto dissimile dall’attesa data di rilascio negli Stati Uniti, supponendo che, nel frattempo, lì non sia concesso il parole. Il CDPC osserva che resta qualche incertezza nella giurisprudenza in Italia quanto al fatto che un condono della pena detentiva attualmente scontata nello Stato di condanna possa essere o meno concesso dallo Stato di esecuzione. Il rapporto esplicativo alla Convenzione (§ 49) sostiene che ogni condono ottenuto nello Stato di condanna sino alla data del trasferimento sarà già stato dedotto prima del trasferimento stesso. Al CDPC sembra quindi che una persona trasferita non abbia titolo per beneficiare due volte di tale condono. Quanto alla natura, il CDPC rileva che se X fosse trasferita, l’Italia applicherebbe una pena di natura simile a quella alla quale ella è sottoposta negli Stati Uniti — vale a dire la reclusione (imprisonment). Ciò è conforme all’art. 10.2 della Convenzione. Il CDPC osserva che esiste la possibilità, approssimativamente un anno dopo il trasferimento, che X possa beneficiare di condizioni di semidetenzione, subordinate a rapporti soddisfacenti dagli Stati Uniti in merito alla sua condotta mentre è stata detenuta lì. È questione che deve essere rimessa al giudizio degli Stati Uniti stabilire se la possibilità di esecuzione in questo modo, dopo che X ha scontato circa 17 anni, considerata la natura assai grave dei reati che ha commesso, soddisfi i requisiti congiunti, ai sensi della Convenzione, della buona amministrazione della giustizia e del reinserimento sociale di X. Il CDPC si augura che, sulla base dei fatti che sono stati stabiliti e delle osservazioni del CDPC stesso su quei fatti, i Governi di Italia e Stati Uniti saranno in grado di raggiungere un accordo capace di soddisfare gli interessi essenziali di entrambe le parti. Il CDPC resta disponibile, se necessario, per proseguire i propri sforzi in questo senso. ESPOSIZIONE DEI FATTI Le premesse. — Italia e Stati Uniti sono parti della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate. L’Italia ha chiesto al CDPC di tentare di favorire una composizione amichevole, in conformità con l’art. 23 della Convenzione, delle difficoltà sorte nell’applicazione della Convenzione stessa tra Italia e Stati Uniti. Nel 1983, X è stata condannata negli Stati Uniti a 43 anni di reclusione (imprisonment) per gravi reati. L’Italia ha per cinque volte richiesto invano il trasferimento di X ai sensi della Convenzione. Gli Stati Uniti e l’Italia condividono l’opinione che deve essere fatta giustizia; in particolare l’Italia riconosce le aspettative di giustizia degli Stati Uniti nei confronti di X, mentre gli Stati Uniti convengono che anche il punto di vista italiano, secondo cui la Convenzione richiede il reinserimento sociale della persona condannata, debba essere tenuto in considerazione. Fatti relativi all’esecuzione della pena negli USA. — Salvo che ottenga il parole, X sarà detenuta negli Stati Uniti sino a che non abbia scontato 25 anni di pena, cioè sino all’aprile 2008. X deve essere riesaminata ai fini del parole ogni due anni. Non è possibile affermare se ella potrà o meno beneficiare del parole; si tratta di una questione rimessa alla valutazione discrezionale del Parole Board. Gli unici altri due modi in cui la pena potrebbe essere ridotta negli Stati Uniti sono un’istanza alla trial court per ridurre la pena stessa e la grazia (presidential pardon). Fatti relativi all’esecuzione della pena in Italia se X fosse trasferita. — L’Italia applica la procedura prevista dall’art. 9, § 1.a della Convenzione (continuazione dell’esecuzione
— 361 — della condanna). Perciò, qualora X fosse trasferita in Italia, l’Italia continuerà l’esecuzione della pena americana. L’Italia è perfettamente consapevole di essere vincolata alla natura giuridica e alla durata della pena come è stata stabilita dagli Stati Uniti. Tuttavia, se la pena americana fosse incompatibile, per natura o durata, con la propria legge interna, l’Italia potrà adattare la sanzione alla pena o altra misura prevista dalla propria legge interna per un reato dello stesso tipo. La natura della pena americana (ossia l’imprisonment) non è incompatibile con la legge italiana, perciò l’Italia continuerebbe l’esecuzione della pena con la reclusione (imprisonment). La durata della pena americana (43 anni) non è compatibile con la pena massima che può essere inflitta in Italia per il tipo di reati per i quali X è stata condannata, che sarebbe di 30 anni. L’Italia adatterebbe perciò la durata della pena, come previsto dall’art. 10.2, fissandola in 30 anni. Di conseguenza, se X fosse trasferita in Italia, ella sconterebbe quanto rimane di una pena di 30 anni di reclusione, dedotti (a) il periodo di detenzione già espiato negli Stati Uniti e (b) ogni detrazione di pena che X può ottenere ai sensi della legge italiana. La detrazione accennata non può, per legge, eccedere 45 giorni per ogni semestre. Inoltre, ai sensi della legge italiana, X non sarebbe ammessa alla liberazione condizionale sino a che il rimanente della pena da scontare non superi i 5 anni. Scenari possibili. — Se X fosse trasferita in Italia, i possibili modi in cui potrebbe essere trattata sono i seguenti: a) scontando in carcere l’intero periodo residuo di 14 anni (1998-2012); b) beneficiando della detrazione massima (45 giorni per ogni semestre), scontando in carcere 11 anni e 1/2 (1998-2010); c) scontando in carcere 11 anni ed essendo poi scarcerata, sia in semilibertà (probation), sia in detenzione domiciliare (1998-2009); d) beneficiando della liberazione condizionale, scontando in carcere 9 anni (19982007); e) beneficiando sia della detrazione massima (45 giorni per ogni semestre) che della liberazione condizionale, scontando in carcere 7 anni e 1/4 (1998-2005). Ogni valutazione discrezionale in tema di benefici e modificazioni del trattamento penitenziario rientra nei poteri del competente Tribunale di Sorveglianza. Effettivamente, in Italia la giurisprudenza è divisa nell’interpretazione delle norme applicabili, poiché alcuni giudici tengono conto della pena scontata all’estero nel calcolare il condono, mentre altri non lo fanno. Anche ove il giudice consideri il periodo che X ha già scontato all’estero, ciò potrebbe essere fatto soltanto se le autorità statunitensi abbiano fornito informazioni idonee sulla condotta di X in carcere negli Stati Uniti. Le condizioni in cui X — come ogni altra persona condannata in Italia — sconterebbe la pena verrebbero determinate e controllate dal competente Tribunale di Sorveglianza. Se il Tribunale di Sorveglianza ravvisasse che X è ancora legata a gruppi terroristici, X non potrebbe essere ammessa ad alcun tipo di beneficio (condono, semilibertà, liberazione condizionale, trattamento penitenziario speciale, etc.). Su richiesta di X, il Tribunale di Sorveglianza, dopo aver ricevuto dagli Stati Uniti informazioni relative al comportamento di X in carcere, potrebbe autorizzarla a scontare la pena in carcere, consentendole però di lasciare l’istituto, da sola, durante le ore lavorative, al fine di svolgere un lavoro all’esterno. Il Tribunale di Sorveglianza in genere impiega più di un anno per completare questa procedura. In linea con gli altri sistemi penitenziari europei, a determinate condizioni, si possono concedere permessi per brevi periodi. In Italia non esiste altro modo in cui la pena potrebbe essere ridotta, eccetto la grazia (presidential pardon - grace).
— 362 — Nell’esperienza del Parlamento italiano successiva alla II Guerra Mondiale non esistono casi di indulto parziale (there has been no instance in which it granted pardon). L’estradizione di Gelli da Aix-en-Provence. Col supporto del verbale d’udienza pubblichiamo, in versione italiana, il testo della sentenza emessa il 7 ottobre 1998 (n. 80/98) dalla 16a Chambre d’Accusation della Corte d’appello di Aix-en-Provence (presid. Le Bourdon, consiglieri Blin e Robin) nei confronti di Licio Gelli, nato a Pistoia il 21 aprile 1919 (nazionalità: italiana; professione [dichiarata]: scrittore), con l’assistenza dell’avvocato M.me Gorra, di Beausoleil. ‘‘Oggetto: Richiesta d’estradizione presentata dal Governo italiano. Con l’assistenza dell’interprete (...) il presid. Le Bourdon ha interrogato l’estradabile, che ha risposto alle diverse domande rivoltegli. Ha svolto la sua requisitoria l’avvocato generale Pascal. Su sua domanda, il difensore dell’estradabile ha presentato brevi osservazioni. Comparendo all’udienza in applicazione dell’art. 199.4 c.p.p., l’estradabile è stato ascoltato ed ha avuto la parola per ultimo. Chiuso il dibattimento, la Chambre d’Accusation ha deliberato in camera di consiglio, senza la presenza del P.M., del cancelliere, del difensore, dell’estradabile e dell’interprete. Il Presidente Le Bourdon ha letto la seguente sentenza all’udienza pubblica del 7 ottobre 1998: — vista la richiesta di estradizione del Governo italiano; — visto l’interrogatorio finale presso l’ufficio della Procura Generale in data 5 ottobre 1998; — vista la requisitoria scritta del Procuratore Generale in data 6 ottobre 1998; — visto l’interrogatorio davanti alla Chambre d’Accusation in data 7 ottobre 1998; — visti gli atti della Procura dai quali risulta che il Procuratore Generale ha formulato il suo parere a mezzo di lettere raccomandate del 6 ottobre 1998 trasmesse alle parti interessate in conformità dell’art. 197 c.p.p.; — atteso che sono stati osservati le forme e i termini prescritti da tale disposizione; — vista la richiesta di estradizione presentata dal Governo italiano in base alla Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957; [premesso che] Licio Gelli, di nazionalità italiana, è stato incarcerato per motivi di estradizione l’11 settembre 1998 su ordine del Procuratore della Repubblica di Nizza a seguito di una richiesta di estradizione da parte delle autorità italiane, in esecuzione: 1o) di un’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Roma (Italia), sez. 9a penale, in data 8 maggio 1998, per fatti di: — associazione a delinquere per la commissione di diversi delitti, più precisamente: bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale, falso in bilancio, truffa, delitti fiscali, appropriazione indebita, commessi a Roma, Milano, e comunque sul territorio italiano e all’estero fino al marzo 1997; — concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, commessi a Roma, fino a marzo 1997; 2o) di una sentenza della Corte d’appello di Milano in data 10 giugno 1996 contenente condanna a 12 anni di reclusione per concorso in bancarotta, decisione definitiva (rigetto del ricorso mediante sentenza della Corte di cassazione, 5a sezione penale, in data 22 aprile 1998). Il Pubblico Ministero ha espresso parere favorevole alla presente domanda di estradizione. Non sono state depositate memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Licio Gelli ha riconosciuto di essere la persona indicata negli atti allegati alla richiesta di estradizione.
— 363 — Per nessuna delle procedure viene opposto che i reati presi in considerazione abbiano carattere politico. Tutti i fatti in discorso costituiscono reati puniti dalla legge francese e sono sanzionati con pene la cui durata corrisponde al livello di pena fissato dall’art. 2 § 1 dell’allegato contenente le riserve della Francia al momento della ratifica della Convenzione europea di estradizione (*). Licio Gelli ha dichiarato di rinunciare al compimento delle formalità diplomatiche ed ha consentito alla consegna alle autorità italiane. La richiesta di cui la Corte si trova investita è regolare nella forma ed ha per oggetto dei reati che hanno il loro equivalente in diritto francese. È dunque appropriato dare atto a Licio Gelli del consenso che ha presentato alla Corte. P.Q.M.. — La Chambre d’Accusation — (...) visto l’art. 13 della legge 10 marzo 1927 — vista la Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957; prende atto che Licio Gelli rinuncia al compimento delle formalità diplomatiche e chiede di venir consegnato alle autorità italiane (...) ordina che la presente sentenza venga eseguita a cura del Procuratore Generale’’. (Omissis). Doppia punibilità e diritto intertemporale. È avvenuto di frequente, nei rapporti tra l’Italia e la Confederazione Elvetica, che quest’ultima, in forza del criterio della ‘‘doppia punibilità’’, negasse la cooperazione nelle ipotesi prospettate dal nostro Paese a titolo di associazione per delinquere. E ciò per la mancanza, nel Paese richiesto, di fattispecie omologhe alle nostre. Va però tenuto presente che, col 1o agosto 1994, nella Confederazione è entrato in vigore il nuovo art. 260-ter c.p., che configura il reato di ‘‘organizzazione criminale’’ (**). È venuto quindi a porsi un problema di diritto intertemporale, la cui soluzione viene così incidentalmente riepilogata (sub 3, aa) in una recente decisione — 20 novembre 1997 — del Tribunale Federale Svizzero (presid. Aemissegger, giudici Jacot-Guillarmod e Catenazzi): ‘‘... secondo la giurisprudenza del Tribunale federale, sia nell’ambito della cosiddetta assistenza accessoria che in quello dell’estradizione, il diritto in vigore al momento della decisione sulla domanda è determinante anche per stabilire, ove ciò sia necessario, se sussista il requisito della doppia punibilità: se il fatto perseguito è punibile si determina quindi secondo il diritto penale in vigore nello Stato richiesto al momento della decisione sulla domanda di estradizione e non sulla scorta di quello vigente al momento della commissione del fatto. Così l’estradizione dev’essere accordata se il fatto — punibile nello Stato richiedente — non lo era nello Stato richiesto al momento in cui è stato commesso, ma lo è divenuto, come nella fattispecie, per una modifica del diritto interno, prima della decisione sulla domanda. In tale momento la misura coercitiva non è infatti più diretta contro una persona innocente; né è leso il precetto per cui la legge penale non ha effetto retroattivo, poiché il diritto all’assistenza e all’estradizione è da equiparare alla procedura penale, alla quale il principio di non retroattività è estraneo (DTF 112 Ib 576 consid. 2 pag. 584, 109 Ib 60 consid. 2; SCHULTZ, Das schweizerische Auslieferungsrecht, 1953, p. 323). Di conseguenza, i fatti associativi rimproverati al ricorrente — al momento della decisione sulla domanda di estradizione — sarebbero punibili anche nel diritto svizzero, segnatamente giusta l’art. 260-ter c.p.’’. (*) ‘‘... peine (...) d’un maximum d’au moins deux ans’’ (v. PISANI-MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 393). (**) Se ne veda il testo in Ind. pen., 1995, p. 341.
— 364 — Blocchi delle rogatorie, corsie preferenziali, prescrizioni. In una lettera-esposto ad un importante quotidiano (Priore: No a corsie preferenziali sulla questione delle rogatorie, in Corriere della Sera del 1o aprile 1998, p. 5) il dott. Rosario Priore, Giudice Istruttore presso il Tribunale di Roma (e, come tale, rappresentante di una species giudiziale da un decennio destinata all’estinzione...), spezza una lancia ‘‘in pro di quelle inchieste, nelle quali i termini di prescrizione decorrono e s’approssimano, principalmente a causa di blocchi nelle esecuzioni di importanti rogatorie’’. Ed aggiunge il mittente della lettera-esposto: ‘‘Non le parlerò ovviamente delle rogatorie nel procedimento di Ustica (*), per non sentirmi accusato di un privato interesse in queste mie richieste — procedimento peraltro in cui stanno maturando, e sono maturate, gravissime prescrizioni anche per mancate esecuzioni di commissioni rogatorie, da parte di paesi vincolati al nostro da rapporti di amicizia o di interessi commerciali; rogatorie che attengono ovviamente alla ricostruzione di una delle stragi più gravi e la cui esecuzione darebbe di certo un contributo notevole al progresso dell’inchiesta. Non le parlerò di queste rogatorie, ma delle infinite altre, che purtroppo non ricevono risposte, in tanti processi per reati gravissimi, né vengono poste in corsie preferenziali o ricevono avalli prestigiosi capaci di immediati sblocchi — anche se in occasione di discussioni e stipule di accordi; ma tutti sappiamo quanto sarebbero utili, ad esempio, incontri e trattati con la Libia. Gli inquirenti in tutti questi casi si sono attenuti alle regole e, sempre attenendosi alle regole, senza clamori di stampa, attendono gli esiti delle loro richieste. Certo, nel caso ultimo non si è dato ascolto a pubbliche invocazioni né vi sono state petulanze o pressioni. Importante sarebbe però che neanche sorgessero sospetti di tal genere. Almeno nelle rogatorie sarebbe bene che non vi fossero particolari corsie o speciali interventi, e che il titolare della Grazia e Giustizia, ed anche degli Affari Esteri — perché a costui spetta il dovere di denunciare gli Stati inadempienti — osservassero, anche per fugare quei malevoli sospetti, una sostanziale parità tra le inchieste, graduando le attività per le rogatorie solo in proporzione della gravità dei delitti per cui si procede’’. Trasferimento dei detenuti e non riformabilità in peius del trattamento punitivo straniero. 1. Questa la fattispecie, così come la ricaviamo dalla massima tratta da Cass., Sez. I, 28 febbraio 1997, ric. Giacon, in Cass. pen., 1998, p. 2690, n. 1516: condanna, in Austria, a tre anni di reclusione (per truffa aggravata); successiva concessione, da parte dell’autorità giudiziaria di quel Paese, della sospensione condizionale degli ultimi sei mesi di detenzione, per effetto di un provvedimento di amnistia austriaco del 1995; diniego, in sede di riconoscimento della sentenza da parte dell’autorità italiana, dell’operatività di quel beneficio. La giustificazione di quel diniego, da parte della nostra Corte d’appello, era fondata — si fa notare nella ‘‘massima’’ — ‘‘sul rilievo della sua sostanziale natura di indulto parziale’’ e, inoltre, sul rilievo ‘‘dell’esclusione di quest’ultimo beneficio dal novero di quelli che, in virtù dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate, possono trovare applicazione nello Stato di espiazione della pena’’. A sostegno di tale ultima premessa il giudice di merito ben avrebbe potuto fare richiamo ad una precedente presa di posizione della stessa sezione della Corte di legittimità (Sez. I, 22 maggio 1994, ric. P.M. in c. Pileggi, in Giust. pen., 1995, II, c. 292, n. 157), alla stregua della quale, non facendosi menzione, nella citata Convenzione di Strasburgo, del beneficio dell’indulto, questo non può trovare applicazione in caso di trasferimento in Italia di soggetto condannato all’estero. Alla stessa stregua v., con riferimento all’omologo trattato Italia-Thailandia, Cass., Sez. VI, 7 ottobre 1994, ric. Falci, in Arch. n. proc. pen., 1995, 715). (*) 681.
Sul tema v. Il caso di Ustica: 60 rogatorie internazionali, in Ind. pen., 1993, p.
— 365 — Si tratta peraltro, come s’è cercato di dimostrare in altra occasione (Convenzione sul trasferimento dei condannati ed indulto, in Ind. pen., 1996, p. 102), di tesi infondata. 2. Va ad ogni modo precisato che, questa volta, la Cassazione non tanto si esprime in ordine al problema testuale e sistematico più particolarmente riguardante l’indulto, ma piuttosto, ed in linea generale, fissa il seguente principio: ‘‘L’adattamento della pena inflitta con la sentenza straniera riconosciuta in Italia deve essere eseguito rispettando la decisione straniera con riferimento al complessivo trattamento che, in virtù di tale titolo e nell’ambito della relativa disciplina, è comminato (rectius: è applicato) al soggetto: di modo che tale trattamento non può essere più grave di quello che sarebbe di spettanza sulla base della normativa straniera. Ne consegue che in Italia deve detrarsi dalla pena inflitta il periodo relativo a qualsiasi beneficio concesso dall’autorità straniera’’. Sulla base della ‘‘massima’’ non è dato ricavare quale sia la più precisa base logico-sistematica della formulazione di un tale ‘‘principio’’, che — nella sua caratterizzazione di tipo genericamente equitativo — è parso idoneo a far superare tout court la precedente giurisprudenza. Sulla difficile cooperazione internazionale tra Svizzera e Federazione russa (il caso Dogaev). La vicenda dell’ex-ministro russo, fatta oggetto della nostra nota apparsa sul fasc. 3/1998, p. 1059, ha offerto ulteriori e ragguardevoli sviluppi. 1. Ricordiamo che, con sentenza del 17 aprile 1997, il Tribunale Federale elvetico aveva accordato l’assistenza giudiziaria richiesta subordinatamente, però, al previo rilascio di una cospicua serie di garanzie di carattere processuale secondo gli standards consolidati dei diritti dell’uomo, e con riserva di una serie di controlli circa la loro effettività. Con lettera 5 agosto 1997, diretta all’Ufficio Federale di Polizia elvetica, il vice-procuratore generale della Federazione russa faceva richiamo alle esigenze di tutela prospettate da parte elvetica, precisando che le medesime ‘‘sono in conformità con la Costituzione, il codice penale e il codice di procedura penale della Federazione russa’’. L’Ufficio Federale di Polizia elvetico ne prendeva atto, e, con decisione 5 novembre 1997, riteneva che tale risposta integrasse, alla stregua dell’art. 80 p. al. 3 della legge federale elvetica sulla cooperazione internazionale in materia penale, un ‘‘impegno sufficiente in ordine al rispetto delle condizioni richieste’’. Da Mosca, e mediante ricorso di diritto amministrativo, l’ex-ministro Dogaev reagiva chiedendo l’annullamento di questa decisione, e chiedendo altresì che si imponesse allo Stato richiedente ‘‘un ultimo e breve termine per fornire le garanzie richieste’’. In accoglimento di tale ricorso, con decisione 22 dicembre 1997 il Tribunale Federale sosteneva l’inadeguatezza, sotto il profilo delle garanzie e dei correlativi controlli, della mera constatazione di una conformità delle garanzie al diritto interno, in mancanza di un impegno formale e, tenuto conto, in particolare, delle prospettate difficoltà del ricorrente a comunicare in Russia col suo difensore, stabiliva che l’Ufficio Federale dovesse richiedere un nuovo termine per l’adempimento di quanto richiesto. 2. A seguito di ciò, si apriva una nuova fase: l’Ufficio Federale di Polizia riprendeva contatto con le autorità dello Stato richiedente, a mezzo dell’Ambasciata della Federazione russa in Berna, e, con nota diplomatica del 7 gennaio 1998, chiedeva che l’Ambasciata medesima, entro il 1o maggio 1998, rilasciasse, mediante nota diplomatica, l’assicurazione formale dell’adempimento di tutto quanto oggetto della delibera del Tribunale. Mediante una nota diplomatica del 22 gennaio, l’Ambasciata russa si limitava a far presente l’assicurazione di un adempimento delle condizioni enunciate nella nota del 7 gennaio, esprimendo anche la speranza che, in tal modo, nulla più si opponesse all’esecuzione della rogatoria datata 4 novembre 1995. Avendo l’Ufficio Federale di Polizia, con decisione del 25 febbraio, ritenuto, per parte
— 366 — sua, che la risposta russa integrasse gli estremi dell’ ‘‘impegno sufficiente’’ alla stregua della normativa elvetica già richiamata, con un nuovo ricorso l’interessato chiedeva al Tribunale Federale elvetico l’annullamento di quest’altra decisione e la fissazione di un ultimo e breve termine perché la Federazione russa fornisse le garanzie richieste. Con decisione del 6 aprile 1998 il Tribunale Federale elvetico sottolineava l’inadeguatezza della semplice assicurazione nel senso di rispettare le condizioni di cui alla nota del 7 gennaio, contenente un riassunto sommario delle condizioni fissate dal Tribunale Federale, e, sotto altro profilo, faceva rilevare che, nel caso in cui il Tribunale avesse per l’appunto fissato delle condizioni ben precise per l’esecuzione della rogatoria, all’Ufficio Federale di polizia altro non competesse se non assicurarsi, entro il termine fissato alla Parte richiedente, che quest’ultimo ‘‘si impegni espressamente e testualmente a rispettare le condizioni poste dal Tribunale Federale’’; e ciò, dunque, senza potersi prestare ad una sorta di negoziazione con lo Stato richiedente, così da sostituire le proprie alle valutazioni del Tribunale Federale. A fronte, poi, del rilievo, opposto dal ricorrente, secondo cui una nota diplomatica come quella, in data 22 gennaio, emessa dall’Ambasciata russa in Berna, a differenza di un impegno formulato dal pubblico ministero della Federazione russa non poteva essere idonea a vincolare quest’ultima, il Tribunale Federale rilevava che, invece, tra le funzioni tradizionali di una missione diplomatica rientra pur quella di rappresentare lo Stato accreditante presso lo Stato accreditatario (art. 3.1 lett. a della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 18 aprile 1961, che vincola la Svizzera e la Federazione russa, Stato successore dell’Unione Sovietica: v., su questo punto, la nota della Direzione di diritto internazionale pubblico del DFAE del 4 aprile 1995, pubblicata in RSDIE 1996, pp. 618-619). In definitiva il Tribunale Federale, in sostanziale accoglimento del ricorso, stabiliva che l’Ufficio Federale di polizia ‘‘fisserà alle autorità dello Stato richiedente un termine non prorogabile di 40 giorni per fornire espressamente e testualmente l’impegno di rispettare le condizioni poste dal Tribunale Federale al punto 2, lettere da a) a c), del dispositivo della sua decisione 7 aprile 1997 (1A. 386/1996)’’. In tema di art. VI della Convenzione sul genocidio: il caso Pinochet e la Spagna. 1. Con sentenza 15 settembre 1998, il ‘‘Juzgado Central de Instrucción" aveva deliberato nel senso di: — tener ferma la competenza di questo organo, e dunque della Spagna, a continuare le attività istruttorie del caso; — di disporre una rogatoria internazionale alle autorità giudiziarie di Santiago del Cile, allo scopo di accertare l’apertura, o meno, di cause penali nei confronti di Augusto Pinochet Ugarte, e, in caso affermativo, di conoscere il numero delle medesime e i delitti addebitati. Contro tale decisione, il Ministerio Fiscal interponeva ricorso ‘‘de reforma’’ ed in seguito — essendo quest’ultimo stato disatteso il 1o ottobre 1998 — un (nuovo) ricorso ‘‘en apelación’’. Cinque erano i motivi proposti a sostegno di tale ultimo ricorso. Nel secondo di tali motivi, il pubblico ministero ricorrente sosteneva che l’art. VI della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (9 dicembre 1948) statuisce la competenza a conoscere del delitto di genocidio a favore dei tribunali del locus commissi delicti. 2. La Sala de lo Penal dell’Audiencia Nacional affrontava per primo, in ordine logico, tale motivo di ricorso. Decidendo all’unanimità, in sede plenaria (presidente del collegio, in totale composto da undici magistrati, era Francisco García Pérez), e richiamando una decisione assunta, il giorno precedente, per vicende analoghe (fatti di genocidio e terrorismo occorsi in Argentina negli anni 1976-1983, e posti a carico di Adolfo Francisco Scilingo), l’Audiencia Nacional prende posizione nel modo che segue.
— 367 — Richiamati l’adesione della Spagna (13 settembre 1968) alla predetta convenzione internazionale (per quel Paese poi entrata in vigore il 12 dicembre 1968), oltre che il preambolo della Convenzione medesima (dove si dà eco alla risoluzione ONU che proclamava il genocidio come crimine di lesa umanità), dopo l’indicazione di alcune altre disposizioni l’attenzione viene fatta convergere sull’art. VI, alla stregua del quale le persone accusate di genocidio ‘‘dovranno essere tradotte davanti ai tribunali competenti dello Stato sul territorio del quale l’atto è stato compiuto, o davanti alla Corte criminale internazionale, che sarà competente nei confronti delle Parti contraenti che ne avranno riconosciuto la giurisdizione’’. Secondo il ricorrente pubblico ministero, tale norma esclude per il delitto di genocidio la giurisdizione della Spagna, se il delitto non è stato commesso nel territorio nazionale. Da tale opinione dissente l’organo deliberante (‘‘Discrepa de esta opinión el Pleno de la Sala’’), che (traduciamo dal testo castigliano) così prosegue: ‘‘L’art. VI della Convenzione non esclude l’esistenza di organi giurisdizionali diversi da quelli del locus commissi delicti o dal tribunale internazionale. L’art. VI prospetta un tribunale penale internazionale e impone agli Stati-parte che i genocidi siano obbligatoriamente giudicati dagli organi giudiziari dello Stato nel cui territorio i delitti siano stati commessi. Ma sarebbe contrario allo spirito della Convenzione — che realizza un impegno delle Parti contraenti, attraverso l’utilizzo delle rispettive norme penali, di perseguimento del genocidio come delitto di diritto internazionale e di superamento dell’impunità per un delitto tanto grave — considerare il citato art. VI della Convenzione come norma limitativa dell’esercizio della giurisdizione, tale da escluderne qualsiasi altra diversa da quelle previste nel testo. Il fatto che le Parti contraenti non abbiano stabilito la competenza universale per il delitto in capo a ciascuna delle loro giurisdizioni nazionali, non impedisce la determinazione, per ogni Stato-parte, di questo tipo di giurisdizione in ordine ad un delitto di rilevanza mondiale e che colpisce direttamente la comunità internazionale, l’umanità tutta, così come la Convenzione l’intende. In nessun modo potremmo ritenere che il richiamato art. VI impedisca agli Stati firmatari di far uso del principio di punibilità secondo il criterio della personalità attiva contenuto nella sua disciplina interna. Sarebbe impensabile, ad esempio, a fronte della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, che la Spagna non potesse punire un genocida di nazionalità spagnola che avesse commesso il delitto fuori dalla Spagna e si trovasse nel nostro Paese (...). Ebbene, altrettanto poco la formulazione dell’art. VI della Convenzione del 1948 autorizza ad escludere la giurisdizione repressiva del genocidio per uno Stato-parte, come la Spagna, il cui sistema normativo riconosce la extraterritorialità in ordine al giudizio di un tale delitto, nell’art. 23, comma 4, della Ley Organica del Poder Judicial, in nessun modo incompatibile con la Convenzione. Ciò che si deve riconoscere, in ragione della prevalenza dei trattati internazionali rispetto al diritto interno (artt. 96 della Costituzione e 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, del 1969), è che l’art. VI della Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio stabilisce un criterio di sussidiarietà per l’attuazione delle giurisdizioni diverse da quelle che la norma prevede, cosicché la giurisdizione di uno Stato dovrà astenersi dall’esercitare la giurisdizione in ordine a fatti, costituenti genocidio, che fessero già sottoposti a giudizio da parte dei tribunali del paese dove furono commessi o da parte di un tribunale penale internazionale’’. 3. La Audiencia Nacional passa poi ad esaminare analiticamente — sempre in linea di diritto — tutti gli altri motivi di ricorso, per venire quindi a concludere: ‘‘La Spagna ha giurisdizione per conoscere in ordine ai fatti de quibus, derivante dal principio del perseguimento universale di determinati delitti — categoria di Diritto internazionale — accolta nella nostra legislazione interna. Essa ha del pari un legittimo interesse all’esercizio di tale giurisdizione, per il fatto che più di 50 sono gli spagnoli morti o scomparsi in Cile, vittime della repressione denunciata negli atti’’. Il ricorso viene così respinto — la decisione (n. 173/98) reca la data del 30 ottobre 1998 — e si passa a ‘‘confirmar la atribución de la jurisdicción de España para el conocimiento de los hechos objecto del procedimiento’’.
DOTTRINA
PROFILI PROBLEMATICI DEL RICICLAGGIO IN GERMANIA E IN ITALIA (*)
A fondamento dell’obbligo per gli Stati dell’Unione europea di creare norme penali contro il riciclaggio vi sono, come è noto, due trattati internazionali ed una direttiva del Consiglio dell’Unione stessa. I due trattati in questione sono: il primo, la Convenzione di Vienna delle Nazioni Unite del 20 dicembre 1988, che si limita, però, ad imporre la sanzionabilità penale del riciclaggio del danaro solo qualora questo derivi da un reato di droga quale reato antecedente. Il secondo trattato internazione è la Convenzione degli Stati del Consiglio d’Europa dell’8 ottobre 1990. Questo trattato, così come la Direttiva del Consiglio dell’Unione europea del 10 giugno 1991, si riferisce, peraltro, non solo alla criminalità in materia di stupefacenti, bensì impone anche l’obbligo generale di prevedere nelle varie legislazioni penali nazionali il perseguimento del riciclaggio del denaro (1). In una tale situazione sarebbe apparso ovvio che gli Stati della Comunità europea o anche gli Stati rappresentati nel Consiglio d’Europa, avessero inserito nei propri codici penali un’autonoma e comune fattispecie di riciclaggio. Viceversa, ogni Stato della Comunità europea ha creato una propria fattispecie di tale reato, con il risultato, ovviamente, della produzione di fattispecie tutte diverse tra loro (2). Ciò può indubbiamente provocare delusione, essendosi persa l’occasione di unificare, almeno su que(*) Il contributo riproduce il testo della conferenza tenuta a Bologna il 19 novembre 1997, aggiornata a seguito delle modificazioni introdotte dalla ‘‘Legge di miglioramento della disciplina di contrasto alla criminalità organizzata’’ del 4 maggio 1998. (1) Per una rassegna ricostruttiva della situazione nel diritto internazionale e nell’Unione europea, con riguardo agli obblighi di penalizzazione del riciclaggio, cfr. J. VOGEL, Geldwäsche - ein europaweit harmonisierter Straftatbestand?, in ZStW, 1997, p. 337 ss. (2) A titolo di esempio si pensi alla normativa francese antiriciclaggio contenuta nell’art. L 627 Code de la Santé Publique e nell’art. 415 Code de Douanes. Entrambe le fattispecie prevedono i delitti in materia di traffico di stupefacenti quali reati presupposti. Il Codigo penal spagnolo del 1995, all’art 301, comma 1, sanziona le condotte che mirano a nascondere o a dissimulare la provenienza illecita dei proventi di un reato antecedente particolarmente grave. Il § 165 del codice penale austriaco, in materia di riciclaggio, trova applicazione soltanto con riguardo ai beni patrimoniali di valore superiore ai 100.000 scellini, provenienti da un crimine. Anche secondo l’art 315-bis del codice penale svizzero reato presup-
— 370 — sto singolo punto, il diritto penale europeo, a ulteriore conferma del fatto che la strada verso un comune diritto penale europeo è assai faticosa e che prevedibilmente passerà molto tempo prima che si giunga alla sua unificazione. Personalmente devo anzi ammettere che mi considero in materia, per così dire, un euroscettico della penalistica. Sono infatti dell’opinione che nel futuro prevedibile le rispettive tradizioni culturali, profondamente radicate nelle Nazioni europee, impediranno il sorgere di un diritto penale europeo unitario. Certo un tale comune diritto penale sarebbe altamente auspicabile e un giorno sarà senz’altro anche realtà. Ma non dobbiamo illuderci: proprio il diritto penale è oggi ancora influenzato da concezioni irrazionali, da peculiarità sociologiche, dalle singole vicende storiche nazionali, cosicché la via verso l’unità non potrà che essere assai lunga. Ciò che inoltre rende più complicata una comparazione dei vari diritti nazionali è il fatto che, nei diversi Stati, le singole persone e istituzioni che partecipano a un procedimento penale hanno attribuzioni differenti: perciò, anche qualora le norme del diritto penale sostanziale fossero, per ipotesi, uguali, questo dato di fatto influenzerebbe, in maniera decisiva, il funzionamento del processo penale. Detto con un esempio: il codice di procedura penale tedesco consente al P.M., in casi di criminalità lieve, di astenersi dall’elevare l’accusa e di rimettere agli atti il procedimento, imponendo all’accusato di versare, quale ammenda, una determinata somma di denaro, alla Cassa dello Stato o a un’istituzione di pubblica utilità (3). In questi casi non si perviene dunque a un’accusa. E quindi, anche nell’ipotesi in cui le norme penali fossero identiche nei diversi Paesi, già l’esistenza stessa di norme penali all’infuori del codice penale, così come il concreto comportamento dell’Autorità inquirente, inciderebbe in modo determinante sul diverso funzionamento della giustizia penale nei singoli Paesi. Lo stesso fenomeno si verifica per es. quando nei vari Stati si abbia una diversa normativa sull’ammissibilità delle prove nel processo penale. Così, mentre in un ordinamento ai fini della condanna di un individuo può essere sufficiente un determinato stato delle prove, ciò può non essere possibile in un altro ordinamento dato che tali prove non possono venir prodotte nel corso del procedimento penale. Un esempio della rilevanza del diritto in materia di prove è l’art. 513 del c.p.p. italiano, modificato dalla l. n. 267/1997. L’art. 513, prima della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale (4), stabiliva l’inutilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni dell’imputato o del coimputato, rese nel corso delle indagini preliminari, ove non confermate in udienza. È evidente non solo che — sotto la vigenza dell’art. 513 nella versione riformuposto è solo il crimine. Il testo della norma tedesca in tema di riciclaggio è riportato infra sub nota (5). (3) Cfr. § 153a StPO. (4) Corte Cost. 2 novembre 1998, n. 361, in Cass. pen., 1999, 35 ss.
— 371 — lata dal legislatore — in molti casi un’eventuale condanna dipendeva dal fatto che il coimputato ripetesse le sue affermazioni in udienza, ma altresì che spesso in caso di reati commessi dalla criminalità organizzata ciò, a causa di minacce e intimidazioni, non si sarebbe verificato. Ma ritorniamo ora alla nostra fattispecie di riciclaggio del denaro. Con legge 9 agosto 1993, il legislatore italiano ha creato le norme dell’art. 648-bis e 648-ter, e ciò dopo che, in precedenza, con legge 21 marzo 1978 il riciclaggio era stato più rigidamente sottoposto a sanzione penale. Il testo attuale dell’art. 648-bis recita come segue: ‘‘Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da lire due milioni a lire trenta milioni’’. Seguono due commi, che prevedono un aumento o una diminuzione di pena per determinati casi, ed un ulteriore comma che richiama il secondo capoverso dell’art. 648 c.p. L’art. 648-ter del c.p. italiano prevede la punibilità di persone che impiegano in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto. Ciò significa — a mio parere — che il delitto antecedente può consistere anche in un delitto colposo. In Germania il legislatore ha creato la fattispecie del riciclaggio di denaro con la legge 15 luglio 1992 sulla lotta al traffico illegale di stupefacenti e altre forme della criminalità organizzata. Si tratta del § 261 dello StGB. Tale fattispecie si differenzia sensibilmente dall’art. 648-bis e 648ter del c.p. italiano sia da un punto di vista formale sia materiale. La fattispecie del legislatore tedesco appare estremamente ampia e contiene ben 10 commi (5). (5) § 261. (Riciclaggio, dissimulazione di beni patrimoniali illecitamente ottenuti). — 1. Chiunque, nei confronti di un oggetto proveniente da uno dei fatti illeciti indicati nella seconda parte del presente comma, lo occulta, ne dissimula la provenienza ovvero impedisce o mette in pericolo l’accertamento della provenienza, il ritrovamento, l’acquisizione pubblica, la confisca o il sequestro di un tale oggetto, è punito con pena detentiva da tre mesi fino a cinque anni. Fatti illeciti ai sensi della prima parte sono: 1) i crimini; 2) i delitti di cui: a) al § 332, comma 1, anche in combinazione con il comma 3, e al § 334; b) al § 29, comma 1, parte prima, n. 1 della legge sugli stupefacenti e al § 29, comma 1, n. 1 della legge sul controllo delle sostanze elementari; 3) i delitti di cui al § 373 e, se l’autore opera professionalmente, di cui al § 374 della legge sulle imposte, a seconda dei casi anche in combinazione con il § 12, comma 1 della legge di organizzazione del mercato comune: 4) i delitti di cui: a) ai §§ 180b; 181a; 242; 246; 253; 259; 263-bis; 264; 266; 267; 269; 284; 326, comma 1, 2 e 4; nonché al § 328, comma 1, 2 e 4;
— 372 — Lo scopo della norma è evitare l’introduzione clandestina di beni patrimoniali, provenienti soprattutto dall’ambito della criminalità organizzata, nel circolo finanziario ed economico legale. È evidente, infatti, che le organizzazioni criminali e i loro esponenti sono interessati a conferire ai loro guadagni l’aspetto dell’acquisizione per vie legali e a tutelarsi, in tal modo, nei confronti dell’autorità giudiziaria. A tale scopo aprono spesso dei conti bancari in modo che il denaro liquido, acquisito per vie crimib) al § 92a della legge sugli stranieri e al § 84 della legge sul procedimento di asilo, posti in essere professionalmente o da un membro di una banda, che si sia costituita per la commissione continuativa di tali delitti, e 5) i delitti commessi da un membro di un’associazione criminale (§ 129). Nei casi previsti dalla seconda parte, n. 3 (del comma 1) si applica la prima parte (del comma 1) anche per l’oggetto in ordine al quale sono state evase le imposte. 2. Allo stesso modo è punito chiunque, nei confronti dell’oggetto indicato nel comma 1: 1) lo procura a sé o a un terzo, oppure 2) lo custodisce o lo utilizza per sé o per un terzo, conoscendone la provenienza al momento in cui lo ha conseguito. 3. Il tentativo è punibile. 4. Nei casi particolarmente gravi si applica la pena detentiva da sei mesi a dieci anni. Un caso particolarmente grave sussiste di regola quando l’autore agisce professionalmente quale membro di una banda che si sia costituita per la commissione continuativa del riciclaggio. 5. Colui che, nei casi previsti dal comma 1 o dal comma 2, non riconosce, per colpa grave, che l’oggetto proveniente da uno dei fatti illeciti indicati nel comma 1, è punito con la pena detentiva fino a due anni o con la pena pecuniaria. 6. Il fatto non è punibile a norma del comma 2 quando un terzo abbia precedentemente conseguito l’oggetto senza con ciò commettere un reato. 7. Gli oggetti ai quali si riferisce il reato possono essere confiscati. Si applica il § 74a. Si applicano il § 43a ed il § 73d quando l’autore agisce come membro di una banda che si sia costituita per la commissione continuativa del riciclaggio. Il § 73d si applica anche quando l’autore agisce professionalmente. 8. Agli oggetti indicati nei comma 1, 2 e 5 sono equiparati quelli che derivano da fatti, del tipo indicato dal comma 1, commessi all’estero, qualora il fatto sia punito con sanzione penale anche nel locus commissi delicti. 9. Non è punito a norma dei commi da 1 a 5 colui che: 1) denuncia spontaneamente il fatto all’autorità competente o provoca spontaneamente una tale denuncia, qualora il fatto, in tale momento, non fosse già stato in tutto o in parte scoperto e l’autore fosse di ciò a conoscenza od avrebbe dovuto prevederlo sulla base di un ragionevole apprezzamento della situazione di fatto, e 2) nei casi previsti dai comma 1 o 2, sussistendo i presupposti indicati nel n. 1, procura il sequestro dell’oggetto al quale si riferisce il reato. Non è punito a norma dei commi da 1 a 5 nemmeno colui che è punibile per la sua partecipazione al reato-presupposto. 10. Il giudice, nei casi previsti dai comma 1-5, può diminuire la pena discrezionalmente (§ 49, comma 2) od astenersi dall’applicare la pena prevista da tali disposizioni, qualora l’autore, attraverso la spontanea rivelazione delle sue conoscenze, abbia dato un contributo essenziale a che potesse essere scoperto il fatto, a prescindere dal suo specifico contributo al medesimo, ovvero un fatto illecito altrui indicato nel comma 1.
— 373 — nali, dia all’esterno l’impressione di un patrimonio messo insieme per vie lecite. L’introduzione del § 261 nel codice penale tedesco mediante la « legge sulla lotta al traffico illegale di stupefacenti e altre forme della criminalità organizzata » potrebbe far pensare che i reati antecedenti, dai quali devono provenire gli oggetti ‘‘da riciclare’’, debbano appartenere all’ambito del traffico di stupefacenti e della criminalità organizzata. Ma non è così. Infatti il § 261 enumera una serie di reati antecedenti, che sono estranei alla criminalità organizzata, mentre a sua volta la legge non comprende tutti i reati che di solito vengono commessi nell’ambito della criminalità organizzata. Di fatto la norma prevede 5 categorie di reati che considera, appunto, quali reati antecedenti al riciclaggio del denaro. La prima categoria è costituita dai crimini che per l’ordinamento tedesco costituiscono una forma particolarmente grave di reati rispetto ai delitti. Qualsiasi crimine può rappresentare un reato antecedente. La seconda categoria di reati antecedenti comprende determinati delitti in materia di stupefacenti. Alla terza categoria sono ricondotti determinati delitti, esattamente enumerati, che siano stati commessi da una banda, per così dire, in forma professionale. A questi appartengono, per es., l’appropriazione indebita, la truffa e la corruzione. La quarta categoria si riferisce a delitti che possono venir commessi solo da un appartenente a un’associazione criminale; ma, non volendosi limitare i delitti a quelli che costituiscono lo scopo di un’associazione criminale, questa variante del § 261 StGB comprende anche il caso che un membro di una tale organizzazione commetta, per es., casualmente, un furto in un grande magazzino. Il terzo che, conoscendo la provenienza dell’oggetto rubato, ne viene in possesso, si renderebbe allora colpevole del reato di riciclaggio. Ma è difficile sostenere che ciò abbia molto senso. Nella prima versione della legge, la quinta categoria di reati-presupposto era costituita, secondo la formulazione del comma 8, dai reati commessi all’estero, nel caso in cui il fatto fosse penalmente sanzionato anche nel Paese straniero. Tale disposizione aveva subito provocato, in Germania, una vivace controversia. Infatti, la questione che si poneva era se ogni reato commesso all’estero potesse costituire un idoneo reato-presupposto del riciclaggio, oppure se dovessero essere considerati tali solo i reati commessi all’estero enunciati nel catalogo dei numeri da 1 a 4 del comma 1 del § 261. Una sentenza della Pretura (Amtsgericht) di Essen ed una del Tribunale (Landgericht) di Stoccarda avevano dichiarato, dopo l’introduzione della disposizione, che qualsiasi reato commesso all’estero poteva costituire idoneo reato-presupposto del reato di riciclaggio (6). Peraltro, (6) Amtsgericht Essen, 12 gennaio 1994, in Zeitschrift für Wirtschaft und Insolvenzpraxis, 1994, 699; Landgericht Stuttgart, 7 aprile 1994, ivi, 1766.
— 374 — tutti i commentari ed i manuali di diritto penale, compreso il mio, erano di diversa opinione (7). Ciò derivava dal fatto che non si vedeva la ragione per includere qualsivoglia reato commesso all’estero, laddove, per i reati commessi in patria, si richiedeva il requisito della gravità o della loro commissione in banda o nell’ambito di un’organizzazione criminale. Questo argomento ha ora convinto il legislatore, che, con la ‘‘Legge di miglioramento della disciplina di contrasto alla criminalità organizzata’’ del 4 maggio 1998 (8) ha modificato la (‘‘vecchia’’) formulazione: i reati commessi all’estero, secondo la nuova versione del comma 8 del § 261, sono pertanto idonei reati-presupposto del riciclaggio solo quando presentano la stessa natura dei reati menzionati nel comma 1. Rispetto alla normativa italiana colpisce che la fattispecie tedesca del riciclaggio contenga l’accennata enumerazione dei singoli possibili reatipresupposto; la fattispecie italiana, viceversa, parla, in generale, di ‘‘delitto non colposo’’. Il code pénal francese esige quale presupposto, come fatto antecedente, il reato di traffico di droga. In Austria e in Svizzera il reato-presupposto deve essere un crimine. Anche il Codigo penal spagnolo del 1995 prevede un reato-presupposto di una determinata gravità (9). Il metodo enumerativo del codice penale tedesco ha il difetto tipico di ogni elencazione di tale specie: dopo che una tale legge è entrata in vigore, di solito avviene che ci si accorge che il legislatore ha dimenticato alcuni reati che avrebbero potuto essere inclusi; oppure che si impongono nuovi aspetti del problema che consiglierebbero di allargare il catalogo a ulteriori reati. Non stupisce perciò che il legislatore tedesco abbia incluso ulteriori reati-presupposto nella norma del § 261 dello StGB (10). La citata novella legislativa ha portato con sé un’ulteriore modificazione della norma. La versione originaria della legge richiedeva che l’autore del riciclaggio non fosse al contempo autore del reato-presupposto, che doveva comunque essere commesso da un diverso soggetto. Ma ciò comportava, nell’applicazione della norma, una notevole difficoltà nei casi in cui il giudice non era in grado di stabilire con certezza se il soggetto ac(7) Cfr. A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER-W. STREE, StGB, München, 25. Aufl. 1997, sub § 261, Rn. 6; K. LACKNER-K. KÜHL, StGB, München, 22. Aufl. 1997, sub § 261, Rn. 4; H. TRÖNDLE, StGB, München, 48. Aufl. 1997, sub § 261, Rn. 9; C. BURR, Die Strafbarkeit wegen Geldwäsche bei Auslandsvortaten (§ 261 Abs. 8 StGB), in wistra, 1995, 255; H. OTTO, Geldwäsche und das strafrechtliche Risiko von Bankmitarbeitern, in Zeitschrift für das gesamte Kredilwesen, 1994, 63, 66; A. FÜLBIER, Anmerkung zu Amtsgericht Essen, 12 gennaio 1994, in Zeitschrift für Wirtschaft und Insolvenzpraxis, 1994, 699; B. OELLERS, Anmerkung zu Landgericht Stuttgart, 7 aprile 1994, ivi, 1766. (8) Art. 1 della ‘‘Legge di miglioramento della disciplina di contrasto alla criminalità organizzata’’ del 4 maggio 1998, in Bundesgesetzblatt, 1998, I, n. 25, p. 845 s. (9) Cfr. supra nota (2). (10) Cfr. supra nota (8).
— 375 — cusato di riciclaggio avesse commesso o meno anche il reato-presupposto. In applicazione — come si impone — del principio in dubio pro reo, ne conseguiva che, da un lato, tale soggetto, se colpevole anche del reato-presupposto non poteva essere punito per il riciclaggio, e, d’altro lato, che, se il giudice non era sicuro che egli avesse effettivamente commesso il reatopresupposto, sempre in applicazione del principio in dubio pro reo, non poteva nemmeno sanzionarlo per il reato-presupposto. Tuttavia, il Bundesgerichtshof, ancora nella vigenza della versione originaria della legge, in un caso di questo tipo aveva pronunciato una sentenza di condanna per il riciclaggio (11). Il Bundesgerichtshof ha utilizzato qui una figura giuridica chiamata nel diritto penale tedesco ‘‘postpendenza’’ (12). La conseguenza dell’applicazione di tale figura giuridica è che un’assoluzione è esclusa — ciò contro l’argomentazione sopra svolta — poiché è comunque accertato che il soggetto abbia posto in essere la condotta di riciclaggio. Il fatto stesso poi che egli abbia forse commesso anche il reatopresupposto non può portare all’assoluzione. Ma tale sentenza del Bundesgerichtshof è stata fortemente criticata dai penalisti tedeschi (13). E la nuova versione del § 261 StGB tiene conto di questa critica (14). Essa infatti elimina dalla fattispecie di riciclaggio il requisito che rendeva punibile per tale reato solo il soggetto che non fosse al contempo autore del reato-presupposto. In questo punto, la norma tedesca è ora identica a quella italiana. Con il concetto di riciclaggio di denaro (‘‘Geldwäsche’’) si intende in Germania non solo denaro in senso letterale ma qualsiasi oggetto. Anzi, il tenore della fattisnecie non contiene alcuna indicazione che tali oggetti debbano essere solo di tipo patrimoniale. In base al testo della norma, infatti, il reato di riciclaggio può venir commesso anche qualora qualcuno nasconda un cadavere che ‘‘provenga’’ da un omicidio o qualcun altro conservi un verbale di audizione che ‘‘provenga’’ da dichiarazioni estorte sotto ricatto (15). Si dovrà tuttavia immaginare che tale interpretazione non corrisponde alle intenzioni perseguite dal legislatore con la sua norma. Per questa ragione la dottrina dominante, nonostante il tenore della disposizione, è attualmente dell’opinione (11) BGH 21 giugno 1995, in NStZ, 1995, 500. (12) A proposito di questa figura giuridica cfr. J. HRUSCHKA, Zur Logik und Dogmatik von Verurteilungen aufgrund mehrdeutiger Bewisergebnisse im Strafprozeß, in JZ, 1970, 641; W. KÜPER, Probleme der ‘‘Pospendenzfestellung’’ im Strafverfahren. Ein Beitrag zur Logik und Dogmatik der Wahlfestellung, in Festschrift für R. Lange, Berlin-New York, 1976, 65; J.C. JOERDEN, Dyadische Fallsysteme im Strafrecht, Berlin, 1986, 120 ss. (13) Cfr. A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER-W. STREE, StGB, cit., sub § 261, Rn. 5; K. LACKNER-K. KÜHL, StGB, cit., sub § 261, Rn. 10. (14) Cfr. supra nota (8). (15) Cfr., in proposito, J. LAMPE, Der neue Tatbestand der Geldwäsche (§ 261 StGB), in JZ, 1994, 126.
— 376 — che, ai fini del riciclaggio, si debba trattare solo di oggetti che hanno un valore patrimoniale (16). La norma tedesca viene dunque di fatto interpretata in un modo che corrisponde a quello italiano di ‘‘denaro, beni o altre utilità’’. La maggiore difficoltà che presenta la norma tedesca concerne la sua richiesta che l’oggetto del reato di riciclaggio ‘‘provenga’’ da uno dei reati antecedenti enunciati. Con tale formulazione il legislatore ha voluto precidare che il reato di riciclaggio deve avere un’altra struttura rispetto al reato di ricettazione. Per opinione generale della dottrina tedesca la ricettazione si caratterizza per il fatto che la cosa che viene acquisita per via di ricettazione deve essere identica a quella che l’autore del reato antecedente, con il suo comportamento criminoso, ha apportato a sé medesimo (17). Detto con un esempio: la fattispecie della ricettazione è realizzata allorquando solo un individuo riceva dall’autore di un furto di denaro esattamente le stesse banconote che questi ha rubato. Del tutto diversa è la situazione nel caso del riciclaggio. Qui già con il termine ‘‘provenire’’ il legislatore ha voluto esprimere che si è in presenza di tale reato anche qualora colui che acquisisce il bene non riceva esattamente la stessa cosa che deriva dal reato antecedente (18). Facciamo un esempio: supponiamo che l’autore di un crimine versi il denaro frutto di tale crimine nel proprio conto bancario; in base a tale interpretazione, il terzo che, successivamente, conoscendone le circostanze, riceva tale denaro si renderà colpevole di riciclaggio del denaro, e ciò anche se naturalmente le banconote non saranno le stesse del reato antecedente. Il problema è ora che non è chiaro se si debba ipotizzare una punibilità per riciclaggio del denaro anche nel caso in cui, nel citato esempio, l’autore del reato antecedente versi il frutto del suo reato in un conto nel quale già si trovi una somma di denaro ‘‘pulito’’. Nel caso estremo può accadere che l’autore del reato antecedente aggiunga a una grande somma di denaro ‘‘pulito’’ che si trova nel suo conto, una piccola somma di denaro ‘‘sporco’’. Il terzo che, conoscendo tale circostanza, riceva, da tale conto, una piccola somma, si rende penalmente perseguibile per riciclaggio? (19). Tale questione ha messo in subbuglio in Germania soprattutto gli avvocati che ricevono l’onorario da persone accusate dei reati antecedenti di (16) H. TRÖNDLE, StGB, cit., sub § 261, Rn. 4; J. VOGEL, Geldwäsche, cit., 352; C. BURR, Geldwäsche. Eine Untersuchung zu § 261 StGB, Siegburg, 1995, 56. (17) Cfr. R. MAURACH-F.C. SCHROEDER-M. MAIWALD, Strafrecht Bes. Teil, Teilbd. 1, Heidelberg, 8. Aufl. 1995, 39/8 ss.; E. SAMSON, in SK-StGB, sub § 259, Rn. 10; G. ARZT-U. WEBER, Strafrecht Bes. Teil, LH 4, Bielefeld, 2. Aufl. 1989, E 416 ss. (18) Bundestag-Drucksache, 12/989, 27; C. BURR, Geldwäsche. Eine Untersuchung zu § 261 StGB, cit., 67; C. LEIP, Der Straftatbestand der Geldwäsche, 1995, 66 ss.; A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER-W. STREE, StGB, cit., sub § 261, Rn. 7. (19) Sul problema della ‘‘contaminazione’’ si veda in particolare C. LEIP, Der Straftatbestand der Gektwäsche, cit., 98 ss.
— 377 — cui è parola al § 261 dello StGB. Qualora, infatti, si volesse sostenere che anche per il pagamento di una piccola somma di denaro ‘‘sporco’’ l’intero conto dell’autore del reato antecedente sia, per così dire, contaminato, gli avvocati, quantomeno in caso di condanna del loro mandante, non potrebbero accettare denaro dal suo conto, perché in tal caso si renderebbero penalmente perseguibili per riciclaggio (20). Ma come si può immaginare, già l’Ordine degli Avvocati tedeschi si è energicamente opposto a una tale interpretazione del § 261 StGB. In realtà, come vada interpretata la parola ‘‘provenire’’, ossia se i difensori tedeschi corrano realmente il pericolo di finire in carcere nel caso che si facciano corrispondere l’onorario, rimane una questione controversa. La mia opinione personale è che la fattispecie tedesca del riciclaggio in generale — e dunque non solo in riferimento all’onorario dell’avvocato — richieda un’interpretazione restrittiva. E ciò perché il testo della norma comprende casi che, razionalmente, non appaiono meritevoli di sanzione penale. Desidero spiegare ciò con un esempio: in base al § 261, comma 2, dello StGB, colui che prende in custodia un oggetto tra quelli descritti al comma 1 si rende penalmente perseguibile. Supponiamo ora che un trafficante di droga che ha acquistato un soprabito con il denaro ricavato dal proprio commercio, vada a teatro e consegni il soprabito all’addetta al guardaroba. Per l’interpretazione sopra citata, sarebbe sufficiente che l’addetta al guardaroba ritenesse anche solo possibile che il suo cliente, in quanto trafficante di droga, abbia comprato il soprabito con quel denaro, perché essa si rendesse penalmente colpevole di riciclaggio di denaro. Anzi, addirittura, qualora l’addetta al guardaroba fosse, erroneamente, di tale opinione, si renderebbe colpevole di tentato riciclaggio del denaro, e ciò perché il diritto tedesco punisce anche il tentativo inidoneo. Naturalmente anche in Germania si è dell’opinione che tali conseguenze vadano troppo oltre. Non resta perciò che aspettare per vedere quali orientamenti metodologici la dottrina applicherà per evitare tali assurde conclusioni (21). Da un punto di vista di politica criminale, la novità decisiva della norma sul riciclaggio è rappresentata dal comma 5, che punisce anche colui che ‘‘per colpa grave’’ (o, tradotto letteralmente, per leggerezza, non riconosca che l’oggetto in questione proviene da una delle fattispecie illecite previste nel comma 1. Il termine ‘‘colpa grave’’ o ‘‘leggerezza’’ (Leichtfertigkeit) designa una forma particolarmente grossolana di colpa, dato che la colpa lieve (culpa levis) non sarebbe sufficiente. Benché la norma non lo dica espIicitamente, il riferimento alla colpa grave esplicita (20) Cfr. S. BARTON, Sozial übliche Geschäftstätigkeit und Geldwäsche (§ 261 StGB), in Strafverteidiger, 1993, 156. (21) In ordine al profilo metodologico cfr. C. LEIP, Der Straftatbestand der Geldwäsche, cit., 70 ss.
— 378 — la particolare finalità propria della fattispecie del riciclaggio. Infatti, nell’intenzione del legislatore essa è diretta, in modo particolare, alle banche che vengono utilizzate dalla criminalità organizzata per realizzare tale riciclaggio. Anche se per esse la colpa lieve non basta, la punizione della leggerezza, prevista dalla norma, implica per le banche che ricevono il denaro, l’obbligo di fare attenzione a indizi che potrebbero far dedurre una provenienza criminale del denaro. I dipendenti delle banche che tralasciassero di valutare questo aspetto correrebbero, pertanto, il rischio di venir perseguiti per il reato di riciclaggio di denaro; e proprio questo obbligo di attenzione è ciò che ha avuto di mira il legislatore. È del resto convinzione unanime che il limitarsi, nella persecuzione del reato di riciclaggio, al requisito dell’agire intenzionale, renderebbe la norma una spada spuntata (22). Da un punto di vista di politica criminale la punibilità del riciclaggio di denaro per semplice negligenza costituisce, per il diritto penale tedesco, un caso particolare, dato che esso prevede pochissimi reati patrimoniali in cui non sia richiesto il dolo del colpevole. Pertanto, già tale considerazione evidenzia la portata estremamente ampia della fattispecie del reato di riciclaggio. Del resto, già dai lavori preparatori risulta che lo stesso legislatore si è preoccupato di inserire nella fattispecie il requisito della colpa grave, e ciò al fine di evitare difficoltà in ordine alle prove (23). Pertanto, qualora non si possa dimostrare il dolo del colpevole, resta la possibilità di una sua condanna per colpa grave. Vorrei ritornare all’aspetto della fattispecie del riciclaggio che impone che l’oggetto ‘‘provenga’’ da un determinato reato antecedente. Può infatti essere che tale oggetto sia passato per molte mani prima di giungere alla persona accusata di riciclaggio. Così, anche crediti possono venir trasferiti successivamente a più persone, o una somma di denaro può venir successivamente accreditata su una serie di conti aperti presso banche diverse. Per questi casi la fattispecie di riciclaggio del denaro prevede una speciale normativa, ma ciò peraltro solo nei confronti di alcuni degli atti previsti dalla fattispecie. Pertanto, è prevista un’esclusione dalla punibilità qualora ‘‘precedentemente un terzo abbia acquisito l’oggetto senza per ciò stesso aver commesso un reato’’ (§ 261, comma 6). Lo scopo della norma è di evitare il sorgere di una catena infinita di reati che verrebbero a realizzarsi in un continuo passaggio di mano in mano di beni ‘‘sporchi’’ (24). (22) Cfr. Bundestag-Drucksache, 12/989, 27; J. LAMPE, Der neue Tatbestand, cit., 129; C. BURR, Geldwäsche. Eine Untersuchung zu § 261 StGB, cit., 83 ss. (23) Bundestag-Drucksache, 12/989, 27. (24) In proposito K. LACKNER-K. KÜHL, StGB, cit., sub § 261, Rn. 6; A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER-W. STREE, StGB, cit., sub § 261, Rn. 14.
— 379 — Resta ancora da citare la norma contenuta nel comma 9 del § 261 del StGB che prevede la non punibilità del colpevole che recede dal reato di riciclaggio. Si tratta di una norma significativa perché consente, appunto, l’esenzione dalla sanzione penale anche dopo che il reato è stato realizzato, e ciò nonostante la normativa della Parte generale dello StGB preveda la non punibilità per desistenza solo nel caso del reato tentato. Peraltro, per ottenere l’esenzione dalla pena il colpevole del reato di riciclaggio deve, di sua iniziativa, denunciare il reato all’Autorità competente mettendole a disposizione l’oggetto del riciclaggio. Ciò comporta però un ulteriore problema non ancora chiarito. Supponiamo che si sia in presenza di un caso di desistenza, ossia che il colpevole intraprenda il semplice tentativo di portare a sé il denaro ‘‘sporco’’, ma che egli interrompa poi tale tentativo volontariamente, prima di ottenere il denaro: in questo caso andrà applicata la normativa sulla desistenza prevista nella Parte generale dello StGB che esclude la punibilità per il colpevole del tentativo che abbia volontariamente interrotto tale suo tentativo. Oppure, questa è l’alternativa, si dovrà applicare unicamente la norma speciale del comma 9 della fattispecie di riciclaggio, ciò che comporterebbe che la volontaria interruzione del tentativo non sarebbe sufficiente ad esentare il colpevole dalla sanzione penale? In aggiunta a ciò egli dovrebbe infatti denunciare il reato all’Autorità competente e, nei casi dei commi 1 e 2, procedere anche alla messa a disposizione dell’oggetto del riciclaggio. La mia oninione personale è che nel caso della desistenza si debba applicare la norma della Parte generale e che il comma 9 della fattispecie del riciclaggio ha solo la funzione di permettere la non punibilità anche nel caso del reato consumato. Ma, come detto, occorrerà aspettare per vedere se la giurisprudenza e la dottrina saranno anch’esse della mia opinione (25). Infine, il legislatore ha ampliato la fattispecie del riciclaggio inserendo al comma 10 una normativa sui ‘‘pentiti’’, chiamata in Germania ‘‘Kronzeugenregelung’’. Nella realtà pratica essa non ha però sinora avuto alcuna rilevanza. Ho accennato al fatto che la fattispecie di riciclaggio di denaro, benché ciò non appaia dal tenore della norma, ha di mira soprattutto l’attività delle banche. Infatti, al fine di introdurre il denaro ‘‘sporco’’ nel normale circuito economico, gli autori del reato di riciclaggio si prcoccupano soprattutto di conferire al loro denaro, mediante transazioni bancarie, l’apparenza della provenienza legale. A tale scopo il legislatore, oltre alla fattispecie del riciclaggio, ha dato vita, con legge del 25 ottobre 1993, a una speciale norma che ha il titolo: ‘‘Legge in merito alle tracce di guadagni (25) 1997, 85.
Condivide tale interpretazione T. FABEL, Geldwäsche und tätige Reue, Marburg,
— 380 — provenienti da gravi reati’’ (26). Tale legge, che è rivolta alle banche e ad altre istituzioni nella stessa legge citate — tra cui l’ente Poste — stabilisce soprattutto due doveri: primo, ciascuna di queste istituzioni, in caso di transazioni per un valore uguale o superiore ai 20.000 marchi, deve ‘‘identificare colui che si presenta’’ (§ 2 della legge). Con il termine ‘‘identificare’’ si intende la constatazione delle generalità della persona attraverso documento di identità o passaporto. Il secondo dovere delle sopra citate istituzioni riguarda l’obbligo di sporgere denuncia presso l’Autorità inquirente qualora, nel corso di una transazione finanziaria, vi sia il sospetto che si miri a un riciclaggio. A denuncia avvenuta l’istituzione deve concedere due giorni all’Autorità inquirente affinché questa decida se proibire o meno la transazione, la quale, dunque, in questi due giorni non può venir effettuata. Le banche non sono evidentemente soddisfatte di questa nuova legge. Infatti esse desiderano apparire ai loro clienti quali istituzioni degne di fiducia, e ciò perché i clienti affidano loro il proprio denaro. Ma con la nuova normativa le banche sono diventate, per così dire, agenzie dell’Autorità inquirente, ciò che del resto non è rimasto ignoto ai clienti e non può che influire in modo negativo sul rapporto di fiducia. Si aggiunge che, in conseguenza della nuova legge, le banche si vengono a trovare, in un certo senso, tra l’incudine e il martello. Infatti, qualora, in caso di sospetto, sporgano denuncia attendendo, conseguentemente, due giorni, esse correranno il rischio, se il sospetto si riveli infondato, di dover pagare al cliente i danni per il ritardo della transazione. All’opposto, qualora, nonostante obiettivi sospetti, tralascino di sporgere denuncia, saranno esposte al rischio di sanzione penale per riciclaggio di denaro (27). Nella realtà pratica tale legge indirizzata alle banche non ha ancora prodotto grandi risultati. Nell’anno 1995 le banche tedesche hanno sporto circa 3.000 denuncie per sospetto riciclaggio. Ma solo nell’1,1% dei casi l’Autorità inquirente ha proceduto al sequestro del denaro. In Germania si calcola che ogni anno circa 80 miliardi di marchi di denaro ‘‘sporco’’ vengano riciclati. Ma solo di 20 milioni di marchi è possibile, in base alle denunce delle banche, seguire le tracce. Non stupisce perciò che l’Autorità inquirente, al fine ai rintracciare il denaro ‘‘sporco’’, chieda misure ancora più efficienti. Di fatto nessuno sa però quali dovrebbero essere tali misure più efficienti (28). Concludendo, la fattispecie tedesca sul riciclaggio, a mio parere, pre(26) Cfr. in Bundesgesetzblatt, 1993, I, 1770. (27) Per una rassegna sull’interpretazione della legge cfr. H.H. KÖRNER-E. DACH, Geldwäsche, München, 1994, 72 ss. (28) Dati empirici sulla criminalità ‘‘da riciclaggio’’ e sui provvedimenti penali di indagine si ritrovano in K. OSWALD, Die Implementation gesetzlicher Maßnahmen zur Be-
— 381 — senta due svantaggi: 1o) è formulata in modo troppo complicato e 2o) comprende nella sua formulazione delle realtà che non appaiono in alcun modo penalmente sanzionabili. Come detto, la fattispecie contempla nei suoi 10 commi una regolamentazione estremamente dettagliata, la quale non potrà che porre davanti a grossi problemi i magistrati incaricati dell’applicazione della norma. La norma è in realtà una tipica legge ad hoc con la quale il legislatore ha voluto rapidamente reagire a determinati sviluppi di politica criminale. Resta dunque affidato ai tribunali ‘‘migliorare’’ la disposizione in modo tale che, per via di interpretazione, essa venga applicata a tutti i casi meritevoli di sanzione penale, ma solo a quelli. In questo senso e riguardo a quest’ambito della criminalità, ai giudici è attribuita una grande responsabilità. MANFRED MAIWALD Ordinario di diritto e procedura penale presso la Georg-August-Universität di Göttingen
kämpfung der Geldwäsche in der Bundesrepublik Deutschland, Freiburg i.Br., 1997, in particolare 281 ss.
SCIENZA E NORMA NELLA PRATICA DELL’IGIENE INDUSTRIALE (*)
1. Il tema dei rapporti tra pratica dell’igiene industriale e scienza e norma è talmente complesso da consentire, nell’arco di questa breve relazione, solo qualche spunto di riflessione. La complessità dell’argomento — e con essa la difficoltà della comprensione del ruolo e dell’importanza assunta dall’igienista industriale nella società in cui viviamo — risulta evidente quando si consideri, tra i tanti compiti assegnati all’igienista, quello della valutazione dei pericoli per la salute. Questa valutazione, come si sa, fa parte di un processo decisionale che comporta delle scelte legate al grado di pericolo per la salute derivante da agenti pericolosi sul luogo di lavoro; essa implica un giudizio sia sulla magnitudo dei fattori ambientali, sia sulle dimensioni quantitative e qualitative degli stress chimici, fisici e biologici; e una decisione sulla presenza o meno di un rischio, sulla base del confronto tra i dati raccolti sul posto di lavoro e varie linee guida, standards normativi e conoscenze scientifiche. Oltre alla valutazione e alle decisioni sul rischio, l’igienista deve provvedere anche ad un controllo effettivo, che consenta una riduzione degli stress ambientali ad un livello tale da produrre un rischio minimo per il lavoratore. Vi è quanto basta, come si capisce, per rendersi conto dell’importanza e della difficoltà dell’igienista moderno: egli deve proteggere la salute dei lavoratori e, per farlo, deve possedere un bagaglio di conoscenze tecniche, scientifiche e normative di tale estensione e portata da rendere quasi impossibile lo svolgimento del suo compito, se non in presenza di certe condizioni. 2. Le mie riflessioni debbono muovere, naturalmente, dal presupposto che sia possibile parlare di razionalità nella valutazione del rischio: razionalità nella pratica dell’igienista, razionalità della scienza, razionalità delle norme. (*) Relazione tenuta al ‘‘II Congresso Europeo di igiene industriale - I Congresso mediterraneo di igiene industriale’’, Bari, 30 giugno-3 luglio 1999.
— 383 — Già su questo presupposto, peraltro, si potrebbe aprire un interminabile dibattito. Sono note le controversie sulla razionalità della scienza. Da un lato vi sono coloro che, come i neo-empiristi del circolo di Vienna, ritengono che esistano alcuni criteri universali fissi, per la scelta di una teoria, e che tali criteri garantiscano la razionalità della scienza; dall’altro lato, vi sono coloro che, come l’epistemologo anarchico Feyerabend ed altri, sostengono che non esiste un metodo scientifico, che qualunque cosa va bene e che nessun sistema di regole e standards scientifici è mai sicuro. Tra i due estremi si collocano coloro che ritengono che la valutazione di una teoria possa essere razionale, anche se non esistono regole assolute per la ricerca scientifica, applicabili a qualsiasi situazione. Questa controversia di carattere epistemologico si riflette inevitabilmente nella controversia sulla valutazione e controllo del rischio: anche in questo ambito, infatti, il quesito cruciale è se esistano delle norme metodologiche che garantiscano la razionalità della valutazione. Anche qui, da un lato, vi è chi afferma che non esiste una corretta definizione del comportamento giusto di fronte ai rischi e che qualunque modo di vivere può essere giustificato; e all’altra estremità dello spettro vi sono coloro i quali sostengono che la valutazione del rischio è oggettiva, perché si possono valutare rischi diversi seguendo la stessa regola, per esempio la regola che stabilisca che i rischi al di sotto di un dato livello di probabilità non sono significativi o che la misurazione del rischio, quantomeno a livelli di calcolo di probabilità di causare danni e di stimare i loro effetti, è del tutto obbiettiva, neutrale e priva di valori. In quest’ultima prospettiva, un’obbiettiva identificazione e stima del rischio garantirebbero la razionalità delle specifiche valutazioni dei vari rischi. Una posizione intermedia tra le due estreme è quella di chi sostiene che il rischio è certamente una realtà scientifica, ma non solo scientifica: una valutazione veramente razionale del rischio dovrebbe tener conto dei valori etici e della percezione sociale del rischio (procedura democratica). In questa prospettiva, si sostiene che in molte valutazioni del rischio (ad es. rischio nucleare) sarebbe più ragionevole seguire una strategia ‘‘maximin’’, come chiede la maggior parte dei profani sulla base della loro percezione del rischio, piuttosto che la strategia utilitaristica, usata dalla maggior parte degli esperti igienisti: in situazioni di incertezza, le definizioni bayesiane di valutazione del rischio spesso non riescono a tener conto di considerazioni di equità e di un procedimento democratico. Ci si chiede così, ad esempio, se, in una situazione di incertezza, sia ‘‘razionale’’ applicare una tecnologia pericolosa per l’ambiente, ma non riconosciuta come tale, facendo correre il rischio agli utenti oppure se sia razionale non applicare una tecnologica sicura per l’ambiente, ma non riconosciuta tale, facendo così correre un rischio al produttore.
— 384 — E nei casi dubbi, come ci si dovrebbe regolare? La verità è, si afferma, che bisogna cercare di capire se vi sono fondamenti scientifici, etici e legali per minimizzare il rischio degli utenti oppure quelli del produttore, soprattutto nei casi di incertezza. 3. Con queste premesse, posso affrontare il tema che mi è stato assegnato, e cioè esprimere il mio punto di vista sui rapporti tra pratica dell’igiene industriale e scienza, tra scienza e norma e tra pratica industriale e norma. Sotto il primo profilo, mi sembra che, da un punto di vista metodologico, l’igienista possa muovere da una premessa sulla quale la gran parte dei filosofi della scienza sono concordi, e cioè che le leggi della scienza sono ipotesi, che il problema della verità o falsità di una ipotesi scientifica è destinato a restare sempre aperto, e che una ipotesi scientifica può essere accettata dalla comunità degli igienisti, quando sia provvista di un alto grado di conferma, basato sull’osservazione e sull’esperimento, oppure quando — in una visione popperiana — l’ipotesi abbia resistito ai tentativi di falsificazione e risulti dunque corroborata in via provvisoria. La consapevolezza di questa premessa mi sembra molto importante, perché suggerisce una grande cautela nella valutazione dei risultati della ricerca scientifica nei diversi settori. In altre parole, gli igienisti industriali debbono impegnarsi in un costante e completo aggiornamento scientifico e debbono essere pronti a mutare opinione sui criteri di valutazione e di controllo del rischio, in coerenza con i risultati della ricerca scientifica che dimostrino la falsità di una ipotesi prima accettata, o la conferma di una ipotesi prima respinta. Faccio degli esempi. Il metodo popperiano della falsificazione delle ipotesi ha consentito di raggiungere significativi risultati nell’ambito degli studi epidemiologici sulle malattie professionali. Esemplare la storia delle sostanze chimiche. È accaduto non di rado che una prima ‘‘ondata’’ di studi epidemiologici ponesse in evidenza una significatività statistica di eccessi di certi tipi di tumori nella popolazione indagata rispetto alla popolazione di riferimento, e che una seconda ‘‘ondata’’ di studi — molto più seri e qualitativamente migliori dei precedenti — dimostrasse che l’ipotesi degli eccessi, inizialmente formulata, era falsa. Perché la verità venisse a galla, ci sono voluti circa dieci anni. Mi chiedo: in quest’arco di tempo, quale atteggiamento hanno assunto gli igienisti industriali, i medici del lavoro, i medici legali? E qual è stato l’atteggiamento dei tribunali: hanno emanato sentenze basate sull’ipotesi falsa? Un altro esempio, fra i tantissimi che si possono fare, è costituito dalle basse dosi di esposizione alle sostanze cancerogene. È noto come uno dei dogmi che ha dominato le riflessioni sulle basse
— 385 — dosi delle sostanze cancerogene è quello della estrapolazione lineare, e cioè di una estrapolazione dalle alte dosi che consentiva di affermare che non esistono soglie sicure. Anche questo dogma è stato messo in seria discussione nell’ambito scientifico: è della fine del 1997 un documento del Comitato Consultivo Scientifico dell’EPA che propone con forza un cambiamento della politica delineata dall’ente nel 1986, e basata sull’estrapolazione lineare: le nuove indicazioni scientifiche inducono a rifiutare l’ipotesi predeterminata di linearità, a favore di valutazioni del rischio non lineari, ovvero lineari/non lineari combinate. Viene così suggerita l’adozione di un approccio alla valutazione del rischio basata sulle effettive prove scientifiche (modalità di azione tossico genetica, proliferazione cellulare, differenza tra specie e differenze individuali di predisposizione); e questo nuovo approccio viene raccomandato come passo avanti verso la riduzione della profonda incertezza associata alle valutazioni del rischio, basate sulle ipotesi predeterminate. In sostanza, viene raccomandata all’EPA la decisione di utilizzare, per la valutazione quantitativa dei rischio, un modello a base biologica, cioè di applicare un modello dose-risposta a base scientifica, anziché lineare. Anche questo, come si vede, è un esempio che dimostra gli stretti rapporti tra igiene industriale e ricerca scientifica sulle sostanze cancerogene: è evidente che, se una soglia può essere definita su basi biologiche, cioè su basi reali, anziché ipotetiche, come sono quelle della estrapolazione lineare, l’igienista industriale sarà spronato a indurre le imprese a utilizzare sistemi di monitoraggio e di controllo ambientale che garantiscano sul serio il non superamento della soglia e dei limiti normativi predefiniti di esposizione massima consentita. Potrei continuare con gli esempi, ma il tempo non me lo consente: mi sembra che i due esempi proposti dimostrino, con sufficiente chiarezza, che l’igienista industriale non è e non deve essere solo un tecnico. Se vuole davvero contribuire alla tutela della salute dei lavoratori, egli deve considerarsi un tecnico-scienziato sempre al corrente dell’evoluzione della ricerca scientifica nei diversi settori: com’è stato detto benissimo da Popper, le singole discipline non esistono, anzi quello delle singole-autonome discipline è un mito che ha provocato numerosi guasti, anche tra gli studenti; esistono solo dei problemi — nel nostro caso il problema della salute dei lavoratori —, problemi che bisogna tentare di risolvere in modo globale o, se si preferisce, interdisciplinare. 4. Passo ora al problema dei rapporti tra scienza e norma, sul terreno che qui interessa, ed in particolare sul terreno delle malattie professionali. Anche qui debbo sottolineare che pure il legislatore deve essere consapevole della questione epistemologica.
— 386 — Una presa di posizione da parte del legislatore non era certo difficile ai tempi di Stuart Mill, quando imperava la convinzione che il metodo scientifico consentisse, attraverso un procedimento di tipo meccanico, la scoperta sicura delle leggi della scienza. A quei tempi, il compito del legislatore si rivelava abbastanza facile: poteva fidarsi della scienza, poteva fare le sue scelte basandosi sulla convinzione che la scienza offrisse una sicura possibilità di scelta. Ma il mito della certezza della scienza, come ho già sottolineato, è stato eroso ed è crollato, mano a mano che è progredita la riflessione sulla storia della scienza, ad opera degli studiosi di epistemologia. Il quadro che il legislatore si trova oggi di fronte è il seguente: nessuna ipotesi scientifica è al di là di ogni sospetto; la storia della scienza è la storia, tortuosa e complessa, di errori commessi, commessi per risolvere i problemi e poi eliminati, eliminati da teorie e tentativi migliori dei precedenti, a loro volta peggiori dei successivi. La storia della scienza è un cimitero di teorie errate; non c’è alcun metodo per scoprire una teoria scientifica; non c’è alcun metodo per accertare la verità di una ipotesi scientifica, cioè nessun metodo di verificazione; non c’è neppure nessun metodo per accertare se un’ipotesi è probabile, o probabilmente vera. Bisogna accontentarsi di ipotesi che possono essere considerate confermate (neo-empirismo) o corroborate (falsificazionismo popperiano) in via del tutto provvisoria. Questi brevissimi cenni ci fanno capire il senso di una domanda cruciale: le norme penali, ma anche le norme civili, debbono rispettare, ed essere espressione delle conoscenze scientifiche; ma poiché l’intervento punitivo ha dei costi altissimi, in termini di libertà personale e di sofferenza dei cittadini, esso dovrebbe basarsi su dei giudizi di certezza, o quasi certezza; ma se la certezza è irraggiungibile nella scienza, quali soluzioni potrà mai adottare il legislatore? 5. Penso che un’impostazione pragmatica del problema sia una strada obbligata: una impostazione che, da un lato, tenga conto della questione epistemologica e dall’altro utilizzi gli strumenti offerti dalla scienza in un modo che sia compatibile con i limiti conoscitivi di quest’ultimi. La verità assoluta, come la città ideale, è un’utopia; ed è un fatto che non è particolarmente difficile mettersi d’accordo sui mali più intollerabili della società in cui viviamo e sugli strumenti, anche metodologici, per affrontarli (Popper). Ed è proprio una visione pragmatica che sta alla base, e spiega lo sviluppo recente e impetuoso di discipline quali l’epidemiologia, la medicina del lavoro, la scienza della valutazione del rischio: sono scienze che cercano di eliminare, o diminuire, alcuni dei mali più profondi della nostra società, quali i tumori e le malattie professionali, ma anche i tumori e le malattie professionali non legate all’occupazione, ma ad una pluralità di cause ambientali.
— 387 — Proprio in questa prospettiva, si delinea un quadro al quale il legislatore penale deve prestare la massima attenzione. Queste giovani scienze hanno infatti dato vita ad una sorta di nuovo ‘‘paradigma’’ di valutazioni penalistiche: non più norme ancorate alla spiegazione di ciò che è accaduto, ma norme basate sulla previsione di ciò che potrà accadere; non più norme che implicano degli accertamenti ex post, ma norme imperniate su giudizi ex ante di pericolosità. Sotto questo profilo, penso che sussistano davvero i presupposti per una sorta di rivoluzione copernicana della legislazione penale. Il nostro codice risente, ovviamente, del clima culturale scientifico del periodo storico in cui è stato emanato; ed in ciò va probabilmente ricercata la proliferazione di fattispecie causalmente orientate, imperniate cioè sul collegamento causale tra evento lesivo ed azione dell’uomo, e l’assoluto primato che compete, nell’ambito di tali fattispecie, al requisito della causalità, inteso come requisito da accertare con un giudizio ex post, sulla base di criteri di certezza o di quasi certezza; ed in ciò va probabilmente ricercata la ragione dello scarso rilievo attribuito a fattispecie a tutela anticipata, alla previsione di reati di pericolo concreto. Sta di fatto che proprio scienze quali l’epidemiologia ci hanno fatto aprire gli occhi su realtà prima ignorate. In quanto studi su popolazione, gli studi epidemiologici mettono in evidenza gli eccessi di rischio di tumori e malattie in una certa popolazione, rispetto alla popolazione di riferimento; ma, proprio perché studi su popolazioni, sono diventati strumenti indispensabili per la politica sanitaria di prevenzione, mentre appaiono del tutto inutilizzabili per l’accertamento della causalità tra il singolo tumore o la singola malattia professionale e l’esposizione. Tra gli studiosi di epidemiologia, di medicina legale e di medicina del lavoro è ormai diventata un luogo comune la constatazione che attraverso le ricerche epidemiologiche è impossibile imputare i singoli tumori e le singole malattie professionali alla esposizione professionale. In altre parole, l’epidemiologia è del tutto inutilizzabile per un ordinamento penale che affida la eliminazione di alcuni dei mali della nostra società alle fattispecie causalmente orientate: se le tante sostanze chimiche usate dall’industria provocano un aumento di rischio nella popolazione degli esposti, si può dire che quelle sostanze sono ex ante idonee a produrre tumori e malattie, ma che, ex post, non è possibile una spiegazione causale dei singoli tumori, delle singole malattie che sia provvista dei necessari margini di certezza. Non è certo un caso che gli studi di medicina del lavoro e gli studi sulla previdenza pongono in evidenza proprio la circostanza che l’esposizione lavorativa deve essere considerata una condizione idonea, adeguata per la produzione delle malattie professionali; e non è certo un caso che i processi penali incontrino difficoltà insuperabili nella imputazione cau-
— 388 — sale, a titolo di omicidio colposo, dei singoli tumori, delle singole malattie professionali all’imprenditore o al datore di lavoro: nei processi penali, infatti, il giudice deve formulare dei giudizi ex post sull’esistenza del nesso causale, e non dei giudizi ex ante, basati sull’idoneità causale dell’azione, o sull’aumento del rischio dovuto all’esposizione. La strada sembra quasi senza via d’uscita, se si vuole continuare ad utilizzare l’intervento penalistico; e sono certamente comprensibili i tentativi di quei giudici che motivano le sentenze di condanna ricorrendo al concetto di condizione idonea, o di aumento del rischio, per giustificare l’imputazione causale dell’evento lesivo; comprensibili, ma non giustificabili: essi costituiscono dei gravissimi attentati ad una delle conquiste più preziose della nostra civiltà, e cioè al principio di legalità. La trasformazione dei reati di danno in meri reati di azione o di pericolo non può certo rappresentare una scelta di politica penale affidata al giudice. È su questo terreno, dunque, che si pone un grosso problema per il legislatore penale: di fronte ai risultati raggiunti dall’epidemiologia, dalla tossicologia, dalla medicina del lavoro, che cosa si deve fare? Cercherò di rispondere a questa domanda tra poco, dopo aver esaminato la questione della valutazione del rischio. 6. È venuto il momento di trattare il tema dei rapporti tra igiene industriale e norma. Anche questo è un tema di cruciale importanza, al quale forse non è stato dato il giusto peso in Italia. Posto che l’igienista industriale deve, per definizione, rispettare gli standards normativi, c’è da chiedersi fino a che punto debbano spingersi le norme nell’individuare gli standards ottimali. Due modelli si contrappongono: il primo si rifà allo schema della norma in bianco; l’altro si rifà, invece, alla norma completa, senza spazi in bianco. Possiamo dire che, a grandi linee, il primo modello è quello seguito in Italia, mentre il secondo modello è seguito dagli ordinamenti dei paesi più sviluppati, quali gli Stati Uniti. La norma in bianco è un tipo di norma che fa rinvio ad un comportamento definito, in tutto o in parte, da altre fonti; è stata, con buone ragioni, definita una forma di ritirata del legislatore dal suo compito costituzionale, che consiste nel fornire una guida alla vita sociale attraverso norme che dovrebbero riempirsi di contenuto con una definizione autoritativa. Molto spesso, il riempimento della zona bianca non viene conseguito attraverso una fonte del diritto, riconducibile ad un qualche organo statuale, ma con il rinvio a regolamenti privati. L’importanza di questo problema, per gli igienisti industriali, non può sfuggire. Il trasferimento, più o meno nascosto, di competenze legislative, a discipline emanate da gruppi, istituti o imprenditori privati non solo solleva problemi di rilevanza costituzionale, sotto il duplice aspetto
— 389 — della ripartizione dei poteri e della legalità-tassatività, ma mette in gioco lo stesso principio fondamentale di democrazia, il quale esige che gli interessi della collettività siano disciplinati da organi pubblici e non lasciati alla discrezionalità dei privati. Di più, mette in gioco lo stesso principio di efficienza delle misure per la tutela dei lavoratori, principio basato sul funzionamento della pluralità di competenze specialistiche di altissimo livello che il privato non può avere. Non ho certo bisogno di spiegarmi con degli esempi: quando la legge stabilisce che il rischio deve essere ridotto al minimo dal privato, o quando la legge, come la nostra 626, individua tra le funzioni indelegabili del datore del lavoro la valutazione del rischio e la elaborazione dei piani di sicurezza, non fa altro che lasciare degli spazi bianchi che dovranno essere riempiti dai privati, i quali raramente, se non mai, sono in grado di farlo, vuoi perché non sono disponibili sul mercato, in numero sufficiente, esperti provvisti delle necessarie competenze, vuoi perché nella scienza tra due opzioni possibili — quella che tende a minimizzare il rischio economico dell’imprenditore privato e quella che tende a minimizzare il rischio sociale degli utenti — il privato sarà ineluttabilmente indotto a scegliere la prima. E gli igienisti industriali? Se chiamati dalle imprese a svolgere il loro lavoro di prevenzione e sicurezza del lavoro, si troveranno di fronte ad enormi responsabilità, legate al proprio ruolo. Dovranno suggerire le soluzioni più costose, o quelle che danno rilievo anche agli interessi del produttore? E nei casi di incertezza, come dovranno comportarsi? Quali soluzioni suggeriranno per le basse dosi delle sostanze cancerogene? Dovranno tener conto delle estrapolazioni lineari? E nel caso di emissioni accidentali, in atmosfera, di sostanze chimiche che creano il rischio di incidenti pericolosi, come si regoleranno di fronte al problema della individuazione dei limiti entro i quali l’emissione in atmosfera di una sostanza chimica possono considerarsi consentite? E quanto all’ambiente di lavoro, quali misure di prevenzione adotteranno per evitare emissioni accidentali al di sopra dei limiti consentiti, e per valutare gli effetti del superamento di tali limiti? Per non essere frainteso, desidero precisare che gli imprenditori e gli operatori che creano il rischio debbono sostenere la responsabilità primaria della loro prevenzione; ma il problema che voglio sollevare è un altro, e ben diverso, e cioè che il privato non può essere lasciato solo nell’opera di prevenzione e di controllo del rischio. È qui che viene fuori la differenza di fondo tra il modello italiano e il modello seguito da altri paesi, come gli Stati Uniti: non esistono in Italia agenzie pubbliche quali l’OSHA, l’EPA, il NIOSH; non esistono cioè agenzie pubbliche che utilizzino i migliori scienziati del paese nei vari settori di ricerca, che forniscano, anno dopo anno, linee guida, informazioni
— 390 — scientifiche e dati sulle industrie per un adeguato e dettagliato programma di prevenzione; come non esistono in Italia i controlli capillari dei programmi di sicurezza dei privati, svolti negli Stati Uniti dalle agenzie pubbliche. In una simile situazione, gli esiti sono scontati in partenza: un sistema di prevenzione dei danni alla salute del tutto inefficace, e l’ingiusta esposizione degli imprenditori e degli igienisti industriali, che con loro collaborano, a responsabilità gravissime, sia di carattere penale, per omicidio, lesioni colpose, disastri colposi, sia in campo civile sotto il profilo del risarcimento del danno. Intendiamoci, non è tutto oro quel che riluce. Anche paesi come gli Stati Uniti hanno i loro ‘‘buchi’’: basti pensare che, dopo l’incidente di Bhopal, solo nel 1990, con l’emendamento al Clean Air Act, il Congresso americano stabilì che il primo e più importante programma federale regolamentasse la prevenzione di emissioni accidentali, potenziali e catastrofiche di sostanze chimiche acutamente pericolose nell’aria. Con questo programma, venne creato un Comitato per la sicurezza chimica e la prevenzione dei pericoli e si diede all’EPA l’autorizzazione ad emanare dei regolamenti per la prevenzione di incidenti da fughe di sostanze chimiche. Da notare che, tra il 1985 e il 1990, sia la Camera che il Senato avevano introdotto un buon numero di disegni di legge che si riferivano al problema delle fughe accidentali; uno degli argomenti più significativi del dibattito era il fallimento già acclarato della legislazione vigente, affidata all’EPA, all’OSHA e ad altre agenzie, dei contaminanti atmosferici, in seguito al Clean Air Act. Uno dei motivi del fallimento dei programmi di prevenzione e dello stesso Bhopal Bill (un disegno di legge mai approvato), fu individuato nel punto di vista miope, che non faceva distinzione tra pericoli associati a fughe improvvise, accidentali e catastrofiche e pericoli di emissioni di routine o di fughe standards, passeggere che sono comuni praticamente a qualunque procedimento chimico. Ma oggi la situazione è mutata con l’attribuzione di una competenza specifica all’EPA, nel programma di prevenzione. 7. Il problema è dunque di vedere se la nostra legislazione possa ispirarsi al modello statunitense. Certo, il tumultuoso sviluppo della ricerca e dell’industria richiede interventi sempre più penetranti di organi pubblici. Gli spazi bianchi delle norme debbono essere il più possibile riempiti da organi pubblici che incarnano gli interessi della collettività. Linee guida, programmi di intervento, monitoraggio continuo delle attività pericolose, controllo dei piani di sicurezza e di tutela della salute e controlli azienda per azienda, aggiornamento continuo dei risultati delle ricerche scientifiche compiute in tutto il mondo, questi ed altri sono i compiti che dovrebbero essere svolti da agenzie pubbliche italiane, strutturate se-
— 391 — condo le forme e le modalità adottate negli Stati Uniti; e questi compiti dovrebbero essere svolti nell’ambito di una visione d’insieme, delineata dal legislatore, che sappia trovare un giusto punto di equilibrio tra benessere sociale e progresso industriale, tra i rischi economici dell’industria e i rischi sociali dei cittadini: a modelli di razionalità epistemologica si dovrebbero affiancare modelli di razionalità culturale, che implicano una valutazione di quanto l’imposizione di un rischio sia giustificabile da un punto di vista democratico. Sul terreno più propriamente penalistico, basta uno sguardo d’insieme per capire che ancor oggi la tutela di beni primari quali la vita, la salute e la sicurezza del lavoro sono affidati principalmente al codice di un’Italia che ‘‘non aveva ancora conosciuto lo sviluppo, anche culturale, di una economia aperta al mercato mondiale, essendo anzi segnata dalle tare di origine e di bisogni tipici di una economia arretrata’’ (Marinucci). A fianco di questo arretrato e pressoché intatto nucleo penalistico originario, il diritto penale ha però conosciuto un incremento e una estensione a ritmi incalzanti, in una zona lontana e completamente diversa da quella tradizionale: è la zona dove si sono verificate reiterate trasformazioni giuridico-istituzionali, imposte da un impetuoso sviluppo dell’economia nazionale. Mi riferisco alla creazione dell’ormai noto sistema di figure criminose, poste a tutela di beni giuridici istituzionali, quali la CONSOB e la Banca d’Italia. In altre parole, negli ultimi decenni ha conosciuto un incremento la tutela penale delle pubbliche istituzioni, del controllo e del governo dell’economia, che sono state considerate portatrici di interessi collettivi talmente importanti da meritare una autonoma protezione. Ma si badi: ciò che caratterizza il nuovo modello di repressione, differenziandolo nettamente dal vecchio, è appunto la diversità dell’oggetto della tutela: non più i beni ‘‘finali’’ dei singoli, ma l’interesse collettivo a che vengano osservate le prescrizioni, e non vengano ostacolati i controlli demandati agli enti di vigilanza. Secondo la felice espressione di Marinucci, ci troviamo così in presenza di un diritto penale a due velocità: un diritto penale lento, vecchio e largamente insufficiente come quello che trova il suo nucleo nel codice penale risalente al 1930, e un diritto penale più veloce, più moderno, in grado di ‘‘assorbire’’ le accelerazioni dell’economia e della scienza. È chiaramente questo modello che va sviluppato. Altri organi di vigilanza del tipo OSHA, EPA, NIOSH devono sorgere ed una tutela penale deve essere approntata, a presidio delle loro funzioni. Questa è la sola via che io vedo per una regolamentazione ed un controllo capillare dei rischi legati ad ogni singola industria od azienda privata o pubblica; se non la si imbocca, la tutela dei beni ‘‘finali’’ della salute e della sicurezza dei singoli cittadini sarà sempre una tutela frammentaria e, alla resa dei conti, inefficace.
— 392 — Ed è proprio l’apprestamento di questo modello di diritto penale più veloce che, garantendo il funzionamento degli organi pubblici di controllo del rischio, consentirà agli igienisti industriali di avere dei punti di riferimento sicuri, ponendoli di fronte a scelte di razionalità scientifico-tecnica e culturale, indispensabili per lo svolgimento dei loro compiti. FEDERICO STELLA
LA SPIEGAZIONE CAUSALE DI EVENTI INDIVIDUALI (O SINGOLI)
SOMMARIO: 1. Premessa storica. — 2. La latenza del concetto di causa nell’Ottocento. — 3. La sussunzione della causalità nella spiegazione nomologica. — 4. Critiche di ascendenza popperiana e post-empirista. — 5. Le spiegazioni statistiche o probabilistiche. — 6. Limiti intrinseci di una spiegazione causale di tipo statistico. — 7. Il tessuto delle circostanze. — 8. Qualche osservazione sul metodo epidemiologico. — 9. Scienze storiche e scienze naturali. — 10. Che significa che una data sostanza ‘‘può’’ produrre un dato effetto?
1. Sin dagli inizi della civiltà occidentale i filosofi hanno cercato di caratterizzare in che consiste la conoscenza completa e del tutto soddisfacente di un fatto o di un evento, ed hanno individuato tre aspetti o momenti essenziali di questo processo: — la determinazione strettamente fattuale o il che (latinamente, il quia); — la comprensione della struttura o modalità dell’evento, ossia il come (latinamente, il quomodo); — la scoperta delle ragioni dell’evento (latinamente, il propter quid). Questi tre momenti possono essere denotati, con terminologia più moderna, come quello della descrizione del fatto, della sua interpretazione e della sua spiegazione. Non sempre è possibile, per un determinato ambito di realtà, raggiungere tutti questi obiettivi e, in tali casi, il pensiero classico non parlava di scienza, bensì di un sapere più limitato, di tipo descrittivo, classificatorio o ermeneutico. Oggi, peraltro, abbiamo attenuato i requisiti della scientificità, e siamo disposti a parlare di scienze anche nel caso di discipline esclusivamente (o quasi esclusivamente) di osservazione e classificazione, pur conservando l’aspirazione, quando sia possibile, a pervenire anche alla spiegazione. Di quanto questa sia difficile, peraltro, anche i classici erano ben consapevoli (si ricordi l’ammonizione dantesca: ‘‘state contente, umane genti, al quia’’). La spiegazione veniva chiamata una conoscenza che coglie le cause (di qui la famosa definizione della scienza — intesa nel senso forte sopra menzionato — come uno scire per causas), cosicché si può affermare che il senso classico della spiegazione è quello della spiegazione causale. Va per altro subito osservato che il concetto di causa veniva inteso in senso
— 394 — molto articolato, che oggi tradurremmo con la locuzione ‘‘la ragione per cui’’ un dato evento si verifica. Aristotele stabilì la famosa distinzione delle quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale, in base alla quale, ad esempio, poteva affermare che le premesse di un ragionamento sono ‘‘causa’’ delle conclusioni (mentre oggi non diremmo più che le ipotesi di un teorema sono la ‘‘causa’’ della tesi, ma appunto le ragioni logiche o il fondamento logico della tesi). Ciò è dovuto al fatto che, come conseguenza storica dello sviluppo della scienza naturale moderna, noi abbiamo ristretto la nozione di causa a quella della causa efficiente, ossia di quella che produce l’effetto, lasciando implicitamente sussistere la nozione di causa materiale sotto forma di condizioni concrete sulle quali agisce la causa efficiente, e lasciando cadere (salvo nelle scienze che riguardano l’azione umana) la causa finale e la causa formale. Quest’ultima, in particolare, fu proprio il bersaglio della scienza naturale moderna. ‘‘Forma’’, infatti, significa nel linguaggio filosofico classico l’essenza di una cosa e, secondo tale pensiero, la conoscenza dell’essenza, la quale contiene in sé anche il fine intrinseco secondo cui si sviluppa il modo di essere di una data realtà, consente la deduzione necessaria dei modi di essere di quella data cosa. La scienza moderna, viceversa, prende le mosse dalla decisione esplicita di Galileo di non cimentarsi (nel caso delle realtà naturali) con l’ ‘‘impresa disperata’’ di cogliere preliminarmente l’essenza delle cose, accontentandoci di descrivere e comprendere certe loro caratteristiche empiricamente constatabili e traducibili in linguaggio matematico. Evidentemente, la rinuncia al punto di vista essenzialistico faceva sorgere il difficile problema di giustificare l’aspetto di necessità che inerisce all’uso intuitivo del concetto di causa, e la filosofia moderna si è molto affaticata attorno a questo problema. Un utile punto di riferimento per comprendere questa vicenda è offerto dalla riformulazione del principio di causalità offerta da Leibniz sotto il nome di principio di ragion sufficiente, che suona: nulla accade senza una ragione. Preso così, si tratta di un principio metodologico che, applicato ai diversi ambiti di indagine, spinge a ricercare, nei modi specifici di ogni singolo ambito, le ‘‘ragioni’’ di un evento. Che cosa significhi trovare le ragioni può poi essere così precisato: dobbiamo poter rispondere alla domanda circa il perché di un dato evento, e la risposta ad una domanda circa il perché viene offerta se si è in grado di dire: ‘‘se succede questo o quest’altro... allora ne deriva logicamente tale conseguenza’’ (ossia quanto osservato, o ciò di cui si cerca la ragione). Questo modo di vedere, già esplicitamente rintracciabile in Aristotele, consente di definire in senso lato la ragione o il fondamento come una spiegazione completa della conseguenza; pertanto tale ragione è detta anche la conditio sine qua non dell’evento (ossia una condizione necessaria), mentre una ragione sufficiente viene definita come l’unica condi-
— 395 — zione sufficiente della conseguenza. Leibniz poteva quindi proporre di applicare addirittura la logica simbolica alla determinazione delle ragioni sufficienti e alla rappresentazione dei vari rapporti fra condizioni nei diversi ambiti del sapere. L’analisi leibniziana conteneva aspetti della massima importanza, ma era ancora troppo generica, in quanto la pura forma logica che essa poneva in evidenza celava, fra l’altro, la differenza fra ragioni reali e ragioni conoscitive e, per di più, non indicava come si possono riconoscere le effettive ragioni o cause. Di questa difficoltà è ben consapevole Kant, il quale distingue fra piano dell’essere e piano della conoscenza e (considerando intrattabile il primo, in quanto noi non conosciamo le ‘‘cose in sé’’) limita il suo discorso al secondo. Qui egli distingue il semplice aspetto logico-formale (che permette di collegare premesse assunte ipoteticamente e loro conseguenze logiche) e l’aspetto contenutistico, che consiste nell’applicare a dati di esperienza le categorie a priori dell’intelletto (fra la quali anche il principio di causalità). Si ottengono in tal modo i giudizi sintetici a priori i quali, nei casi concreti delle conoscenze naturali, danno luogo a giudizi puramente ipotetici circa il fatto che un determinato evento sia la causa di un altro evento. In altri termini, secondo la dottrina kantiana, è assolutamente necessario che un certo effetto empiricamente constatabile debba avere una causa e che, pertanto, se noi esprimiamo una relazione causale fra eventi, questa debba essere intesa come necessaria (con ciò si supera il punto di vista humeano che riduce la causalità alla semplice constatazione di regolarità), ma tale necessità è relativizzata al contesto epistemico. Ciò significa, in parole povere, che se noi perveniamo in un modo o nell’altro ad affermare che fra due eventi sussiste una relazione di causa-effetto, questa deve essere intesa obbligatoriamente come una relazione necessaria. 2. La diffusa diffidenza verso la ‘‘metafisica’’ che caratterizzò la cultura del positivismo ottocentesco condusse ad una specie di ‘‘eliminazione’’ del concetto di causa nelle scienze e, in particolare, a negare che le leggi fisiche (come Kant pensava) esprimessero dei nessi causali. A partire da A. Comte, padre del positivismo, lo scopo della scienza fu ridotto allo scrupoloso accertamento descrittivo di fenomeni, e alla constatazione di regolarità (esse pure empiricamente constatabili) tra fenomeni: le leggi naturali altro non erano che la registrazione di tali regolarità, senza alcun sottinteso causale o, se si vuole, tale regolarità o costanza non veniva concepita come esprimente alcuna necessità. Tuttavia ciò cancellava dalla scienza ogni compito esplicativo e perfino interpretativo e, di fatto, lo scienziato positivista (nel campo delle scienze naturali non meno che in quello delle scienze storico-sociali) si gloriava di presentare i nudi fatti, senza permettersi di dare delle interpretazioni o delle spiegazioni di essi.
— 396 — Se non che questo contrastava, per un verso, col fatto che proprio la scienza ottocentesca spicca per la prodigiosa edificazione di complesse teorie nei più disparati settori, per altro verso col fatto che le teorie scientifiche consentono un gran numero di previsioni e che, in aggiunta, proprio il senso causale delle loro leggi consente la loro applicazione tecnologica (la quale consiste nel costruire apparecchiature artificiali che producono certi effetti voluti come conseguenza concreta di certi processi realizzati nell’artefatto). 3. Per le ragioni sopra richiamate, il Novecento non tardò a cambiare il modo di considerare la scienza, soprattutto ad opera di quel movimento di pensiero che alla scienza intendeva attribuire il massimo livello di dignità nell’ambito della conoscenza umana, fino a farne l’unica forma di conoscenza realmente degna di questo nome: il neopositivismo, detto pure positivismo logico o empirismo logico. Il nerbo di questa concezione consiste nell’attribuire alle leggi scientifiche la caratteristica di esprimere il massimo grado di oggettività e attendibilità conseguibile dall’uomo e nel vedere in esse la maniera più adeguata di comprendere e spiegare il mondo, oltre che l’unica vera base ‘‘razionale’’ per agire in esso (1). Riemerge quindi con forza (soprattutto ad opera di autori come Carnap e Hempel) la tematica della spiegazione scientifica che riprende, approfondendole, le prospettive già avanzate da Aristotele e Leibniz (2). Secondo la concezione neoempirista (accolta peraltro in misura assai ampia anche da altre correnti di pensiero epistemologico), la spiegazione di un evento singolo consiste in una deduzione logica in cui figurino fra le premesse almeno una legge universale (che è invalso l’uso di chiamare ‘‘legge di copertura’’) e un certo numero di premesse fattuali (che descrivono quelle che solitamente vengono dette ‘‘condizioni iniziali’’ e ‘‘condizioni al contorno’’), tali che la legge (o le leggi) in premessa si applichi a tali premesse fattuali e, dopo un numero finito di deduzioni logiche (che in certi casi possono assumere il carattere di calcoli matematici), conduca (1) Basti qui menzionare due sole opere di stile ‘‘programmatico’’, nelle quali viene sottolineata una simile adozione della scienza come unica chiave di lettura adeguata per la conoscenza della realtà: il ‘‘manifesto’’ del Circolo di Vienna (cfr. HAHN-NEURATH-CARNAP, Wissenschaftliche Weltauffassung. Der wiener Kreis, Wien, 1929) e il volume di REICHENBACH, The rise of scientific philosophy, New York, 1951. (2) Fra le opere di Carnap merita particolare considerazione, dal punto di vista di questo tema, CARNAP, Philosophical foundations of physics, 1966, trad. it. I fondamenti filosofici della fisica, Milano, 1971. Quanto ad Hempel, valga come riferimento principale il volume in cui egli stesso ha raccolto e sistemato i suoi più importanti contributi alla teoria della spiegazione scientifica, ossia HEMPEL, Aspect of scientific explanation, New York, 1965, trad. it. Aspetti della spiegazione scientifica, Milano, 1987. Del medesimo autore ha carattere più espositivo il testo HEMPEL, Philosophy of natural science, 1966, noto anche in traduzione italiana, Filosofia delle scienze naturali, Bologna, 1968.
— 397 — come conclusione all’enunciato che descrive, nel linguaggio di quella scienza in cui sia le leggi che le condizioni iniziali e al contorno sono state formulate, l’evento singolo. Tale enunciato E costituisce l’explanandum, mentre l’explanans è costituito dall’insieme delle leggi di copertura L e dall’insieme delle condizioni iniziali e al contorno C: L & C implica E. Possiamo notare alcune cose: a) la legge o le leggi di copertura debbono essere universali; b) le condizioni iniziali e al contorno sono fattuali e contingenti; c) l’implicazione logico-deduttiva è necessaria. Per le ragioni anzidette si comprende perché questo modello della spiegazione scientifica è stato chiamato nomologico-deduttivo (3). Su questa base l’epistemologia contemporanea ha tentato un notevole recupero della nozione di causalità, identificando in pratica la spiegazione causale con la spiegazione nomologico-deduttiva. Affinché questa sussunzione non risulti troppo arbitraria, è importante vederne alcune ragioni. Tenuto conto dell’impostazione empiristica e antimetafisica dell’epistemologia neopositivista, il rapporto causale viene inteso come una regolarità, senza la pretesa né di ‘‘vedere’’ l’atto di ‘‘produzione’’ dell’effetto da parte della causa, né di attribuire tale causazione a proprietà ‘‘essenziali’’ insite negli enti osservati. Per altro verso, si accetta che la causalità debba aggiungere alla regolarità anche la caratteristica della necessità. Sembrerebbe che questa caratteristica sia assicurata dalla necessità della deduzione logica, ma questa non è in realtà sufficiente. La richiesta che fra le premesse figurino leggi universali si fonda proprio sul presupposto che tale universlità sia l’espressione di una qualche necessità. Ovviamente, la scienza e l’epistemologia moderna lasciano completamente indeterminata (3) Quella qui brevemente schizzata si può considerare come la concezione standard della spiegazione scientifica nel senso che, pur essendo stata elaborata dettagliatamente all’interno di una particolare scuola epistemologica (quella del positivismo logico), è stata accolta senza sostanziali modifiche anche dalle altre epistemologie del nostro secolo, a cominciare da quella di Popper che, per molti aspetti, intende proporsi come alternativa a quella neoempirista. Non è dunque un caso che la si ritrovi in pressoché tutti i manuali classici di filosofia della scienza disponibili anche in lingua italiana, quali, oltre i già citati CARNAP, op. cit., e HEMPEL, op. cit.; POPPER, Logik der Forschung, 1934, ed. inglese rinnovata The logic of scientific discovery, New York, 1959, trad. it. La logica della scoperta scientifica, Torino, 1970; NAGEL, The structure of science. Problems in the logic of scientific explanation, New York, 1961, trad. it. La struttura della scienza, Milano, 1968; PAP, An introduction to the philosophy of science, 1962; BRAITHWAITE, Scientific explanation, London, 1953, trad. it. La spiegazione scientifica, Milano, 1966; AGAZZI, Temi e problemi di filosofia della fisica, Milano, 1969, rist. Roma, 1974. Un testo di esemplare chiarezza, in cui sono esaminate diverse accezioni del concetto di spiegazione e, in particolare, si illustrano i rapporti fra queste e i problemi di causalità è STEGMÜLLER, Historische, psychologische und rationale Erklärung: Kausalitätsprobleme, Determinismus und Indeterminismus, Berlin, 1969.
— 398 — la natura epistemica delle leggi, per la già menzionata diffidenza verso precisazioni ‘‘metafisiche’’, ma va sottolineato che di fatto il ruolo della necessità viene interamente scaricato sul requisito dell’universalità: proprio perché si ritiene che una legge universale esprima un nesso causale (quindi necessario) tra fenomeni, ha senso ritenere che questo nesso continui a valere anche quando la legge si applica alle condizioni espresse in C, e pertanto dia luogo ad un nesso non puramente ‘‘logico’’, ma anche ‘‘causale’’ con l’evento E da spiegare. In particolare, si trovano qui soddisfatti i tre requisiti dell’impostazione leibniziana: si tratta di una spiegazione, è presente la necessità, il tutto poggia su una rappresentazione logica degli eventi. Che la traduzione nomologico-deduttiva della relazione causale sia veramente adeguata può esser posto in dubbio: ad esempio, la nozione intuitiva di causalità le attribuisce i caratteri di una relazione irriflessiva (A non può essere causa di A), asimmetrica (se A è causa di B, B non è causa di A) e transitiva (se A causa B e B causa C, anche A rientra fra le cause di C), e questi caratteri non sono riflessi (salvo l’ultimo) nel semplice nesso di deduzione logica. Inoltre, le leggi fisiche sono in generale reversibili rispetto al tempo (ossia: se dallo stato attuale di un sistema è possibile predire il suo stato in un tempo futuro, e pensarlo quindi come ‘‘causato’’ dallo stato iniziale in base a determinate leggi, queste medesime leggi consentono anche di retrodire lo stato passato del sistema, ma in tal caso riesce ben difficile pensare che lo stato attuale sia la ‘‘causa’’ dello stato passato). Queste difficoltà si possono peraltro ovviare mediante opportune parametrizzazioni rispetto al tempo delle logiche impiegate (un problema tecnico complesso, ma non insolubile). Due difficoltà più serie riguardano il tipo di necessità che si può attribuire alle leggi fisiche: essa non è certamente una pura necessità logica (tant’è vero che per stabilire dette leggi è indispensabile ricorrere all’esperienza) e, inoltre, il fatto che proprio questa legge fisica e non un’altra valga in questa circostanza è un fatto contingente. Se la necessità che si ritiene inclusa in una legge naturale non è identificabile con una necessità logica (in quanto non sarebbe contraddittorio pensare che la legge non valga) e deve quindi essere di qualche altro tipo, di quale tipo sarà mai? La pura universalità, evidentemente, non basta: se stabilisco con assoluta certezza che tutte le monete contenute ora nel mio borsellino sono pezzi da 100 lire, posso correttemente dedurre che, se estraggo una moneta dal borsellino, questa sarà un pezzo da 100 lire; ma chi vorrà sostenere che la ‘‘causa’’ del suo essere una moneta da 100 lire è il fatto di esser stata estratta dal mio borsellino? In altri termini, come distinguere una universalità nomica (quella che si esige dalle leggi) da una pura universalità statistica? I vari tentativi effettuati per venire a capo di questa difficoltà si sono mostrati altrettanto ingegnosi quanto infruttuosi, e ciò getta una luce
— 399 — di dubbio sulla legittimità di assumere una universalità come garanzia sufficiente di un rapporto causale. Ma bisogna anche riconoscere che proposte per superare l’ostacolo (ad esempio quella popperiana e della Cartwright di introdurre la nozione di disposizione o propensità di un certo stato di cose a produrre in circostanze opportune un certo altro stato di cose) non hanno ancora dato luogo a sviluppi soddisfacenti (4). Possiamo quindi concludere che, pur con la consapevolezza dei limiti indicati, l’adozione del modello nomologico-deduttivo come traduzione del nesso causale costituisce tuttora lo strumento più adeguato, o il meno inadeguato, per venire a capo della determinazione della causa di un evento individuale o singolo. 4. Per ragioni di obiettività si deve per lo meno accennare a difficoltà di fondo che, ancorché spesso non esplicitamente espresse, emergono nei confronti del punto di vista sopra espresso all’interno dell’epistemologia, in primo luogo, di Popper. In questa epistemologia non esistono, a stretto rigore, delle leggi naturali con quel valore di universalità e necessità che gli empiristi logici loro attribuivano. Secondo Popper, tutte le leggi, anche le semplici generalizzazioni empiriche, sono congetture che stanno in piedi fino a quando non si scopra un evento empirico che le contraddice: è ben vero che, anche secondo Popper, la spiegazione scientifica ha la struttura del processo nomologico-deduttivo sopra descritto, ma essa è del tutto provvisoria e in linea di principio refutabile. Si capisce allora che, se vogliamo usare questo modello per l’ ‘‘imputazione causale’’ (ossia per l’attribuzione di un certo evento ad una ben determinata causa), ci vediamo svanire proprio quel carattere di necessità delle leggi su cui esso poggia. Per di più, sempre secondo Popper, anche la determinazione dei fatti empirici costituenti le condizioni iniziali e al contorno è soggetta alla medesima provvisorietà. Solo la necessità del nesso logico rimane intatta, ma è ovvio che, dal punto di vista popperiano, l’imputazione causale dell’evento singolo rimane sempre solo congetturale e più o meno incerta. Ancor più drastiche sono le conseguenze del punto di vista espresso da Kuhn, Feyerabend e altri epistemologi detti post-empiristi. Secondo costoro, leggi e teorie non sono garantite (sia pure con gradi diversi di certezza) dal rispetto dell’evidenza empirica e del rigore logico, bensì dall’accettazione di certi ‘‘paradigmi’’ aprioristici adottati dalla comunità scientifica in un certo momento storico, e che possono venire semplicemente ab(4) Le idee di Popper, in tale direzione, sono state enunciate, come è noto, nel suo sforzo di interpretare come ‘‘propensità’’ le probabilità statistiche con cui si presentano i fenomeni quantici. Un tentativo interessante di sfruttare con maggiore generalità questa prospettiva è illustrato in CARTWRIGHT, Nature’s capacities and their measurement, Oxford, 1989.
— 400 — bandonati e rimpiazzati da altri opposti in base a motivi puramente contingenti e di tipo socio-culturale, paradigmi che non solo possono condurre a mutare le leggi di riferimento, ma anche a ‘‘vedere diversamente’’ i fatti empirici e a considerare o meno cogenti le argomentazioni logiche (5). Non possiamo addentrarci in un’analisi critica di queste posizioni: diremo soltanto che, prese nel loro aspetto corretto, esse inducono ad adottare una serie di cautele critiche nell’accettazione di teorie scientifiche spesso ritenute salde senza adeguati supporti, o tenute in piedi con ipotesi ad hoc, e che, in ogni caso, obbligano a tener sempre strettamente conto della relativizzazione al contesto di riferimento e delle metodologie di accertamento empirico di volta in volta adottate (e dei loro limiti di validità e generalizzabilità). Con queste cautele, dunque, è possibile continuare a dar credito alla ricerca di cause di un evento singolo mediante il ricorso al modello nomologico-deduttivo, opportunamente affinato secondo quanto diremo in seguito. 5. Già i difensori del modello nomologico-deduttivo della spiegazione si erano resi conto della difficoltà rappresentata dalla presenza, nelle scienze anche fisiche, di leggi non rigorosamente universali, ma esprimenti solamente delle ‘‘probabilità’’ più o meno elevate che, ad esempio, dato un evento di tipo A, ne seguisse un altro di tipo B. Ne avevano quindi concluso che, applicando tali leggi, in presenza di date condizioni iniziali e al contorno, non era possibile dedurre logicamente con assoluta certezza il presentarsi di un evento E, cosicché anche il suo non presentarsi non infirmava la legge probabilistica assunta fra le premesse. Questo fatto veniva tradotto dicendo che la legge in questione, unitamente alle condizioni iniziali e al contorno, consente di dedurre E soltanto con una certa probabilità. Qualche precisazione è indispensabile, e la prima riguarda il diverso senso del termine ‘‘probabilità’’ impiegato in questo discorso. Quando si dice che la legge iniziale ha solo un carattere probabilistico si intende (per lo meno usualmente) che essa mostra una certa regolarità statistica di tipo frequentista fra il presentarsi di un evento di tipo A e uno di tipo B. Che significato ha dunque asserire, poi, che tale legge, unita alle condizioni iniziali e al contorno, non implica necessariamente, ma solo con un certo grado di probabilità l’evento E? Evidentemente si tratta di un altro tipo di probabilità, detto talvolta probabilità logica, che equivale in sostanza a un grado di attesa o un grado di fiducia nel verificarsi di E. Qui, però, va operata una distinzione: dalla legge stati(5) Cfr. ad esempio, KUHN, The structure of scientific revolutions, Chicago, 1962, rist. 1970, trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, 1978 e FEYERABEND, Against method, London, 1975, trad. it. Contro il metodo, Milano, 1979.
— 401 — stico-frequentista segue logicamente in modo necessario una conseguenza che è essa pure statistico-frequentista e che, come tale, deve risultare vera se l’ipotesi è vera. In altri termini, se dalla legge che assegna al verificarsi di un evento di tipo B in connessione con A una probabilità p, segue logicamente che, date certe condizioni iniziali e al contorno, esiste una probabilità q che si verifichi l’evento E, ciò significa che, in un collettivo di prove opportuno, la frequenza (relativa) di eventi di tipo E deve essere q, entro limiti di tolleranza che il calcolo delle probabilità si preoccupa di precisare. Se la frequenza relativa in questione è ‘‘molto diversa’’ (sempre secondo i criteri di tolleranza suddetti) da q, la legge viene smentita come una qualsiasi legge universale che cada in difetto di fronte a un controllo empirico opportuno (6). Qui però si vede come l’applicazione della spiegazione statistica alla ricerca delle cause dell’evento singolo sia molto problematica. Infatti è solo per una sorta di estensione del linguaggio che noi parliamo (dal punto di vista frequentista) di probabilità dell’evento singolo; è un modo di dire che sottintende questo: se effettuassimo un numero adeguato di prove, l’evento dovrebbe presentarsi con una frequenza q. Il fatto è, però, che quando siamo di fronte all’evento E che si è prodotto, ossia quando non possiamo immergerlo in una serie di prove perché è appunto singolo, non siamo in grado di attibuirgli come causa quella che la legge statistica prevederebbe, se non con un grado di fiducia proporzionale alla probabilità insita nella legge di copertura. Ecco perché, soprattutto quando lo schema nomologico-deduttivo viene applicato alla ricerca delle cause dell’evento singolo, gli autori che trattano questo tema sono concordi nell’esigere che la probabilità frequentista espressa nella legge di copertura sia molto prossima ad 1, ossia alla certezza, come risulta chiaro dalle opere che abbiamo già citato in precedenza (7). Non si tratta di una semplice misura di cautela, bensì del fatto che, come si è visto, si può parlare di causalità solo in presenza di un nesso necessario; già il fatto di far coincidere tale necessità con una universalità non è esente da problemi, ma almeno questa deve essere assicurata. Ora, una legge statistica, proprio perché ammette eccezioni, già indica di per sé l’assenza di necessità e il minimo che si possa esigere è che essa sia vici(6) Per una rapida rassegna critica dei diversi concetti di probabilità, e del diverso contesto nel quale sono stati elaborati (e sono correttamente applicabili), si può vedere AGAZZI, Probability: a composite concept, saggio incluso in un volume dedicato all’uso delle probabilità nelle scienze (cfr. AGAZZI, Probability in the sciences, Dordrecht, 1988). (7) In realtà il problema è ancor più complesso e riguarda le connessioni tra probabilità e induzione. Si tratta di un campo di indagine assai vasto e complesso sul quale non è il caso qui di soffermarci. Può essere utile, tuttavia, segnalare che la riconduzione dei metodi induttivi al calcolo delle probabilità è stata efficacemente criticata, ad esempio, in COHEN, The implications of induction, London, 1970; ID., The probable and the provable, Oxford, 1977.
— 402 — nissima all’universalità, ossia che la frequenza relativa che essa esprime sia vicinissima a 1 (8). 6. a) Abbiamo già rilevato che la semplice universalità di fatto non implica un nesso causale (si veda l’esempio delle monete nel borsellino), ma le rilevazioni statistiche non possono fornire nulla più che questo. b) Perfino un’elevata probabilità statistica, interpretata come ‘‘sintomo’’ di una dipendenza causale, non garantisce l’imputazione causale dell’evento singolo. Ad esempio, si considera statisticamente provato che il fumo può ‘‘produrre’’ il cancro al polmone, tuttavia non soltanto ci sono accaniti fumatori che non contraggono il cancro al polmone, ma ci sono anche molte persone che contraggono tale cancro senza aver mai fumato (quindi il fumo non ne costituisce la conditio sine qua non). Pertanto, perfino se riscontriamo un cancro al polmone in un fumatore non possiamo concludere con certezza che il fumo ne è stata la causa. c) A fortiori, una correlazione statistica di bassa frequenza non è assolutamente in grado di stabilire l’imputazione causale dell’evento singolo. Ci si può chiedere, allora, perché si attribuisce importanza alle rilevazioni statistiche come indicazioni di rischi nei confronti di determinati eventi indesiderati. La risposta è facile, se si tiene conto di quanto detto in precedenza: la correlazione statistica permette di ricavare una conclusione essa pure statistica circa determinate correlazioni, e suggerisce quindi una profilassi ragionevole. Se, ad esempio, risulta statisticamente che il cancro al polmone colpisce in percentuale molto più elevata i fumatori, piuttosto che i non fumatori, sarà ragionevole condurre una campagna contro il fumo, perché si può essere ‘‘praticamente’’ certi che, sul complesso della popolazione che accetterà di astenersi dal fumo, il cancro al polmone diminuirà. Appare pertanto chiara la diversa ratio dell’uso delle correlazioni statistiche fra eventi di tipo A e B: se la correlazione è molto bassa, è ra(8) Queste considerazioni spiegano perché l’applicazione di una causalità di tipo puramente probabilistico, che non consenta conclusioni di ‘‘quasi certezza’’, in contesti penalistici sia considerata improponibile dai giuristi che meglio hanno approfondito il tema. Oltre al classico volume di STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, rist. 1990 con l’appendice costituita dal saggio La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria p. 307 per quanto riguarda l’ambito italiano, basti citare, per quanto riguarda l’ambito tedesco, SCHULZ, Kausalität und strafrechtliche Produkthaftung, in LÜBBE, Kausalität und Zurechnung, Berlin-New York, 1994. Un’accurata e probante critica al ‘‘probabilismo’’, oltre che dal già citato COHEN, è sviluppata, secondo un ordine di considerazioni diverso, da uno dei maggiori specialisti in fatto di spiegazione causale, ossia in SALMON, Scientific explanation and the causal structure of the world, Princeton, 1984, mentre in un importante lavoro di ARMSTRONG, What is a law of nature, Cambridge, 1983 è stato chiarito come perfino nel caso di leggi statistiche l’intento sottinteso sia quello di formulare rapporti necessari.
— 403 — gionevole ritenere che si tratti di semplici occorrenze casuali o fortuite; se essa raggiunge valori significativi, si può ragionevolmente pensare che indichi la presenza di eventi di tipo A fra le cause di eventi di tipo B, e che quindi il prodursi di A possa costituire un certo rischio di veder prodursi B. Ne consegue che se si vuole evitare B, sarà ragionevole evitare A. Tale ragionevolezza diverrà tanto maggiore quanto più elevato è il grado della correlazione, e quanto maggiore è il peso che si attribuisce al voler escludere il prodursi di B. In altri termini, si tratta di un giudizio di tipo non già conoscitivo, bensì pratico (o di saggezza). Questo può indurre anche il singolo individuo a non realizzare un comportamento di tipo A (ad esempio, fumare) onde evitare il rischio del verificarsi per lui del singolo evento di tipo B (il suo cancro al polmone) che, pur non essendo attribuibile causalmente con assoluta certezza ad A (al fumo) ha una certa probabilità, addirittura piuttosto elevata, di dipenderne (9). Diverso è il caso della finalità conoscitiva. In questo caso la correlazione statistica non è inutile, anche nella ricerca delle cause dell’evento singolo: se un malato presenta certi sintomi di tipo B, e questi sono correlati con frequenza molto prossima ad 1 a fattori di tipo A, è immediato puntare su A come causa di B ed eliminare A per far scomparire B. Ma se la correlazione è solo ‘‘abbastanza elevata’’ ciò non è gia più garantito, e ancor meno lo è se questa è piuttosto bassa. In tali casi bisognerà ricorrere a diverse congetture e adottare diverse terapie, finché quella che ha successo consentirà di concludere che ‘‘in realtà’’ B era causato da tale o tali fattori, fra i quali forse A non rientrerà neppure. In altri termini, in questi casi, le correlazioni individuate consentono di identificare certi campi di possibilità particolarmente plausibili e di tentare delle indagini conoscitive di confronto di tipo ‘‘eliminativo’’, nel senso che si ritiene individuata la causa quando, rimossa questa, risulta eliminato l’effetto. È ovvio, però, che questo procedimento conoscitivo è inapplicabile quando non v’è alcuna possibilità di far scomparire l’effetto singolo considerato e già accaduto (ad esempio se questo è un decesso). 7. Un affinamento della prospettiva nomologico-deduttiva, suggerito in parte anche dalle considerazioni precedenti, viene offerto da un’analisi più dettagliata dei casi concreti di imputazione causale (o attribuzione causale che dir si voglia) di eventi singoli. Vi si riscontra sempre la presenza di numerose circostanze o condizioni, nelle quali il prodursi di un certo evento singolo A provoca l’evento singolo B. Ad esempio, (9) Si vede, dunque, quanto siano delicati e complessi i rapporti concetttuali fra probabilità e rischio e, in particolare, come richieda opportune cautele non soltanto l’uso delle probabilità nel risk assessment (ossia nella valutazione del rischio), ma ancor più nell’assunzione del rischio. Per una discussione in proposito rinviamo al capitolo Il problema del rischio in AGAZZI, Il bene, il male e la scienza, Milano, 1992.
— 404 — quando si ricerca la causa di un incendio, si può giungere ad attribuirla ad un corto circuito, ma è chiaro che questo non avrebbe provocato l’incendio se non ci fossero stati sul luogo materiali infiammabili, una sufficiente quantità di ossigeno nell’aria, e via dicendo. In questo caso il rapporto causale non può essere espresso in forma di necessità logica (che indurrebbe a dire: se non ci fosse stato il corto circuito, l’incendio non avrebbe potuto aver luogo, poiché l’incendio avrebbe potuto esser determinato, ad esempio, da un mozzicone di sigaretta). Ciò significa che un evento A può esser considerato come condizione necessaria di un altro evento B soltanto relativamente a certe circostanze contingenti e, per di più, in presenza di condizioni quasi permanenti rispetto alle quali A costituisce una sorta di perturbazione. Si vede, in tal modo, che l’analisi delle cause può condurre a risultati molto diversi a seconda del grado di ‘‘profondità’’ con cui si analizza il problema. Supponiamo che un ponte crolli al passaggio di un’automobile: sarà questa la causa del crollo? Probabilmente non lo diremmo mai, ma ricercheremmo la causa in un cedimento del terreno, in un difetto di progettazione, nell’uso di materiali al di sotto degli standards regolamentari, e via dicendo. In ogni modo, solo la considerazione di A congiuntamente al complesso delle condizioni particolari e di quelle permanenti permette di determinare delle condizioni sufficienti, ma non necessarie dell’evento ‘‘causato’’, nel senso preciso che l’evento avrebbe potuto verificarsi causalmente in altro modo sotto altre circostanze. Pertanto, il corto circuito, per restare nel nostro esempio, è una parte non superflua, ma di per sé non sufficiente di una condizione sufficiente ma non necessaria dell’incendio. Che questo tipo di analisi (sviluppato in particolare da Mackie) (10) non soppianti il punto di vista nomologico-deduttivo si ricava dal fato che l’analisi di queste reti di circostanze permette di costruire dei ‘‘tipi di eventi’’ che assumono poi il ruolo di quelle premesse nomologiche o statistiche di cui già si è parlato. Inoltre, i singoli anelli delle varie imputazioni causali sottintendono sempre la loro giustificazione in base a leggi. L’interesse di questo affinamento consiste nel fatto che si assume come punto di partenza la prospettiva di senso comune secondo cui il rapporto causale si istituisce sempre fra eventi singoli e ontologicamente indubitabili (si tratta, per così dire, di fatti). È un’interessante posizione intermedia fra il semplice punto di vista della ‘‘regolarità’’ e quello della nomologicità, al quale mancano tuttora, peraltro, gli equipaggiamenti logico-formali adeguati per farne una teoria forte della spiegazione causale. 8. Il metodo epidemiologico può rendere alcuni servizi nella ricerca delle cause purché se ne riconoscano meriti e limiti. L’epidemiologia è lo (10)
Cfr. MACKIE, The cement of the universe, Oxford, 1974, rist. 1980.
— 405 — studio della frequenza e della distribuzione delle malattie e dei fattori di rischio per le malattie nelle popolazioni umane. Per sua natura essa ha quindi a che fare con collettivi e la sua utilità, da tempo riconosciuta, consiste nel progettare misure di prevenzione o protezione che riguardano l’intera popolazione e che, se osservate, si traducono anche in vantaggi per i singoli individui. Essa ha dunque relazione con l’aspetto causale, ma nel senso che, consentendo di ipotizzare certe relazioni di causa-effetto fra determinati fattori patogeni e certe malattie diffuse, può indurre ad ‘‘eliminare’’ le presunte cause, secondo il tipo di ragionamento pratico o di saggezza di cui già abbiamo detto in precedenza. Qui appaiono, però, le condizioni alle quali l’epidemiologia può aspirare ad una piena dignità scientifica. Affinché l’analisi epidemiologica possa davvero aspirare ad un resoconto causale sono necessarie due condizioni: la prima è che esista una base scientifica che consenta di ritenere che i presunti fattori patogeni siano per davvero tali. Questa è condizione assolutamente indispensabile dal momento che, per sua natura, l’epidemiologia ha carattere olistico, ossia considera popolazioni immerse in un certo ambiente e, pertanto, la rete delle condizioni di cui si è parlato sopra ha un peso notevolissimo, e si deve essere in grado di stabilire che le patologie non dipendano da alcune, o dalla somma di varie, fra le condizioni in senso lato ‘‘ambientali’’, piuttosto che dai presunti fattori patogeni o di rischio. Il secondo aspetto consiste nel fatto che anche l’epidemiologia, se vuole essere scientifica nel senso delle scienze naturali cui essa tende ad assimilarsi, deve soddisfare i requisiti del metodo sperimentale. Non potendo questa sperimentazione esser pensata come una ‘‘manipolazione’’ in senso lato (diversamente si cade nel ben noto processo della sperimentazione clinica, e allora parlare di epidemiologia è quasi un travisamento), il controllo sperimentale di un’ipotesi epidemiologica consiste sostanzialmente nell’adottare le misure preventive che essa raccomanda, e constatare dopo un certo tempo se, sull’insieme della popolazione, si è verificata una riduzione significativa dei casi di morbilità oggetto dell’indagine. La situazione delicata dell’epidemiologia risiede nel fatto che essa lavora su cause che agiscono ai ‘‘microlivelli’’, ma cercando di arrivarvi dal livello alto, ambientale, e considerando i fattori causali come una rete di interazioni e non come una catena che porta all’effetto in una sola direzione. Questo suo carattere ne esalta i pregi, in un momento in cui anche in medicina si fa viva la sensibilità per considerazioni olistiche, ma proprio questo suo specifico merito indica la sua scarsa rilevanza nella ricerca delle cause del singolo evento patologico. In questa direzione, i suoi contributi ricadono nella possibile indicazione di quelle correlazioni statistiche di cui già si è discusso in precedenza. 9. Una certa diffidenza nei riguardi del metodo della spiegazione nomologico-deduttiva è derivato dalla pretesa troppo entusiasta con cui
— 406 — alcuni suoi difensori hanno voluto applicarlo anche alle scienze storiche, pretendendo che la ‘‘spiegazione’’ di un evento storico si possa ottenere ponendo una legge generale, del tipo ‘‘gli uomini, in tali e tali circostanze, si comportano in questa maniera’’, a cui si aggiunge la condizione fattuale: ‘‘Giulio Cesare si trovava proprio in una circostanza di tal tipo’’ e si conclude: ‘‘quindi Cesare doveva comportarsi proprio in quel modo’’. Contro l’identificazione del metodo delle scienze storico-sociali con quello delle scienze naturali si era già battuta con successo l’epistemologia storica di fine Ottocento, distinguendo gli obiettivi delle une e delle altre: le scienze naturali sono nomotetiche, ossia ricercano leggi universali dei fenomeni e non si occupano di eventi singoli, mentre le scienze storico-sociali sono idiografiche, ossia cercano di descrivere eventi singoli. Di conseguenza, le prime cercano di spiegare i fatti singoli riconducendoli alle leggi universali, mentre le seconde cercano di comprendere gli eventi singoli nella loro individualità irripetibile, cercando di entrare ‘‘empaticamete’’ nelle intenzioni degli agenti storici. Con Max Weber si ebbe una conciliazione dei due opposti punti di vista: nelle scienze storico-sociali è ben vero che si cerca di comprendere l’evento singolo, ma ‘‘interpretandolo’’ alla luce di ‘‘tipi ideali’’, caratterizzati dall’assunzione da parte degli agenti storici di alcuni ‘‘valori’’ tipici come guida delle loro azioni. Ciò non esclude affatto anche una spiegazione causale, la quale riguarda il ‘‘perché’’ di certe azioni entro il contesto interpretativo ideal-tipico (11). Mostrando un’immaturità epistemologica pre-weberiana, alcuni autori hanno ritenuto di affermare che, quando si tratta di indagare eventi singoli, non si può utilizzare il metodo nomologico-deduttivo, ma bisogna ricorrere alle ‘‘interpretazioni’’ personali di tipo più o meno empatico che caratterizzano il metodo storico. L’equivoco si annnida nel fatto che, quando si parla di evento singolo, in certi casi si tratta di un’azione umana che, come Weber ha correttamente indicato, si deve dapprima comprendere ricercandone le intenzioni e i motivi in un quadro valoriale ideal-tipico, e poi, senza bisogno di ricorrere a leggi universali, se ne può cercare la spiegazione causale. Ma se l’evento singolo è un fenomeno naturale (ad esempio l’insorgere di una malattia di cui si ricerca la causa), è del tutto legittimo, anzi è il solo modo corretto, ricercarne la causa ricorrendo alle leggi di natura stabilite dalle scienze. 10. Accade talora che, nella ricerca delle cause, si affermi che una determinata sostanza, o un determinato evento, ‘‘può’’ produrre un certo effetto e che, pertanto, si tratta di un serio candidato nella ricerca delle cause. A tal proposito si dcvono distinguere due accezioni del ‘‘può’’. a) Secondo la prima, la possibilità è intesa come pura e semplice compatibilità con le leggi di natura. In tal senso l’affermazione può esser (11)
Cfr. WEBER, Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano, 1984.
— 407 — vera, ma è del tutto vacua come pista per la ricerca delle cause, dal momento che un grandissimo numero di sostanze ‘‘possono’’ produrre un dato effetto semplicemente perché tale eventualità non è esclusa dalle leggi di natura note. b) In una seconda accezione il ‘‘può’’ si appoggia su qualche caso osservato, che induce a non ritenere del tutto implausibile tale nesso causale, ma in tal caso si ricade nella tipologia delle induzioni statistiche già discusso e, in particolare, proprio in quelle situazioni di frequenza molto bassa che, come si è visto, non offrono strumenti per un’imputazione causale. EVANDRO AGAZZI Ordinario di filosofia teoretica nell’Università di Genova. Presidente dell’Académie internationale de philosophie des sciences
RILIEVI SUL ‘‘FATTO’’ NEL PROCESSO PENALE
SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari. — 2. L’importanza del ‘‘fatto’’ nel processo penale. — 3. Le nuove contestazioni dibattimentali. — 4. L’ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero in caso di accertata diversità del ‘‘fatto’’. — 5. La nullità della sentenza per difetto di contestazione. — 6. La disciplina delle questioni di nullità per difetto di contestazione nel giudizio di impugnazione. — 7. Il divieto di un secondo giudizio per il medesimo ‘‘fatto’’. — 8. Le implicazioni concernenti il divieto del bis in idem. — 9. Considerazioni conclusive.
1. Considerazioni preliminari. — L’ipotesi storica di fatto, generica al momento della notitia criminis, si precisa nel corso non solo delle indagini preliminari (1), ma anche dell’istruzione dibattimentale (2), per poi rimanere definitiva al termine del dibattimento, cosicché l’imputazione, di per sé fluida in quanto modificabile attraverso l’accertamento e le contestazioni del pubblico ministero (3), si trasforma e si cristallizza nell’immutabilità dell’accusa. Pertanto, via via che dalla fase delle indagini ci si (1) La progressiva messa a fuoco del ‘‘fatto’’ nel processo penale emerge dalle seguenti disposizioni: l’informazione di garanzia si limita a contenere l’indicazione ‘‘della data e del luogo del fatto’’ (art. 369, comma 1, c.p.p.); l’invito a presentarsi deve contenere, quando la persona è chiamata a rendere l’interrogatorio, ‘‘la sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini fino a quel momento compiute’’ (art. 375, comma 3); l’ordinanza cautelare, emessa dal G.i.p., deve contenere ‘‘la descrizione sommaria del fatto’’ (art. 292, comma 2, lett. b)); la sentenza pronunciata dal G.u.p. all’esito dell’udienza preliminare deve contenere ‘‘l’imputazione’’ (art. 426, comma 1, lett. c)); la richiesta di rinvio a giudizio ed il decreto che dispone il giudizio devono contenere ‘‘l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza’’ (artt. 417, comma 1, lett. b), 429, comma 1, lett. c) e 555, comma 1, lett. c)). (2) Nel vigore del nuovo rito, nel quale le indagini preliminari non sono idonee a fornire la prova in senso proprio, ma soltanto fonti ed elementi di prova, è frequente l’ipotesi che nel corso dell’istruzione dibattimentale, nella quale si acquisiscono i mezzi di prova, il fatto risulti diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio. (3) Una manifestazione della fluidità della imputazione è data dalla c.d. imputazione alternativa, secondo la quale ad un indagato può essere attribuito, nella fase delle indagini preliminari, un reato in via alternativa ad altro reato qualora sia stata accertata esclusivamente una porzione della condotta astrattamente riconducibile ad entrambi i reati: si pensi al ritrovamento della refurtiva nel domicilio di Tizio, che potrebbe porsi in relazione ad un’ipotesi di furto, ovvero di ricettazione o di incauto acquisto (altre ipotesi tipiche di imputazione alternativa sono quelle fra truffa e falso documentale, rapina ed estorsione, istigazione
— 409 — avvicina alla fase del giudizio e, in particolare, al momento della decisione, il nostro sistema processuale richiede una sempre maggiore precisazione dell’ipotesi storica, in modo che l’imputato abbia compiuta conoscenza di quanto a lui contestato e possa esercitare pienamente il diritto di difesa. Orbene, compito fondamentale del giudice del dibattimento penale è proprio quello di accertare, nel contraddittorio delle parti, la sussistenza del fatto contestato e, in caso positivo, la commissione dello stesso da parte dell’imputato (c.d. ricostruzione e fissazione del fatto); invero, il giudice, poiché normalmente non ha conoscenza diretta dei fatti oggetto del processo (4), non può che ricostruire i fatti stessi attraverso l’esame del materiale probatorio ritualmente acquisito agli atti del fascicolo per il dibattimento (5). In via generale, fatto (factum, da fieri = diventare) è cosa accaduta o che avviene: dunque, un mutamento della realtà esistente. Fatto dell’uomo (o atto) significa l’avvenimento che è opera dell’uomo. Il relativo concetto è un’astrazione mentale, che consiste nell’unificazione in un’unità minima di osservazione di alcuni mutamenti del reale, considerati da un particolare punto di vista. Così inteso, il concetto di ‘‘fatto’’ è comune non solo a tutte le discipline giuridiche, ma ad ogni ramo dello scibile umano ed allo stesso linguaggio comune. Con riferimento alla materia penale, occorre preliminarmente escludere che il termine ‘‘fatto’’ indichi nel diritto penale sostanziale soltanto l’elemento oggettivo del reato e nel diritto processuale penale, che prevede l’imputazione nella sua interezza, anche l’elemento soggettivo: infatti, poiché il rapporto tra l’elemento oggettivo e quello soggettivo del reato è di reciproca integrazione, non è mai possibile conoscere effettivamente la condotta materiale di una persona senza considerare l’elemento psicologico (e viceversa) (6). D’altronde, il termine ‘‘fatto’’ designa generalmente, nel codice penale e nel codice di procedura penale, il fatto cone concorso nel reato, corruzione e concussione). Ma il P.M. è tenuto a sciogliere l’alternativa al termine delle indagini preliminari. (4) A norma dell’art. 34 comma 3 c.p.p., chi ha prestato ufficio di testimone non può esercitare nel medesimo procedimento l’ufficio di giudice. (5) Ricostruito il fatto, al giudice spetta l’ulteriore compito di accertare se il fatto storico (c.d. fattispecie concreta) corrisponda o meno al modello legale, cioè al tipo descritto in una norma incriminatrice (c.d. fattispecie legale o figura criminosa). In altri termini, il giudice deve accertare la perfetta conformità della fattispecie concreta alla fattispecie legale, cioè il fatto concreto deve presentare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie legale. (6) Ad es., la condotta di Tizio, che investendo Caio con un’autovettura ha causato la morte dello stesso, è ben diversa a seconda che abbia voluto la morte di Caio ovvero l’abbia cagionata per colpa. È evidente che il mutare dell’elemento soggettivo importa il mutare della condotta (e non soltanto della qualificazione giuridica della stessa), in quanto non è concepibile un omicidio colposo ed uno doloso che abbiano lo stesso svolgimento materiale.
— 410 — creto, rispettivamente commesso dall’imputato o attribuito all’imputato (7). Pertanto, sotto tali profili, il concetto di ‘‘fatto’’ nel diritto penale sostanziale e in quello processuale è ontologicamente identico. 2. L’importanza del ‘‘fatto’’ nel processo penale. — La fissazione del fatto, operata nel decreto che dispone il giudizio (art. 429 lett. c), rileva a molteplici fini, che riguardano istituti e concetti diversi. A) La giurisdizione. — La devoluzione di un procedimento alla cognizione del giudice ordinario o di un giudice speciale dipende dalla delimitazione dell’oggetto del processo, ossia dalla fissazione del fatto costituente l’oggetto dell’imputazione. A norma dell’art. 20 c.p.p., il giudice ordinario ha il dovere di rilevare d’ufficio l’eventuale difetto di giurisdizione e di pronunciare sentenza con la quale ordina, se del caso, la trasmissione degli atti all’autorità competente. Ad es., se Tizio è imputato di vilipendio delle Forze armate, la giurisdizione è quella del giudice ordinario; ma basta che nel capo di imputazione si specifichi che Tizio è un appartenente alle Forze armate (precisazione dell’ipotesi storica, effettuata attraverso l’indicazione di una qualità soggettiva dell’agente) per aversi un fatto diverso, che è devoluto alla giurisdizione del tribunale militare. B) La competenza. — A norma dell’art. 8 c.p.p., la competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato o ha avuto inizio la consumazione (se si tratta di reato permanente), ovvero è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto (se si tratta di delitto tentato), cosicché, accertato definitivamente il fatto, anche il luogo del commesso reato resta definitivamente stabilito. C) Conflitti di giurisdizione e di competenza. — A norma dell’art. 28 c.p.p., vi è conflitto di giurisdizione o di competenza quando, rispettivamente, uno o più giudici ordinari ed uno o più giudici speciali, ovvero due o più giudici ordinari, contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona (8): per(7) Il legislatore penale usa spesso il termine ‘‘fatto’’ per indicare genericamente un qualsiasi avvenimento, naturale o umano, rilevante per il diritto (ad es., negli artt. 480 e 483 c.p. e 194, 211, 218 e 630, lett. a), c.p.p.) ovvero la fattispecie legale (ad es., nell’art. 45 c.p.). Ma, poiché il concetto di avvenimento rappresenta un genus rispetto a quelli di fattispecie tipica astratta e di ipotesi storica concreta e poiché con uno stesso termine non si può correttamente indicare sia la parte che il tutto, per evitare incertezze ermeneutiche, sarebbe forse preferibile usare i termini ‘‘fatto’’, ‘‘reato’’ e ‘‘fatto concreto’’, per indicare rispettivamente un avvenimento in genere, la fattispecie legale (o figura criminosa) e la fattispecie concreta (o fatto storico). (8) Secondo Cass., 17 gennaio 1994, Allegrino, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 5, 41 (m): ‘‘l’espressione ‘medesimo fatto’ di cui all’art. 28 è assunta nel suo significato comune per indicare l’elemento materiale del reato, nei suoi tre momenti di condotta, evento e nesso di causalità, realizzatosi nelle identiche condizioni di tempo, di luogo e di persona, nel senso
— 411 — tanto, l’accertamento definitivo del fatto e la sua immutabilità sono il presupposto logico-giuridico non solo per stabilire la giurisdizione e la competenza, ma anche per risolvere i relativi conflitti. D) La validità del decreto che dispone il giudizio. — A norma degli artt. 429, comma 2, e 555, comma 2, il decreto che dispone il giudizio (davanti al tribunale o al pretore) è nullo se manca o è insufficiente l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza. La giurisprudenza ha precisato (9) che è nullo il decreto che dispone il giudizio ogniqualvolta il pubblico ministero non abbia rispettato l’obbligo di formulare la contestazione in modo chiaro, preciso e completo sotto il profilo materiale e soggettivo: infatti, la genericità o la semplice indeterminatezza dell’imputazione incidono sul diritto di difesa, in quanto non pongono l’interessato in grado di effettuare una scelta meditata sulla linea da assumere. La relativa eccezione è tuttavia sanata qualora non sia stata dedotta entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1, in relazione all’art. 181, commi 1 e 3. E) La correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza. — A tutela del diritto al contraddittorio e del diritto di difesa (10), l’imputato non può essere mai giudicato per un fatto diverso da quello a lui contestato: è evidente, infatti, che, per porre l’imputato in condizioni di difendersi, non basta fargli conoscere l’ipotesi astratta o tipica di fatto, in quanto attraverso tale modello generico non è possibile identificare con sufficiente approssimazione il comportamento di un individuo, ma è necessario fargli conoscere il fatto concreto che si ritiene da lui commesso, precisato nelle sue modalità di tempo e di luogo (ossia l’ipotesi storica del fatto formulata dalla pubblica accusa). D’altra parte, la pubblicità — che domina la fase dibattimentale e che ha il duplice scopo di consentire all’opinione pubblica di seguire l’andamento del dibattimento e di rendere possibile, prima della decisione definitiva, l’apporto spontaneo di prove — sarebbe priva di giustificazione razionale, se l’oggetto del processo potesse costantemente cambiare e la sentenza potesse affermare un fatto diverso da quello contestato. Pertanto, la configurazione del fatto, fissata nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a che è indispensabile l’identità degli elementi strutturali e temporali del fatto sia da un punto di vista soggettivo, sia da un punto di visto oggettivo’’. (9) Cfr., ad es., Cass., 9 gennaio 1992, Giorgetta, in Mass. Cass. pen., 1992, fasc. 4, 78 (m). (10) Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Suprema (cfr., ad es., Cass., 5 maggio 1994, Coturri, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 10, 64 (m); 23 giugno 1987, Prignitano, in Cass. pen., 1988, 1505) le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione e la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (artt. 516522) hanno lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa, e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato.
— 412 — norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2, rappresenta il terreno sul quale viene a svolgersi il duello dialettico fra accusa, normalmente protesa a sostenere l’esattezza dell’ipotesi storica formulata a carico dell’imputato, e difesa, protesa a negare l’assunto accusatorio. F) La prova. — La fissazione del fatto incide sull’oggetto della prova, in quanto consente la valutazione di pertinenza (di cui all’art. 187, comma 1, c.p.p., secondo il quale ‘‘sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione’’) e l’effettiva attuazione del diritto alla prova (di cui all’art. 190, comma 1, c.p.p., secondo il quale il giudice provvede con ordinanza sull’ammissione delle prove richieste dalle parti, ‘‘escludendo (quelle)... manifestamente... superflue o irrilevanti’’). G) La determinazione dell’oggetto del giudicato. — L’immutabilità del fatto contestato ha anche la funzione di fissare l’oggetto della pronuncia giurisdizionale definitiva, e, quindi, di delimitare preventivamente la materia del futuro giudicato in vista sia dell’efficacia del giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo (nei limiti di cui agli artt. 651, 652 e 654), sia della concreta applicazione del divieto del bis in idem, cioè di un nuovo procedimento nei confronti dello stesso imputato in relazione al medesimo fatto (art. 649). 3. Le nuove contestazioni dibattimentali (11). — A) Il fatto diverso (12). — A norma dell’art. 516, il pubblico ministero modifica l’imputazione e procede alla relativa contestazione se nel corso dell’istruzione dibattimentale (13) il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto (11) La disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali si distingue da quella posta dall’art. 423 per le contestazioni nel corso dell’udienza preliminare sotto un duplice profilo: a) prevede la concessione di un termine per la difesa (art. 519); b) prevede il limite derivante dalla competenza del giudice adito (artt. 516 e 517). Nessuna differenza, invece, è ravvisabile rispetto al potere del giudice di disporre la restituzione degli atti al P.M., con richiesta di modifica dell’imputazione, come ha statuito la Corte cost. con sent. n. 88 del 15 marzo 1994 (in Cass. pen., 1994, 1797). (12) L’art. 186 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado, ha inserito nell’art. 516 c.p.p. il comma 1-bis, c.p.p., secondo il quale ‘‘se a seguito della modifica il reato risulta attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione del giudice è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, immediatamente dopo la nuova contestazione ovvero, nei casi indicati dagli artt. 519, comma 2 e 520, comma 2, prima del compimento di ogni altro atto nella nuova udienza fissata a norma dei medesimi articoli’’. (13) È controverso se l’espressione utilizzata dal legislatore nell’art. 516 c.p.p. (‘‘nel corso dell’istruzione dibattimentale’’) consenta o meno che la modifica dell’imputazione e la relativa nuova contestazione da parte del P.M. d’udienza possa essere effettuata subito dopo la relazione introduttiva dello stesso P.M. (e, dunque, prima dell’istruzione dibattimentale) sulla base di una più attenta analisi di elementi conoscitivi già individuati o individuabili al momento dell’instaurazione dell’azione penale ovvero sulla base di una diversa impostazione
— 413 — che dispone il giudizio e non appartiene alla competenza di un giudice superiore (14). Controversa è la determinazione del concetto di ‘‘fatto diverso’’ di cui alla citata disposizione di legge (15). dell’accusa rispetto al P.M. che ha provveduto alla conduzione delle indagini ed alla formulazione dell’imputazione. A sostegno della tesi affermativa si adduce che la Corte costituzionale — nel dichiarare con sent. n. 265 del 30 giugno 1994 (in Giur. cost., 1994, 2153) l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava agli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale — implicitamente riconosce che la modifica dell’imputazione e la nuova contestazione può essere effettuata anche per fatti e circostanze già conosciuti dal G.u.p. al momento dell’udienza preliminare. In tal senso cfr., ad es., Cass., 7 giugno 1997, Cerqua, annotata in Diritto pen. e processo, 1997, 808; Id., 16 febbraio 1996, Castiglia, ibidem, 1996, 449. In senso contrario si può tuttavia osservare che la nuova contestazione dibattimentale per un fatto diverso (art. 516) o per un reato concorrente o continuato (art. 517) o per un fatto nuovo (art. 518), qualora si fondi su elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari (e non su quelli acquisiti nell’istruzione dibattimentale), sembra determinare una violazione del principio del contraddittorio. Al riguardo, si cfr: Cass., 19 settembre 1997, P.M. in c. Lamona, ibidem, 1997, 1331, secondo la quale nella specie si verificherebbe una nullità c.d. a regime intermedio ai sensi dell’art. 180 c.p.p., in quanto ‘‘è leso il diritto all’assistenza dell’imputato, venendo ad essere alterata la par condicio tra le parti’’; e la predetta nullità sarebbe rilevabile d’ufficio in grado di appello, essendosi verificata negli atti preliminari al dibattimento e, quindi, durante il giudizio, al quale detti atti attengono; nonché Trib. Palermo, 16 marzo 1993, Rubino, in Foro it., 1994, II, 176, che, ritenendo già emersi nella fase delle indagini preliminari gli estremi del reato concorrente contestato in dibattimento, ha dichiarato l’irritualità della contestazione effettuata ex art. 517 c.p.p. ed ha disposto, in ordine al medesimo fatto, la trasmissione degli atti al P.M. a norma dell’art. 521 comma 3. (14) Evidente è la ratio dell’art. 516, ispirato ad evidenti ragioni di economia processuale: se non vi fosse tale disposizione, infatti, il giudice del dibattimento, ritenendo l’imputato colpevole per fatto diverso da quello contestato, dovrebbe assolvere l’imputato per il fatto attribuitogli, lasciando al pubblico ministero il compito di iniziare separatamente l’azione penale per il fatto diverso emerso al dibattimento. In forza di tale disposizione, invece, il pubblico ministero può modificare l’imputazione e procedere alla relativa contestazione. (15) Secondo la Corte di cassazione, il fatto affermato in sentenza è diverso da quello contestato: — nel caso di contestazione di un determinato titolo di concorso (materiale o morale) e di condanna per l’altro (Cass., 17 dicembre 1991, Kielrasinski, in Cass. pen., 1994, 703); — nel caso di contestazione di una fattispecie colposa e di condanna per l’ipotesi dolosa (Cass., 27 ottobre 1986, Fracassi, in Cass. pen., 1988, 669); — nel caso in cui il possesso di un’arma giocattolo veniva a costituire, secondo la contestazione, minaccia idonea ad integrare l’elemento materiale del delitto di rapina nella sua forma semplice ed invece fu ritenuto in sentenza elemento oggettivo della circostanza aggravante della minaccia con armi di cui all’art. 628, comma 3, c.p. (Cass., 23 aprile 1987, Forcisi, in Cass. pen., 1989, 259, relativamente ad una fattispecie nella quale tale circostanza aggravante non era stata indicata specificatamente nel capo di imputazione e non era stata enunciata nei suoi elementi essenziali nella contestazione nel corso del giudizio);
— 414 — In via generale, l’aggettivo diverso ha un significato preciso nel linguaggio comune, che non può non essere tenuto presente nell’interpretazione della norma: un oggetto è diverso da un altro quando differisce da esso in tutto o in parte e, quindi, anche in uno solo dei suoi aspetti. In particolare, il fatto emerso dal dibattimento è da ritenersi ‘‘diverso’’ da quello contestato tutte le volte in cui l’ipotesi storica descritta nel capo di imputazione viene sostituita da altra ipotesi storica (16): totalmente diversa, come nel caso in cui sia stato contestato il furto, sul presupposto che l’imputato si è impossessato della cosa altrui, sottraendola al detentore, ma dall’istruzione dibattimentale risulta che il detentore consegnò volontariamente la cosa all’imputato a seguito di artifizi o raggiri; ovvero parzialmente diversa, come nel caso in cui sia stata contestata una rapina commessa con minaccia di una pistola, ma dall’istruzione dibattimentale risulta che la rapina fu effettuata legando e narcotizzando la vittima. Più precisamente, il fatto è da ritenersi ‘‘diverso’’ ogniqualvolta risulti modificato un qualsiasi elemento costitutivo della fattispecie legale; e, quindi, non soltanto la condotta (attiva od omissiva), l’evento, il rapporto di causalità o l’elemento psicologico, come sostiene la dottrina dominante, ma anche il soggetto attivo del reato quando è caratterizzato dalla qualità (soggetto attivo qualificato, che dà luogo alla figura del reato proprio), ovvero l’oggetto materiale personale (o soggetto passivo della condotta criminosa) (17), ovvero il mezzo o lo strumento dell’azione (cioè la cosa corporale con cui, secondo la descrizione della fattispecie legale, il soggetto deve agire) (18), ovvero il tempo (19) o il luogo del fatto (20), quando anch’essi sono esplicitamente previsti nella descrizione della fattispecie legale. Ma una ulteriore precisazione si impone. Oggetto del processo penale è la res judicanda, cioè il fatto storico contestato all’imputato, laddove il fatto si risolve nella fattispecie giudiziale, la quale ha una sfera di operatività più ampia della fattispecie legale, poiché comprende una descrizione più particolareggiata degli elementi del fatto. In defini— nel caso di contestazione di un reato istantaneo e di condanna per reato permanente (Cass., 7 marzo 1994, Farolfi, in Foro it., 1995, II, 644). (16) Cass., 16 novembre 1987, Ravaioli, in Riv. pen., 1988, 1184. (17) Ad es., risulta che Tizio ha ucciso Caio e non Sempronio. (18) Ad es., risulta che l’agente non ha commesso il fatto con il mezzo della stampa (artt. 57 ss. e 595, comma 3, c.p.), o mediante la diffusione di germi patogeni (art. 438 c.p.), o col mezzo del telefono (art. 660 c.p.). (19) Ad es., risulta che l’agente non ha commesso il fatto immediatamente dopo o durante il parto (art. 578 c.p.), o immediatamente dopo la sottrazione (art. 628, comma 2, c.p.), o nella flagranza di un reato (art. 652 c.p.). (20) Ad es., risulta che l’agente non ha commesso il fatto fuori del territorio dello Stato (art. 269 c.p.), o in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico (art. 527 c.p.), o in luogo di privata dimora (art. 614 c.p.).
— 415 — tiva, si ha diversità del fatto non soltanto quando risulti modificato un qualsiasi elemento costitutivo della fattispecie legale, ma anche quando risulti modificato un qualsiasi elemento (o particolarità) della fattispecie giudiziale, che può essere sia una circostanza aggravante, sia una qualsiasi circostanza di modo, di tempo o di luogo non descritta nella fattispecie legale, ma rilevante ai fini della decisione. In tutti i casi di ‘‘diversità del fatto’’, il pubblico ministero deve procedere alla modifica dell’imputazione; in difetto di tale modifica, il giudice del dibattimento deve ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero; in caso contrario, si ha la nullità della sentenza eventualmente pronunciata (fatto salvo quanto in seguito si dirà in punto di sanatoria della relativa nullità) (21). Può darsi il caso in cui dall’istruzione dibattimentale risulti un’ipotesi storica diversa da quella contestata, ma di competenza di altro giudice (22); in tal caso, benché il fatto sia risultato diverso, il giudice del dibattimento, anche in difetto della relativa richiesta da parte del pubblico ministero, può pronunciare sentenza con la quale dichiara la propria incompetenza ed ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente (23). Tale sentenza dichiarativa di incompetenza afferma un fatto diverso da quello contestato senza previa modifica dell’imputazione da parte dell’accusa, ma non è inficiata da nullità, in quanto rappresenta una sentenza a contenuto meramente processuale, che non preclude all’imputato la possibilità di difendersi nel merito sul fatto diverso nel nuovo giudizio davanti al giudice ritenuto competente. B) Il fatto suppletivo (24). — A norma dell’art. 517, qualora nel corso dell’istruzione dibattimentale emerga un reato connesso a norma (21) La Corte costituzionale, con sent. 30 giugno 1994, n. 265, in Giur. cost., 1994, 2153, ha dichiarato ‘‘l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni’’. (22) Le norme di cui agli artt. 516, 517 e 518 c.p.p. fanno riferimento esclusivo al caso di fatto nuovo e diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, di competenza dello stesso giudice procedente: Cass., 22 ottobre 1990, Di Sano, in Giust. pen., 1991, III, 285. (23) Sul punto cfr. Corte cost., sent. 11 marzo 1993, n. 76, in Giur. cost., 1993, 687, la quale ha dichiarato ‘‘l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, c.p.p. nella parte in cui dispone che, quando il giudice del dibattimento dichiara la propria incompetenza per materia, ordina la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo’’. (24) L’art. 187 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, ha inserito nell’art. 517 c.p.p. il comma 1-bis, secondo il quale ‘‘si applica la disposizione prevista dall’art. 516, comma 1-bis’’ (cfr. la precedente nota n. 12).
— 416 — dell’art. 12, comma 1, lett. b) (25) ovvero una circostanza aggravante e non ve ne sia menzione nel decreto che dispone il giudizio, il pubblico ministero contesta all’imputato il reato o la circostanza, purché la cognizione non appartenga alla competenza di un giudice superiore. La disposizione di cui all’art. 517, che prevede la c.d. contestazione suppletiva in udienza da parte del pubblico ministero, presuppone l’affermazione dell’ipotesi storica contenuta nel capo di imputazione, che viene meramente integrata a seguito dell’accertamento della sussistenza di una circostanza aggravante, ovvero estesa a seguito dell’accertamento di un reato concorrente o di altri reati uniti a quello contestato dal vincolo della continuazione. Invero, l’accertamento della sussistenza di una circostanza aggravante comporta soltanto un’ulteriore precisazione del fatto contestato (e, dunque, una mera integrazione dell’originaria ipotesi storica): ad es., nel caso in cui sia stata contestata a Caio la lesione volontaria mediante coltello al volto di Tizio e dall’istruzione dibattimentale risulti che il volto di Tizio è rimasto sfregiato in modo permanente. D’altra parte, l’accertamento della sussistenza di un reato concorrente comporta l’aggiunta di un altro capo di imputazione a quello originario (ad es., se è contestato un furto e dall’istruzione dibattimentale risulta che l’imputato, già condannato per delitti determinati da motivi di lucro, è stato colto in possesso ingiustificato di grimaldelli, ben può il pubblico ministero contestare in via suppletiva la contravvenzione di cui all’art. 707 c.p.); mentre l’accertamento della sussistenza di uno o più reati, uniti a quello contestato dal vincolo della continuazione, comporta l’unificazione (ai fini della pena) degli stessi (ad es., se è contestato un furto e dall’istruzione dibattimentale risulta che l’imputato ne ha commesso anche un altro in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, ben può il pubblico ministero contestare in via suppletiva la continuazione) (26). C) Il fatto nuovo. — A norma dell’art. 518, comma 1, il pubblico ministero, fuori dei casi di contestazione suppletiva, procede nelle forme or(25) Vale a dire un reato commesso con la stessa azione od omissione del reato per cui si procede (ipotesi di concorso formale) ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (ipotesi di reato continuato): cfr. art. 1, comma 1, d.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito con modificazioni nella l. 20 gennaio 1992, n. 8. (26) Secondo la giurisprudenza consolidata della S.C. (cfr., ad es., Cass., 28 febbraio 1995, Cassani, in Riv. pen., 1995, 1450), per i reati permanenti vige il principio secondo il quale l’intrinseca idoneità del reato permanente a durare nel tempo, anche dopo l’avverarsi dei suoi elementi costitutivi, comporta che, quando nel capo di imputazione sia indicata soltanto la data iniziale e non quella di cessazione della permanenza, l’originaria contestazione si estende all’intero sviluppo della fattispecie criminosa, con la conseguenza che l’imputato è chiamato a difendersi, oltre che in ordine alla parte già realizzatasi di tale fattispecie, anche in ordine a quella successiva emergente dall’istruzione dibattimentale, senza necessità di un’ulteriore specifica contestazione da parte del pubblico ministero.
— 417 — dinarie se nel corso del dibattimento risulta a carico dell’imputato un fatto nuovo non enunciato nel decreto che dispone il giudizio e per il quale si debba procedere d’ufficio. Tale fatto nuovo, non connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lett. b) con quello contestato (in via originaria o suppletiva) e comunque risultante nel corso dell’istruzione dibattimentale, implica l’emergere di un’ulteriore vicenda, che è del tutto estranea a quella oggetto del processo penale pendente, alla quale senza negarla si aggiunge (27), e che, perciò, esige il promovimento di un’autonoma azione penale: ad es, a Tizio è contestato il delitto di furto aggravato dalla violazione di domicilio, ma dall’istruzione dibattimentale risulta che lo stesso, introdottosi nell’appartamento per rubare, ha commesso anche violenza sessuale nei confronti di una donna che colà si trovava. In tal caso il pubblico ministero non può procedere in via suppletiva alla contestazione del reato di violenza sessuale, ma deve procedere autonomamente, a meno che egli richieda di contestare il fatto nuovo all’imputato e il giudice autorizzi la contestazione nella medesima udienza, sempre che vi sia il consenso dell’imputato presente e non ne derivi pregiudizio per la speditezza dei procedimenti (art. 518, comma 2) (28). In breve, in seguito alle nuove contestazioni dibattimentali (29), il (27) Cass., 14 ottobre 1983, De Sena, in Cass. pen., 1985, 1883. (28) Pertanto, il giudice, al quale è demandato di autorizzare la contestazione del fatto nuovo (non connesso ex art. 12 comma 1 lett. b), deve accertare la prestazione del consenso da parte dell’imputato (necessaria per evitare il pregiudizio al diritto di difesa che potrebbe derivare dall’inattesa contestazione) e, inoltre, valutare che dalla contestazione del fatto nuovo non derivi ‘‘pregiudizio per la speditezza dei procedimenti’’, al fine di non vanificare la disciplina dettata dall’art. 17 per la riunione dei procedimenti. (29) La disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali ha dato luogo ad una interessante evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale per quanto riguarda la sua compatibilità con la disciplina dei riti alternativi. Infatti, la Corte — con una serie di pronunce, risalenti ai primi anni di applicazione del nuovo codice di rito — aveva più volte affermato la legittimità costituzionale della preclusione del ricorso ai riti alternativi (del patteggiamento o del giudizio abbreviato) in caso di modifica dell’imputazione ovvero di contestazioni suppletive in sede dibattimentale. In particolare: a) con sentenza 28 dicembre 1990, n. 593 (in Giur. cost., 1990, 3309) aveva dichiarato non fondata l’eccezione di incostituzionalità che, con riferimento all’art. 24 Cost., lamentava l’illegittimità della normativa codicistica nella parte in cui non consente di rimettere in termini le parti affinché queste possano richiedere il giudizio abbreviato successivamente all’eventuale contestazione suppletiva effettuata dal P.M. ai sensi dell’art. 517 c.p.p., osservando in motivazione che l’interesse dell’imputato al ricorso ai riti alternativi va tutelato unicamente qualora ‘‘la sua condotta consenta l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento e contraendo le possibilità di appello, permette di raggiungere quell’obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l’introduzione del giudizio abbreviato e più in generale dei riti speciali’’ (per la stessa ragione, con sent. 1o aprile 1993, n. 129 — in Arch. nuova proc. pen., 1993, 226, con nota di CREMONESI — è stata esclusa l’illegittimità della normativa volta ad impedire la possibilità
— 418 — fatto storico indicato nel capo di imputazione viene in tutto o in parte sostituito (art. 516), ovvero integrato o esteso (art. 517), ovvero affiancato da altro fatto storico (art. 518). dell’instaurazione del patteggiamento rispetto ai reati concorrenti contestati nel corso del dibattimento); b) con ordinanza 11 maggio 1992, n. 213 (in Cass. pen., 1992, 2317), aveva dichiarato non fondata — in riferimento agli artt. 3 comma 1, 24 comma 2 e 27 comma 3 Cost. — l’eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 446, 516 e 519 c.p.p. nella parte in cui non prevedono, in caso di modifica dell’imputazione nel corso dell’istruttoria dibattimentale, la possibilità per l’imputato di richiedere l’applicazione della pena, osservando in motivazione che ‘‘rientra nelle valutazioni che lo stesso imputato deve compiere ai fini della determinazione alla scelta del rito la evenienza della modificazione dell’imputazione a seguito della istruttoria dibattimentale, non infrequente nell’attuale sistema processuale penale il quale riserva al dibattimento la formazione della prova’’; c) con sentenza 8 luglio 1992, n. 316 (in Giur. cost., 1992, 2623, con nota di CONTI), aveva precisato ulteriormente che, nell’ipotesi di reato concorrente, l’impossibilità di avvalersi del rito abbreviato è giustificata anche ‘‘dal rilievo che la contestazione (suppletiva) è evenienza, per un verso, non infrequente in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, e ben prevedibile, dato lo stretto rapporto intercorrente tra l’originaria imputazione e il reato connesso’’. Negli ultimi anni la Corte si è, tuttavia, ispirata a posizioni di maggiore apertura. Essa, infatti, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 c.p.p.: a) dapprima, con sentenza 30 giugno 1994, n. 265 (in Giur. cost., 1994, 2153), nella parte in cui detti articoli non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risulta dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato aveva tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni; b) e, successivamente, con sentenza 29 dicembre 1995, n. 530 (in Cass. pen., 1996, 1084), nella parte in cui detti articoli non prevedono la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli artt. 162 e 162-bis c.p., relativamente non soltanto al reato concorrente, ma anche al fatto diverso contestato in dibattimento (essendo irrazionale privare l’imputato della facoltà di richiedere l’estinzione del reato per oblazione soltanto perché detto reato, anziché risultare dal decreto di rinvio a giudizio, affiora a seguito di un mutamento della contestazione, tale da determinare la derubricazione degli addebiti originariamente contestati). La Corte, invece, ha sempre ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 518 nella parte in cui non prevede la facoltà delle parti di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 c.p.p., in relazione al fatto nuovo risultante dal dibattimento e la cui contestazione venga autorizzata in udienza: si cfr., in tal senso, la sentenza 17 febbraio 1994, n. 41 (in Giur. cost., 1994, 253), laddove si osserva, da un lato, che ‘‘poiché il consenso dell’imputato è condizione indispensabile alla contestazione del fatto nuovo in udienza, il diritto di difesa è pienamente salvaguardato’’, dall’altro che deve ritenersi esclusa ogni disparità di trattamento tra situazioni che ‘‘discendono da una libera opzione di linea difensiva operata dall’imputato’’. Si cfr., altresì, la sentenza 23 maggio 1997, n. 146 (in Cass. pen., 1998, 11, con nota di RIVELLO) laddove si osserva che il giudice può autorizzare la contestazione in udienza del fatto nuovo, con la conseguente perdita della facoltà di chiedere l’applicazione della pena, soltanto se il pubblico ministero ne faccia richiesta e l’imputato presti il consenso.
— 419 — 4. L’ordinanza di trasmissione degli atti al p.m. in caso di accertata diversità del fatto. — Il giudice del dibattimento non può interferire nell’attività del pubblico ministero per quanto concerne la modificazione dell’imputazione, ma esegue della stessa un controllo successivo alla luce di tutte le prove ammesse su richiesta delle parti. Egli, infatti, ha l’obbligo di disporre con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero qualora rilevi che questi: a) non ha modificato l’imputazione e non ha proceduto alla relativa contestazione, sebbene il fatto commesso dall’imputato sia risultato diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2 (art. 521, comma 2); b) ha effettuato una nuova contestazione fuori dei casi previsti dagli artt. 516, 517 e 518, comma 2 (art. 521, comma 3); in particolare, perché il fatto diverso era di competenza di un giudice superiore (e non del giudice procedente); ovvero perché il reato era connesso a titolo di concorso materiale (e non a titolo di concorso formale) ovvero perché il fatto nuovo era procedibile a querela di parte (e non perseguibile d’ufficio) (30). L’ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero per accertata diversità del fatto presenta quattro peculiari caratteristiche: a) contiene una notitia criminis relativa al fatto nuovo emerso al dibattimento e, quindi, costituisce l’unico caso in cui il giudice penale ha un obbligo di rapporto per fatti costituenti reato emersi nel corso di un procedimento penale (31); b) costituisce l’unica eccezione all’obbligo, previsto dall’art. 129, dell’immediata declaratoria di alcune cause di non punibilità, anche in presenza di una causa di estinzione del reato: ciò in quanto il giudice del dibattimento, pur ritenendo che il fatto attribuito all’imputato non sussiste o che questi non lo ha commesso, non può pronunciare sentenza di assoluzione, ma deve trasmettere gli atti al pubblico ministero, se ritiene che l’imputato abbia commesso un altro fatto costituente reato (32); (30) Cfr. Cass., 21 settembre 1994, De Stefano, in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 6, 37 (m): la trasmissione degli atti al pubblico ministero ex art. 521, comma 2, c.p.p. per accertata diversità del fatto deve aver luogo tanto nel caso in cui il pubblico ministero rimanga inattivo di fronte alla emergenza di una situazione differente da quella risultante dal decreto di citazione, quanto nel caso in cui, in presenza del fatto diverso, l’organo dell’accusa si sia comunque attivato modificando, tuttavia in modo erroneo, la contestazione; sicché il giudice ravvisi la necessità di un suo intervento eventualmente correttivo. (31) L’art. 331, comma 4, c.p.p., infatti, prevede per il giudice l’obbligo di rapporto per fatti costituenti reato emersi esclusivamente ‘‘nel corso di un procedimento civile o amministrativo’’. (32) Cass., 6 novembre 1987, Venturini, in Cass. pen., 1989, 1055: il giudice di primo grado, qualora rilevi la diversità del fatto emerso al dibattimento rispetto a quello enunciato nel capo di imputazione e disponga la trasmissione degli atti al P.M., si spoglia
— 420 — c) costituisce eccezione al principio di non regressione ad una fase antecedente del processo giunto alla fase dibattimentale; d) non è impugnabile, in quanto si concretizza in un mero atto di impulso processuale e non lede in alcun modo il diritto di difesa dell’imputato, che potrà svolgersi nel tempo e nella sede opportuni (33). Non sussiste, invece, l’obbligo di trasmissione degli atti al pubblico ministero nel caso in cui, pur risultando accertata nel corso dell’istruzione dibattimentale l’ipotesi storica contestata, ne sia stata enunciata nell’imputazione un’erronea qualificazione giuridica. In tal caso, il giudice (34), anche senza previa contestazione (35), nella sentenza può dare al fatto una ‘‘definizione giuridica diversa’’ (art. 521, comma 1), cioè inquadrare il fatto in una diversa figura di reato (36), sempre che questo non ecceda la sua competenza (37). Se poi il giudice ritiene che il fatto incriminato si qualifichi diversamente da quello contestato per l’emergenza dall’istruzione dibattimentale di elementi nuovi o per il diverso apprezzamento di quelli già esaminati, deve trasmettere gli atti al pubblico ministero e non può, allo stesso tempo, assolvere l’imputato dal fatto-reato originariamente contestato a causa dell’assoluta incompatibilità logica, prima ancora che giuridica, fra un’ordinanza comunque finalizzata all’inizio dell’azione penale ed una sentenza che alla stessa ponga termine assolvendo l’imputato (38). della disponibilità del procedimento e non può più giudicare sul fatto originariamente contestato; la violazione di tale principio comporta una nullità assoluta ed insanabile in relazione all’art. 185, n. 2, c.p.p. 1930, rilevabile, come tale, in ogni stato e grado del procedimento. (33) Giurisprudenza pacifica: Cass., 4 febbraio 1993, Dussini, in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 8, 29 (m); Id., 2 giugno 1992, Bellan, in Cass. pen., 1994, 1040; Id., 9 marzo 1992, Blandino, ivi, 1993, 2591. (34) Anche in fase di giudizio abbreviato arg. ex art. 443, comma 3, c.p.p.. Cfr., al riguardo, Cass., 21 novembre 1991, Bonanno, in Cass. pen., 1992, 585, secondo la quale nel giudizio abbreviato il ‘‘patteggiamento sul rito’’ intervenuto tra le parti cui il giudice abbia consentito, dando ingresso alla speciale procedura, non comporta l’assoluta cristallizzazione del fatto-reato nei termini dedotti nell’atto di contestazione. (35) Cass., 14 novembre 1994, Faita, in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 3, 99 (m). (36) Ad es., se Tizio è imputato di ricettazione per aver promesso a Caio di acquistare la merce che questi avrebbe rubato il giorno seguente e dall’istruzione dibattimentale risulta accertata tale ipotesi storica, ben può il giudice qualificare correttamente il fatto quale concorso nel commesso furto. (37) L’art. 188 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, ha così sostituito il comma 1 dell’art. 521 c.p.p.: ‘‘Nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza né risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica’’. Con l’art. 189 di tale decreto è stato inoltre inserito l’art. 521-bis c.p.p., secondo il quale: ‘‘Se, in seguito ad una diversa definizione giuridica o alle contestazioni previste dagli artt. 516, comma 1-bis, 517, comma 1-bis e 518, il fatto risulta attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero. 2. L’inosservanza della disposizione prevista dal comma 1 deve essere eccepita, a pena di decadenza, nei motivi di impugnazione’’. (38) Cass., 3 aprile 1990, Mefrici, in Cass. pen., 1992, 382.
— 421 — 5. La nullità della sentenza per difetto di contestazione. — A) Le cause di nullità della sentenza. — Ai sensi dell’art. 522, comma 1, l’inosservanza delle disposizioni previste dall’art. 516 è causa di nullità; del pari nulla è, ai sensi del comma 2 del citato articolo, la sentenza di condanna pronunciata per un fatto nuovo, per un reato concorrente o per una circostanza aggravante, ma in tal caso la nullità inficia la sentenza esclusivamente nella parte relativa al fatto nuovo, al reato concorrente o alla circostanza aggravante. In breve, la sentenza di condanna è nulla, se manca (39): a) la contestazione nuova o suppletiva (artt. 516 e 517); b) il consenso dell’imputato presente alla contestazione per il fatto nuovo (art. 518, comma 2); c) l’informazione e la concessione da parte del presidente del termine per la difesa, qualora esso sia stato richiesto dall’imputato (art. 519 commi 1 e 2) (40); d) la citazione della persona offesa, che eventualmente risulti a seguito della nuova contestazione, con il rispetto di un termine non inferiore a 5 giorni (art. 519, comma 3); e) la notificazione per estratto all’imputato contumace o assente del verbale del dibattimento contenente sia l’inserimento della nuova contestazione a norma degli artt. 516 e 517, sia la sospensione del dibattimento e la fissazione di una nuova udienza per la prosecuzione con l’osservanza dei termini prescritti (art. 520) (41). B) Precisazioni sulla giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto. — Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Suprema — proprio perché le norme che disciplinano le nuove contestazioni dibattimentali (artt. 516-522) hanno lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa, e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato — dette norme non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la (39) Cass., 2 febbraio 1995, Gualtieri, in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 7, 16 (m). (40) A norma dell’art. 519, nei casi previsti dagli artt. 516, 517 e 518, comma 2, salvo che la contestazione abbia per oggetto la recidiva, l’imputato, espressamente informato sul punto dal presidente, può chiedere un termine a difesa (non inferiore ai venti giorni previsti per la comparizione in giudizio e, comunque, non superiore a quaranta giorni) e può chiedere, al pari del pubblico ministero e delle altre parti private (Corte cost., 3 giugno 1992, n. 241, in Giur. cost., 1992, 1857; Corte cost., 20 febbraio 1995, n. 50, in Giur. cost., 1995, 451), l’ammissione di nuove prove ai sensi dell’art. 495 (cfr. Corte cost., 3 giugno 1992, n. 241, sopra citata, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’inciso ‘‘a norma dell’art. 507’’, contenuto nell’originaria formulazione dell’art. 519, comma 2). (41) Tale notificazione è possibile nei casi previsti dagli artt. 516 e 517, giacché per essi non è richiesto il consenso dell’imputato presente, a differenza del caso del fatto nuovo previsto dall’art. 518, per il quale detto consenso è indispensabile.
— 422 — modificazione dell’imputazione contestata pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. Più precisamente, secondo la Corte, il principio della correlazione tra accusa (imputazione contestata) e sentenza è violato ‘‘soltanto quando l’immutazione del fatto si risolva nella sostanziale menomazione del diritto di difesa’’ (42). Tale menomazione, in particolare, non vi sarebbe nei seguenti casi: — ‘‘quando nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza’’ (43); — ‘‘quando il fatto tipico rimane identico a quello contestato, ma è modificato solo nei dettagli delle modalità di realizzazione’’ (44); — ‘‘quando l’immutazione riguarda uno degli elementi secondari del fatto’’ (45); — ‘‘quando il fatto, ritenuto in sentenza e diverso da quello contestato, sia stato prospettato dallo stesso imputato quale elemento a discolpa, potendo in tal caso provvedere ad approntare le opportune difese’’ (46); — quando nessun elemento che compone l’accusa sia sfuggito alla difesa dell’imputato’’ (47), ecc. (48). (42) Così, testualmente, Cass., 29 settembre 1992, Storace, in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 4, 23 (m). È questa la tesi accolta da R. BETTIOL, Sulla correlazione tra accusa e sentenza, in Riv. it. dir. pen., 1949, ora in Scritti giuridici, II, Padova, 1966, 752, dopo aver ritenuto ‘‘assolutamente inidoneo’’ il criterio dell’ ‘‘identità di lesione di bene giuridico’’, già sostenuto nella monografia scritta nel 1936 sull’argomento. (43) Cass., 11 aprile 1994, De Vecchi, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 8, 130 (m). (44) Cass., 17 dicembre 1991, Sacco, in Cass. pen., 1993, 2364. (45) Cass., 15 marzo 1988, Bergamelli, in Cass. pen., 1990, 907. (46) Cass., 7 novembre 1983, Dato, in Giust. pen., 1985, III, 37. (47) Così, testualmente, Cass. 5 febbraio 1993, Langella, in Giust. pen., 1993, III, 431. (48) Assai ampia è la casistica giurisprudenziale. In via esemplificativa, la S.C. ha ritenuto che non vi sia modificazione dell’imputazione in caso di contestazione: — del delitto di associazione finalizzata al commercio degli stupefacenti e di affermazione in sentenza del reato concorsuale di spaccio di stupefacenti (Cass., 11 aprile 1994, De Vecchi, sopra citata, relativamente ad una fattispecie nella quale, nell’ambito della contestazione del delitto associativo, erano stati individuati non solo i ruoli dei singoli imputati, ma anche episodi criminosi concreti di intermediazione, trasporto, collegamento, distribuzione della droga, con riferimento specifico agli imputati); — di un reato continuato e di condanna per i singoli reati con esclusione del vincolo della continuazione (Cass., 7 giugno 1989, Napolitano, in Riv. pen., 1990, 331); — di un reato commesso dal solo imputato e l’imputato sia poi condannato per aver commesso il reato in concorso con altri; ovvero di un reato commesso in concorso con altra persona e l’imputato sia poi condannato per aver commesso il reato con correi diversi o in numero maggiore di quelli indicati in imputazione (Cass., 15 aprile 1993, Ceraso, in Cass. pen., 1994, 2194); — di essere stato l’autore materiale del fatto e l’imputato sia poi ritenuto responsabile
— 423 — Tale orientamento giurisprudenziale può essere condiviso, ma ha bisogno di precisazioni. Proprio perché il principio della correlazione tra accusa e sentenza non va inteso in senso puramente formale, ma con riferimento alle ragioni che lo hanno dettato ed alle finalità al cui conseguimento è diretto, la nullità della sentenza per difetto di contestazione non può essere eccepita dalla parte che ‘‘non ha interesse all’osservanza della disposizione violata’’ (art. 182, comma 1, c.p.p.). Tanto si verifica indubbiamente nei casi in cui il mutamento dell’ipotesi storica è irrilevante, in quanto è stato garantito il diritto al contraddittorio di tutte le parti riguardo agli elementi essenziali dell’ipotesi storica formulata; ovvero nei casi in cui, sebbene il mutamento dell’ipotesi storica abbia formato soltanto implicitamente (e, quindi, irritualmente) oggetto di contestazione in giudizio, l’imputato ha avuto la possibilità di difendersi ampiamente ed esplicitamente sul fatto diverso, di cui ha avuto comunque comunicazione, senza lamentare l’estensione dell’accusa. Ad es., se Tizio viene accusato di aver ucciso Caio con un colpo di fucile alle ore 5 del giorno x e dal dibattimento risulta che l’omicidio fu commesso con un colpo di pistola alle ore 6 dello stesso giorno, Tizio può essere condannato per l’omicidio, sebbene questo sia stato commesso con un mezzo diverso e ad ora diversa: ciò perché nella specie il ‘‘mezzo’’ ed il ‘‘tempo’’ non sono elementi costitutivi del delitto di omicidio (art. 575 c.p.), non essendo previsti nella sua descrizione (49). Analogamente, se Tizio viene rinviato a giudizio per lesioni volontarie mediante coltello al volto di Caio e dall’istruzione dibattimentale (e segnatamente dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa e dall’espletata perizia medica) risulti che il volto di Tizio è rimasto sfregiato in modo permanente, non è necessario, ai fini della validità della sentenza di condanna di Tizio per lesioni volontarie gravissime, che il pubblico ministero abbia proceduto alla contestazione suppletiva dell’aggravante tutte le volte in cui l’imputato si sia difeso esplicitamente sulla nuova ipotesi stodel fatto a titolo di concorso morale, in quanto l’accusa di partecipazione materiale al reato implica necessariamente la contestazione di un concorso morale nella commissione del reato (Cass., 16 febbraio 1994, Tiozzo, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 11, 68 (m); in senso contrario Cass., 17 dicembre 1991, Kielrasinski, in Cass. pen., 1994, 703); — di un’attività di concorso in omicidio e sia stata ritenuta un’attività esecutiva direttamente causale dello stesso delitto (Cass., 8 ottobre 1992, Raciti, in Cass. pen., 1994, 1039); — di un’ipotesi di colpa specifica e la sentenza abbia affermato la responsabilità dell’imputato per un’ipotesi di colpa generica (Cass., 16 marzo 1990, Perroni, in Cass. pen., 1991, 1088). (49) Tuttavia, se nel caso concreto l’imputato può addurre un alibi per le ore 6 o può dimostrare che in quel giorno non era in possesso di alcuna arma da fuoco, la nullità della sentenza per difetto di contestazione non può ritenersi sanata, in quanto il mutamento del fatto contestato è rilevante ai fini del diritto di difesa e, conseguentemente, l’imputato ha interesse all’osservanza delle norme sull’immutabilità dell’accusa.
— 424 — rica a lui attribuita (di cui ha avuto conoscenza) senza lamentare l’estensione dell’accusa (50). Sempre a causa della mancanza dell’interesse della parte all’osservanza delle norme sull’immutabilità del fatto, il principio di correlazione tra l’imputazione contestata e l’accusa non può essere invocato dall’imputato nei casi in cui in sentenza sia stato escluso parzialmente il fatto contestato ovvero quest’ultimo sia stato derubricato in una ipotesi meno grave. Invero, nei casi di esclusione parziale del fatto, il mutamento del fatto contestato avviene nell’ambito della contestazione e non al di fuori di essa (il più comprende il meno). Ad es., se a Tizio viene contestato il reato di rapina (e quindi un reato complesso), ma dal dibattimento risulta che Tizio si è impossessato della cosa mobile altrui senza usare violenza, Tizio ben può essere condannato per furto, con esclusione della violenza, in quanto tutti gli elementi del reato di furto sono già compresi nel fatto contestato. Analogamente, nei casi di imputazione di reato progressivo (ad es., lesioni personali volontarie) e di condanna per reato meno grave (ad es., percosse), di imputazione di reato circostanziato e di condanna per reato semplice, di imputazione di delitto consumato e di condanna per delitto tentato, di imputazione di concorso (formale o materiale) di reati e di condanna per reato continuato. D’altra parte, nei casi in cui vi è stata derubricazione del reato contestato in una figura di reato meno grave, il mutamento del fatto in senso più favorevole ad una parte ai fini del diritto sostanziale lascia normalmente presumere una mancanza di interesse della stessa alla rigorosa osservanza dell’immutabilità del fatto. Ad es., se a Tizio viene contestato il delitto di ricettazione, ma dal dibattimento risulta un’ipotesi di incauto acquisto, Tizio ben può essere condannato per tale contravvenzione, sempre che non sussista un particolare rilievo dell’ipotesi contestata ai fini della prova (51). Per la stessa ragione, se a Tizio è contestata la fattispecie (50) Secondo la giurisprudenza, il fatto è da ritenersi contestato non soltanto quando è enunciato specificamente nel capo di imputazione, ma anche quando alcuni suoi elementi sono stati portati comunque a conoscenza dell’imputato, sicché, anche su di essi, egli è stato posto in condizione di difendersi. Su questo presupposto Cass., 7 febbraio 1989, Bascelli, in Cass. pen., 1990, 1975, ha ritenuto in una fattispecie che l’omessa indicazione nel capo di imputazione dello specifico riferimento all’art. 583, comma 1, n. 2, c.p. e l’omessa esplicitazione della sussistenza del postumo permanente sono state supplite, a riguardo della contestazione dell’aggravante, dal rituale deposito in cancelleria della relazione del perito medicolegale, evidenziante la sussistenza del postumo (cfr. anche Cass., 15 aprile 1993, Ceraso, in Cass. pen., 1994, 2194; Id., 21 maggio 1992, Chirico, ivi, 1994, 703). (51) Come esempio di ‘‘derubricazione’’, la dottrina prevalente — con riferimento alla sent. 19 dicembre 1967, Politi, in Mass. Cass. pen., 1968, 345 (m) — cita il passaggio dall’ipotesi di concussione all’ipotesi meno grave di corruzione. Ma l’assunto non sembra sostenibile, trattandosi di ‘‘fatti diversi’’: basti considerare che la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità nella concussione è la conseguenza della condotta di costrizione e di induzione dell’intraneo, mentre nella corruzione dipende dalla libera determinazione dell’e-
— 425 — prevista dall’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990 per avere detenuto a fini di spaccio un quantitativo x di eroina, corrispondente a y dosi, il giudice — avuto riguardo ai mezzi, alle modalità o alle circostanze dell’azione ovvero alla qualità e quantità della sostanza — può affermare la penale responsabilità dell’imputato per la fattispecie attenuata prevista dal comma 5 dello stesso articolo (52). C) Il regime della nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione. — La giurisprudenza (53) ha precisato che la nullità ex art. 522 c.p.p. per difetto di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza è di ordine generale nei confronti del pubblico ministero, in quanto riferita all’iniziativa del medesimo nell’esercizio dell’azione penale (art. 178, lett. b) in relazione all’art. 179, comma 1: si tratta quindi di nullità assoluta); ma, nei confronti dell’imputato, poiché non attiene ad omessa citazione o all’assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza, si atteggia a nullità a regime intermedio (art. 178, lett. c), che non può essere rilevata d’ufficio né dedotta dall’interessato, essendosi verificata nel giudizio di primo grado, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo (art. 180); pertanto, la sentenza che ha deciso in ordine ad un fatto diverso da quello contestato diviene irrevocabile quando siffatta immutazione non sia stata dedotta con apposito motivo di gravame. 6. La disciplina delle questioni di nullità per difetto di contestazione nel giudizio di impugnazione. — Per quanto concerne il giudizio di appello, l’art. 604, al fine di contemperare l’esigenza di riparare ad eventuali nullità verificatesi nel giudizio di primo grado con l’esigenza di salvaguardare i generali principi di conservazione degli atti e di economia processuale, pone un’articolata disciplina delle questioni di nullità per difetto di contestazione e limita le ipotesi in cui l’accertamento dell’invalidità straneo, che conclude un pactum sceleris con l’intraneo (per più ampi rilievi, sia consentito il rilievo al mio scritto Corruzione e concussione. Riflessioni sui caratteri differenziali, in Giur. it., 1995, IV, 33-44). Proprio per questa ragione appare invece condivisibile l’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, allorché sia contestato formalmente il reato di corruzione, non può ritenersi in sentenza il reato di concussione, costituendo ciò violazione dell’art. 521, comma 2, c.p.p. (cfr. Cass., 26 settembre 1996, in Cass. pen., 1997, 2191, Martina, che esclude al riguardo la possibilità di una contestazione implicita con riferimento agli interrogatori resi nel corso delle indagini sul presupposto che detta contestazione non è lesiva del diritto di difesa, cui è preposto l’art. 521, comma 2, esclusivamente quando sia integrativa rispetto alla contestazione formale, e non anche quando, per il fatto di investire gli elementi essenziali del reato, sia modificativa; in questo caso, infatti, la contestazione non può che essere formale). (52) Arg. ex Cass. 14 novembre 1991, Casanova, in Cass. pen., 1987, 1990). (53) Cass., 15 luglio 1993, Papallo, in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 12, 31 (m). Con riferimento al caso ... Cass., 15 giugno 1988, Gonzales, in Cass. pen., 1989, 2054; Id., 15 febbraio 1988, Rossetti, ivi, 1989, 1057.
— 426 — debba comportare un regresso del procedimento al grado o alla fase precedente. In particolare, il difetto di contestazione può riguardare: a) il fatto diverso: in tal caso, il giudice d’appello dichiara la nullità in tutto o in parte della sentenza appellata e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado (comma 1), individuato secondo i criteri stabiliti nel comma 8; b) una circostanza aggravante per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato ovvero una circostanza aggravante ad effetto speciale (art. 63, comma 3, c.p.) non ritenuta elisa dal giudizio comparativo con le circostanze attenuanti: il giudice di appello dichiara la nullità della sentenza per la parte relativa e dispone il rinvio degli atti al giudice di primo grado (sempre individuato secondo i criteri stabiliti dal comma 8); c) una qualsiasi delle suddette circostanze aggravanti speciali ritenuta elisa dal giudizio comparativo con le circostanze attenuanti: in tal caso, l’elisione, per effetto dell’art. 69, comma 4, c.p., delle circostanze mal contestate priva di rilevanza la nullità e rende inutile il regresso del procedimento al primo giudice (comma 2); d) una circostanza aggravante ordinaria: in tal caso, il giudice d’appello esclude la circostanza aggravante, effettua (se occorre) un nuovo giudizio di comparazione e ridetermina la pena (comma 2); e) un reato concorrente (54) o un fatto nuovo: in tal caso, il giudice d’appello dichiara nullo il relativo capo della sentenza ed elimina la pena corrispondente, disponendo che del provvedimento sia data notizia al pubblico ministero per le sue determinazioni (comma 3); quest’ultimo potrà determinare, ad es., se continuare le indagini ovvero seguire riti alternativi o, comunque, diversi da quelli inizialmente seguiti. Per quanto concerne poi il giudizio di cassazione, la Corte, in caso di mancata contestazione del reato concorrente o del fatto nuovo (art. 620 lett. e) ed f)), annulla senza rinvio la sentenza, disponendo la trasmissione degli atti al P.M., per le sue determinazioni (art. 621); mentre annulla con rinvio (art. 623) in caso di mancata contestazione del fatto diverso o della circostanza aggravante. 7. Il divieto di un secondo giudizio per il medesimo fatto. — A norma dell’art. 649, ‘‘l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze (54) L’espressione normativa, in quanto intesa a richiamare il caso descritto nell’art. 517, va intesa come se dicesse ‘‘condanna per un reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lett. b)’’, cioè a titolo di concorso formale.
— 427 — (...)’’. Due sono, pertanto, i presupposti della norma: uno di natura soggettiva e l’altro di natura oggettiva. A) Il presupposto di natura soggettiva. — Tale presupposto è dato dall’identità tra l’imputato già giudicato e quello sottoposto al nuovo procedimento penale. Al riguardo occorre precisare che il divieto posto dall’art. 649 opera esclusivamente nei confronti dell’ ‘‘imputato prosciolto o condannato’’. Conseguentemente, il divieto in esame non opera: a) nei confronti della stessa persona che abbia assunto (nel primo o nel nuovo procedimento penale) non già la qualità di imputato, bensì quella di responsabile civile o di civilmente obbligato per la pena pecuniaria; b) nei confronti di eventuali compartecipi nel reato che siano rimasti estranei al processo conclusosi con sentenza irrevocabile: pertanto, questa, se abbia assolto taluno da una determinata imputazione, non preclude che altra persona non intervenuta nel relativo processo possa essere successivamente sottoposta a giudizio e dichiarata colpevole a titolo di concorso nello stesso fatto di reato. B) Il presupposto di natura oggettiva. — Tale presupposto richiede l’accertamento dell’identità tra il fatto oggetto della sentenza irrevocabile e quello oggetto del nuovo procedimento. Mentre l’oggetto del procedimento in corso si deduce facilmente dal capo di imputazione, discutibile è la determinazione del primo termine del confronto, cioè dell’ipotesi storica oggetto del giudicato. Per la soluzione della relativa questione possono essere seguiti alcuni criteri direttivi. In primo luogo, al fine di stabilire l’‘‘identità’’ del fatto su cui si deve decidere rispetto a quello sul quale si è già deciso, si deve aver riguardo alla sua configurazione storico-naturalistica e non già alla sua qualificazione giuridica, in quanto, a norma dell’art. 649, il principio del ne bis in idem opera in relazione al medesimo fatto, inteso come fatto storico o fatto concreto, sebbene questo venga ‘‘diversamente considerato per il titolo’’ (dove per titolo si intende per l’appunto la definizione giuridica del fatto) (55). Non sembra, pertanto, condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in caso di concorso formale eterogeneo di reati (nel quale con un’unica azione si cagionano più eventi giuridici diversi), il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l’esercizio dell’azione penale in relazione ad un altro evento (sempre inteso in senso giuridico), pur scaturito dall’unica condotta (56); e ciò perché, ai (55) Ad es., Tizio, se è stato prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile dall’imputazione di ricettazione, per aver promesso a Caio di acquistare la merce che questi avrebbe rubato il giorno seguente, non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per concorso in furto con Caio, proprio perché il fatto storico è il medesimo, anche se diversamente qualificato nei due procedimenti penali. (56) Cfr., ad es., Cass. 8 marzo 1994, Targhetta (in Giust. pen., 1995, III, 36), se-
— 428 — fini del ne bis in idem, occorre aver sempre riguardo al fatto in senso naturalistico (e non giuridico), che nel caso di concorso formale è unico. Inoltre, per espressa disposizione legislativa, il fatto storico è il medesimo (e, dunque, non è ammissibile un secondo giudizio) non solo quando tra l’oggetto dei due procedimenti vi sia identità fra tutti gli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, della fattispecie legale (come richiesto ai fini dell’art. 516 c.p.p.), nonché fra tutte le particolarità della fattispecie giudiziale (retro, n. 3), ma anche quando tale identità non sussista per il mutamento del grado o delle circostanze. Per quanto concerne il mutamento delle circostanze, basti solo osservare, in via esemplificativa, che se Tizio è stato assolto o condannato con sentenza irrevocabile per furto semplice per avere rubato un anello che Caio custodiva nel cassetto della scrivania del proprio studio, non è possibile promuovere contro Tizio un nuovo procedimento penale per lo stesso fatto, aggravato dalla violazione del domicilio di Caio (art. 625, n. 1, c.p.) ovvero dall’effrazione del cassetto (art. 625, n. 2, c.p.). Quanto poi al mutamento del ‘‘grado’’, che è parimenti irrilevante ai fini del ne bis in idem per espressa disposizione di legge, esso è indubbiamente ravvisabile nei casi in cui il fatto di reato, per il quale è intervenuta sentenza irrevocabile, è di minore gravità rispetto al fatto di reato, per il quale è stato iniziato un nuovo procedimento penale. Perciò, se Tizio è stato assolto o condannato per aver tentato di uccidere Caio sparandogli un colpo di pistola in parti vitali del corpo, senza tuttavia determinarne la morte grazie ad un tempestivo intervento chirurgico (tentato omicidio), e Caio muore dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza, è inammissibile un nuovo procedimento penale contro Tizio per omicidio volontario, proprio perché in questo caso si verifica un mutamento di ‘‘grado’’, irrilevante ai fini del ne bis in idem. Per la stessa ragione, se Tizio è stato condannato per lesioni colpose a danno di Caio e quest’ultimo muore dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza, non è possibile promuovere un nuovo procedimento penale contro Tizio per omicidio colposo (57). Analoghe considerazioni valgono in caso di condanna per percosse e di un nuovo giudizio per lesioni in relazione al medesimo episodio. condo la quale il soggetto che è stato condannato per mancata tenuta dei libri e delle scritture ai sensi dell’art. 217 legge fallimentare può essere sottoposto, sulla base della stessa condotta, a nuovo procedimento penale per il reato fiscale di cui all’art. 1, comma ultimo, d.l. n. 429 del 1982, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516. (57) In senso contrario, cfr. Cass., 8 maggio 1987, Mari, in Cass. pen., 1989, 620, secondo la quale è ammissibile il giudizio per omicidio colposo quando si sia già proceduto per le lesioni che solo successivamente determinarono la morte della persona offesa dalla condotta dell’agente. L’orientamento in esame non tiene conto né del tenore della disposizione legislativa, che preclude il secondo giudizio in caso di mutamento del grado (cioè della gravità del reato); né del rilievo che l’ipotesi storica dell’omicidio non è logicamente compatibile con
— 429 — Non sembra, pertanto, condivisibile neppure quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il fatto su cui ha deciso la sentenza irrevocabile e quello per il quale si vorrebbe instaurare il nuovo processo sono identici esclusivamente nel caso di coincidenza della condotta, dell’evento e del nesso di causalità (58), proprio perché l’art. 649 non richiede, ai fini del divieto di bis in idem, la comunanza dell’evento, nel quale il concetto di ‘‘grado’’ si risolve sotto l’aspetto materiale, designando la misura della gravità del reato. In definitiva, ai fini del ne bis in idem, perché il fatto su cui si deve decidere sia il ‘‘medesimo’’ rispetto a quello su cui si è già deciso, non è necessaria l’identità di tutti gli elementi, ma è sufficiente l’identità della condotta, purché questa sia individuata in relazione all’oggetto materiale sul quale essa cade (59). Più precisamente, il fatto di reato resta il ‘‘medesimo’’ se la condotta cade sulla medesima persona ovvero su una o più cose riferibili alla medesima persona. Il fatto, invece, è diverso se la condotta cade su persona diversa ovvero su cose appartenenti a persone diverse. Ne consegue, ad es., che l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza avente ad oggetto l’omicidio di Tizio non può mai dispiegare efficacia preclusiva rispetto al successivo esercizio dell’azione penale per l’omicidio di Caio conseguente alla medesima azione dalla quale derivò la morte della prima vittima (60). Analogamente, l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza avente ad oggetto una rapina commessa ai danni di un istituto di credito non preclude il successivo esercizio dell’azione penale nei confronti dei rapinatori che, nello stesso contesto d’azione, abbiano anche sottratto cose detenute da persone diverse, che erano presenti all’interno della banca al momento della rapina (61). Al contrario, ogniqualvolta non cambia la condotta e l’oggetto materiale sul quale essa cade, il fatto resta il medesimo, anche se muta un qualquella delle lesioni affermata nella sentenza passata in giudicato. Tale sentenza può essere anche errata (ad es., perché fondata su una perizia medica che dichiarava guarita la persona offesa, mentre quest’ultima decedeva proprio a causa di quella malattia), ma, essendo passata in giudicato, non può essere messa in discussione (neppure con lo strumento della revisione, che rappresenta un rimedio previsto dalla legge esclusivamente a favore dell’imputato). (58) Cfr., ad es., Cass., 13 giugno 1991, Frascone, in Cass. pen., 1993, 335. (59) Tale puntualizzazione è stata effettuata da CORDERO sia sotto il vigore del codice abrogato (Procedura penale, Milano, IX ediz., 1987, 1067), sia sotto il vigore del codice attuale (Procedura penale, Milano, III ediz., 1995, 1048). (60) Cass., 13 ottobre 1980, Zaffalon, in Cass. pen., 1982, 774. (61) Arg. ex Cass., 15 ottobre 1982, in Cass. pen., 1984, 1659, nella quale si afferma che la contestuale sottrazione di cose detenute da soggetti diversi nel corso di una rapina configura più eventi derivanti dalla reiterazione di azioni criminose e costituisce, perciò reato continuato; nonché arg. ex Cass., 15 dicembre 1981, ivi, 1983, 1310, che ha parimenti riconosciuto la pluralità di azioni criminose, sia pure unite dal vincolo della continuazione, nella contestuale sottrazione di cose appartenenti a persone diverse.
— 430 — siasi altro elemento della fattispecie giudiziale, quale l’evento, l’elemento psicologico o le circostanze. C) La rilevanza del giudicato implicito ai fini del ne bis in idem. — L’interpretazione logica del giudicato rende inammissibile un nuovo giudizio anche nei casi in cui la condotta (che rappresenta il fatto), pur essendo diversa, sia logicamente incompatibile con l’affermazione in punto di fatto contenuta nel dispositivo della sentenza irrevocabile. Così, ad es., il giudicato per uno dei reati componenti impedisce un nuovo procedimento per il reato complesso: ad es., chi è stato giudicato con sentenza irrevocabile per il reato di furto non può essere sottoposto a procedimento penale per rapina ove risulti che si era impossessato della cosa mediante violenza alla persona. A maggior ragione, qualora il giudicato riguardi il reato complesso, non è possibile un nuovo procedimento per nessuno dei reati componenti, proprio perché la pronuncia irrevocabile si estende necessariamente a tutti i fatti che di per sé costituirebbero reato. Anche in tali casi si verifica quel fenomeno di continenza, che, come sopra si è osservato, preclude sempre un nuovo giudizio per espressa disposizione legislativa. D) I fatti diversi ai fini dell’art. 649. — Un secondo giudizio è, invece, ammissibile ogniqualvolta il nuovo procedimento ha per oggetto condotte che non hanno formato oggetto, neppure implicitamente, del primo giudizio; e, precisamente nei casi in cui, dopo il passaggio in giudicato di una sentenza che abbia per oggetto: a) un reato permanente (ad es., sequestro di persona, ratto, usurpazione di poteri, invasione di terreni o di edifici), si accerti che persiste la permanenza e si proceda per la condotta tenuta dal colpevole dopo la formazione del giudicato (62); b) un reato abituale (ad es., sfruttamento della prostituzione, maltrattamenti in famiglia, relazione incestuosa), si accertino altre condotte identiche ed omogenee, posteriori al giudicato, e per esse si proceda; c) un reato continuato, si accertino altri fatti commessi, anteriori e posteriori al giudicato, ed uniti al reato già giudicato dal vincolo della continuazione, si può procedere ad un secondo giudizio (63). Nei suddetti casi è senz’altro possibile un secondo procedimento, in (62) Il giudicato formatosi con riguardo ad un’attività posta in essere dal soggetto non impedisce l’esercizio dell’azione penale in relazione ad un’ulteriore estrinsecazione dell’attività del soggetto, diversa e distinta nello spazio e nel tempo da quella posta in essere in precedenza ed accertata con sentenza passata in giudicato (Cass., 13 giugno 1987, Napoli, in Cass. pen., 1989, 407). (63) L’art. 671 opportunamente prevede che ‘‘nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia esclusa dal
— 431 — quanto il primo giudicato opera esclusivamente nei confronti dell’ipotesi storica già esaminata; mentre il nuovo procedimento ha ad oggetto fatti diversi, generalmente successivi, che non sono perciò incompatibili con quelli fissati nel giudicato. 8. Le implicazioni concernenti il divieto del bis in idem. — Il divieto, posto dall’art. 649, trova la sua ratio nell’esigenza di tutelare la certezza del diritto, in quanto tende ad evitare che il cittadino, già giudicato per un determinato fatto, possa essere nuovamente sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto e si trovi in una situazione di perenne incertezza. La giurisprudenza ha precisato che il principio del ne bis in idem, quale causa di improcedibilità dell’azione penale, è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (64); e la relativa eccezione può essere sollevata in sede non solo di cognizione ma anche di esecuzione (65). Pertanto, in caso di pendenza di due procedimenti per lo stesso fatto, se non venga disposta l’unione degli atti al primo processo ed uno dei due si concluda con il giudicato (66), nell’altro procedimento deve essere immediatamente emesso un decreto di archiviazione (se ancora pendente nella fase delle indagini) ovvero pronunciata sentenza di non luogo a procedere (se ancora in fase di udienza preliminare) o di proscioglimento (se ci si trova in sede di atti preliminari al dibattimento o di decisione dibattimentale), enunciandone la causa nel dispositivo. Secondo la giurisprudenza dominante, la preclusione derivante dal giudicato va dimostrata attraverso la produzione della sentenza relativa al precedente giudizio, perché solo in tal modo il giudice può stabilire se nel caso di specie ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi posti dall’art. 649. Senonché, onere dell’imputato è solo quello di allegare l’esistenza di un giudicato, mentre incombe all’organo giudicante l’onere di acquisirne la prova, ad es. mediante acquisizione di copia conforme della sentenza recante l’attestazione dell’avvenuto passaggio in giudicato. Qualora poi erroneamente si pervenga ad una pluralità di giudicati per lo stesso fatto contro la medesima persona, può aver luogo il processo di revisione ex art. 630, comma 1, lett. a), se vi è contrasto tra i fatti stagiudice della cognizione, ed il giudice dell’esecuzione provvede determinando la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto’’. Nulla vieta che anche il giudice dell’ultimo procedimento di merito possa unificare i nuovi fatti con quelli già giudicati in una unica figura di reato continuato. (64) Cass., 16 dicembre 1986, Bosco, in Cass. pen., 1988, 630. (65) Cass., 20 novembre 1991, Soru, in Mass. Cass. pen., 1992, fasc. 1, 72 (m). (66) Il principio del ne bis in idem opera solo rispetto ad una sentenza o ad un decreto penale divenuti irrevocabili e non può, quindi, invocarsi in rapporto al decreto di archiviazione: Cass., 21 aprile 1993, Tamburrino, Giust. pen., 1993, III, 576.
— 432 — biliti a fondamento delle decisioni; ovvero, in caso contrario (e cioè se entrambe le sentenze irrevocabili sono di condanna), il giudice competente, a norma dell’art. 669, commi 1 e 4, ordina l’esecuzione della sentenza con cui si pronunciò la condanna meno grave (o, se le condanne sono identiche, quella divenuta irrevocabile per prima) e revoca l’altra o le altre. Passando infine ad esaminare la deroga (‘‘salvo quanto disposto dagli artt. 69, comma 2 e 345’’) prevista dall’art. 649, occorre osservare che essa introduce solo apparentemente una duplice eccezione al principio del ne bis in idem. Invero, i casi di proscioglimento per morte dell’imputato e per difetto di una condizione di procedibilità non impediscono l’esercizio dell’azione penale qualora successivamente si accerti che la morte dell’imputato era stata dichiarata per errore ovvero sopravvenga la condizione di procedibilità. Pertanto, le suddette disposizioni, proprio poiché prevedono sentenze che non acquistano mai autorità di cosa giudicata, non costituiscono in senso proprio eccezioni al principio in esame. Un’effettiva eccezione al divieto di bis in idem è ravvisabile nel combinato disposto di cui agli artt. 620, lett. h) e 621, secondo il quale — nel caso in cui un imputato condannato con sentenza irrevocabile viene di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto e subisce una condanna ad una pena minore, confermata in appello — la Corte di cassazione annulla senza rinvio la prima sentenza, ordinando l’esecuzione della (seconda) sentenza che ha inflitto la condanna meno grave. In questo caso il divieto di bis in idem viene derogato, perché la prima sentenza (non solo già passata in giudicato, ma per giunta diversa da quella impugnata con ricorso alla Corte), non prevale, ma viene annullata senza rinvio. L’eccezione si giustifica in base al principio del favor rei: infatti, la sentenza impugnata, se più favorevole, viene considerata alla stregua di una sentenza irrevocabile, secondo il disposto dell’art. 669 (67). 9. Considerazioni conclusive. — Dall’analisi che precede risulta che l’accertamento dell’identità tra il fatto contestato nell’imputazione e (67) Altra eccezione al principio del ne bis in idem si ha quando il primo giudizio sia stato subito dall’imputato all’estero. Infatti, è stato precisato (Cass., 11 gennaio 1985, Pagano, in Cass. pen., 1986, 1265) che, nel diritto internazionale ed ai fini dell’art. 10, comma 1, Cost., il principio del ne bis in idem è valido per le sentenze dei tribunali internazionali, ma non anche per le sentenze degli Stati nei loro rapporti reciproci, cosicché il giudizio subito all’estero dall’imputato per lo stesso fatto è di regola irrilevante se questo è stato commesso in Italia ovvero quando in Italia è avvenuta anche parte dell’azione e l’agente sia stato già giudicato all’estero. Nei rapporti tra i paesi appartenenti alla Comunità economica europea la materia è disciplinata dalla Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, che, ratificata dall’Italia con l. 16 ottobre 1989, n. 350, dal 16 giugno 1992 trova applicazione nelle relazioni tra Italia, Danimarca e Francia, che sono allo stato i soli Paesi che hanno depositato il proprio strumento di ratifica. In base all’art. 1 di detta convenzione, è precluso l’esercizio dell’azione penale in uno Stato aderente soltanto nel caso in cui in altro Stato aderente sia stata già inflitta condanna.
— 433 — quello fissato in sentenza (rilevante ai fini della validità della sentenza) va effettuato in base a parametri diversi da quelli occorrenti per stabilire l’identità tra il fatto oggetto della sentenza irrevocabile e quello oggetto del nuovo procedimento (rilevante ai fini dell’inammissibilità di quest’ultimo). Infatti, ai fini dell’art. 516, il fatto è diverso ogniqualvolta risulta modificato un elemento costitutivo della fattispecie legale ovvero una particolarità della fattispecie giudiziale; mentre, ai fini dell’art. 649, il fatto è diverso soltanto quando muta la condotta e l’oggetto materiale sulla quale essa cade. Resta così spiegato, ad es., perché, in caso di contestazione di un omicidio colposo e di condanna per omicidio doloso ai danni della stessa persona, il fatto è da ritenersi diverso in tema di nuove contestazioni dibattimentali; mentre la sentenza irrevocabile che abbia deciso sull’imputazione di omicidio colposo non permette, qualora emergano nuovi elementi di valutazione, l’instaurazione nei confronti della stessa persona di un nuovo processo per omicidio doloso ai danni della stessa persona, essendo medesimo il fatto. Invero, come si è cercato di dimostrare, il mutamento dell’elemento psicologico rileva ai fini delle nuove contestazioni dibattimentali, ma non anche ai fini del ne bis in idem. PASQUALE GIANNITI Giudice del Tribunale di Prato
I REATI DI SOSPETTO DOPO LA PRONUNCIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 370 DEL 1996: ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA, DI PROPORZIONE E DI TASSATIVITÀ
PARTE I
SOMMARIO: PARTE I. — 1. Premessa. — 2. Il principio di ragionevolezza ex art. 3, comma 1 Costituzione. - 2.1. Il giudizio sul rispetto del principio di uguaglianza come giudizio sulla ragionevolezza della discriminazione. - 2.2. Il principio di uguaglianza come criterio di valore dell’attività discrezionale del legislatore. - 2.3. Il tertium comparationis. - 2.4. I diversi tipi di giudizio sulla ragionevolezza delle leggi e il giudizio sulla ragionevolezza intrinseca di una legge penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale. — 3. Il principio di proporzione. - 3.1. Il fondamento costituzionale del principio di proporzione. - 3.2. Il principio di proporzione come criterio di controllo dell’operato del legislatore. - 3.3. I rapporti tra il principio di proporzione e il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. — PARTE II. — 4. La violazione del principio di ragionevolezza da parte dell’art. 708 c.p. e dell’art. 707 c.p. - 4.1. Il giudizio sulla ragionevolezza dell’art. 708 c.p. nella sentenza n. 370/96. - 4.2. L’irragionevolezza della discriminazione prevista dall’art. 708 e dall’art. 707 c.p. — 5. La violazione del principio di tassatività da parte dell’art. 708 c.p. - 5.1. La violazione del principio di tassatività in base alle argomentazioni della Corte costituzionale. - 5.2. Riflessioni sul principio di tassatività. - 5.3. La violazione del principio di tassatività da parte dell’art. 708 c.p. — 6. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 c.p. in relazione al principio di tassatività. — 7. La mancata giustificazione dell’origine dei valori o altre utilità. — 8. La compatibilità dei reati di sospetto con la presunzione d’innocenza. 8.1. La presunzione d’innocenza come regola di giudizio. - 8.2. La presunzione d’innocenza come regola della dignità della prova. - 8.3. La presunzione d’innocenza come regola dell’esclusività del processo. — 9. Considerazioni conclusive.
1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 370 del 1996, ha dichiarato l’incostituzionalità della fattispecie di possesso ingiustificato di valori (art. 708 c.p.). Tale fattispecie puniva il possesso ingiustificato di denaro, beni o altre cose non confacenti al proprio stato da parte di soggetti già condannati per delitti derivanti da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio (1). (1) Corte cost. 17 ottobre (2 novembre) 1996, n. 370, in Gazz. uff. della Rep. it., n. 45, 1a serie speciale del 6 novembre 1996, p. 50.
— 435 — La Corte, con la sentenza in esame, ha ritenuto, invece, legittima la fattispecie prevista dall’art. 707 c.p., che punisce chiunque, essendo stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature, dei quali non giustifichi l’attuale destinazione. Le fattispecie in esame, l’art. 707 e l’art. 708 c.p., vengono definite dalla dottrina come ‘‘reati di sospetto’’, in quanto discostandosi dal principio di offensività, incriminano dei fatti che in se stessi non ledono, né pongono in pericolo il bene protetto, ma che lasciano presumere l’avvenuta commissione non accertata o la futura commissione di reati (2). L’incriminazione di tali comportamenti si spiega allora in chiave repressiva o preventiva di delitti contro il patrimonio: il possesso di determinati strumenti da parte di un pregiudicato induce al sospetto, rispettivamente, che questi abbia consumato altri delitti contro il patrimonio o stesse realizzando atti preparatori di tali delitti (3); il possesso di cose non confacenti allo stato del soggetto condannato, induce al sospetto che quelle cose provengano da delitti contro il patrimonio o che rappresentino il pretium sceleris di delitti da commettere (4). In relazione alla fattispecie di possesso ingiustificato si ritiene prevalente la funzione repressiva, in relazione alla fattispecie di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli si ritiene prevalente la funzione preventiva (5). Le norme in questione sono già state sottoposte più volte al vaglio di legittimità della Corte costituzionale in riferimento agli artt. 3, 24, comma 2, 25, comma 2, 27, commi 2 e 3, e 42 Cost.; e in particolare la Corte co(2) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale - Parte generale, Bologna, 1995, p. 19; MANTOVANI, Diritto penale - Parte generale, Padova, 1992, p. 236; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1. Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, p. 237. (3) In questa direzione applicano l’art. 707 c.p. laddove ‘‘il possesso di strumenti... si protragga per un tempo apprezzabile dopo l’uso che ne sia stato fatto durante l’azione furtiva’’, Cass. 26 luglio 1971, Grossi e altro, in Cass. pen., 1972, p. 165; Cass. 9 aprile 1968, De Francesco e altro, ivi, 1969, p. 836, m. 1290; Cass. 14 ottobre 1966, Spinosa, ivi, 1967, p. 955; Cass. 28 gennaio 1966, Recaldini, ivi, 1966, p. 1223; cfr. in dottrina SABATINI, voce Patrimonio (contravvenz. concernenti la prevenz. di delitti contro il), in Nov. dig. it., XII, Torino, 1968, p. 622. (4) Cfr. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. X, Torino, 1964, p. 883, il quale attribuiva all’art. 708 c.p. finalità preventive di futuri delitti; in tale direzione SPASARI, Fatto e reato nella dommatica del codice e della Costituzione, in questa Rivista, 1991, p. 1116. (5) Cfr. FIORELLA, Sui rapporti tra il bene giuridico e le particolari condizioni personali, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di STILE, Napoli, 1985, p. 205; MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 2), p. 238, i quali ritengono che tale fattispecie reprimerebbe non solo il pericolo diretto di lesione del bene giuridico, ma anche il pericolo indiretto, nell’ipotesi di cessione della chiave alterata o grimaldello ad altri, i quali a loro volta potranno compiere un’ulteriore cessione.
— 436 — stituzionale, con le pronunce n. 110 del 1968 e n. 14 del 1971, ha dichiarato incostituzionali per contrasto con l’art. 3 della Costituzione l’art. 707 e l’art. 708 c.p., nella parte in cui, fra le condizioni personali dell’agente, annoveravano la mendicità, l’essere stato ammonito ovvero l’essere stato sottoposto a una misura di sicurezza personale o ad una cauzione di buona condotta (6). Per il resto la Corte costituzionale ha sempre ritenuto infondate le censure di illegittimità costituzionale mosse dalla giurisprudenza di merito sia nei confronti dell’art. 708 c.p. (sentenza n. 14 del 1971, ordinanze nn. 88 del 1972, 65 del 1981, e la recente pronuncia n. 464 del 1994), che in relazione all’art. 707 c.p. (sent. n. 236 del 1975, ordinanze nn. 146 del 1977, 270 del 1984, 36 del 1990) (7). Con la sentenza in esame, invece, la Corte, mutando radicalmente orientamento, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 708 c.p. per violazione del principio di ragionevolezza, ex art. 3 Cost., e del principio di tassatività ex art. 25 Cost. La pronuncia ha indubbiamente il merito di eliminare dall’ordinamento penale italiano una fattispecie obsoleta e in contrasto con taluni fondamentali principi costituzionali, così allineando il nostro sistema penale agli altri ordinamenti europei che, come rilevato nella sentenza in esame, hanno già provveduto all’abrogazione del reato di ‘‘possesso ingiustificato di valori’’ (da ultimo la Francia con il nuovo codice penale del 1992) (8). (6) Corte cost. 19 luglio 1968, n. 110, in Giur. cost., 1968, p. 1704 e in Scuola pos., 1969 p. 96, con nota di GIAMPAOLI, Principio di eguaglianza e richiamo dell’art. 708 c.p. alle condizioni personali, il quale ritiene ingiustificata tale pronunzia di incostituzionalità; Corte cost. 2 febbraio 1971, n. 14, in Giur. it., 1971, I, p. 219 e in Scuola pos., 1971, p. 556, con nota di GIAMPAOLI (sostanzialmente conforme alla sentenza). (7) Corte cost. sent. (29 gennaio) e febbraio 1971, n. 14, in Giur. cost., 1971, I, p. 109; Corte cost. ord. (27 aprile) 4 maggio 1972, n. 88, in Giur. cost., 1972, p. 1127; Corte cost. ord. (2 aprile) 15 aprile 1981, n. 65, in Giur. cost., 1981, p. 362; Corte cost. sent. (15 dicembre) 30 dicembre 1994, n. 464, in Giur. cost., 1994, p. 3995; Corte cost. sent. 30 ottobre 1975, n. 236, in Giur. cost., 1975, II, p. 2235 e in Foro it., 1976, I, c. 14; Corte cost. ord. 6 dicembre 1977, n. 146, in Giur. cost., 1977, I, p. 1462; Corte cost. ord. 6 dicembre 1984, n. 270, in Foro it., 1985, I, c. 3058; Corte cost. ord. 26 gennaio 1990, n. 36, in Cass. pen., 1990, I, p. 1014; conforme Cass. 18 giugno 1971, Giannalia, ivi, 1972, p. 1659. (8) Cfr. il § 2. della sentenza, p. 54. Una norma simile, il § 245a (Besitz von Diebeswerkzeug), introdotto dalla legge 24 novembre 1933, RGBl., I, p. 995, è stata abrogata nell’ordinamento tedesco dalla legge di riforma del 24 maggio 1968, BGBl., I, p. 503; si trattava di una fattispecie fondata sul sospetto che l’imputato, già condannato per determinati reati, potesse utilizzare specifici oggetti posseduti per la realizzazione di futuri reati, e su una presunzione di colpevolezza, in relazione all’intenzione dell’imputato di utilizzare illecitamente le cose possedute (dalle circostanze del caso non dovevano emergevano elementi in base ai quali negare tale destinazione delle cose possedute), cfr. WOGLER, § 245a, in LEIPZIGER KOMMENTAR, a cura di in EBERMEYER, LOBE, ROSEMSERY, Berlin 1868, p. 354; SCÄFER-WAGNER-SCHAFHEYTLE, Gesetz gegen gefärliche Gewohnheitsverbrecher und über Maßregeln der Sicherung und Besserung,
— 437 — L’esame della motivazione della sentenza, nella parte in cui dichiara l’incostituzionalità dell’art. 708 c.p., è però deludente per due fondamentali motivi; da una parte, la sentenza non brilla per chiarezza espositiva, nel senso che dalla sua lettura non emergono in maniera nitida i motivi su cui si fonda la dichiarazione di incostituzionalità e in particolare le ragioni che pongono in contrasto tale fattispecie con il principio di tassatività; dall’altra parte, sembra che il giudice costituzionale non abbia avuto il coraggio di affrontare la più grave censura di incostituzionalità mossa alla norma dalla giurisprudenza di merito, e cioè quella concernente la violazione del diritto costituzionale alla difesa, ex art. 24 Cost. (e, di conseguenza, almeno implicitamente dal momento che tale censura non era stata espressamente rilevata dai giudici a quibus, la violazione della presunzione d’innocenza, ex art. 27, comma 2, Cost.) (9). Non sembra apprezzabile, inoltre, l’ostinato salvataggio, operato dalla sentenza in esame, della fattispecie di possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli, in relazione alla quale sembrano valide alcune delle censure di incostituzionalità accolte dalla Corte in relazione all’art. 708 c.p. e nei confronti della quale sembrano parimenti venute meno le, pur discutibili, ragioni di politica criminale che ne giustificavano l’incriminazione. Rispettando l’ordine di trattazione seguito dalla Corte costituzionale, si procederà innanzitutto all’analisi della parte della sentenza che ha dichiarato l’incostituzionalità della fattispecie di possesso ingiustificato, per poi esaminare e valutare il giudizio di legittimità costituzionale espresso dalla Corte in relazione all’art. 707 c.p. Nell’esaminare le dichiarazioni di incostituzionalità dell’art. 708 c.p. per violazione del principio di ragionevolezza, ex art. 3 Cost., e del principio di tassatività, si tenterà, inoltre, di chiarire quali siano gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza in relazione a tali principi, nonché la compatibilità della fattispecie di possesso ingiustificato di chiavi alterate e grimaldelli con gli stessi. Si procederà, infine, alla verifica della compatibilità dei reati di sospetto, categoria Bonn, 1934, p. 86 ss. La fattispecie, considerata come un delitto di pericolo astratto, era stata dichiarata costituzionalmente legittima dal Bundesgerichthof sul presupposto che non violava la presunzione d’innocenza ex art. 6, comma 2, della Dichiarazione europea dei diritti dell’uomo, in quanto spetta al diritto interno di uno Stato stabilire ciò che appartiene alla prova legislativa della colpevolezza e in quale modo raggiungere la prova della colpevolezza, cfr. BGH, 5 settembre 1967, g.C. 1 stR 335/67, (Landgericht Nürnberg-Fürth) in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes im Strafsachen, Köln-Berlin, 1968, p. 306. (9) Cfr. TRAMONTANO, ‘‘L’irragionevole indeterminatezza’’ della norma penale non più al passo coi tempi: dichiarato incostituzionale l’art. 708 c.p., in Foro it., 1997, c. 1696; INSOLERA, Un deludente epilogo, in Giur. cost., 1996, pp. 3362 ss.-3372; MICHELETTI, Una sentenza di ‘‘incostituzionalità sopravvenuta’’ per ‘‘inadeguatezza’’ della tutela in materia di reati di sospetto, ivi, 1996, p. 3377.
— 438 — nella quale rientrano le due fattispecie in questione, con la presunzione d’innocenza (10). 2. Nella sentenza in esame la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della fattispecie di possesso ingiustificato di valori, in quanto tale norma, per ‘‘la sua esclusiva riferibilità a coloro che sono pregiudicati ‘per delitti determinati derivanti da motivi di lucro e per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio’ ’’, si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. Il fatto, cioè, di voler delimitare la punibilità di una condotta in sé lecita, come il possesso ingiustificato di valori, solo nei confronti ‘‘d’una categoria di soggetti composti da pregiudicati per reati di varia natura ed entità contro il patrimonio’’ appare alla Corte in contrasto con il principio di ragionevolezza inteso quale espressione del principio di uguaglianza, dando luogo ad una discriminazione nei confronti di una determinata categoria di soggetti non giustificata da valide ragioni. 2.1. Sin dalle prime sentenze in materia il giudizio della Corte costituzionale circa il rispetto dell’art. 3, comma 1, Cost. ha assunto i caratteri di un giudizio sulle ragioni che giustificano la discriminazione introdotta dalla legge di volta in volta in esame. La Corte costituzionale, in verità, nella sua prima sentenza in materia (la n. 3 del 1957) (11), esprime una concezione restrittiva del principio dell’art. 3, comma 1 affermando che la valutazione della diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare ‘‘non può che essere riservata alla discrezionalità del legislatore, salva l’osservanza dei limiti stabiliti nel comma 1 dell’art. 3’’, i (10) La Corte costituzionale nella sentenza in esame dichiara, invece, infondate le censure relative alla violazione da parte dell’art. 707 degli artt. 3 e 27, comma 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede il minimo edittale di sei mesi di arresto, considerato sproporzionato se confrontato, ‘‘come tertium comparationis’’, con la previsione generale dell’art. 25, con quella prevista per l’art. 708 c.p. (tre mesi di arresto), e con quella prevista per il furto semplice ex art. 625, quindici giorni di pena detentiva (che finisce per essere applicabile, attraverso il giudizio di equivalenza fra le circostanze di reato, anche quando sia stato ipotizzato un furto aggravato); cfr. nella stessa direzione Corte cost. ord. (3) 6 dicembre 1984, n. 270, in Cass. pen., 1985, p. 573 (nella quale la pena edittale dell’art. 707 veniva comparata a quella del tentativo di furto e di danneggiamento); in dottrina cfr. MICHELETTI, op. cit. (nota 9), p. 3382 ss., il quale critica la decisione n. 370 sul punto in questione; PARODI-GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, p. 396, nota 42, il quale ritiene sproporzionata la pena prevista dall’art. 707 c.p. (11) Corte cost. 26 gennaio 1957, n. 3, in Giur. cost., 1957, p. 11; in senso abbastanza conforme la Corte si pronunciava nella successiva sentenza n. 28 dello stesso anno (26 gennaio 1957, n. 28, ivi, 1957, p. 398, con osservazioni di ESPOSITO), anche se in tale pronuncia il giudice costituzionale fa riferimento alla possibilità del legislatore di dettare norme diverse per adeguare la disciplina agli svariati aspetti della vita sociale, ‘‘anche al fine di conseguire i risultati additati dal comma 2 dell’art. 3’’.
— 439 — soli rilevanti dinanzi alla Corte (12); già nella sentenza n. 53 del 1958 si ha, però, un mutamento di indirizzo laddove si afferma che non si controlla il potere discrezionale del legislatore ‘‘se si dichiara che il principio di eguaglianza è violato quando il legislatore assoggetta a una indiscriminata disciplina situazioni che esso considera e dichiara diverse’’. Come rilevato in dottrina, la Corte voleva così ‘‘sottolineare che non sua, ma dello stesso legislatore era la valutazione circa la diversità delle situazioni, valutazione presupposta al giudizio di irragionevolezza della norma che contraddittoriamente le equiparava’’ (13). In tale direzione con la sentenza n. 56 del 1958 la Corte valuta il contenuto della normativa sottoposta al suo sindacato dall’interno, per ricostruire sulla base di quali motivazioni e operazioni logiche fosse stato determinato, nella ricerca delle ragioni che giustificavano una normativa vanificatoria di uno dei divieti espressamente indicati dall’art. 3, comma 1 (si trattava della legge limitativa del numero massimo dei cittadini di sesso femminile sorteggiati come membri delle giurie popolari); o ancora nella sentenza n. 46 del 1959 la Corte richiama il criterio della ragionevolezza laddove afferma, in negativo, che ‘‘non si può sostenere che la disciplina... sia sfornita di qualsiasi giustificazione’’ o, in positivo, ‘‘accertata questa idonea ragione della legge...’’. Il giudizio sulla validità dell’identità o diversità delle situazioni regolate viene, però, ricondotto in maniera decisa ed esplicita alle ragioni giuridiche della disciplina con la sentenza n. 15 del 1960: ‘‘non basta accertare che la norma non sia in contrasto con i precetti inderogabili posti nell’art. 3, comma 1... Il principio di uguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovano in situazione eguale’’; aggiungendo, nella specie, che la legge adottava un criterio ‘‘non irragionevole’’ (14). In seguito con mutevoli espressioni la Corte continua ad agganciare al criterio di ragionevolezza la sua valutazione sulla conformità di una disciplina normativa all’art. 3, comma 1: si utilizzano espressioni come ‘‘ragionevole motivo’’ e ‘‘criteri di razionalità’’ (sentenza n. 42/1961); ‘‘ragionevolmente ritenere’’ (12) Cfr. AGRÒ, Contributo ad uno studio sui limiti della funzione legislativa in base alla giurisprudenza sul principio costituzionale di eguaglianza, in Giur. cost., 1967, p. 903; SANDULLI, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. società, 1975, p. 561. (13) Così ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, a cura di OCCHIOCUPO, Bologna, 1978, p. 105; cfr. Corte cost. 14 luglio 1958, n. 53, in Giur. cost., 1958, p. 603, con nota critica di ESPOSITO, L’art. 3 della Costituzione e il controllo dell’ingiustizia delle leggi, ivi, p. 605; AGRÒ, op. cit. (nota 12), p. 905 ss. (14) Corte cost. 3 ottobre 1958, n. 56, in Giur. cost., 1958, p. 861, con note di CRISAFULLI ed ESPOSITO; Corte cost. (9 luglio) 15 luglio 1959, n. 46, ivi, 1959, p. 743, con nota di CRISAFULLI; Corte cost. (16 marzo) 29 marzo 1960, n. 15, ivi, 1960, p. 147, con nota di PALADIN.
— 440 — (sentenza n. 8/1962 e 43/1963); ‘‘rispetto della ragionevolezza’’ (sentenza n. 81/1963 e n. 7/1965); ‘‘salvo il limite della ragionevolezza’’ (n. 288/93); ‘‘non arbitrarietà’’ (sent. n. 64/1961 e n. 87/1962) (15); o, in negativo, si incontrano espressioni come ‘‘eccede palesemente i limiti della razionalità’’ (n. 218/74 (16) ); ‘‘manifestamente irrazionale’’ (n. 409/1989); ‘‘dubbi di legittimità costituzionale in termini di ragionevolezza’’ (n. 398/94) (17). Tale criterio della ragionevolezza, inoltre, come emerge dalla sentenza citata n. 53 del 1958 e dalle sentenze n. 64/61 e 126/68 sulla punizione del solo adulterio femminile, assume una portata generale, applicandosi anche ai casi espressamente previsti dall’art. 3; si tratta in ogni caso di accertare se sussistano valide ragioni a fondamento della discriminazione introdotta dalla norma (18). Non esistono, quindi, presunzioni d’illegittimità costituzionale neanche nei casi espressamente previsti dall’art. 3, comma 1 (19) ) (esiste, viceversa, una presunzione di legittimità di una (15) Corte cost. (3 luglio) 11 luglio 1961, n. 42, in Giur. cost., 1961, p. 951; Corte cost. (20 febbraio) 27 febbraio 1962, n. 8, ivi, 1962, p. 96; Corte cost. (4 aprile) 9 aprile 1963, n. 43, ivi, 1963, p. 151; Corte cost. (25 maggio) 8 giugno 1963, n. 81, ivi, 1963, p. 680; Corte cost. (4 febbraio) 19 febbraio 1965, n. 7, ivi, 1965, p. 50; Corte cost. 24 giugno 1993, n. 288, in Foro amm., 1995, p. 9; Corte cost. (23 novembre) 28 novembre 1961, n. 64, in Giur. cost., 1961, p. 1224; Corte cost. (3 luglio) 7 luglio 1962, n. 87, ivi, 1962, p. 933. In dottrina, cfr. FERRARA, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 90 ss.; ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 105 ss.; PIZZORUSSO, Il principio di eguaglianza, in Lezioni di diritto costituzionale, Roma, 1981, pp. 162 ss.-166; AGRÒ, L’eguaglianza in transizione, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale - Riferimenti comparatistici, Milano, 1994, p. 199; LAVAGNA, Ragionevolezza e legittimità costituzionale, in Ricerche sul sistema normativo, Milano, 1984, pp. 639-640. (16) Corte cost. (27 giugno) 9 luglio 1974, n. 218, Callai, in Giur. cost. 1974, p. 1753, con nota di CERRI, Sindacato di costituzionalità alla stregua del principio di eguaglianza: i criteri generali ed ipotesi specifica di pari normazione in ordine a situazioni diverse, p. 1260; un’espressione simile in Corte cost. 24 luglio 1995, n. 364, in Cons. Stato, 1995, II, p. 1261. (17) Corte cost. (6 luglio) 18 luglio 1989, n. 409, in Giur. cost., 1989, p. 1906; Corte cost. 23 novembre 1994, n. 398, in Nuova giur. civ., 1996, I, 58, con nota di INGANGI. (18) Cfr. ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 105 ss.; PIZZORUSSO, Il principio di eguaglianza, op. cit. (nota 15), pp. 162 ss.-166; ONIDA, Ragionevolezza e ‘‘bisogno di differenza’’, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 254, che sottolinea l’importanza del criterio di ragionevolezza in un’ordinamento dove, anche in relazione alle stesse categorie rispetto alle quali l’art. 3 vieta le discriminazioni, emerge il bisogno di differenza accanto al bisogno di parità giuridica e di parità sostanziale; MARTINES, Diritto costituzionale, 8a ed., Milano, 1994, p. 634; ID., Diritto costituzionale, 9a ed., a cura di SILVESTRI, Milano, 1997, p. 675. (19) Cfr. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza: aprile 1979-dicembre 1983, in Giur. cost., 1984, I, p. 219 ss. e in Scritti sulla giustizia costituzio-
— 441 — norma rispetto all’art. 3 Cost., che cessa quando emergono degli elementi, quali sintomi di sviamento dal fine che la legge sembra perseguire (20) ). Si tratta, in ogni caso, come più volte precisato dalla Corte costituzionale, di valutare le discriminazioni derivanti da una norma giuridica, e non le mere discriminazioni di fatto (21). E, del resto, come rileva la dottrina costituzionalistica che si è occupata dell’argomento, anche in Paesi diversi dal nostro il controllo sul rispetto del principio di uguaglianza da parte degli organi di giustizia costituzionale si è tradotto in un controllo sulle ragioni della discriminazione, e quindi sulla ragionevolezza delle leggi: basti pensare all’interpretazione data al equal protection clause da parte della Corte Warren dal 1953 in poi (22), o all’interpretazione data all’art. 3 della GG tedesca, che vieta solo le ‘‘grundlose Ungleichbehandlung’’ (23). E ciò vale anche per la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione all’art. 14 della Convenzione eur. dir. uomo, che sancisce il principio di eguaglianza (24) e alla giurisprudenza della Corte di giustizia in relazione al principio della parità di trattamento dei soggetti ‘‘che si trovino in una sinale in onore di Vezio Crisafulli, Padova, 1985, p. 659; contra CERRI, voce Uguaglianza (principio costituzionale di), in Enc. giur. Trecc., vol. XXXII, Roma, 1994, p. 2, ritiene che sussista una presunzione sfavorevole alle determinazioni legislative quando queste vengono a toccare i requisiti, ad es. menzionati nell’art. 3, comma 1, Cost., e quindi l’onere della prova spetta a chi ne asserisce la legittimità, con tutte le relative conseguenze nell’ipotesi di persistente dubbio; anche se l’autore in voce Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur. Trecc., vol. XXV, Roma, 1994, p. 23, afferma che non è pensabile che basti il ragionevole dubbio per ammettere l’incostituzionalità di una legge, se non ai livelli più elevati di protezione costituzionale o in relazione alla normativa di un regime antitetico alle ispirazioni di fondo della Costituzione repubblicana. (20) Così AGRÒ, Contributo ad uno studio, op. cit. (nota 12), p. 924; cfr. in generale sul giudizio di ragionevolezza, non solo ex art. 3 Cost., come giudizio sulla rispondenza di una disciplina al fine perseguito, FELICETTI, Discrezionalità legislativa e giudizio di costituzionalità, in Foro it., 1986, I, c. 23. (21) Cfr. da ultimo Corte cost. 18 dicembre 1995, n. 509, in Giur. cost., 1995, fasc. 6, p. 4302; da notare, però, come osserva CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, Roma, 1984, pp. 148-149, che è incostituzionale la norma che non tiene conto di differenze fattuali che incidono su diritti costituzionalmente garantiti, rendendo difficoltoso l’esercizio degli stessi; ID., Uguaglianza, op. cit. (nota 19), p. 13; conforme DOLSO, Ipotesi sulla possibilità di un diverso esito utilizzando il parametro della ‘‘ragionevolezza’’, in Giur. cost. 1993, p. 2113; CARAVITA, Commento all’art. 3 Cost., in Commentario breve alla Costituzione, a cura di CRISAFULLI-PALADIN, Padova 1990, p. 18. (22) Cfr. Korematsu v. United States 323 U.S. 214 (1944), cit. in J. LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. disc. pen., vol. XII, Torino, 1997, p. 344; ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 106; BOGNETTI, Il principio di ragionevolezza e la giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 43 ss.; SANDULLI, op. cit. (nota 12), p. 563. (23) Così PIEROTH-SCHLINK, Grundrechte Staatsrecht II, Heidelberg, 1989, p. 112. (24) Cfr. tra le altre Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 agosto 1996, C. c. Belgique, in Recueil de Arrêts et Décisions, 1996, III, n. 12, p. 925, Commissione p. 932, dove si
— 442 — tuazione disciplinata dal diritto comunitario rispetto ai cittadini dello Stato membro’’, sancito dall’art. 6 del Trattato (tale norma dispiega effetti diretti, anche tra privati, ‘‘trattandosi peraltro di un precetto di diritto primario della Comunità’’) (25). Da notare che il principio di ragionevolezza può essere fondato non solo sull’art. 3, comma 1, che sancisce il principio di uguaglianza formale, ma anche sull’art. 3, comma 2, che sancisce il principio di eguaglianza sostanziale legittimando quelle discipline indispensabili per attuare il programma in questione, quand’anche si tratti di misure che altrimenti potrebbero sembrare discriminatorie. Ma non vi è antitesi tra le due figure (anche se la Corte costituzionale preferisce rifarsi all’art. 3, comma 1, temendo probabilmente che delle considerazioni relative al comma 2 interferirebbero sul merito delle scelte legislative (26) ), in quanto ‘‘l’eguaglianza sostanziale si aggiunge a quella formale riempiendola di contenuti’’, in altre parole proprio il riferimento all’art. 3, comma 2, ha consentito alla Corte costituzionale di giustificare ipotesi legislative, apparentemente discriminatorie, ma che in realtà ristabiliscono la parità di condizioni’’ (sentenze nn. 106/62; 28/57; 57/28). Anzi si precisa in dottrina come l’eguaglianza sostanziale non esaurisce il ‘‘valore di giustizia’’ legittimante le discipline legislative, tanto è vero che la Corte costituzionale suole spingere il sindacato di ragionevolezza delle differenziazioni normative ben oltre i limiti del programma tracciato dall’art. 3, comma 2 (27). afferma che nel caso di specie sussiste un obiettivo e ragionevole motivo per la diversificazione di trattamento, che, quindi, non costituisce una discriminazione; Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 ottobre 1996, Stubbings et autres c. Royaume-Uni, ivi, 1996, IV, n. 18, pp. 1508-1519 (Commissione). (25) Corte di giustizia, 26 settembre 1996, Delecta Aktiebolag e Ronny Forsberg c. MSL Dynamics Ltd, in Raccolta, 1996, I, 4661, in particolare cfr. 4670; Corte di giustizia, 5 giugno 1996, NMB France SARL e altre c. Commissione delle Comunità europee, causa T162/94, ivi, 1996, II, p. 427; Corte di giustizia, 20 ottobre 1993, Phil Collins, cause riunite C-92/92 e C-362/92, ivi, 1993, I, p. 5145; Corte di giustizia, 2 febbraio 1989, Cowan, C186/87, ivi, 1989, p. 195; Corte di giustizia, 22 giugno 1972, Frilli, C-1/72, ivi, 1972, p. 457. (26) Cfr. ARCIDIACONO, in ARCIDIACONO-CARULLO-RIZZA, Istituzioni di diritto pubblico, Bologna, 1993, pp. 260-261; in tale direzione critico sul ricorso al principio d’eguaglianza sostanziale da parte del giudice costituzionale, AINIS, L’eccezione e la sua regola, in Giur. cost., 1993, p. 891 ss., a commento di Corte cost. (24 marzo) 26 marzo 1993, n. 109, ivi, p. 873 ss.; cfr., tuttavia, sui giudizi di ragionevolezza che sembrano ricalcati più sul comma 2 che sul comma 1 dell’art. 3 Cost., CARAVITA, Commento all’art. 3 Cost., op. cit. (nota 21), pp. 33-34. (27) Cfr. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, 1995, p. 574, il quale precisa, inoltre che ‘‘questo programma... non funge da parametro della legittimità delle leggi, se non in connessione con altre e più specifiche norme costituzionali, a cominciare da quelle riguardanti i c.d. diritti sociali’’; ampiamente sui rapporti tra il comma 1 e il comma 2 dell’art. 3 Cost., cfr. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, in Giur. cost., 1992, p. 582 ss.; sulla distinzione tra eguaglianza ed egualitarismo cfr. CARAVITA, Spunti in tema di egua-
— 443 — Il principio di non discriminazione si fonda, inoltre, sull’art. 2 n. 2 dei Patti internazionali sui diritti economici, sociali e culturali; sull’art. 3 (e 23) del Patto internazionale sui diritti civili e politici e, come accennato, sull’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; si tratta, in altre parole, di un principio fondamentale del diritto internazionale (in quanto tale già recepito nell’ordinamento italiano ex art. 10 Cost.) (28). 2.2. Secondo parte della dottrina nel compiere tale giudizio sulla ragionevolezza delle leggi, il giudice costituzionale non deve valutare ‘‘la bontà o l’opportunità dei fini perseguiti, ma solo il sussistere di un corretto procedimento logico con cui da essi venga desunta la differenza normativa, e cioè ‘solo la coerenza dell’ordinamento complessivo delle singole leggi e delle singole norme’ con giudizi meramente analitici’’ (29). Il giudizio di ragionevolezza dovrebbe, quindi, essere delimitato ad un giudizio di carattere esclusivamente logico, limitandosi a verificare che la norma non sia in contrasto con il sistema normativo in cui è inserita e, al limite, che sussista una ragione sulla quale si fonda la discriminazione legislativa, respingendo qualunque giudizio sulla validità dello scopo perseguito e sull’adeguatezza del mezzo rispetto allo scopo. Tale opinione della dottrina non sembra, però, accettabile. Nel valutare le ragioni che fondano una discriminazione normativa il giudice costituzionale non può, infatti, non valutare la validità di tali ragioni, in considerazione delle finalità perseguite dal legislatore con la fattispecie in esame e in considerazione del sistema normativo in cui la fattispecie si inserisce (30). E del resto, ‘‘assumere la coerenza (logica) come criterio di glianza, libertà e autorità, in Libertà e giurisprudenza costituzionale, a cura di ANGIOLINI, Torino, 1992, p. 64 ss.; ID., Spunti in tema di uguaglianza, libertà e autorità, in Giust. e cost., 1990, p. 7. (28) Cfr. SAULLE, Recenti sviluppi del principio di parità nell’ordinamento italiano, in Arch. giur. Serafini, 1989, p. 70. (29) Così CERRI, Violazione del principio di uguaglianza ed intervento della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1968, p. 612, nota 6; ID., L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale: esame analitico ed ipotesi ricostruttive, Milano, 1976, pp. 98-99; LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1982, p. 1051; SANDULLI, op. cit. (nota 12), p. 561 ss.; contra, critici nei confronti di questa opinione CORASANITI, Relazione introduttiva, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 11, il quale ritiene che così si ridurrebbe il principio di ragionevolezza a uno strumento di ‘‘conservazione’’; FERRARA, op. cit. (nota 15), p. 98 ss.; CORBETTA, La cornice edittale della pena e il sindacato di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 1997, p. 133, in particolare p. 144; ROSSANO, ‘‘Ragionevolezza’’ e fattispecie di eguaglianza, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 173 ss., il quale, però, ritiene che il giudizio di eguaglianza in sé è avalutativo, e che piuttosto sono le singole fattispecie di eguaglianza individuate nella Costituzione che consentono di valutare la ragionevolezza delle discriminazioni. (30) Cfr. PULITANÒ, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in Bene giuridico e ri-
— 444 — validità generale significa supporre un sistema rigorosamente deduttivo’’, dotato di razionalità sua propria: ma questo è un ‘‘postulato assolutamente indimostrato’’ (31). Si deve, inoltre, considerare che alla base delle discriminazioni legislative vi deve essere una situazione di fatto effettivamente differente, come il sesso, la razza, il titolo di studio, la conoscenza di una lingua (‘‘Unterschiede im Tatsächlichen’’, che non sono solo quelle indicate dall’art. 3 Cost., ma qualunque discriminazione purché empiricamente fondata (32) ); il problema, allora, non consiste tanto nell’accertamento della diversità ma piuttosto nella verifica della ragione in base alla quale nella fattispecie in questione quella diversità è rilevante, e quindi, se non si vuole ridurre a una vuota formalità tale tipo di giudizio, tale verifica non può non comportare una valutazione della validità di quella ragione: si deve stabilire, cioè, se la discriminazione sia intelligibile, rilevante, giusta o ragionevole (intelligible, relevant, just or reasonable); può, infatti, avvenire che una distinzione tra due persone o classi che è intelligibile o reale, non sia rilevante per taluni scopi, o che una distinzione che è rilevante per lo scopo in questione, non sia sufficientemente rilevante per essere ragionevole o giusta, e così via (33). Sembra, infine, riduttiva e sostanzialmente irrealistica la considerazione del giudizio di ragionevolezza come un mero giudizio logico, se si considera come parte della dottrina italiana e straniera riconosce (anche se a volte con disappunto) che il giudice costituzionale è divenuto una sorta di ‘‘secondo legislatore’’ (34), in quanto attraverso le sue interpretaforma della parte speciale, a cura di STILE, Napoli, 1987, p. 131; MOSCARINI, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Torino, 1996, p. 176, la quale afferma che la ricerca della ratio legis, presupposto di ogni ‘‘apprezzamento di ragionevolezza, non potrà consistere in un semplice rilievo di congruenza estrinseca del mezzo con il fine ma consisterà anche nella giustificazione del fine’’. (31) Così BALDASSARE, La Corte costituzionale e principio d’eguaglianza, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 125; cfr. a tal proposito sull’impossibilità di concepire l’ordinamento come un modello nomologico-deduttivo, MOSCARINI, op. cit. (nota 30), p. 143 ss., in particolare pp. 155 ss.-158 ss. (32) Cfr. OHLINGER, Verfassungsrecht, 3a ed., Wien, 1997, pp. 304-305. (33) Così BAER, Equality under Constitution, Ithaca and London, 1983, p. 25; cfr. HESSE, Grundzüge des Verfassungsrecht der Bundesrepublik Deutschland, Heidelberg, 1993, p. 167, il quale afferma che il giudizio di uguaglianza o disuguaglianza ‘‘knüpft also an die Wesentlichkeit oder Unwesentlichkeit der den verglichenen Sachverhalten eigeenen Merkmale an’’. (34) Cfr. GRANDE, Principio di legalità e diritto giurisprudenziale: un’antinomia?, in Pol. del dir., 1996, p. 469; in questa prospettiva parte della dottrina propone, infatti, una ‘‘regolazione’’ dell’attività della Corte, attraverso l’introduzione dell’opinione dissenziente, cfr. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente dei giudici costituzionali, in Pol. dir., 1992, p. 329 ss.; La motivazione dei giudizi di ragionevolezza e la dissenting opinion, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 257; BALDASSARE, op. cit. (nota 31), p. 132 (come proposta estrema); PIZZORUSSO, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, in Corte costituzionale tra norma giu-
— 445 — zioni determina il contenuto sostanziale del dettato legislativo, contenuto che adatta alle modifiche della ‘‘Costituzione materiale’’ (35), assumendo poteri sostanziali di indirizzo politico (36); talora si parla, addirittura, di funzione creativa delle sentenze che estendono la portata di principi in formazione (37) (si rileva, comunque, che ciò non risulta ammissibile in ridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 138; ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 119; ELIA, Corte costituzionale e principio di uguaglianza - Relazione di sintesi, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 168; CERRI, Ragionevolezza, op. cit. (nota 19), p. 25; PALADIN, Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir. - Aggiornamento, I, Varese, 1997, p. 90. (35) Cfr. ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), pp. 108 e 118 ss.; MODUGNO, La funzione legislativa complementare della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, I, p. 1646; ID., Ancora sui contesi rapporti tra Corte costituzionale e potere legislativo, ivi, 1988, II, p. 16; OCCHIOCUPO, La Corte costituzionale come giudice di ‘‘opportunità’’ delle leggi, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 59 ss.; ELIA, op. cit. (nota 34), p. 164 ss.; CERVATI, In tema di interpretazione della Costituzione, nuove tecniche argomentative e ‘‘bilanciamento’’ tra valori costituzionali (a proposito di alcune riflessioni della dottrina austriaca e tedesca), in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 94 ss.; LANZILLO, Principio di uguaglianza e società corporativa, in Giust. e cost., 1990, p. 23; SPADARO, Le motivazioni delle sentenze della Corte come ‘‘tecniche’’ di creazione di norme costituzionali, in La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a cura di RUGGERI, Torino, 1994, p. 356 ss.; in tale direzione, anche se in maniera critica, FERRARA, op. cit. (nota 15), che parla di senso comune dei giudici costituzionali, che coincide con il senso comune dei giuristi di una certa generazione, e cioè con l’ideologia giuridica di un determinato momento storico ‘‘non separata ma derivata da quella complessiva propria al soggetto storico egemone nella società e nello Stato’’; SORACE, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 155; BALDASSARE, op. cit. (nota 31), p. 127 ss.; BARILE, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 41; cfr. per l’ordinamento tedesco sull’influenza della giurisprudenza della Corte costituzionale nei processi politici, cfr. ROELLECKE, Aufgabe und Stellung des Bundesverfassungsgerichts in der Gerichtsbarkeit, in ISENSEE-KIRCHHOF, Handbuch des Staatsrechts, II, Heidelberg, 1987, pp. 681686 ss. Sulla nozione di ‘‘costituzione materiale’’, cfr. MODUGNO, La funzione legislativa, op. cit. (nota 35), p. 71. Da notare che oggi si fa riferimento non solo ai principi costituzionali interpretati alla luce della coscienza sociale, ma anche ad argomenti desunti da carte sovrannazionali — basti pensare alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo —, a principi generalmente affermati in ordinamenti simili a quello di riferimento, a progetti di riforma in stato di avanzata discussione, cfr. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, op. cit. (nota 21), p. 134; GORLA, Tre colonne su ‘‘ordinamenti giuridici aperti e diritto comune dei nostri giorni’’, in Foro it., 1983, V, p. 111. (36) Cfr. MARTINES, op. cit. 8a ed. (nota 18), pp. 621 e 618, il quale evidenzia come l’assunto ruolo politico della Corte costituzionale è stato dovuto soprattutto all’inerzia ed alle inadempienze costituzionali del legislatore e delle maggioranze governative, nell’adeguare alla Costituzione il sistema legislativo ad essa anteriore. (37) Cfr. ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 111, il quale cita le sentenze n. 8 del 1976 e n. 37 del 1975; MODUGNO, Ancora sui
— 446 — relazione alle fattispecie incriminatrici (38), pur non mancando, però, nella prassi sentenze manipolative e additive in materia penale, o sentenze nelle quali la Corte costituzionale compie un diretto apprezzamento delle scelte di politica criminale del legislatore, con conseguente ‘‘aggiramento della riserva’’ (39) ). Addirittura in Austria, dove si è avuto uno sviluppo della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di Gleichheit molto simile al nostro, la dottrina, pur riconoscendo la problematicità del carattere politico delle decisioni in materia e dell’interferenze del VfGH nel Gestaltunsspielraum des Gesetzgebers, ritiene ormai antiquato il tentativo di restringere l’intervento del giudice costituzionale alle ipotesi di Exzeß-Judikatur, quali macroscopiche (große) violazioni - Exzeß des Gesetzgebers (40). Parte della dottrina osserva in tale direzione che non è possibile valucontroversi rapporti, op. cit. (nota 35), p. 17; contra Corte cost. 23 febbraio 1996, n. 40, in Giur. cost., 1996, p. 321. (38) In materia penale si violerebbe, infatti, la riserva di legge assoluta sancita dall’art. 25 Cost., cfr. Corte cost. (11 gennaio) 18 gennaio 1996, n. 8, in Giur. cost., 1996, p. 81; Corte cost. (12 gennaio) 19 gennaio 1995, n. 25, ivi, 1995, p. 251; Corte cost. 27 luglio 1995, n. 411, in Cass. pen., 1996, p. 27; in dottrina PALADIN, Corte costituzionale, in Scritti, op. cit. (nota 19), pp. 662-663; PEDRAZZI, Sentenze ‘‘manipolative’’ in materia penale?, in questa Rivista, 1974, p. 444 ss.; ELIA, op. cit. (nota 34), p. 165; FINOCCHIARO, Corte costituzionale e principio di uguaglianza - Relazione di sintesi, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 149 ss.; FELICETTI, nota Corte cost. ordinanza (8) 14 novembre 1984, n. 251, in Cass. pen., 1985, p. 1026; ID., In tema di sentenze ‘‘additive’’ e d’inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale, ivi, 1984, p. 2107 e giurisprudenza ivi citata; CARAVITA, Commento all’art. 3 Cost., op. cit. (nota 21), p. 21 ss.; PUGIOTTO, Sentenze normative, legalità delle pene e dei reati e controllo sulla tassatività della fattispecie, ivi, 1994, p. 4209 ss.; in alcune pronunce la Corte contesta l’irrazionalità della mancata equiparazione tra due situazioni in termini di incriminazione, ma non può estendere l’ambito di incriminazione della norma penale, né, per lo meno così afferma la Corte, sancire l’incostituzionalità di una norma considerata in sé ragionevole — vedi infra nota 110; cfr. invece, Corte cost. 16 maggio 1984, n. 143, in Foro it., 1984, I, c. 2082, con nota di FORNASARI (Ragionevolezza, dissociazione e sequestro di persona a scopo di estorsione), il quale contesta il fatto che in questa sentenza la Corte estende l’ambito di applicazione di una circostanza attenuante (art. 630, comma 4) attraverso un’interpretazione teleologica. (39) Così INSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in Introduzione al sistema penale, a cura di INSOLERA, MAZZACUVA, PAVARINI, ZANOTTI, vol. I., Torino, 1997, pp. 276-277, il quale indica come sentenze manipolative la pronuncia n. 364 del 1988 sull’art. 5 c.p. e la sentenza n. 341 del 1994 con la quale la Corte costituzionale ha modificato la pena minima prevista per l’oltraggio (vedi infra nota 52 e 120); cfr. RUOTOLO, Un caso di ‘‘irragionevole’’ ragionevolezza, in Giur. cost., 1997, p. 855 ss.; un esempio di sentenza additiva è rappresentato da Corte cost. (21 febbraio) 27 febbraio 1996, n. 52, ivi, 1996, p. 366, che elimina la precedente sanzione penale, e rimpiazza con una sanzione amministrativa, determinata nel minimo e nel massimo, la sanzione per la fattispecie contemplata dall’art. 15, comma 17, della l. n. 515/93. (40) Così OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 306; sull’evoluzione della giurisprudenza austriaca, che è passata dalla mera verifica di tale eccesso, che poi nella prassi non veniva mai riscontrato, all’accertamento del perseguimento da parte della legge, che limita un
— 447 — tare la mera eguaglianza formale, acontenutistica — nel senso che qualunque sia il criterio di valutazione dei comportamenti, quest’ultimo, una volta adottato, deve essere utilizzato in modo uguale per tutti, in quanto ‘‘proprio l’eguaglianza, quale criterio di valutazione della giustizia - sub specie, ovviamente, aequalitatis — di un qualsiasi atto normativo... non è affatto neutrale, presupponendo sempre necessariamente un giudizio di valore’’ (41). Se si considera, infatti, che legiferare vuol dire introdurre necessariamente delle disparità attraverso la previsione di fattispecie particolari, sempre astrattamente riconducibili a una fattispecie comune più generale, e che, per contro, ogni legge regola diversamente situazioni naturalisticamente diverse da quelle disciplinate da altre leggi dell’ordinamento, l’eguaglianza non può essere valutata se non in rapporto alla fondatezza o ‘‘ragionevolezza’’ della previsione legislativa, e cioè bisogna verificare se la disciplina legislativa appaia sufficientemente giustificata dalle caratteristiche essenziali della fattispecie, in considerazione dell’interesse che proprio la disciplina di quella fattispecie mira a tutelare (42). Il principio di uguaglianza richiede, cioè, che le classificazioni di origine normativa (la creazione di gruppi) corrispondano allo scopo perseguito dalla norma (43). E, allora, al fine di valutare se l’attività legislativa, quale attività discrezionale vincolata nel fine (44), sia conforme al principio di uguaglianza, questo principio va inteso non come ‘‘fine in sé e per sé, ma come limite che impone il perseguimento di altre finalità costituzionali per rendere ragionevoli quelle differenziazioni che l’art. 3 di per sé vieterebbe’’ — si richiede una ‘‘verfassungsrechtliche Rechfertigung’’ (45). Grundrechte, di un interesse pubblico e della necessità di tale legge, evoluzione dovuta anche all’influenza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, cfr. HELLER, Judicial self-restraint in der Rechtsprechung des Supreme Court und des Verfassungsgerichtshofes, in Ost. Zeit. für Offentl. Recht und Völlrecht, 1988, p. 109 ss. (41) Cfr. PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979, p. 79; cfr. Corte cost. 29 gennaio 1996, n. 13, in Giur. cost., 1996, p. 112, nella quale si ammette che il giudizio sulla ragionevolezza comporta la valutazione della non arbitrarietà del ‘‘giudizio di valore’’ compiuto dal legislatore. (42) Così PALAZZO, op. cit. (nota 41), pp. 79-80. (43) Cfr. KIRCHHOF, Der allgemeine Gleichheitssatz, in ISENSEE-KIRCHHOF, Handbuch des Staatsrechts, V, Heidelberg, 1992, p. 842. (44) Cfr. MARTINES, op. cit., 8a ed. (nota 18), p. 633, il quale afferma che ‘‘in regime di costituzione rigida, le scelte del legislatore non sono del tutto libere ma sono vincolate alle disposizioni costituzionali ed al raggiungimento dei fini in esse determinati’’. (45) Così AGRÒ, Contributo ad uno studio, op. cit. (nota 12), p. 927; ID., L’eguaglianza in transizione, op. cit. (nota 15), p. 200; conforme cfr. MODUGNO, L’invalidità della legge, Milano, 1970, II, pp. 342-343, il quale afferma che ‘‘tanto i criteri giustificativi delle discriminazioni... quanto, all’opposto, i criteri dai quali è possibile ricavare i limiti positivi alla disciplina legislativa e quindi i confini oltre i quali quest’ultima deve considerarsi ingiustificata’’ non sarebbero ricavabili se non ‘‘da altre disposizioni costituzionali’’; PIZZORUSSO, Lezioni di diritto costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 165; CORASANITI, Considerazioni conclusive, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op.
— 448 — Il principio di eguaglianza diventa insomma un ‘‘limite generale della funzione legislativa’’, in base al quale tutte le leggi ordinarie, sia che riguardino diritti inviolabili sia che disciplinano altre fattispecie di qualsiasi genere, debbono classificare secondo ragionevolezza le varie situazioni e le varie categorie (46); fermo restando che l’imperativo del pari trattamento è più rigoroso, laddove sono in gioco delle libertà fondamentali o altri diritti costituzionalmente garantiti, richiedendo un sindacato assai penetrante della Corte costituzionale (47). Non solo ma se non si vuole ridurre il principio di uguaglianza a un criterio meramente formale, per garantire il suo rispetto non è sufficiente prevedere che sussista una ragione perché situazioni diverse siano diversamente trattate, ma occorre che il diverso trattamento sia adeguato al diverso scopo perseguito o che l’intensità dello stesso tipo di trattamento sia proporzionata al diverso scopo. L’eguaglianza deve essere garantita, cioè, non solo in senso orizzontale, nella scelta dei partecipanti al gruppo al quale applicare la fattispecie, ma anche in senso verticale nella scelta del tipo e dell’intensità del trattamento (ad esempio in materia penale non basta affermare che il reato di rapina deve essere trattato diversamente dal reato di furto, occorre inoltre che la sanzione prevista deve essere proporzionata al diverso disvalore delle due fattispecie). Il principio di uguaglianza, cioè, richiede in sé il rispetto del principio di proporzione (inteso non solo come Gleichmaß, in senso orizzontale, ma anche come Ubermaßverbot — divieto di eccessi — in senso verticale (48) ). Nel comcit. (nota 15), p. 271, pubblicato insieme alla Relazione introduttiva, con il titolo La ragionevolezza come parametro di legittimità costituzionale, in Dir. e soc., 1995, p. 1 ss.; LICCI, Ragionevolezza e significatività come parametri di determinatezza della norma penale, Milano, 1989, p. 19, il quale, però, critica tale concezione; CERVATI, op. cit. (nota 35), p. 96, il quale anche alla luce della giurisprudenza tedesca e austriaca, osserva che i criteri di valutazione adottati dalle Corti costituzionali sono sempre più ‘‘di tipo teleologico, fondate su una coerenza specifica di ordine costituzionale, che si ispira ai ‘‘valori’’ costituzionali di volta in volta in gioco’’; nella dottrina tedesca in tale direzione IPSEN, Gleichheit, in Die Grundrechte, Berlin, 1954, II, p. 111 ss.; PIEROTH-SCLINK, op. cit. (nota 23), p. 112. In questa direzione in giurisprudenza, cfr. Corte cost. 13 maggio 1960, n. 33, in Giur. cost., 1960, p. 33, con osservazioni del prof. CRISAFULLI; Corte cost. 4 maggio (23 maggio) 1966, n. 46, ivi, 1966, n. 46, p. 772. (46) Cfr. PALADIN, Diritto costituzionale, op. cit. (nota 27), pp. 570-571. (47) Così PALADIN, Diritto costituzionale, op. cit. (nota 27), p. 571; sui rapporti tra eguaglianza e libertà cfr. CARAVITA, Spunti, in Giust. e cost., 1990, op. cit. (nota 27), p. 7; KIRCHHOF, Der allgemeine Gleichheitssatz, op. cit. (nota 43), p. 909. (48) Cfr. KIRCHHOF, Der allgemeine Gleichheitssatz, op. cit. (nota 43), pp. 911-912; SPASARI, Riflessioni minime in tema di oltraggio e principio di eguaglianza, in Giur. cost., 1994, II, p. 2814, il quale parla di ‘‘trattamento proporzionalmente differenziato di situazioni giuridiche ragionevolmente diverse’’; LUZÓN PENÄ, Curso de derecho penale, P. General, I, Madrid, 1996, p. 86, afferma che ‘‘ ‘desde el punto de vista político-constitucional’... il principio di proporcionalidad ‘responde directamente al principio de igualdad, que exige tratar por igual lo igual, pero deigualmente lo desigual, proprio del Estado democrático’ ’’; BRI-
— 449 — piere tale tipo di valutazione in termini di uguaglianza-proporzione occorrerà, allora, procedere a bilanciamenti di interessi in considerazione della posizione dei beni in questione nella gerarchia dei valori costituzionali (49), accertando, come afferma la Corte costituzionale, se ‘‘alla luce dei valori costituzionali coinvolti, la ponderazione degli interessi compiuta dal legislatore con le disposizioni impugnate, ..., si rivela palesemente irragionevole, in quanto comporta un bilanciamento dei valori arbitrariamente differenziato e contrastante con quello presupposto dalla Costituzione’’ (50). E in tale direzione sembra indirizzarsi la Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 1979, in cui (mutando un precedente atteggiamento di assoluto self-restraint (51)) si dichiara l’incostituzionalità — per violazione del principio di ragionevolezza — dell’art. 186, comma 1, c.p.m.p. nella parte in cui equipara nella sottoposizione alla stessa pena edittale dell’ergastolo l’ipotesi della insubordinazione con violenza consistita nell’omicidio tentato e quella con violenza concretatasi nell’omicidio volontario, in quanto ‘‘nel bilanciare i due tipi di beni... il legislatore ha operato uno stravolgimento dell’ordine dei valori messi in gioco: antepoCOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, p. 18 ss., il quale riconduce espressamente tale tipo di controllo di proporzionalità al giudizio di ragionevolezza, ex art. 3, comma 2 c. (49) Cfr. SCHLINK, Abwägung im Verfassungsrecht, Berlin, 1976, p. 127 ss.; SCHEFOLD, Aspetti di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale tedesca, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 126; sulla riconduzione del giudizio sulla ragionevolezza di una fattispecie ad un giudizio di proporzionalità-bilanciamento tra interessi, soprattutto in relazione ai diritti individuali e ai rapporti tra Stato e regioni, cfr. R. TOSI, Spunti per una riflessione sui criteri di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 295 ss., anche se l’autrice ritiene che nel nostro ordinamento il controllo di proporzionalità sia superficiale e non fondato su un analisi costi-benefici, cfr. ID., Spunti per una riflessione sui criteri di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1993, p. 564 ss.; BIN, Note sul controllo di ragionevolezza dei termini fissati dal legislatore, ivi, 1989, I, p. 2292; DOLSO, Bilanciamento tra principi e ‘‘strict scrutiny’’ nella giurisprudenza della Corte costituzionale, ivi, 1991, p. 4154; CORBETTA, op. cit. (nota 29), pp. 145-147; CORASANITI, Ragionevolezza, op. cit. (nota 29), pp. 12-15-21, il quale ritiene, però, che dovrebbero essere assolutamente vietate, al di fuori di bilanciamenti, le discriminazioni riferite a un modo di essere necessario e irrinunciabile dell’uomo (ratione subiecti); in quest’ultima direzione CERRI, Ragionevolezza, op. cit. (nota 19), p. 18. (50) Così Corte cost. (16 dicembre) 19 dicembre 1991, n. 467, in Giur. cost., 1991, p. 3805, in particolare p. 3813; cfr. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in questa Rivista, 1998, p. 362 ss., il quale sottolinea il carattere valutativo di un simile giudizio. (51) Cfr. INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), p. 282; in relazione a tale atteggiamento cfr. Corte cost. (25 marzo) 8 aprile 1997, n. 84, in Giur. cost., 1997, p. 837, con nota critica di RUOTOLO, op. cit. (nota 39), p. 851; Corte cost. 14 ottobre (22 ottobre) 1987, n. 337, ivi, 1987, p. 2610; Corte cost. 13 luglio 1987, n. 256, in Foro it., 1987, I, p. 2603; Corte cost. 9 giugno 1986, n. 132, ivi, 1986, I, p. 2371; Corte cost. ord. 26 marzo (29 marzo) 1984, n. 84, in Giur. cost., 1984, p. 486.
— 450 — nendo la disciplina militare in tempo di pace, ..., a quel bene supremo dell’ordinamento costituzionale e penale, premessa naturale di qualsiasi altra situazione soggettiva giuridicamente protetta, che è il diritto alla vita’’ (52). Come emerge dalle sentenze citate, in materia penale tale riferimento al fine costituzionale perseguito con la discriminazione normativa comporta indubbiamente una ‘‘valutazione in chiave costituzionale degli interessi perseguiti dalla norma’’, e cioè si tratterà di accertare se la discriminazione normativa è funzionale alla tutela dell’interesse perseguito, finendo per emergere nella valutazione circa il rispetto del principio di eguaglianza il principio, sotteso all’intera materia penale, in base al quale ogni reato deve possedere un contenuto necessariamente offensivo di un interesse meritevole di tutela (53); tale contenuto condiziona poi la misura della pena in quanto, come afferma la Corte costituzionale, ‘‘il principio d’eguaglianza esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso’’ (principio di proporzione) (54). In tale direzione, ma (52) Corte cost. (5 maggio) 25 maggio 1979, n. 26, in Giur. cost., 1979, I, p. 288; cfr. INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), pp. 280-283, il quale afferma che in queste ipotesi il sindacato costituzionale è più penetrante perché vengono comparate fattispecie poste a tutela di beni diversi, venendo in questione la stessa significatività costituzionale dei beni; in questa sentenza CORBETTA, op. cit. (nota 29), p. 145, individua, per la prima volta nella giurisprudenza della Corte, ‘‘una valutazione di merito in chiave costituzionale del rango dei beni penalmente protetti’’; contra G. GRASSO, Comunità europee e diritto penale, Milano, 1989, p. 331; PAPA, Considerazioni sul controllo di costituzionalità relativamente alla misura edittale delle pene in Italia e negli USA, in questa Rivista, 1984, p. 733. Nella stessa direzione Corte cost. (19 luglio) 25 luglio 1994, n. 341, ivi, 1994, p. 2802, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale, ex art. 341, comma 1, c.p., nella parte in cui prevedeva un minimo edittale eccessivo (sei mesi); tale sentenza è pubblicata anche in Foro it., 1994, I, c. 2085, con nota di FIANDACA, il quale avanza dei dubbi sotto il profilo del rispetto dei limiti intrinseci del sindacato costituzionale da parte della sentenza in questione e in questa direzione si pronuncia anche PAGLIARO, Manifesta irragionevolezza dei livelli di pena e delitti di oltraggio, in Giur. cost., 1995, pp. 2575-2576, il quale non ammette un giudizio di ragionevolezza, fondato sulla comparazione dell’importanza dei beni in gioco, in relazione alla sola misura della sanzione, venendo a mancare la ‘‘manifesta irragionevolezza’’, o incompatibilità con i valori costituzionali (possibile un giudizio sulla ‘‘razionalità’’, coerenza logica della sanzione); contra PUGIOTTO, op. cit. (nota 38), p. 4199 ss., valuta positivamente tale sentenza che si limita ad abrogare il minimo edittale sproporzionato, senza rimodulare la scelta punitiva del legislatore. Ammettono un sindacato sulla discrezionalità legislativa, Corte cost. (24 marzo) 3 aprile 1997, n. 78, ivi, 1997, p. 759, con nota parzialmente critica di PAGLIARO, Sproporzione ‘‘irragionevole’’ dei livelli sanzionatori o sproporzione irrazionale?, ivi, p. 774; Corte cost. (21 febbraio) 27 febbraio 1996, n. 52, ivi, 1996, p. 366, con nota di LUCIANI; Corte cost. (2 aprile) 15 aprile 1993, n. 167, ivi, 1993, p. 1220 (anche sullee norme penali di favore). (53) Cfr. FORNASARI, op. cit. (nota 38), c. 2083; PULITANÒ, Bene giuridico, op. cit. (nota 30), p. 149; DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, p. 29; INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), p. 272. (54) Così Corte cost. (19 luglio) 25 luglio 1994, n. 341, in Giur. cost., 1994, p. 2802
— 451 — in maniera più penetrante, si è indirizzato, del resto, anche il controllo della Corte di giustizia delle Comunità europee in materia di sanzioni, attraverso il diretto richiamo del principio di proporzione; la Corte è intervenuta, infatti, non solo in ipotesi in cui la determinatezza della natura o della misura delle sanzioni dia luogo a palesi iniquità, ma ha anche ‘‘valutato la proporzionatezza della tutela accordata ad un certo interesse nazionale nell’ambito di una valutazione complessiva degli interessi tutelati dall’ordinamento interno alla luce dei riflessi che su tale scala di valori proietta il riconoscimento delle libertà fondamentali dell’ordinamento comunitario’’ (in queste ipotesi la determinazione della gerarchia dei valori da tutelare è influenzata dalle previsioni comunitarie) (55). La Corte di giustizia ha espressamente sancito che le sanzioni non devono essere sproporzionate rispetto alla natura o alla gravità dell’infrazione: una sanzione non proporzionata si rivelerebbe in effetti come un’interferenza eccessiva nella libertà riconosciuta dalla Convenzione e quindi come un ostacolo illegittimo all’esercizio di tale libertà (56). Si deve, però, evidenziare che la Corte costituzionale italiana, pur accogliendo il riferimento a una gerarchia di valori, ha espresso — e proprio in materia penale — anche l’esigenza di delimitare tale tipo di intervento, particolarmente penetrante, alle ipotesi di manifesta arbitrarietà della scelta del legislatore: ‘‘non qualsiasi mutamento del costume o della coscienza sociale collettiva può indurre nuove gerarchie di valori idonee ad incidere, sul piano della ragionevolezza costituzionalmente rilevante, la ponderazione che dei beni coinvolti sia stata operata in sede normativa attraverso l’individuazione delle condotte penalmente rilevanti e la determinazione del conseguente trattamento sanzionatorio’’ (57). (vedi nota 52 e 120); conformi Corte cost. (24 marzo) 3 aprile 1997, n. 78, ivi, 1997, p. 759, con nota parzialmente critica di PAGLIARO, Sproporzione ‘‘irragionevole’’, op. cit. (nota 52); Corte cost. (20 luglio) 28 luglio 1993, n. 343, ivi, 1993, p. 2668, con nota di R. D’ALESSIO; Corte cost. (18 novembre) 3 dicembre 1993, n. 422, ivi, 1993, p. 3489; Corte cost. (6 luglio) 18 luglio 1989, n. 409, ivi, 1989, p. 1906; Corte cost. (20 maggio) 27 maggio 1982, n. 103, ivi, 1982, p. 1013; cfr. la già citata Corte cost. (5 maggio) 25 maggio 1979, n. 26, in questa Rivista, 1980, con nota di ROSSETTI, p. 207 ss., il quale ritiene che con questa sentenza sia stato riconosciuto il principio della giusta proporzione tra il valore dell’interesse tutelato e la misura della sanzione; in dottrina cfr. PAGLIARO, Lo schema di legge delega per un nuovo codice penale; metodo di lavoro e principi ispiratori, in Ind. pen., 1994, p. 254 ss.; BRICOLA, Teoria, op. cit. (nota 48), p. 18 ss. (55) Così GRASSO, op. cit. (nota 52), pp. 331-332. (56) Corte di giustizia 17 ottobre 1996, Konservenfabrik Lubella Friedrich Bücher GmbH & Co. KG c. Hauptzollamt Cottbus, C-64/95, ivi, 1996, I, p. 5105; con specifico riferimento ad una sanzione penale Corte di giustizia 29 febbraio 1996, Procedimenti penali c. Sofia Skanavi e Konstantin Chryssanthakopoulos, C-193/94, ivi, 1996, I, p. 929; Corte di giustizia 25 febbraio 1988, causa 299/86 (Drexl), in Boll. trib., 1988, p. 1577 ss.; Corte di giustizia 3 luglio 1980, causa 157/79 (Regina c. Pieck), in Raccolta, 1980, pp. 2186-2187; Corte di giustizia 7 luglio 1976, (Lynne Watson e Alessandro Belmann), ivi, 1976, II, p. 1185. (57) Corte cost. 12 luglio 1995, n. 313, in Cons. Stato, 1995, II, p. 1198, in cui si
— 452 — Non solo ma anche il riferimento alla Costituzione deve essere temperato dalla considerazione che, non costituendo la Costituzione un sistema chiuso di valori essa dà luogo solo a delle direttive di carattere negativo nei confronti del legislatore che rimane sostanzialmente libero di scegliere entro una serie indefinita di scopi tra loro equivalenti (58); il sistema dei beni giuridici costituzionali viene in rilievo come uno dei punti di vista alla cui stregua legitteimare la differenziazione normativa (59). La stessa gerarchia dei valori costituzionali, facilmente individuabile in relazione ai valori base (come la vita, la libertà personale...), è di più difficile accertamento rispetto ai valori intermedi, richiedendo il ricorso ‘‘a criteri di priorità dipendenti da elementi concettuali e ideologici riscontrabili nei contesti sociali di riferimento’’ (60). Nelle democrazie occidentali, si osserva infatti, la Costituzione costituisce solo un patto giurato, storicanega l’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio minimo delle specifiche figure del reato di oltraggio previste dagli artt. 342 e 343 c.p., perché tale tipo di giudizio comporterebbe una funzione creativa della Corte costituzionale; tale sentenza è pubblicata anche in Giur. cost., 1995, p. 2246, con nota conforme di PAGLIARO, Manifesta irragionevolezza, op. cit. (nota 52), p. 2573; VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in Atti dei Convegni Lincei 96, I principi generali del diritto (Roma 27-29 maggio 1991), Roma, 1992, p. 266, il quale giudica favorevolmente l’atteggiamento restrittivo della Corte costituzionale in materia. Contra LUCIANI, op. cit. (nota 40), p. 371, il quale osserva che tale pronuncia non smentirebbe, ma applicherebbe rigorosamente i principi sanciti nella sentenza n. 341 del 1994 (vedi supra nota 52), richiedendo che il cattivo uso della discrezionalità ‘‘raggiunga una soglia di evidenza’’ tale da atteggiarsi alla stregua della figura sintomatica dell’eccesso di potere; un’affermazione criticata dall’autore perché non è coerente con gli attuali sviluppi del principio di supremazia della Costituzione anche in materia penale e nulla giustifica che in uno Stato costituzionale di diritto sia praticato un trattamento di favore alla potestà penale; in tale direzione sembra superare il limite della manifesta arbitrarietà, Corte cost. (21 febbraio) 27 febbraio 1996, n. 52, in Giur. cost., 1996, p. 366. (58) Così PALADIN, Legittimità e merito, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, pp. 311312; ID., Corte costituzionale, in Scritti, op. cit. (nota 19), p. 630; LICCI, op. cit. (nota 45), p. 43; in termini che sembrano dare maggior rilievo ai limiti derivanti dalla Costituzione, ZAGREBELSKY, La Corte costituzionale e il legislatore, in Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, a cura di BARILE-CHELI-GRASSI, p. 267, il quale afferma che la Costituzione non è un programma politico determinato, ma è ‘‘un alveo entro il quale tutte le possibili attuative devono contenersi’’. In giurisprudenza cfr. Corte cost. (23 maggio) 5 giugno 1978, n. 71, in Giur. cost., 1978, p. 599 (con osservazione a prima lettura di BELLOMIA, p. 600), in base alla quale ‘‘non si può in nessun modo ritenere vincolato il legislatore al perseguimento di specifici interessi’’. (59) Cfr. PULITANÒ, La ‘‘non punibilità’’ di fronte alla Corte costituzionale, in Foro it., 1983, I, c. 1815; ID., Bene giuridico, op. cit. (nota 30), p. 161, il quale precisa, però, che rispetto alle libertà costituzionalmente garantite ‘‘la coercizione legale può essere giustificata solo da esigenze di tutela di una catalogo chiuso e ristretto di beni, la cui — possibile — prevalenza sulle libertà risulti dalla Costituzione’’. (60) Così FIANDACA, Il ‘‘bene giuridico’’ come problema teorico e come criterio di politica criminale, in questa Rivista, 1982, p. 56; in questa direzione cfr. PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale, ivi, 1983, p. 497 ss.; FORNASARI, op. cit. (nota 53), c. 2084; GRASSO, op. cit. (nota 52), p. 331.
— 453 — mente determinato, tra forze politiche diverse e contrapposte, che si accordano su alcuni valori-cardine destinati a costituire le regole fondamentali di un gioco politico capace di svilupparsi liberamente (61); con la conseguenza che — in una Costituzione ‘‘aperta’’ come la nostra — non tutto è deciso e vincolato, ma vi sono questioni lasciate ‘‘consapevolmente aperte’’ e le ‘‘posizioni di valori’’ sono ‘‘sviluppate nel processo storico, non già assolutizzate in sistemi di valori astratti ed autosufficienti’’ (62). In conclusione in tale contesto si può affermare che il principio di eguaglianza assume i caratteri di un criterio generale, non solo di logicità (63), ma anche di valore dell’attività discrezionale del legislatore (64) (esso comporta un Werturteil (65) ). (61) Così LICCI, op. cit. (nota 45), pp. 40-41; MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 2), p. 126; in tale direzione BALDASSARE, op. cit. (nota 31), p. 128; MODUGNO, La funzione legislativa complementare, op. cit. (nota 35), p. 1652, il quale ne trae la conseguenza che la Corte costituzionale, ‘‘custode’’ di una simile Costituzione, diviene ‘‘mediatore e moderatore di conflitti sociali’’; ID., Legge (vizi della), in Enc. dir., vol. XXIII, 1973, p. 1031 ss. (62) Cfr. PULITANÒ, Bene giuridico, op. cit. (nota 30), pp. 159-160; MAZZACUVA, Modello costituzionale di reato. Le ‘‘definizioni’’ del reato e la struttura dell’illecito penale, in Introduzione al sistema penale, op. cit. (nota 39), p. 83 ss.; R. BIN, Bilanciamento degli interessi e teoria della Costituzione, in Libertà e giurisprudenza costituzionale, op. cit. (nota 27), p. 53 ss., il quale parla di Costituzione ‘‘debole’’; PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), p. 368 ss.; INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), p. 287 ss., il quale ritiene che proprio tale indeterminatezza della gerarchia dei valori costituzionali potrebbe comportare che il controllo di ragionevolezza della Corte costituzionale diventi assolutamente incerto, rimanendo affidata ad apprezzamenti contingenti della Corte la scelta circa la pertinenza di un bene alla gerarchia costituzionale. (63) Vedi nota 29. (64) Cfr. CORASANITI, Ragionevolezza, op. cit. (nota 29), pp. 12-17; ROSSANO, op. cit. (nota 29), p. 171; CARAVITA DI TORITTO, Le quattro fasi del giudizio di eguaglianza-ragionevolezza, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 260, il quale osserva che anche laddove la Corte, in un primo stadio del giudizio in esame, si limita a rilevare un’eguaglianza o una diseguaglianza, ‘‘una valutazione c’è — seppur nascosta — e consiste nell’accettare — valutandola... — la valutazione di eguaglianza-diversità precedentemente effettuata dal legislatore’’; VOLPE, Razionalità, ragionevolezza e giustizia nel giudizio sull’eguaglianza delle leggi, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), pp. 194-195, il quale rileva come la Corte costituzionale anche quando sembra limitarsi a rilevare la ‘‘razionalità interna’’ del sistema, senza sovrapporre nulla che non si ricavi dalla ratio degli stessi sistemi o sottosistemi legislativi vigenti, compie comunque delle scelte discrezionali nel riassumere gli elementi caratterizzanti una determinata disciplina e nel dare rilievo alle differenze o alle assimilazioni; CORBETTA, op. cit. (nota 29), p. 145, il quale ritiene che il principio di eguaglianza è di per sé avalutativo, mentre il principio di ragionevolezza richiede — riprendendo un’espressione di ROSSANO — un raffronto con un ‘‘ordine superiore di valori che costituisce il parametro per la valutazione’’; LOMBARDO, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, p. 942; sul superamento della tradizionale distinzione tra giudizi di fatto e di valore, cfr. CERRI, Ragionevolezza, op. cit. (nota 19), p. 1 ss. (65) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 305, il quale precisa come in tale tipo di
— 454 — D’altra parte la riprova che il giudizio sulla ragionevolezza di una norma ex art. 3 Cost. non si riduca a un mero giudizio logico, emerge dalla considerazione che nel compiere tale controllo sulle ragioni che giustificano una discriminazione normativa, il giudice costituzionale non può limitarsi a valutare le scelte che storicamente e soggettivamente hanno motivato il legislatore nell’approvazione di una determinata legge, ma piuttosto la volontà politica attuale che può ritenersi star dietro alla legge sottoposta al controllo di costituzionalità; avviene, infatti, di frequente che una legge si venga a basare su una ragione politica diversa da quella originaria, o, mutando il contesto storico politico, abbia perso la sua ragione giustificativa senza acquistarne altre (66) (tale tipo di giudizio implica inevitabilmente una valutazione della permanente validità di tali ragioni politiche e non semplicemente un loro rilevamento (67) ). Il giudizio sulla ragionevolezza di una norma in relazione all’art. 3, comma 1, Cost., rimane, comunque, nei limiti di competenza della Corte costituzionale, e non invade la sfera di competenza del legislatore, finché si mantiene nei limiti di un controllo interno al sistema legislativo, come sottolineato dalla stessa Corte costituzionale (68). Come afferma la dottrina costituzionalistica che si è occupata del problema di delimitare il pogiudizio intervengono delle decisioni politiche, anzi la VfGH giunge a ‘‘Korrektur politischer Entscheidungen nach Kriterien, die selbst wiederum politisch sind’’. (66) Cfr. ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 107; CARACCIOLI, Conversione della pena pecuniaria e principio di eguaglianza, in Giur. cost., 1979, p. 1205 ss.; contra cfr. CERRI, Uguaglianza, op. cit. (nota 19), p. 10; PALADIN, Corte costituzionale, in Scritti, op. cit. (nota 19), p. 656, il quale ritiene che in queste ipotesi di anacronismo legislativo il giudice costituzionale si limiti a verificare, analizzando l’evoluzione dell’ordinamento stesso, se lo scopo originariamente perseguito continui a sussistere. (67) In tale direzione cfr. Corte cost. 27 giugno 1973, n. 91, in Foro it., 1973, c. 2712, con commento di SPAGNA MUSSO, Norma anacronistica e norma costituzionale illegittima, il quale sottolinea, in maniera critica, come in questo caso la Corte collega all’anacronismo della norma un giudizio di valore; Corte cost. 12 luglio 1995, n. 313, in Giur. cost., 1995, p. 2246, per cui l’anacronismo deve essere ‘‘manifesto’’, con nota conforme di PAGLIARO, Manifesta irragionevolezza, op. cit. (nota 52), p. 2574; ID., Sproporzione ‘‘irragionevole’’, op. cit. (nota 52), p. 775; PISA, I reati ‘‘di sospetto’’ nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 1479, il quale è preoccupato nei confronti delle ‘‘prospettive di demolizione dell’ordinamento penale’’ che possono aprirsi attraverso un simile giudizio di ‘‘adeguatezza storica’’. (68) Cfr. Corte cost. 22 dicembre 1988, n. 1130, in Giur. cost., 1988, p. 5474, nella quale si afferma che ‘‘le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che devono essere assunti come parametro sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione’’; conforme Corte cost. (12 ottobre) 27 ottobre 1988, n. 991, in Giur. cost., 1988, p. 4664, che, quindi, riconduce il giudizio di ragionevolezza a un giudizio di legittimità, benché analogamente ai giudizi di merito non può risolversi con ‘‘il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati’’; in dottrina ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), pp.
— 455 — tere della Corte costituzionale nell’ambito di un giudizio sulla legittimità e non sul merito delle leggi, il tipo di giudizio in esame rimane un giudizio sulla conformità di una legge alla Costituzione, e quindi un giudizio di legittimità, ma in cui si richiede ‘‘una massima forza di penetrazione del sindacato costituzionale’’; rientra, cioè, in quel tipo di giudizio (da qualcuno qualificato come giudizio sull’ ‘‘eccesso di potere legislativo’’ — ma si tratta di una definizione discussa — (69) ) in cui si esamina la consistenza e non la mera esistenza di certe ragioni di incostituzionalità, ovvero in cui si conducono delle indagini metagiuridiche rivolte a concretare taluni imprecisi richiami di costituzione. La Carta costituzionale, come rilevato in dottrina, genera un sistema normativo elastico, cioè contrassegnato da una pluralità di concetti imprecisi e di labili criteri direttivi, ma sottrarre ‘‘alla Corte il sindacato sull’adempimento o sul fedele sviluppo di criteri e concetti, che sembrino troppo sfumati o contengano troppe implicazioni non giuridiche, perché se ne possa conoscere nel quadro d’un giudizio di pura legittimità, conduce necessariamente a contestare il sindacato stesso, svuotando di senso l’intero istituto della giustizia costituzionale, dovunque la costituzione manifesti la propria elasticità’’ (70). 108-109; ANZON, Modi e tecniche del controllo di ragionevolezza, in La giustizia costituzionale ad una svolta, a cura di ROMBOLI, Torino, 1990, p. 34. (69) Cfr. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, 1969, p. 1282; LAVAGNA, Istituzioni, op. cit. (nota 29), p. 1050 ss.; AGRÒ, Contributo ad uno studio, op. cit. (nota 12), p. 924 ss.; CERRI, Ragionevolezza, op. cit.(nota 19), p. 22; RUOTOLO, op. cit. (nota 39), p. 857; PAGLIARO, Manifesta irragionevolezza, op. cit. (nota 52), p. 2574; ID., Sproporzione ‘‘irragionevole’’, op. cit. (nota 52), p. 775; TOSI, Spunti per una riflessione, in Giur. cost., 1993, op. cit. (nota 49), p. 555, compie ‘‘questo accostamento’’, senza, però, alcuna implicazione circa la teoria dell’atto e dei suoi vizi; in giurisprudenza, Corte cost. 12 luglio 1995, n. 313, in Giur. cost., 1995, p. 2246, che precisa che lo scrutinio del giudice costituzionale presuppone che ‘‘l’opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalità che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di ‘eccesso di potere’ e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa’’. Contra, critici nei confronti di tale nozione in quanto l’attività legislativa è libera nel fine e quindi non è configurabile un eccesso di potere come sviamento dal fine istituzionale, o come inidoneità dell’atto al perseguimento del fine istituzionale, cfr. LICCI, op. cit. (nota 45), p. 24 ss.; PALADIN, Legittimità e merito, op. cit. (nota 58), p. 993 ss.; ID., Diritto costituzionale, op. cit. (nota 27), p. 757 ss.; SANDULLI, op. cit. (nota 12), p. 565 ss.; DI GIOVINE, Sul c.d. controllo di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale in materia penale. A proposito del rifiuto totale di prestare il servizio militare, in questa Rivista, 1995, p. 168 ss.; RIZZA, in ARCIDIACONO-CARULLO-RIZZA, op. cit. (nota 26), pp. 506-507; CARAVITA, Commento all’art. 3 Cost., op. cit. (nota 21), pp. 26-27, il quale, però, ritiene che l’irrazionalità intrinseca, quale contrasto tra la disposizione e i suoi fini, si avvicina all’eccesso di potere. (70) Così PALADIN, Legittimità e merito, op. cit. (nota 58), p. 331; cfr. SANDULLI, op. cit. (nota 12), p. 563; ID., Eccesso di potere e controllo di proporzionalità. Profili comparati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1995, p. 367; MOSCARINI, op. cit. (nota 30), p. 128; RUOTOLO, op. cit. (nota 39), p. 858 ss., il quale, tra l’altro, osserva che il controllo sull’uso del potere di-
— 456 — Non consentire tale tipo di giudizio condurrebbe ‘‘a privare di concrete garanzie giuridiche la parte maggiore e più sensibile della Costituzione’’ (71). In tale direzione si interpreta allora l’art. 28 l. 11 marzo 1953, n. 87, che afferma che ‘‘il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento’’, come norma che ‘‘non restringe — incostituzionalmente — l’ambito del sindacato della Corte sulla legittimità delle leggi, ma solo conferma ad usura l’evidente verità che spetta alla Corte medesima di valutare la corrispondenza delle leggi alla Costituzione’’ (72). Rimane fermo, però, che dato il rischio che simili operazioni interpretative della Carta fondamentale diventino eccessivamente libere nell’argomentazione e imprevedibili nei risultati, è necessario, come sottolineato soprattutto dalla dottrina tedesca in materia, fissare dei criteri di interpretazione dei testi costituzionali e richiedere una rigorosa motivazione in maniera che, ‘‘senza indulgere troppo a dogmatismi astorici nella definizione dei compiti dell’interpretazione giuridica’’, oppure a tecnicismi, non si debba rinunciare alla possibilità di controllo dell’attività interpretativa delle Corti da parte della dottrina (73) (le sentenze devono pervenire al ‘‘giusto’’ risultato conforme a Costituzione, attraverso un procedimento razionale e controllabile (74) ). 2.3. Da rilevare, poi, che la Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 10 del 1980 ha accolto quella concezione dottrinaria in base alla quale il giudizio sull’eguaglianza delle leggi dovrebbe essere fondato su un circuito trilatero (75), presupponendo il riferimento ad almeno tre terscrezionale del legislatore è possibile, se è vero che il vizio di eccesso di potere è un vizio di legittimità contrapposto ai vizi di merito; in quest’ultima direzione PAGLIARO, Manifesta irragionevolezza, op. cit. (nota 52), p. 2574, il quale precisa che in caso di eccesso di potere la manifesta irragionevolezza della motivazione mostra che, in realtà, non vi è stato uso del potere discrezionale, ma soltanto arbitrio del legislatore; ID., Sproporzione ‘‘irragionevole’’, op. cit. (nota 52), p. 775. (71) Così PALADIN, Legittimità e merito, op. cit. (nota 58), pp. 322-323; nella stessa direzione SANDULLI, Il principio di ragionevolezza, op. cit. (nota 12), pp. 563-564. Sul carattere elastico e non formale, ma piuttosto teso a dare rilievo ai valori in gioco, dell’interpretazione da parte della Corte costituzionale della Carta fondamentale e soprattutto delle sue ‘‘clausole generali’’, cfr. CERVATI, op. cit. (nota 35), p. 55 ss. (72) Cfr. PALADIN, Legittimità e merito, op. cit. (nota 58), p. 314. (73) Così CERVATI, op. cit. (nota 35), p. 62; cfr. CERRI, Ragionevolezza, op. cit. (nota 19), p. 23; CARLASSARE, Introduzione, in Libertà e giurisprudenza costituzionale, op. cit. (nota 27), p. 11; RUOTOLO, op. cit. (nota 39), p. 860, il quale propone una maggiore flessibilità degli effetti dell’incostituzionalità, in maniera da consentire al legislatore di intervenire tempestivamente. (74) Cfr. HESSE, op. cit. (nota 33), p. 20. (75) Corte cost. (25 gennaio) 30 gennaio 1980, n. 10, in Giur. cost., 1980, p. 67, con osservazioni di BARTOLE e ANZON; Corte cost. (7 gennaio) 14 gennaio 1982, n. 1, ivi, 1982,
— 457 — mini: ‘‘vale a dire la norma impugnata, il principio costituzionale d’eguaglianza ed un tertium comparationis, in vista del quale possa dirsi che la differenziazione o la classificazione in esame sia ragionevole oppure arbitraria, provvista o carente di un adeguato fondamento giustificativo e quindi conforme o difforme rispetto al generale imperativo dell’art. 3’’ (76). Tale elemento di raffronto dovrebbe essere univoco (77) e necessariamente appropriato (78), e viene anche identificato con ‘‘una norma di carattere più generale, che la norma eccezionale o derogatoria interrompe nella sua naturale continuità’’ (79); inizialmente tale termine di confronto era individuato nella medesima disposizione in cui era inserita la fattispecie censurata, quindi si trattava di un controllo di carattere ‘‘endonormativo’’, successivamente, invece, il tertium comparationis viene individuato in una norma diversa da quella censurata (80). Nell’ordinamento tedesco parte della dottrina individua tale tertium comparationis in un Oberbegriff - Genus proximum, nel quale possono rientrare entrambe le persone, gruppi di persone o situazioni a confronto (81) ). Entrambe le concezioni, quella espressa dalla sentenza n. 15 del 1960 p. 3, in relazione alla misura della pena; Corte cost. 1 febbraio 1982, n. 10, ivi, p. 64; Corte cost. 1 febbraio 1982, n. 11, ivi, p. 69; Corte cost. (27 aprile) 12 maggio 1982, n. 89, ivi, p. 1085, con nota di TABET; Corte cost. (8 novembre) 17 novembre 1982, n. 188, ivi, p. 2041; Corte cost. (18 novembre) 24 novembre 1982, n. 198, ivi, p. 2114. (76) Così PALADIN, Corte costituzionale, in Giur. cost., op. cit. (nota 19), pp. 222223; ID., Diritto costituzionale, op. cit. (nota 27), p. 167; cfr. sul punto GRASSO, op. cit. (nota 52), p. 329; CORBETTA, op. cit. (nota 29), p. 138; VOLPE, op. cit. (nota 64), p. 198; BIN, Note sul controllo, op. cit. (nota 49), p. 291; MICHELETTI, op. cit. (nota 9), pp. 33803381; DOLSO, Ipotesi sulla possibilità di un diverso esito, op. cit. (nota 21), p. 2116; CERRI, Uguaglianza, op. cit. (nota 19), p. 8; MARTINES, op. cit., 9a ed. (nota 18), p. 674; DI GIOVINE, op. cit. (nota 69), p. 171 ss., anche se l’autrice, riprendendo il pensiero di BIN, finisce per giungere alla conclusione che il tertium comparationis venga utilizzato dalla Corte come paravento rassicurante per coprire dei giudizi a schema binario, fondati su un bilanciamento diretto dei beni a confronto, che rischiano di sconfinare in ‘‘pronunce arbitrariamente creative del diritto’’ (p. 182 ss.); per l’ordinamento austriaco cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 305. (77) Cfr. CERRI, Uguaglianza, op. cit. (nota 19), p. 8. (78) Cfr. Nota redaz. alla sent. n. 81 del 1992, in Giur. cost., 1992, pp. 834-835; PALADIN, Corte costituzionale, in Scritti, op. cit. (nota 19), p. 609 ss.; CARAVITA DI TORITTO, Le quattro fasi del giudizio di eguaglianza-ragionevolezza, op. cit.(nota 64), p. 261. (79) Così PALADIN, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 139; VOLPE, op. cit. (nota 64), p. 198; CARAVITA, Commento all’art. 3 Cost., op. cit. (nota 21), pp. 17 ss.-19. (80) Cfr. PIZZORUSSO, Lezioni di diritto costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 195 ss.; GRASSO, op. cit. (nota 52), p. 329; CORBETTA, op. cit. (nota 29), p. 139 ss.; PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), p. 374 ss., il quale ritiene indispensabile l’utilizzazione del tertium comparationis laddove si tratti di un giudizio di proporzione sulla misura della pena, inteso come giudizio sulla proporzione ‘‘tra disvalore del bene e del fatto ed entità della risposta sanzionatoria’’. (81) Così PIEROTH-SCHLINK, op. cit. (nota 23), p. 113.
— 458 — in base alla quale il giudizio sul rispetto del principio di uguaglianza è un giudizio sulla ragionevolezza della discriminazione da valutare in relazione al fine perseguito, e quella ispirata alla ragionevolezza trilaterale, sono ormai accolte parimenti dalla Corte costituzionale (82). Si può osservare, però, che non sempre sembra possibile ricostruire il giudizio ex art. 3 Cost. come un giudizio ternario (83). In molti casi, innanzitutto, la discriminazione non emerge dal confronto tra due fattispecie, che prevedono un trattamento diverso di situazioni eguali o una parificazione di trattamento di situazioni diverse, ma è una singola norma che per il fatto di essere applicabile solo a una specifica categoria di soggetti (e non alla generalità dei consociati) comporta un trattamento discriminatorio nei confronti di tale categoria (è la singola norma, come afferma la dottrina tedesca, a dare vita al gruppo - Gruppebildung (84), o, come afferma la dottrina italiana, a operare una qualificazione giuridica (85) ). Si osserva, addirittura, in dottrina che ogni nuova norma giuridica, per la sua stessa essenza e funzione, comporta necessariamente delle modificazioni nel preesistente assetto delle situazioni soggettive e dei rapporti intersoggettivi, e quindi la ‘‘creazione di disparità’’ o l’eliminazione di precedenti disparità, con la conseguente possibilità di offendere il principio di uguaglianza laddove, ponendo a base della modificazione del precedente assetto dati non logicamente pertinenti rispetto agli obiettivi — ammessi solo in quanto costituzionalmente consentiti —, coinvolge ingiustificatamente nel nuovo assetto soggetti, situazioni e rapporti, che, secondo la logica del sistema avrebbero dovuto rimanere estranei — o non include ingiustificatamente, soggetti, situazioni e rapporti, che, secondo la medesima logica, avrebbero dovuto essere ammessi a partecipare (86). Ad esempio la fattispecie in esame comportava una discriminazione perché incriminava il possesso ingiustificato solo in relazione a determinati soggetti qualificati per le loro condizioni personali (‘‘condannati’’), ma non esiste una norma diversa o più generale con la cui disciplina la Corte costituzionale è chiamata a confrontare l’art. 708 c.p. (salvo a voler fare ri(82)
Così AGRÒ, L’eguaglianza in transizione, op. cit. (nota 15), p. 200; cfr. CASA-
VOLA, La giustizia costituzionale nel 1992, in Giur. cost., 1993, pp. 626-627.
(83) Vedi ad esempio la sentenza n. 370/96 in esame; critico nei confronti del tertium comparationis laddove il giudizio di ragionevolezza incide sull’an e il quomodo della tutela penale, PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), p. 376 ss.; cfr. PATRONI GRIFFI, Il Conseil constitutionnel e il controllo della ‘‘ragionevolezza’’: peculiarità e tecniche di intervento del giudice costituzionale francese, in Riv. it. dir. pubbl. com, 1998, p. 79, il quale evidenzia come il Consiglio costituzionale francese, nell’analisi dell’accertamento della violazione del principio di eguaglianza, non adotti l’ausilio del tertium comparationis. (84) Cfr. KIRCHHOF, Der allgemeine Gleichheitssatz, op. cit. (nota 43), p. 842. (85) Cfr. AGRÒ, Contributo ad uno studio, op. cit. (nota 12), p. 909; in questa direzione SANDULLI, Il principio di ragionevolezza, op. cit. (nota 12), p. 562. (86) Cfr. SANDULLI, Il principio di ragionevolezza, op. cit. (nota 12), p. 563.
— 459 — ferimento all’art. 42 Cost. che sancisce il diritto alla proprietà privata a favore di tutti i cittadini). In ogni caso si pone anche un problema di validità del termine di paragone: ‘‘di fronte alla possibilità di scegliere tra una disciplina ed un’altra posta a paragone bisognerà bene che tutte e due siano poi poste a paragone con una terza disciplina e quindi saggiarne la validità, a meno di non prendere come termine di paragone quello proposto dal giudice a quo e dire che quello è comunque valido’’; a volte, addirittura, la Corte costituzionale ha sollevato d’ufficio questioni di legittimità costituzionale del tertium comparationis, ma allora questo ‘‘tertium comparationis doveva violare direttamente il principio di uguaglianza, senza bisogno di riferirsi ad un altro termine di paragone in un processo che potrebbe essere infinito’’ (87). E, infine, come osservato dalla dottrina tedesca, l’utilizzo del metodo del tertium comparationis, ‘‘non toglie la necessità di valutare sul piano materiale dei valori’’; la problematica, insomma, è soltanto spostata e proceduralizzata, ma rimane fermo il principio di ragionevolezza come strumento di decisione (88) (come del resto finiscono per riconoscere gli stessi propugnatori del tertium comparationis laddove affermano che con lo schema ternario si fa riferimento solo agli elementi costitutivi dello schema del giudizio di eguaglianza, che non esclude un giudizio di ragionevolezza esterno, e cioè il richiamo ad altre norme o criteri per dimostrare l’irragionevolezza di una norma (89) ). Un’esigenza condivisibile sembra, però, emergere da questo sforzo di ricostruire in base a un circuito trilaterale il giudizio, ex art. 3 Cost., sulla ragionevolezza di una fattispecie, e cioè la necessità di subordinare l’ammissibilità del giudizio sul rispetto da parte di una norma del principio di eguaglianza al fatto che la norma incriminata introduca una discriminazione a carico di alcuni soggetti, della quale, e non della norma in assoluto, si valuta la ragionevolezza alla luce dell’interesse perseguito; anche se in questo caso il giudizio sulla ragionevolezza della norma diventa più penetrante, non trattandosi di rilevare la mera incongruenza della disparità di trattamento prevista da due norme, ma trattandosi di valutare la ra(87) Così AGRÒ, L’eguaglianza in transizione, op. cit. (nota 15), pp. 200-201; cfr. CASAVOLA, op. cit. (nota 82), p. 627; PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), p. 378; cfr. in giurisprudenza Corte cost. 4 febbraio 1982, n. 20, in Giur. cost., 1982, p. 188; Corte cost. 15 luglio 1976, n. 179, ivi, 1976, p. 1095; Corte cost. 16 dicembre 1970, n. 190, ivi, 1970, p. 2179, nelle quali la Corte ha sollevato la questione di costituzionalità nei confronti del termine di raffronto, ristabilendo in senso inverso l’uguaglianza. (88) Così SCHEFOLD, op. cit. (nota 49), p. 123; in tale direzione cfr. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), p. 378. (89) Cfr. PALADIN, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, op. cit. (nota 13), p. 142; BIN, Atti normativi e norme programmatiche, Milano, 1988, p. 275, che relativizza la distinzione tra i due tipi di giudizio; conforme ID., Note sul controllo, op. cit. (nota 49), p. 2291; parla di tale giudizio esterno Zagrebelsky, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 111 ss.
— 460 — gionevolezza della disciplina discriminatoria — di una classificazione —, giudizio i cui confini con un giudizio in assoluto sulla ragionevolezza della norma sono molto labili (90). In conclusione allora il riferimento ad un tertium comparationis sembra accettabile solo nel limitato significato in base al quale è necessario verificare la ragionevolezza della discriminazione — sia che derivi dal confronto tra due fattispecie, sia che derivi da una classificazione normativa — alla luce di un terzo elemento di comparazione costituito dal fine perseguito dalla norma (il Regelungsziel costituisce il Vergleichmaßstab (91)); e questo (cioè l’accertamento di quale sia il fine perseguito e la valutazione dell’adeguatezza della norma in esame rispetto ad esso) può comportare un’analisi del sistema normativo nel quale la norma è inserita (92). 2.4. Bisogna chiarire a questo punto che il giudizio ex art. 3 Costituzione non costituisce l’unico possibile giudizio sulla ragionevolezza di una legge: l’irragionevolezza di una norma può ‘‘rilevare autonomamente con riferimento ai valori direttamente vulnerati’’ (93); come ad esempio nella pronuncia n. 1130 del 1988, con la quale la Corte costituzionale valuta la ragionevolezza della norma impugnata in relazione al principio del buon andamento ex art. 97 Cost. (94). Una parte della dottrina addirittura afferma l’esistenza di un principio di ragionevolezza, in base al quale si deve valutare o la mera congruenza logica o, come si ammette sempre più spesso, la ragionevolezza di una norma in assoluto, indipendentemente dalla sussistenza di una dispa(90) Cfr. CERRI, Uguaglianza, op. cit. (nota 19), p. 8, il quale osserva che quando l’elemento di raffronto è dato da una situazione normativa talmente generale da essere residuale e ‘‘non scritta’’ in precise disposizioni, il controllo di ragionevolezza potrebbe trascendere l’uguaglianza in senso stretto; a tal proposito sul giudizio di ragionevolezza di una norma in sé, e non dell’irragionevolezza della disparità di trattamento introdotta da due norme, cfr. ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 114. (91) Così P. KIRCHHOF, Der allgemeine Gleichheitssatz, op. cit. (nota 43), p. 850 ss. (92) In tale direzione cfr. BALDASSARE, op. cit. (nota 31), p. 128, il quale però intende tale fine come ‘‘ragione empirica’’, fatti, interessi, fini reali. (93) Così LICCI, op. cit. (nota 45), p. 50; in questa direzione cfr. CERRI, Ragionevolezza, op. cit. (nota 19), p. 15; LAVAGNA, Ragionevolezza, op. cit. (nota 15), p. 648 ss.; RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979, p. 128; DI GIOVINE, op. cit. (nota 69), p. 180; TRAMONTANO, op. cit. (nota 9), c. 1705 ss.; ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e principio di uguaglianza, op. cit. (nota 13), p. 113; PALADIN, Esiste un ‘‘principio di ragionevolezza’’ nella giurisprudenza costituzionale?, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 163; BARTOLE, Controllo di razionalità e determinazione previa di criteri e protocolli di giudizio, ivi, p. 203. (94) Così Corte cost. (14 dicembre) 22 dicembre 1988, n. 1130, in Giur. cost., 1988 I, p. 5474; cfr. Corte cost. 28 giugno 1963, n. 125, in Giust. pen., 1963, I, c. 271 ss. in relazione all’art. 41 Cost.; sul sindacato di ragionevolezza in tema di buon andamento CERRI, Ragionevolezza, op. cit.(nota 19), p. 15.
— 461 — rità di trattamento da valutare. In tale direzione, parte della dottrina distingue solo due categorie di giudizi: e cioè da una parte giudizi sul rispetto del principio di eguaglianza in senso stretto, e dall’altra parte giudizi sull’adeguatezza, pertinenza, congruità, proporzionalità ovvero coerenza interna o ragionevolezza intrinseca di una legge; oppure, da una parte, giudizi sulla ragionevolezza interna delle leggi, rispetto alla ratio legis o alla complessiva ratio iuris, da ricondursi all’art. 3, comma 1, e, dall’altra parte, giudizi diretti sul rispetto di determinati principi costituzionali, che impongano valutazioni pertinenti alla ragionevolezza (95). Altra parte della dottrina individua tre tipi di giudizio: il giudizio sull’irrazionalità sistematica della norma, derivante dall’incompatibilità con un’altra norma, dall’irriducibilità ai principi ispiratori, dall’incongruità dei mezzi rispetto ai fini, dall’ingiustificatezza dell’eccezione rispetto alla regola (il tutto in base al principio formale di non contraddizione del sistema); il giudizio sulla ragionevolezza dell’uguaglianza o della disuguaglianza (cioè sulla sua ‘‘giustificatezza rispetto a un valore’’); il giudizio sulla ‘‘giustizia’’ di una norma, e cioè sulla ‘‘ragionevolezza intrinseca della stessa’’, giudizio nel quale assumono un peso rilevante le esigenze del caso concreto (96) (quest’ultima categoria è particolarmente contestata dalla dottrina (97)). (95) Nella prima direzione cfr., per tutti, ANZON, Modi e tecniche del controllo di ragionevolezza, op. cit. (nota 68), p. 32; nella seconda direzione cfr. PALADIN, Ragionevolezza (principio di), op. cit. (nota 34), p. 906. (96) Così ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della ragionevolezza, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 180 ss.; ID., La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 149 ss., il quale ritiene che nei primi due casi è necessario il tertium comparationis; cfr. ID., Corte costituzionale, op. cit. (nota 13), p. 116 ss.; riconduce al giudizio sulla ‘‘giustizia’’ di una legge alcune sentenze del Conseil constitutionnel francese, FAVOREU, Conseil constitutionnel et ragionevolezza: d’un rapprochement improbable à une communicabilité possible, parte II, in Il principio di ragionevolezza, op. cit. (nota 15), p. 226 ss.; riconduce ai tre tipi di giudizio le sentenze del giudice costituzionale francese PATRONI GRIFFI, op. cit. (nota 83), p. 78. Sull’impossibilità di ricondurre ad unità le valutazioni concernenti la ragionevolezza cfr. PALADIN, Ragionevolezza (principio di), op. cit. (nota 34), pp. 902-905 ss.; sui diversi tentativi di categorizzazione in materia, cfr. LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), p. 350; MOSCARINI, op. cit. (nota 30), p. 88 ss., e sul diverso atteggiarsi del giudizio di ragionevolezza p. 109 ss. (97) Cfr. MARTINES, op. cit., 9a ed. (nota 18), p. 675; CARAVITA DI TORITTO, Le quattro fasi del giudizio di eguaglianza-ragionevolezza, op. cit. (nota 64), p. 263, il quale ritiene che anche la valutazione della ragionevolezza di una norma rispetto allo scopo, al valore, non può essere accomunata a una c.d. valutazione di giustizia, che evoca il riferimento a valori ultra positivi e al caso concreto; BARILE, op. cit. (nota 35), p. 42 il quale contesta la possibilità di sindacare l’incoerenza intrinseca di una norma, possibilità che sfocerebbe nell’arbitrio legislativo; PALADIN, Esiste un ‘‘principio di ragionevolezza’’ nella giurisprudenza costituzionale?, op. cit. (nota 93), p. 165, il quale è critico nei confronti dell’abuso del giudizio sulla ragionevolezza di una legge compiuto utilizzando i parametri costituzionali solo come ‘‘un puro e semplice pretesto’’, volendo fare del ‘‘diritto costituzionale libero’’; VOLPE, op.
— 462 — Indipendentemente dalle categorizzazioni, poi, dall’esame della dottrina in materia emergono tre orientamenti fondamentali in tema di principio di ragionevolezza: parte della dottrina fonda tale principio sullo stesso art. 3 Cost., ridotto a mero pretesto per un giudizio sulla ragionevolezza intrinseca di una norma indipendentemente dalla valutazione di una possibile discriminazione; altra parte della dottrina fonda i giudizi sulla razionalità, sulla ragionevolezza o sulla giustizia di una legge non su specifiche norme costituzionali, ma su corrispondenti principi giuridici fondamentali, al di là della ricerca di un fondamento legislativo testuale (98); un ultimo orientamento dottrinale ritiene, invece, che più che di un principio di ragionevolezza si possa parlare di un ‘‘criterio di ragionevolezza’’, in base al quale si dovrebbero conformare i giudizi sulla costituzionalità di una norma (99), e che quindi, in tale ottica, il giudizio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. non abbia alcuna autonomia concettuale (100). Nella prima direzione, in particolare, si può rilevare come nella più recente giurisprudenza costituzionale il riferimento all’art. 3, comma 1, Cost. assume spesso i connotati di una clausola di stile, mentre la Corte procede a un diretto apprezzamento della scelta legislativa (101) e utilizza cit. (nota 64), p. 193 ss., il quale critica il giudizio sulla razionalità delle leggi e quello sulla giustizia; sui rischi nella giurisprudenza costituzionale di trasformare il principio di proporzione in uno strumento di giustizia del caso concreto, cfr. RESS, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit im deutschen Recht, in KUTSCHER-RESS-TEITGEN-ERMACORA-UBERTAZZI, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit in europäischen Rechtsordnungen, Heidelberg, 1985, p. 10. (98) Così ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, op. cit. (nota 96), p. 153 ss.; cfr., tra gli altri, LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), p. 347, secondo il quale il principio di ragionevolezza è ‘‘una norma non ‘posta’ da alcuna fonte, ma presupposta dal pluralismo delle fonti e dalla società aperta degli interpreti del diritto, se si vuole una sorta di ‘Grundnorm’ (norma fondamentale) oppure un contenuto elementare della costituzione materiale, una norma che dirige l’interpretazione della costituzione e dell’intero ordinamento giuridico’’; LOMBARDO, op. cit. (nota 64), p. 939 ss., il quale parla, senza porsi il problema del suo fondamento costituzionale, di un principio di ragionevolezza, distinto da quello di logicità, di proporzionalità e di uguaglianza, e inteso come giudizio sull’ ‘‘asseribilità giustificata del provvedimento, nel senso di verifica, nel procedimento, della considerazione di tutti gli interessi afferenti al rapporto amministrativo in modo ‘simpatetico’ ’’. (99) Cfr. VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in questa Rivista, 1991, p. 706; TOSI, Spunti per una riflessione, in Giur. cost., 1993, op. cit. (nota 49), p. 558; LAVAGNA, Ragionevolezza, op. cit. (nota 15), p. 648 ss.; in tale direzione parlano della ragionevolezza come di ‘‘una clausola generale dell’ordinamento costituzionale, destinata ad integrare il contenuto normativo di altre norme’’, MENGONI, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 5 ss. e MOSCARINI, op. cit. (nota 30), p. 96. (100) Così DI GIOVINE, op. cit. (nota 69), p. 179; TRAMONTANO, op. cit. (nota 9), c. 1705 ss. (101) Cfr. sul punto INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), pp. 275276.
— 463 — il richiamo alla ragionevolezza ex art. 3 Cost. come una sorta di ‘‘passe partout’’, come un grande contenitore che, anche se riempito di cose diverse, mantiene lo stesso nome e si presta quindi ad essere impiegato ora in un senso, ora in un senso esattamente opposto (e cioè la Corte decide nel merito le questioni che ritiene mature per essere affrontate, mentre si richiama all’insindacabile discrezionalità del legislatore allorché non intenda affrontare le questioni sottopostole) (102). E del resto sembrano muoversi in questa direzione, e cioè fare dell’art. 3 Cost. il pretesto per un giudizio sulla ragionevolezza intrinseca di ogni legge, quegli autori che ritengono che il giudizio sulla ragionevolezza ex art. 3 Cost. può riguardare ogni norma, in quanto ogni norma comporta comunque un trattamento, e quindi in qualche modo diversifica la situazione dei soggetti che si ritrovano nella fattispecie descritta (103); o, in materia penale, quegli autori che ritengono che il ‘‘principio di ragionevolezza, ricavato dall’art. 3 Cost., è il parametro già utilizzato da pronunce di illegittimità, fondate sull’incongruenza empirica tra il fatto minacciato con pena e il relativo bene (supposto) offeso’’ (104) (e cioè si vorrebbe ‘‘far filtrare, attraverso l’art. 3, comma 1, Cost., quel giudizio diretto sulla necessaria connotazione offensiva di beni costituzionalmente rilevanti dell’illecito penale’’ (105) ). Ad esempio nel caso deciso con la pronuncia n. 333 del 1991 in relazione all’art. 71, 72 e 72-quater della legge n. 685/75, il giudice a quo denuncia la ‘‘violazione del principio di ragionevolezza, in contrasto con l’art. 3 Cost.’’ in quanto l’esperienza giudiziaria mostra che di regola i (102) Così R. ROMBOLI, Ragionevolezza, motivazione delle decisioni ed ampliamenti del contraddittorio nei giudizi costituzionali, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), p. 230 ss.; cfr. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, op. cit. (nota 96), p. 157, il quale rileva che in questi casi il ricorso allo schema ternario ‘‘appare assai più espediente a posteriori’’; PALADIN, Ragionevolezza (principio di), op. cit. (nota 34), p. 901; LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), p. 347. In tale direzione cfr. Corte cost. (12 gennaio) 20 gennaio 1971, n. 1, in Giur. cost., 1971, I, p. 1, in particolare p. 9. (103) Cfr. SANDULLI, Il principio di ragionevolezza, op. cit. (nota 12), p. 562. (104) Così MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, p. 1210; cfr. MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 2), p. 207. (105) Così INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), p. 272; cfr. DONINI, Teoria, op. cit. (nota 53), p. 29; PAGLIARO, Lo schema di legge delega, op. cit. (nota 54), p. 254 ss. il quale, come osserva DONINI, tratta significativamente il principio di offensività nell’ambito del principio di ‘‘proporzionalità’’; BRICOLA, Teoria, op. cit. (nota 48), p. 18 ss.; ampiamente sull’uso del principio di offensività come parametro di giudizio della Corte costituzionale, cfr. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), p. 352 ss., il quale evidenzia come si tratta di un parametro dal contenuto prescrittivo indeterminato, che impone alla Corte l’individuazione del parametro di riferimento, l’interesse meritevole, così accrescendo la potenziale tensione tra istanza democratica e istanza di garanzia che caratterizza il giudizio costituzionale; contra INSOLERA, Un deludente epilogo, op. cit. (nota 9), p. 3372, ritiene che il principio di necessaria offensività resta estraneo alla giurisprudenza della Corte costituzionale.
— 464 — consumatori, specie di sostanze stupefacenti c.d. ‘‘leggere’’, si riforniscono di quantità superiori al fabbisogno giornaliero, onde il criterio della ‘‘dose media giornaliera’’ non può costituire un parametro ragionevole, corrispondente cioè all’id quod plerumque accidit, su cui possa attendibilmente fondarsi una prognosi legale di pericolo di spaccio’’; la Corte costituzionale rigetta la censura affermando, dopo aver analizzato la ratio della fattispecie (la lotta contro il narcotraffico, costringendolo attraverso la parcelizzazione della domanda a moltiplicare i rivoli dell’ultima fase di spaccio), che ‘‘la presunzione di spaccio, nel caso di detenzione di sostanze stupefacenti in misura superiore alla dose media giornaliera, non è né arbitraria né irragionevole’’: ci si chiede quale sia la discriminazione censurata e rigettata nel caso in esame? Non emerge la denuncia da parte del giudice a quo di alcuna discriminazione — ma piuttosto della ragionevolezza dell’incriminazione in sé —, né emerge da parte del giudice costituzionale alcuna difesa della ragionevolezza di una discriminazione, ma piuttosto la difesa dell’adeguatezza e della necessità della fattispecie in relazione all’interesse perseguito, insomma la difesa della sua intrinseca ragionevolezza nell’ambito del complesso normativo volto a reprimere il narcotraffico e a tutelare la salute pubblica (106). Suscita allora qualche perplessità il fatto di fondare sull’art. 3 Cost. tale giudizio sulla ragionevolezza intrinseca di una norma, che è un giudizio che non attiene al rispetto del principio di uguaglianza e che rischia di diventare un giudizio di valore assolutamente arbitrario (107). E queste considerazioni valgono anche qualora si parli di un principio di giustizia, sganciato da alcun riferimento costituzionale, come avanzato dal secondo orientamento dottrinario esposto; il giudizio sulla razionalità sistematica di una norma, come affermato dallo stesso autore della tripartizione, sarà, invece, riconducibile a un giudizio sul rispetto del principio di uguaglianza, trattandosi ‘‘della ricostruzione del rapporto regola-eccezione, nell’ambito del principio di uguaglianza’’ (108). Nella giurisprudenza della Corte costituzionale, poi, è possibile riscontrare non solo dei giudizi circa la ragionevolezza in assoluto di una norma, ma, e proprio in materia penale, il tentativo di sopravvalutare, ad(106) Corte cost. (10 luglio) 11 luglio 1991, n. 333, in Giur. cost., 1991, p. 2646; viene effettivamente in questione l’art. 3 Cost. laddove la Corte rileva che non determina una disparità di trattamento il fatto di comminare la stessa pena al soggetto che ha ceduto la droga ed a quello che l’ha consumata. (107) Vedi nota 97. (108) Cfr. ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della ragionevolezza, op. cit. (nota 96), p. 183; PALADIN, Ragionevolezza (principio di), op. cit. (nota 34), p. 906, il quale è critico su questo concetto che spesso si confonde con quello di ‘‘ragionevolezza’’, anche perché spesso l’uno e l’altro sono usati con riferimento alla ‘‘razionalità pratica’’; in tale direzione VIPIANA, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Padova, 1993, p. 7.
— 465 — dirittura, il giudizio sulla ragionevolezza intrinseca della norma rispetto al giudizio sulla ragionevolezza della discriminazione; questo atteggiamento emerge laddove si dichiara l’impossibilità di censurare l’incostituzionalità di una disparità irragionevole laddove la norma sia in sé ragionevole (congrua rispetto ai fini perseguiti), come è avvenuto ad esempio in relazione all’art. 17, comma 7 del d.l. 8 aprile 1974, n. 95 (109): la Corte, pur riconoscendo l’irragionevolezza della discriminazione (in presenza di un eguale obbligo di comunicare alla Consob i compensi, gravante su coloro che ricoprono gli uffici direttivi in società od enti, la norma commina la sanzione penale soltanto a carico dei primi discriminando i secondi), ritiene che non si debba pronunciare l’incostituzionalità della norma sottolineandone l’incompletezza, in quanto l’irragionevole omissione del legislatore non può condurre, in linea di principio, alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma di per sé ragionevole (110). Tale atteggiamento di self-restraint, legato all’esigenza di non provocare lacune di tutela, viene criticato da chi osserva giustamente che così una norma non può mai essere dichiarata incostituzionale per violazione dell’art. 3 Cost., ma solo per la violazione di un distinto principio di razionalità intrinseca delle norme; e anche se la Corte talora specifica che in ogni caso la norma discriminatoria non può essere salvata laddove ‘‘la lesione tra soggetti assurga a lesione qualificata, e perciò diretta, dell’art. 3, comma 1, della Co(109) Quale risulta dopo la sua sostituzione ad opera dell’art. 51 della l. 24 novembre 1981, n. 689, e prima della sua sostituzione ad opera dell’art. 14 della l. 4 giugno 1985, n. 281. (110) Così Corte cost. (19 dicembre) 31 dicembre 1986, n. 297, in Giur. cost., 1986, p. 2378; in tale direzione cfr. Corte cost. (25 marzo) 8 aprile 1997, n. 84, ivi, 1997, p. 837, con nota critica di RUOTOLO, op. cit. (nota 39), p. 851; Corte cost. 27 luglio 1995, n. 411, in Cass. pen., 1996, p. 27; Corte cost. (6 luglio) 18 luglio 1989, n. 409, in Giur. cost., 1989, I, p. 1906 in cui si dichiara infondata — per la diversità delle situazioni a confronto — la questione circa la legittimità della punibilità del rifiuto del servizio militare di leva in confronto con l’obiezione di coscienza; Corte cost. 24 luglio 1995, n. 360, in Cass. pen., 1995, p. 2820, con nota di AMATO, dove si dichiara non fondata — per la non comparabilità delle condotte a confronto — la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (modificato dal d.P.R. n. 171/93), nella parte in cui non prevede che anche la coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti venga punita soltanto con sanzioni amministrative se finalizzata all’uso personale della sostanza, mentre la condotta di chi illecitamente importa, acquista, o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope per farne uso personale è stata depenalizzata (invece, Corte cost. 23 dicembre 1994, n. 443, ivi, 1995, p. 818, dichiara inammissibile la questione perché già in via interpretativa la depenalizzazione è ‘‘estensibile’’ anche alla condotta di ‘‘coltivazione’’ e ‘‘fabbricazione’’); Corte cost. (20 maggio) 27 maggio 1982, n. 104, ivi, 1982, p. 1024 (con nota critica di MANNA, Un’occasione perduta: l’art. 688 c.p.), dove — per l’espresso timore di provocare lacune di tutela — si dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 688, comma 1, c.p., che incrimina la manifesta ubriachezza, non accogliendo le osservazioni dei giudici a quibus, i quali muovono dal raffronto con la disciplina in tema di stupefacenti, che non prevede una simile ipotesi, per contestare l’irragionevolezza di continuare a perseguire penalmente l’ubriaco, trattandosi di situazioni oggettivamente non dissimili.
— 466 — stituzione, in quanto dovuta a ragione di sesso...’’ (111), non si comprende il motivo di tale distinzione di trattamento rispetto alle ipotesi in cui il motivo della discriminazione non rientri tra quelli espressamente menzionati o non sussiste assolutamente (112). In conclusione, sembra necessario porre un freno a quest’uso improprio del principio di ragionevolezza ex art. 3, comma 1, Cost.; a tal fine si dovrà, innanzitutto, sancire l’ammissibilità della censura di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3, comma 1 della Costituzione, solo in relazione alle norme che prevedono un trattamento discriminatorio, di cui si contesta la ragionevolezza, e di dichiararla inammissibile in quelle ipotesi in cui si denuncia tout court l’irragionevolezza di una norma (113); sembra, quindi, eccessivo quell’orientamento dottrinale in base al quale il giudizio sulla ragionevolezza di una norma ex art. 3 Cost. è privo di autonomia concettuale. Dall’altra parte, è necessario sottolineare che non è possibile contestare in sé la ragionevolezza di una norma — e cioè la necessità della sua introduzione nel sistema, la sua adeguatezza rispetto al fine perseguito —, se non si contesta la violazione di una specifica norma costituzionale (114); altrimenti non si rispetta il dettato dell’art. 28 della (111) Corte cost. (19 dicembre) 31 dicembre 1986, n. 297, in Giur. cost., 1986, p. 2378. (112) Così ROMANO, Norme incriminatrici arbitrariamente discriminatorie ‘‘in sé stesse ragionevoli’’ e costituzionalmente legittime?, in questa Rivista, 1986, pp. 1328-1329; in tale direzione cfr. MANNA, op. cit. (nota 110), p. 1031; contra PALADIN, Corte costituzionale, in Scritti, op. cit. (nota 19), p. 662, il quale ritiene che in ipotesi simili la Corte non è competente a porre rimedio con pronunce additive e anche in campo non penale, né è competente ad annullare l’intera disciplina impugnata, ma piuttosto ritiene auspicabili delle pronunce che dichiarino soltanto l’illegittimità del mancato intervento legislativo; INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), pp. 266-267. Sul problema del sindacato di ragionevolezza delle ‘‘cause di non punibilità’’, cfr. Corte cost. (11 gennaio) 18 gennaio 1996, n. 8, in Giur. cost., 1996, p. 81, che esclude anche in questo caso la possibilità di pronunciare sentenze additive, perché questo comporterebbe l’esercizio di potestà discrezionali riservate al legislatore; in tale direzione precedentemente cfr. Corte cost. (2 giugno) 3 giugno, n. 148, in Foro it., 1983, I, p. 1806, con nota di PULITANÒ, La non punibilità di fronte alla Corte costituzionale, il quale precisa che in queste ipotesi il sindacato costituzionale non deve essere volto ad imporre politiche penali obbligate, in nome d’una rigida concezione del sistema (o ‘‘gerarchia’’) dei beni costituzionali, ma deve tendere a sindacare solo la rottura dell’eguaglianza (essendo sufficiente ‘‘un riscontro minimo di non irragionevolezza’’ per escludere l’illegittimità). (113) Cfr. sul punto ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della ragionevolezza, op. cit. (nota 96), p. 181. (114) Cfr. in tale direzione TOSI, Spunti per una riflessione, in Il principio di ragionevolezza, op. cit. (nota 49), p. 277 ss., in particolare p. 288, dove si afferma: ‘‘i precetti di ragionevolezza occorre, quindi, che trovino radice nel testo costituzionale, che si presentino come risultato di un’attività interpretativa’’; PALADIN, Esiste un ‘‘principio di ragionevolezza’’, op. cit. (nota 93), p. 165, il quale afferma che ‘‘occorre che la Corte faccia sempre uso, anche quando si tratta di ragionevolezza, dei parametri costituzionali..., ricavati sempre dalla Costituzione scritta’’, ‘‘la nostra Corte, quindi, non deve dare l’impressione... che si
— 467 — legge n. 87 dell’11 marzo 1953, che pur non escludendo una valutazione e un bilanciamento dei valori richiamati dalle norme costituzionali, richiede che la Corte costituzionale si limiti ad interpretare ed applicare le norme costituzionali (115). E in ogni caso, si deve considerare che in materia penale interviene il principio di proporzione (considerato principio valido per l’intero diritto pubblico (116) ), che se da una parte, come esaminato, costituisce un aspetto del principio di uguaglianza garantendo il rispetto dell’Ubermaßverbot, dall’altra parte, indipendentemente dalla sussistenza di disparità o parificazioni di trattamento, dovrebbe fungere ‘‘da metro o indice dei modi di rilevanza dei diversi fattori che influiscono sull’an, la species e il quantum della punibilità’’ (117). Tale principio nell’ordinamento penale viene ormai considerato ‘‘costituzionalizzato’’, e cioè in particolare come fondato sull’art. 13 Cost., il quale, sancendo il carattere costituzionale del diritto alla libertà, richiede che i sacrifici di tale bene siano proporzionati al perseguimento di un altro interesse di rango costituzionale (118); sull’art. 25, comma 2, Cost., che richiede che sia il legislatore a indicare chiaramente il disvalore del fatto, stabilendo un divario non spropositato tra il minimo e il massimo, per evitare al cittadino gli abusi del potere giudiziario (119); e sull’art. 27, comma 3, Cost., in quanto, come affermato dalla Corte costituzionale, ‘‘la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale... produce... una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, comma 3, Cost., che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione’’ (120). faccia del diritto costituzionale libero’’; ID., Ragionevolezza (principio di), op. cit. (nota 34), pp. 902-906-907; ROMANO, Commentario al codice penale, artt. 1-84, Milano, 1995, I, p. 22. (115) Cfr. a tal proposito in relazione al giudizio costituzionale in materia penale, PULITANÒ, Bene giuridico, op. cit. (nota 30), p. 187; in giurisprudenza cfr. per tutte, Corte cost. 29 gennaio 1996, n. 13, in Giur. cost., 1996, p. 112. (116) Così FIANDACA, Nota a Corte costituzionale, in Foro it., 1994, I, c. 2585; sul principio di proporzione nel diritto amministrativo, cfr. SANDULLI, Eccesso di potere, op. cit. (nota 70), p. 329. (117) Così ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pp. 165-166; TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen im Nebenstrafrecht, Tübingen, 1969, p. 143 ss. In tale direzione cfr. VASSALLI, I principi generali del diritto, op. cit. (nota 99), p. 730; FIANDACA, Nota a Corte costituzionale, op. cit. (nota 116), c. 2585; contra MARINUCCI, Fatto e scriminanti, op. cit. (nota 104), p. 1227, il quale attribuisce a tale principio il carattere di mero criterio regolativo, privo di ‘‘rilevanza assoluta su base costituzionale’’, e questo in considerazione della sua indeterminatezza contenutistica e per il suo intrecciarsi con molti altri criteri regolativi (gerarchia dei beni, sostituibilità della pena con altre sanzioni idonee...). (118) Sulla funzione di garanzia della libertà del cittadino di detto principio cfr. Corte cost. (6 luglio) 18 luglio 1989, n. 409, in Giur. cost., 1989, p. 1906. (119) Cfr. CORBETTA, op. cit. (nota 29), p. 150; cfr. Corte cost. (15 giugno) 24 giugno 1992, n. 299, in Giur. cost., 1992, p. 2257. (120) Così Corte cost. (20 luglio) 28 luglio 1993, n. 343, in Giur. cost., 1993, p.
— 468 — 3. Nell’ambito del diritto pubblico si afferma sempre di più la sussistenza del principio di proporzione in base anche ad un particolare sviluppo che ha assunto la teoria dei Grundrechte nell’ambito dello Stato di diritto, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (121). I diritti costituzionali-fondamentali non sono più concepiti come Abwehrrechte gegenber dem Staat (‘‘Klassische’’ o ‘‘liberale’’ Grundrechtstheorie) (122), aventi la funzione di garantire al privato e alla società uno spazio di libertà contro le aggressioni dell’autorità statale, ma piuttosto come ‘‘Valori’’ o ‘‘Principi’’ (Werte oder Prinzipien), aventi la funzione di stabilire le linee interne dell’attività legislativa, la quale deve preoccuparsi di dare attuazione, in senso ampio, alle Wertentscheidungen espresse nei Grundrechte (123). Chiaramente dato che non è possibile per il legislatore 2668; conforme Corte cost. (19 luglio) 25 luglio 1994, n. 341, in Giur. cost., 1994, p. 2802, con nota di R. PINARDI, Riflessioni sul giudizio di ragionevolezza delle sanzioni penali, suggerite dalla pronuncia di incostituzionalità della pena minima prevista per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, il quale, però ritiene che tale sentenza non riconosca il principio di proporzione, in quanto si limiterebbe pur sempre a valutare la ragionevolezza della pena impugnata in via relazionale e non ‘‘assoluta’’; conforme Corte cost. 27 aprile (28 aprile) 1994, n. 168, in Cass. pen., 1994, p. 2382 e in Giur. cost., 1994, p. 1254, con note di E. GALLO e di GEMMA; Corte cost. (6 luglio) 18 luglio 1989, n. 409, ivi, 1989, p. 1906; vedi nota 54; in dottrina cfr. PAGLIARO, Manifesta irragionevolezza, op. cit. (nota 52), p. 2573; ANGIONI, op. cit. (nota 117), pp. 165-166, il quale afferma che ‘‘qualunque sia o qualunque siano tra quelle indicate le funzioni che la Costituzione assegna alla pena (artt. 25 e 27 Cost.) per ognuna di esse vale il principio di proporzionatezza’’, con la conseguenza che ‘‘quest’ultimo principio risulta mediatamente costituzionalizzato per implicazione logica’’. (121) Ampiamente sull’argomento cfr. JAKOBS, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit, Berlin, 1985; KUTSCHER-RESS-TEITGEN-ERMACORA-UBERTAZZI, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit in europäischen Rechtsordnungen, Heidelberg, 1985; DEGENER, Grundsatz der Verhältnismäßigeit und strafprozessuale Zwangsmaßnahmen, Berlin, 1985. Sull’influenza della giurisprudenza della Corte di giustizia cfr. SANDULLI, Eccesso di potere, op. cit. (nota 70), p. 329, con particolare riferimento al settore amministrativo; UBERTAZZI, Le principe de proportionnalité en droit italien, in KUTSCHER-RESS-TEITGEN-ERMACORA-UBERTAZZI, op. cit., p. 79 ss. (122) Così OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 274, il quale rileva come la Corte costituzionale austriaca abbia espressamente riconosciuto tale funzione ai Grundrechte; cfr. HESSE, op. cit. (nota 33), p. 10; STERN, Idee und Elemente eines System der Grundrechte, in ISENa SEE/KIRCHHOF, V, op. cit. (nota 43), p. 70; MARTINES, op. cit., 9 ed. (nota 18) p. 682, il quale parla di libertà dallo Stato, libertà negative, che considera rientrare nella categoria dei diritti soggettivi pubblici (concetto che si sta relativizzando, scomparendo nei diritti inviolabili e nei diritti sociali); e tra tali libertà negative si fanno rientrare anche diritti fondamentali che non hanno ad oggetto libertà, come il diritto alla difesa, al voto, alla petizione, etc. (123) Cfr. BERKA, Der Freiheitsbegriff des ‘‘materiellen Grundrechtsverständnisses’’, in FS Herbert Schambeck, 1994, p. 339, il quale precisa che in tale accezione i Grundrechte sono garanzia di ‘‘bestimmter freiheitlicher Ordnungen mit konkretem Inhalt’’; cfr., inoltre, in relazione all’obbligo del legislatore di dare attuazione ai Grundrechte e ai limiti della Justiziabilität di tale obbligo, anche per l’impossibilità dell’organo di giustizia costituzionale di garantire l’introduzione di leggi mancanti, OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 275; MARTINES,
— 469 — individuare un’unica soluzione conforme alla costituzione (anzi l’essenza della sua funzione politica consiste proprio nella selezione delle soluzioni alternative e nella relativa scelta tra di esse di quella ritenuta più opportuna), ne deriva che egli, nell’esprimere la sua libertà nella creazione del diritto, non può semplicemente preoccuparsi di non violare i confini costituiti dai diritti fondamentali, ma deve piuttosto preoccuparsi di bilanciare il Wertpräferenz, che vuole esprimere in una legge, con le scelte di valore manifestate nei Grundrechte (124). E precisamente quest’obbligo di bilanciamento viene strutturato attraverso il principio di proporzione (Grundsatz der Verhältnismäßigkeit) (125). Il legislatore, cioè, deve introdurre delle delimitazioni ai Grundrechte, in maniera tale da comporre insieme tra di loro le condizioni di vita garantite dalle libertà riconosciute nei Grundrechte e allo stesso tempo conciliare tali condizioni con altre condizioni di vita essenziali per la convivenza sociale, che sono o che dovrebbero essere giuridicamente riconosciute; tale opera di Zuordnung von Freiheitsrechten und anderen Rechtsgütern è predisposta dalla Costituzione solo in piccola parte. Si affida, attraverso una riserva di legge, al legislatore che nella costruzione di tale Ordnungszusammenhangs deve riuscire a dare concreta attuazione sia alle libertà, sia agli altri beni giuridici; ne consegue che sino a quando le disposizioni, che tutelano entrambi, nella loro portata oggettiva interferiscono o collidono con altre disposizioni, si pone la necessità, sia a livello legislativo che a livello interpretativo, di creare delle pratiche concordanze attraverso la delimitazione dei Grundrechte (Herstellung praktischer Konkordanz). E poiché i Grundrechte, sottoposti a riserva di legge, appartengono alla parte essenziale dell’ordine costituzionale, questa disposizione di proporzionalità non potrà mai realizzarsi in maniera tale da ridurre la garanzia dei diritti fondamentali più del necessario o da impedirne totalmente la realizzazione nella vita della società (126). E allora più che di un bilanciamento di beni o di valori, che sembra introdurre l’idea che è possiop. cit., 9a ed. (nota 18), pp. 682-683, il quale distingue tra libertà dallo Stato, — che sono considerate oggetto di un vero e proprio diritto soggettivo, assistito da precise garanzie e pienamente azionabile nei confronti dei pubblici poteri quale pretesa ad un comportamento omissivo dello Stato —, e la pretesa ad un comportamento attivo per dare attuazione al principio di eguaglianza sostanziale, pretesa che è considerata oggetto solo di un’aspettativa; a proposito dei Leistungs und Bewirkungsrechte e del riconoscimento di uno status positivus nell’ordinamento tedesco, K. STERN, op. cit. (nota 122), p. 70 ss. (124) Così OHLINGER, op. cit. (nota 32), pp. 274-275; cfr. RUGGERI, Stato di diritto e dinamica costituzionale - Spunti per una riflessione, in Stato di diritto e trasformazione politica, a cura di MONTANARI, Torino, 1992, pp. 131-132, il quale parla di una doppia razionalità delle leggi, intesa non solo come freddo rispetto del principio di non contraddizione, ma come razionalità storico-concreta, secondo i valori, ‘‘che si converta interamente in effettività dei valori’’. (125) Cfr. HESSE, op. cit. (nota 33), p. 27; RESS, op. cit. (nota 97), p. 7 ss. (126) Cfr. HESSE, op. cit. (nota 33), p. 127.
— 470 — bile realizzare l’uno a costo dell’altro, si tratta proprio di applicare il principio di proporzione, che, in conformità al principio dell’unita dell’ordinamento costituzionale (Prinzip der Einheit der Verfassung), deve garantire, attraverso la delimitazione di entrambi i diritti fondamentali o i beni giuridici in gioco, la migliore realizzazione possibile di entrambi (Grundsatz der Optimierung), la loro riconduzione a Konkordanz (127). In materia penale questo significa che il legislatore, attraverso l’applicazione del principio di proporzione, deve perseguire la concreta concordanza tra la realizzazione dei Grundrechte del reo, da una parte, e la teutela di determinati beni giuridici dall’altra parte; decisivo a tal fine è la considerazione del valore che si attribuisce da parte dell’intero ordinamento giuridico, e in particolare da parte della Costituzione, alla libertà e al patrimonio del singolo reo in rapporto con gli scopi di politica criminale perseguiti; nella determinazione poi dei principi che devono presiedere l’elaborazione e la durata delle reazioni statali al reato, vengono in gioco non solo queste scelte di valore ma anche delle questioni pratiche (come l’effettiva possibilità di perseguire la risocializzazione di determinati tipi di rei, come la necessità di garantire la sicurezza della collettività contro i criminali) (128). Tale principio riconduce ad un wertrationale Diskussion la decisione sull’an, la species e la misura della reazione statale al delitto, ma anche consente di determinare i confini fattuali della tutela penale al bene giuridico; consente insomma di gestire in tutte le sue fasi (legislativa, giurisprudenziale ed esecutiva) quel conflitto di valori, che il diritto penale riflette e per reagire al quale ha sviluppato ragionevoli misure (129). Il principio di proporzione, chiaramente, non dice cosa nel singolo caso è ‘‘proporzionale’’, ma da una parte indica la direzione contenuta nella Costituzione e le direttive che ne derivano, e dall’altra parte fornisce il procedimento, attraverso il quale è possibile cercare e raggiungere una soluzione conforme alla Costituzione (130). La maggior parte dei diritti fondamentali, come si accennava, sono (127) Cfr. HESSE, op. cit. (nota 33), p. 27; ELLSCHEID-HASSEMER, Strafe ohne Vorwurf - Bemerkungen zum Grund strafrechtlicher Haftung, in LÜDERSSEN-SACK, Seminar: Abweichendes Verhalten, II, Die gesellschaftliche Reaktion auf Kriminalität, 1, Frankfurt am Main, 1975, p. 283; LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), p. 358; MOSCARINI, op. cit. (nota 30), p. 178. (128) Cfr. ELLSCHEID-HASSEMER, op. cit. (nota 127), p. 285 ss. (129) Così ELLSCHEID-HASSEMER, op. cit. (nota 127), p. 288, i quali procedono, poi, ad un’approfondita analisi dell’applicazione del principio di proporzione nel momento della commisurazione della pena; cfr. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), p. 360 ss., il quale nel rilevare come la Corte costituzionale italiana riconduce il giudizio sull’an della punibilità a un giudizio sul principio di offensività, evidenzia come si tratta di un parametro da cui la Corte non trae conseguenze stringenti sul piano della legittimità. (130) Cfr. HESSE, op. cit. (nota 33), p. 27.
— 471 — sottoposti ad una riserva di legge, nel senso che possono essere limitati solo attraverso una legge (Eingriffsvorbehalten) e nel senso che necessitano di una legge per potersi pienamente esplicare (Ausgestaltungsvorbehalten) (131). L’interpretazione di tale riserva si è andata evolvendo da un concetto formale, in base al quale un diritto fondamentale poteva subire qualunque limitazione — sino alla negazione della stessa garanzia costituzionale — purché ad opera di una legge, ad un concetto sostanziale, in base al quale deve esserne comunque rispettato il ‘‘Wesensgehalt’’ o ‘‘Wesenkern’’ (che comincia laddove finiscono le diverse possibilità di ammissibili delimitazioni - Begrenzungen (132) ) (133); come precisato dalla nostra Corte costituzionale, esiste un nucleo essenziale dei diritti costituzionalmente riconosciuti, che non può essere limitato, senza ‘‘che il diritto stesso ne rimanga snaturato attraverso la compressione o una riduzione del proprio ambito’’ (134) (der Vorbehalt keine Blankovollmacht zu beliebiger Einschränkung enthalte (135) ). Il concetto di riserva di legge ha subito un’ulteriore evoluzione alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, trasformandosi da riserva formale in riserva materiale, nel senso che si autorizza il legislatore ad aggredire legislativamente solo laddove sussistono determinati presupposti: da una parte vengono elencati i beni giuridici (Rechtsgüter), la cui tutela giustifica un aggressione della libertà costituzionalmente garantita da parte del legislatore (ad esempio art. 10, comma 2, Conv. eur. dir. um.) — come avviene del resto nella Costituzione italiana, che indica i fini per i quali si può limitare la libertà personale (136) —; dall’altra parte tali (131) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 282; ARCIDIACONO, op. cit. (nota 26), p. 252; MARTINES, op. cit., 8a ed. (nota 18), p. 466. (132) Così HESSE, op. cit. (nota 33), p. 134; cfr. HELLER, op. cit. (nota 40), p. 113, il quale riconduce all’Exzeßverbot tale limitata interpretazione dei Grundrechte da parte della Corte costituzionale austriaca; ERMACORA, Das Verhältnismäßigkeitsprinzip im österreichischen Recht sowie aus der Sicht der Europäischen Menschenrechtskonvention, in KUTSCHERRESS-TEITGEN-ERMACORA-UBERTAZZI, op. cit. (nota 121), p. 71. Nel sistema tedesco questo è espressamente previsto dall’art. 19, Abs. 1 e 2, che vieta abusive o sproporzionate applicazioni della riserva di legge nella determinazione di limiti ai Grundrechte, interpretata come espressione del principio di proporzione. (133) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 283; ARCIDIACONO, op. cit. (nota 26), p. 127; MARTINES, op. cit., 8a ed. (nota 18), p. 466, il quale sottolinea come la riserva di legge non svolge solo una funzione garantista, ma in uno Stato interventista ed in un tipo di economia mista si sono riservate al legislatore le scelte politiche di fondo, assegnandoli il compito di determinare i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali o, comunque, il legislatore possa finalizzare il suo intervento al raggiungimento di determinati obiettivi. (134) Corte cost. 19 giugno 1958, n. 36, in Giur. cost., 1958, p. 486, con osservazioni dei proff. CRISAFULLI ed ESPOSITO; cfr. LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), p. 349. (135) Cfr. BVerfGE 15, 288 (295); in dottrina HESSE, op. cit. (nota 33), p. 128. (136) Cfr. MARTINES, op. cit., 8a ed. (nota 18), p. 649.
— 472 — aggressioni sono consentite in una società democratica solo in quanto necessarie (notwending); e un’aggressione in un diritto fondamentale è necessaria quando è proporzionata (137). (137) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 284; HELLER, op. cit. (nota 40), p. 115; RESS, op. cit. (nota 97), p. 5 ss.; SANDULLI, Eccesso di potere, op. cit.(nota 70), p. 344. Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 agosto 1996, C. c. Belgique, in Recueil de Arrêts et Décisions, 1996, III, n. 12, pp. 923-924, Commissione p. 929, dove si afferma, ad esempio, che l’ordine di espulsione — ai sensi della legge del 15 dicembre 1980 sull’entrata, la residenza, lo stabilimento e l’espulsione degli stranieri — di un cittadino marocchino, venuto in Belgio con la sua famiglia all’età di undici anni, in quanto trafficante di droga, è ‘‘in accordance with law’’, persegue il legittimo scopo di prevenire disordini e crimini, un pressante bisogno sociale, ed è necessaria in una società democratica in quanto proporzionata allo scopo, e quindi non costituisce una violazione del diritto ad una vita privata e familiare; Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Katikaradis et autres c. Grèce, ivi, 1996, V, n. 20, pp. 1715-1716, con opinione conforme della Commmissione pp. 1696-1697; Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Prötsch c. Autriche, ivi, 1996, V, n. 22, pp. 1824-1826, Commissione, p. 1829; Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 ottobre 1996, Tsomtsos et autres c. Grèce, ivi, 1996, V, n. 21, pp. 1715-1716, con opinione conforme della Commmissione pp. 1721-1722; Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 agosto 1996, Zubani c. Italie, ivi, 1996, IV, n. 14, pp. 1077-1078, Commissione pp. 1082-1083; Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 aprile 1996, Phocas c. France, ivi, 1996, II, n. 7, p. 541; Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 marzo 1996, Goodwin c. Royaume-Uni, ivi, 1996, II, n. 7, p. 500; Corte europea dei diritti dell’uomo, 19 febbraio 1996, Gül c. Suisse, ivi, 1996, I, n. 3o, pp. 160 ss.-175; Corte europea dei diritti dell’uomo, 20 novembre 1995, Pressos Compania Naviera S.A. et Autres c. Belgique, in Publications de la Cour Européenne des droits de l’Homme, 1996, Série A, vol. 332, p. 22 ss.; Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 ottobre 1994, Sporrong et Lönnroth c. Suède, 23 settembre 1982, ivi, Série A, vol. 52, p. 26; Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 ottobre 1994, the Kroon and Others v. Netherlands, ivi, Série A, vol. 297-C, p. 56; Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 settembre 1994, Hentrich v. France, ivi, Série A, vol. 296-A, p. 21; Corte europea dei diritti dell’uomo, 26 maggio 1994, the Keegan v. Ireland, ivi, Série A, vol. 290, p. 19; Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 aprile 1986, Erkner et Hafauer c. Autriche, Poiss c. Autriche, 23 aprile 1986, ivi, Série A, vol. 117; Corte europea dei diritti dell’uomo, 21 febbraio 1986, James et autres c. Royaume-Uni, ivi, Série A, vol. 98-B, p. 32. In dottrina cfr. MATSCHER, L’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per opera dei suoi organi, in L’Italia e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di GREMENTIERI, Milano, 1989, p. 60; VERVAELE, La fraude communautaire et le droit pénal européen des affaires, Paris, 1994, p. 15; GRATANI, La politica dell’ambiente, in Elementi di diritto comunitario, a cura di DRAETTA, Milano, 1995, p. 252 e giurisprudenza ivi citata; EISSEN, Il principio di eproporzionalità nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. int. dir. uomo, 1989, p. 31; PETTITI, L’evolution de la Convention européenne des droits de l’homme et son application, in Collected Courses of the Academy of European Law, 1992, vol. III, 2, p. 10; GANSHOF VAN DER MEERSCH, Le caractère ‘‘autonome’’ des termes et la ‘‘marge d’appréciation’’ des gouvernements dans l’interprétation de la Convention européenne des Droits de l’Homme, in Protecting Human Rights: The European Dimension - Studies in honour of Gérard J. Wiarda, edited by MATSCHER-PETZOLD, Köln, Berlin, Bonn, München, 1990, p. 208; DE SALVIA, L’elaboration d’un ‘‘ius commune’’ des droits de l’homme et des libertés fondamentales dans la perspective de l’unité européenne: l’oeuvre accomplie par la Commission et la Cour européennes des Droits de l’Homme, ivi, p. 561; ID., La notion de proportionnalité dans la jurisprudence de la Commission et de la Cour des droits de l’homme, in Dir. com. scambi intern., 1978, p. 463; ID.,
— 473 — Il principio di proporzione come limite del legislatore ordinario, è quindi immanente al riconoscimento dei Grundrechte e, in particolare, viene fondato sulle specifiche norme di rango costituzionale che riconoscono i diritti della persona (se non addirittura sullo stesso Rechtsstaatsprinzip (138) ); ad esempio è stato ancorato da parte della Bundesverfassunggerichts austriaca nella norma costituzionale che garantisce la tutela della libertà personale (Art. 1 Abs. 3) (139), così come la dottrina italiana fonda tale principio in materia penale sull’art. 13 della Costituzione, come accennato. In realtà, però, sembra che al di là del riferimento alle specifiche norme costituzionali che tutelano i diritti della persona, nell’ordinamento costituzionale italiano sia fondamentale il riferimento all’art. 2 della Costituzione che riconosce la ‘‘dignità’’ e tutti i ‘‘diritti inviolabili’’ della persona sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. In tale norma, infatti, viene individuato il principio cardine su cui si fonda il riconoscimento dell’autonomia della persona umana e, in particolare, del cittadino; in altre parole il principio su cui si fonda la struttura dei rapporti tra autorità e libertà (rapporti che più in generale risultano da tutto l’ordinamento costituzionale) (140). E, comunque, si può oggi ritenere, in particolare nell’ambito del diritto pubblico (dove particolarmente si decide il rapporto tra autorità pubblica e autonomia privata), che il principio di proporzione è un limite generale della funzione legislativa, al quale si devono conformare tutte le leggi ordinarie, sia che riguardino diritti inviolabili sia che disciplinino altre fattispecie di qualsiasi genere (che, comunque, in qualche modo incidono sull’autonomia privata, riconosciuta dall’art. 2 Cost.). Anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, il principio di proporzione emerge come un principio del diritto in generale — non delimitato al settore dei Grundrechte — che assume, pertanto un rango sopracostituzionale (Überverfassungsrang) (141). Tale principio è Convenzione europea dei diritti dell’uomo e protezione dei diritti patrimoniali con particolare riguardo alle imprese e al fisco, in Imprese e fisco nell’Europa del ’92 - Applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, a cura di CARACCIOLI, Padova, 1991, p. 94, il quale include tale principio tra quelli, riconosciuti dalla Convenzione, direttamente applicabili alle persone giuridiche; KLEIN, Protection des droits de l’homme et circostances exceptionnelles, ivi, p. 124 sull’uso del principio di proporzionalità quale limite alle deroghe all’applicazione dei diritti fondamentali della Convenzione ammissibili ex art. 15 nelle situazioni eccezionali. (138) Cfr. RESS, op. cit. (nota 97), p. 15. (139) Nell’ordinamento austriaco sin dal lontano 1929 è stato introdotto un autonomo organo di giustizia costituzionale chiamato a valutare la conformità delle leggi alla Costituzione ordinaria (in base al sistema del giudizio costituzionale accentrato, adottato anche nel nostro ordinamento), cfr. PALADIN, Diritto costituzionale, op. cit. (nota 27), p. 694; RIZZA, op. cit. (nota 69), p. 490. (140) Cfr. ARCIDIACONO, op. cit. (nota 26), p. 252 ss. (141) Così OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 286.
— 474 — stato riconosciuto anche nell’ordinamento comunitario, dapprima come un principio generale non scritto, che ha ‘‘la funzione di garantire l’essenza dei diritti fondamentali’’, evitando che essi possano essere compromessi da aggressioni ingiustificate e sproporzionate, e così assicurando ‘‘l’attualizzazione e l’effettività delle posizioni soggettive qualificabili come diritti fondamentali’’ (142); oggi, poi, tale principio è stato recepito dall’art. 3b, comma 3, del Trattato e viene considerato oggetto di un diritto fondamentale dell’ordinamento comunitario (143). Accanto al principio di proporzione, la dottrina e la giurisprudenza (142) Così GRASSO, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi riflessi sui sistemi penali degli Stati membri, in Riv. int. dir. dell’uomo, 1991, p. 617 ss.; cfr. GALETTA, Discrezionalità amministrativa e principio di proporzionalità, in Riv. it. dir. publ. com., 1994, p. 142; Corte di giustizia delle Comunità europee, 18 maggio 1993, causa C-126/91, Schutzverband gegen Unwesen in der Wirtschaft c. Yves Rocher GmbH, ivi, 1993, fasc. 4, p. 833, con nota di GALETTA, Il principio di proporzionalità nella giurisprudenza comunitaria; considerano il principio di proporzione un principio generale del diritto comunitario, tra le altre, Corte di giustizia, 13 luglio 1962, causa n. 19/61, Mannesmann/Alta Autorità, in Raccolta, 1962, p. 659; le conclusioni dell’Avvocato generale Capotorti nella causa n. 114/76 Bela Mühle c. Grows-Farm, ivi, 1977, p. 1232; cfr. Corte di giustizia 12 dicembre 1996, The Queen Intervention Board for Agricultural Produce, ex parte: Accrington Beefe a., C-241/95, ivi, 1996, I, p. 6699; Corte di giustizia 12 novembre 1996, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord c. Consiglio dell’Unione europea, C84/94, ivi, 1996, I, 5755; Corte di giustizia 17 ottobre 1996, Konservenfabrik Lubella Friedrich Bücher GmbH & Co. KG c. Hauptzollamt Cottbus, C-64/95, ivi, 1996, I, p. 5105; Corte di giustizia 4 luglio 1996, Hüpeden/Hanzizollamt Hamburg - Jonas, C-296/94, ivi, 1996, I, 3409; Corte di giustizia 5 giugno 1996, NMB France SARL e altre c. Commissione delle Comunità europee, causa T-162/94, ivi, 1996, II, p. 427; con specifico riferimento ad una sanzione penale Corte di giustizia 29 febbraio 1996, Procedimenti penali c. Sofia Skanavi e Konstantin Chryssanthakopoulos, C-193/94, ivi, 1996, I, p. 929; Corte di giustizia 7 dicembre 1993, ADMOlmühlen GmbH, cit., p. 95 in relazione alla confisca della cauzione (che in talune ipotesi riveste carattere punitivo); Corte di giustizia 21 gennaio 1992, Otto Pressler Weingut-Weingroßkellerei GmbH & Co. KG c. Bundesamt für Ernährung und Forstwirtschaft, C-319/90, ivi, 1992, I, pp. 203-218; Corte di giustizia, Firma Otto Lingenfelser c. Repubblica Federale di Germania, C-118/89, ivi, 1990, I, p. 2637; Corte di giustizia 24 settembre 1985, causa 181/84, The Queen, ex parte E.D. & F. Man (Sugar) Ltd c. Intervention Board for Agricultural Produce (IBAP)), ivi, 1985, IV, p. 2889; Corte di giustizia 20 febbraio 1979, Rewe-Zentral AG c. Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, C-120/78, ivi, 1979, p. 649; Corte di giustizia 20 febbraio 1979, Buitoni/Forma, C-122/78, ivi, 1979, p. 677; Corte di giustizia 24 ottobre 1973, causa 5/73, Balkan-Import-Export, ivi, 1973, p. 1092. (143) Cfr. Corte di giustizia 13 novembre 1973, cause riunite 63-69/72, Werhahn/Consiglio, ivi, 1973, p. 1230; Corte di giustizia 17 dicembre 1970, Einfuhr- und Vorratsstelle Getreide/Köster, cit., p. 1162; in dottrina cfr. GRASSO, Recenti sviluppi in tema di sanzioni amministrative comunitarie, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 754; SANDULLI, Eccesso di potere, op. cit. (nota 70), p. 351. Cfr. DANIELE, Il diritto materiale della comunità europea, Milano, 1995, pp. 24-25, il quale parla del principio di proporzionalità nel diritto comunitario, ma come principio che disciplina l’esercizio delle competenze comunitarie in rapporto alle competenze degli Stati membri; e cioè l’intervento della Comunità, una volta deciso in applicazione del principio di
— 475 — costituzionalistica riconosce, poi, il ruolo particolare che spetta al principio di eguaglianza, quale limite dell’attività legislativa (in particolare in relazione ai Grundrechte), che impone al legislatore il divieto di introdurre delle discriminazioni irrazionali e, inoltre, un generale obbligo di imparzialità. Si tratta di un principio che agisce parallelamente al principio di proporzione, ma ‘‘ist... mit diesem nicht identisch’’; anzi il contenuto sostanziale dei Grundrechte è identificato proprio con l’obbligo del legislatore di rispettare il principio di proporzione e il principio di eguaglianza (nonché i particolari obblighi relativi ai Verfahrengrundrechte) (144). 3.1. Il principio di proporzione non costituisce, però, solo un criterio di orientamento di politica criminale, ma costituisce un criterio di controllo dell’operato del legislatore da parte della Corte costituzionale, quale giudice delle leggi chiamato a tutelare i cittadini contro le leggi che violano principi costituzionali e, quindi, primo fra tutti, il principio di proporzione — fondato sul riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali —, quale garanzia contro gli ‘‘arbitri del legislatore’’ (145). A tal fine la giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca e austriaca si è sforzata, insieme alla dottrina in materia (146), di individuare sussidiarietà, deve essere limitato a ‘‘quanto necessario’’; a tal proposito cfr. RIONDATO, Competenza penale della Comunità europea, Padova, 1996, pp. 44-45. (144) Così OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 288 (i Verfahrensgrundrechte sono costituiti dai principi che regolamentano i comportamenti degli organi dello Stato che aggrediscono i Grundrechte, come in relazione alla disciplina dell’arresto, ...). Cfr. RESS, op. cit. (nota 97), p. 16, che ritiene i due principi fondati sul principio dello Stato di diritto (Rechtsstaatsprinzip) e strettamente connessi all’idea di giustizia (Gerechtigkeit); LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), p. 344, il quale, in relazione alla giurisprudenza costituzionale tedesca distingue i giudizi sul rispetto del principio di eguaglianza, quale divieto di discriminazioni arbitrarie (Willkürverbot), da quelli sul rispetto del principio di proporzionalità (Verhältnismäßigkeit); l’autore precisa, inoltre, che i due giudizi sono distinti anche nella giurisprudenza francese dove, da una parte, si verifica la ‘‘giustificatezza’’ delle discriminazioni e, dall’altra parte, la ‘‘proporzionalità’’ delle leggi; cfr. p. 352 ss. in cui l’autore differenzia i due tipi di giudizio, pur parlando sempre di ragionevolezza; UBERTAZZI, op. cit. (nota 121), pp. 83-84, il quale distingue, pur sottolineandone il parallelismo, il principio di non discriminazione, ex art. 14, e il principio di proporzione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo; LOMBARDO, op. cit. (nota 64), p. 980 ss., il quale distingue i principi di ragionevolezza e proporzionalità applicati all’attività amministrativa, ma interpreta il principio di proporzione in senso stretto, in relazione alla ‘‘misura’’ del provvedimento, e quello di ragionevolezza come principio che disciplina la scelta dell’agire discrezionale. Contra PÖSCHL, Über Gleichheit und VerhältnismäßigKeit, in Juristische Blätter, 1997, p. 413, in base alla quale tutti gli elementi del principio di proporzione, il pubblico interesse, l’idoneità, la necessità e la proporzionalità in senso stretto, sono implicitamente contenuti nel principio di uguaglianza. (145) In tale direzione tra gli altri cfr. RESS, op. cit. (nota 97), p. 16. (146) Cfr. SCHLINK, op. cit. (nota 49), p. 127 ss.; STARCK, Kommentar zu Art. 2, Abs. 1 GG, in MANGOLDT-KLEIN-STARCK, Das Bonner Grundgesetz, München 1985, p. 282 ss.
— 476 — un procedimento trasparente, razionale e controllabile di svolgimento del suo giudizio di valutazione della conformità di una fattispecie al principio di proporzione, al fine di evitare i pericoli di arbitrario decisionismo insito in un tale tipo di giudizio, in cui vengono in gioco dei valori; tale procedimento, generalmente, si svolge in quattro fasi: prima occorre determinare se lo scopo perseguito dalla disposizione di legge consiste in un pubblico interesse (öffentlichen Interesse), in uno scopo costituzionalmente legittimo e non arbitrario (147); poi se l’intervento legislativo è idoneo (geeignet) per perseguire lo scopo, e cioè il pubblico interesse (criterio dell’idoneità); l’intervento deve essere necessario, e cioè il mezzo, che incide su un diritto fondamentale, deve essere il più blando possibile per proteggere in maniera efficace il bene giuridico (criterio della necessità); e infine il giudice esamina se tra il pubblico interesse e l’aggressione nel diritto fondamentale vi è una relazione adeguata, cioè se l’intervento sia proporzionale, in senso stretto, allo scopo (Adäquanz oder Verhältnismäßigkeit in engeren Sinn); a tal fine è necessario un bilanciamento tra i beni in gioco (un Güterabwägung) (148). In altre parole occorre, innanzitutto, accertare se lo scopo perseguito dalla legge consiste in un pubblico interesse, e quindi se la disposizione sia conforme ai criteri dell’idoneità, della necessità e dell’adeguatezza (149) (Geeignetheit o Zwecktauglichkeit, Erforderlichkeit und Ange(147)
Cfr. GUSY, Der Gleichheitsschutz des Grundsesetzes, in Jus, 1982, p. 34; MARa ed. (nota 18), p. 649; HELLER, op. cit. (nota 40), p. 115. (148) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), pp. 284-285, cfr., inoltre, p. 354 ss. dove l’autore esamina in particolare la ricca giurisprudenza della VfGH circa l’applicazione del principio di proporzione alla libertà d’iniziativa economica ex art. 6 StGG; HESSE, op. cit. (nota 33), pp. 127-128; HUBER, Über den Grundsatz der Verhältnismässigkeit im Verwaltungsrecht, in ZRS, 1976, p. 27; DEGENER, op. cit. (nota 121), p. 27 ss.; sul secondo momento del giudizio, idoneità, cfr. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), pp. 381-382, il quale, pur scettico sulle possibilità operative di un tale tipo di giudizio, ne parla come di un controllo in termini di ‘‘razionalità strumentale’’, idoneo a contrastare la piaga della legislazione simbolica. Sul controllo del giudice costituzionale italiano dell’opera di bilanciamento compiuta dal legislatore, cfr. tra gli altri, R. BIN, Bilanciamento degli interessi, op. cit. (nota 62), p. 45 ss.; CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 1997, p. 246 ss.; RUGGERI, Note introduttive allo studio della motivazione delle decisioni della Corte costituzionale (ordini tematici e profili problematici), in La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, op. cit. (nota 35), p. 18 ss.; LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), pp. 355 ss.-359; MOSCARINI, op. cit. (nota 30), p. 130 ss., la quale parla del bilanciamento, in sede di giudizio costituzionale, come opera di concretizzazione dei valori, e, p. 152 ss., come procedimento teleologico e giustificativo, e p. 177, come esempio paradigmatico di fondazione etica della decisione giudiziale; e autori citati in nota 49. (149) Cfr. HELLER, op. cit. (nota 40), p. 117, il quale cita Erkenntnis 23 giugno 1986, G 14/86 u.a.; in termini simili si esprime la giurisprudenza della Corte europea e quella comunitaria vedi nota 137, 142 e 161. TINES, op. cit., 8
— 477 — messenheit o Verhältnismäßigkeit in senso stretto; il principio di proporzione è un concetto superiore — Oberbegriff — che ricomprende tali principi (150); ‘‘l’aggravio del singolo attraverso una limitazione idonea e necessaria di un suo diritto fondamentale deve trovarsi in un rapporto ‘‘ragionevole’’ con i vantaggi che si perseguono a favore della generalità’’ (si fa talora riferimento al concetto di ‘‘bene comune’’ (151) ) (152). Naturalmente si avverte che non sempre è facile distinguere in maniera chiara i confini tra i tre criteri in questione e, soprattutto, che la misura della giustificazione di una regola in base a questi criteri dipende dall’intensità dell’aggressione a un diritto fondamentale (153) o a un bene giuridico, come emerge in particolare in materia penale. Si tratta di un tipo di iter argomentativo simile, come evidenzia la dottrina, a quello che talora si ritrova in alcune massime giurisprudenziali della Corte costituzionale italiana in tema di ragionevolezza ex art. 3 Cost. (154). (150) Cfr. per tale Oberbegriff, ISENSEE, Das Grundrecht als Abwehrrecht und als staatliche Schutzpflicht, in ISENSEE-KIRCHHOF, V, op. cit. (nota 43), p. 179; DEGENER, op. cit. (nota 121), pp. 38-39; RESS, op. cit. (nota 97), pp. 13-17 ss. (151) Interpreta il compito della Corte costituzionale come compito di concretizzazione dell’interesse pubblico, HÄBERLE, Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, a cura di RIDOLA, Roma, 1993. (152) Così SCHEFOLD, op. cit. (nota 49), p. 128; KIRCHHOF, Der allgemeine Gleichheitssatz, op. cit. (nota 43), pp. 911-912; STARCK, I diritti fondamentali nel Grundgesetz della Repubblica Federale di Germania, in Giur. cost., 1992, II, p. 2529; IPSEN, op. cit. (nota 45), p. 176 ss.; PIEROTH-SCHLINK, op. cit. (nota 23), p. 125; MAAß, Die neuere Rechtsprechung des BVerfG zum allgemeinen Gleichheitssatz - Ein Neuansatz?, in NVwZ, 1988, p. 14; LUTHER, Ragionevolezza e Verhältnismäßigkeit nella giurisprudenza costituzionale tedesca, in Dir. e soc., 1993, pp. 316-317; per l’applicazione del principio di proporzione in relazione alle limitazioni della libertà, cfr. HESSE, Die Bindung des Gesetzgebers an das Grundrecht des Art. 2 I GG bei der Verwirklichung einer ‘‘Verfassungsmassigen Ordnung’’, Berlin, 1968, p. 102 ss.; in giurisprudenza BVerfGE, 88 (115); BVerfGE, 76, 1 (51). (153) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 285; DEGENER, op. cit. (nota 121), pp. 57226 ss., il quale parla, a p. 112, del principio di proporzione come di un c.d. Schadensrelation, di un bilanciamento tra i danni che derivano al singolo dall’esecuzione dello strumento coercitivo e i danni che deriverebbero al pubblico interesse dalla sua mancata esecuzione (l’autore, però, in questa parte parla del principio in esame come correttivo del caso concreto). (154) Cfr. CERVATI, op. cit. (nota 35), p. 85; CARAVITA DI TORITTO, Le quattro fasi del giudizio di eguaglianza-ragionevolezza, op. cit. (nota 64), p. 259 ss. Cfr. ad esempio, Corte cost. 15 aprile 1993, n. 163, in Giur. cost., 1993, p. 1189 ss., dove con riferimento al sindacato di ragionevolezza sulle differenziazioni legislative ex art. 3 Cost. si osserva che la Corte deve controllare che non sussista violazione di alcuno dei seguenti criteri: a) la correttezza della classificazione operata dal legislatore in relazione ai soggetti considerati, tenuto conto della disciplina apprestata; b) la previsione da parte dello stesso legislatore di un trattamento giuridico omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali della classe (o delle classi) di persone cui quel trattamento è riferito; c) la proporzionalità del trattamento giuridico rispetto alla classificazione operata del legislatore, tenendo conto del fine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata: proporzionalità che va esaminata in relazione agli effetti pratici prodotti o producibili nei
— 478 — Nel compiere tale ragionamento la Corte tiene conto dei dati e dei presupposti di fatto che sono alla base delle scelte operate dal legislatore (155), e proprio l’esame di tali circostanze del caso concreto consente alla Corte di stabilire di volta in volta quale sia l’interesse prevalente, mancando una tavola dei valori costituzionali gradualmente ordinata una volta per tutte (156). Per guidare l’opera di bilanciamento dei valori costituzionali in gioco nella fattispecie concreta, si tenta, in verità, di prospettare, una ‘‘gerarchia di valori’’ (157), tra i quali vengono considerati prevalenti i diritti fondamentali (innanzitutto la dignità dell’uomo riconosciuta dall’art. 1 Cost. tedesca - Menschwürde) (158); anche se si riconosce l’impossibilità di concepire i diritti fondamentali come un geschlossebnes System, anzi si parla, piuttosto che di un Wertsystem, di un ‘‘lückenlosen Wert-und Anspruchssystem’’ (159). concreti rapporti della vita’’; Corte cost. (16 dicembre) 19 dicembre 1991, n. 467, in Giur. cost., 1991, p. 3805, dove dapprima si afferma che ‘‘onde valutare se tale discriminazione non sia irragionevole e non comporti, conseguentemente, un’ingiustificata compressione del diritto inviolabile alla libertà di professione della propria fede religiosa, occorre procedere secondo il paradigma logico proprio dei giudizi di ragionevolezza: innanzitutto, bisogna individuare quali siano gli interessi di rilievo costituzionale che il legislatore ha ritenuto di far prevalere nella sua discrezionale ponderazione degli interessi attinenti ai due casi trattati differentemente e, quindi, occorre raffrontare il particolare bilanciamento operato dal legislatore nell’ipotesi denunziata con la gerarchia dei valori coinvolti nella scelta legislativa quale risulta stabilita nelle norme costituzionali’’; e poi si afferma che una determinata disciplina sanzionatoria ‘‘non è conforme alla regola della ragionevole proporzionalità e della necessarietà della limitazione di un diritto inviolabile dell’uomo in riferimento all’adempimento di un dovere costituzionale inderogabile. Quella regola, infatti, impone che il legislatore, nel suo discrezionale bilanciamento dei valori costituzionali, possa restringere il contenuto di un diritto inviolabile dell’uomo soltanto nei limiti strettamente necessari alla protezione dell’interesse pubblico sottostante al dovere costituzionale contrapposto’’. (155) Cfr. STARCK, I diritti fondamentali, op. cit. (nota 152), p. 2530; CERVATI, op. cit. (nota 35), p. 85; PIEROTH-SCHLINK, op. cit. (nota 23), p. 132. (156) Cfr. CERRI, Ragionevolezza, op. cit. (nota 19), p. 12. (157) Cfr. SCHLINK, op. cit. (nota 49), p. 127 ss.; SCHEFOLD, op. cit. (nota 49), p. 126, il quale sottolinea che tale gerarchia dei valori è oggettivizzata nella Costituzione, non ‘‘è una pretesa soggettiva’’; LUTHER, op. cit. (nota 152), p. 308 ss. (158) Cfr. BVerfGE, 88 (115); BVerfGE, 76, 1 (51); BVerfGE, 34 Band, 238, 245; BVerfGE, 6 Band 41; 27 Band, 6; 30 Band, 193; in dottrina cfr. CERVATI, op. cit. (nota 35), p. 82; CERRI, I modi argomentativi del giudizio di ragionevolezza delle leggi: cenni di diritto comparato, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, op. cit. (nota 15), pp. 151 ss.-156-157; Ragionevolezza, op. cit. (nota 19), p. 12; IPSEN, op. cit. (nota 45), pp. 127 ss.-141; PIEROTH-SCHLINK, op. cit. (nota 23), p. 87 ss.; KIRCHHOF, Der allgemeine Gleichheitssatz, op. cit. (nota 43), pp. 842-868; ID., Gleichheit in der Funktionenordnung, in IPSEN-KIRCHHOF, V, op. cit. (nota 43), pp. 978-979, dove l’autore specifica che il legislatore deve garantire tale nucleo minimo dei diritti fondamentali in quanto deve indirizzare le sue scelte legislative in maniera da garantire la giustizia sostanziale — Sachgerechtigkeit, e la coerenza, la logicità — Folgerichtigkeit. (159) Cfr. HESSE, Gründzuge, op. cit. (nota 33), p. 122; MARINUCCI, Relazione di sin-
— 479 — Ciascuna fase del giudizio di proporzione, comunque, presenta delle particolari problematiche (a partire dall’individuazione in materia penale del bene giuridico meritevole di tutela) e merita un’apposita analisi, che non è possibile in questa sede. Solo una precisazione in relazione al terzo momento del giudizio di proporzione sembra immediatamente indispensabile; occorre, cioè, chiarire che quando si parla di ‘‘necessaria’’ non si pretende l’individuazione della soluzione migliore, l’unica possibile, ben determinata, ma piuttosto, come si afferma anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia, si riconosce al legislatore un ambito di libertà politica (ein rechtspolitischer Gestaltungsfreiraum) nel valutare la ‘‘necessità’’ (160); la Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, facendo prova di realismo, riconosce agli Stati membri un certo potere discrezionale, denominato ‘‘margine d’apprezzamento’’, per quanto concerne la salvaguardia dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione (161). E in tale direzione anche la giuritesi, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, op. cit. (nota 5), p. 351; PALADIN, Ragionevolezza (principio di), op. cit. (nota 34), p. 908; MOSCARINI, op. cit. (nota 30), p. 141; LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), p. 358, il quale riconosce anche nella giurisprudenza costituzionale italiana il tentativo di individuare delle regole di preferenza, anche se ‘‘morbide’’ tra principi o diritti; PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, op. cit. (nota 50), p. 368 ss., il quale rileva come la stessa Corte costituzionale ‘‘lungi dal far proprio il catalogo chiuso dei beni giuridici, adotta uno schema di giudizio decisamente aperto per controllare la legittimità delle scelte di criminalizzazione’’; anche se poi, p. 381, l’autore sottolinea, in relazione a quello che potremmo considerare il quarto momento del giudizio di proporzione (in senso stretto), cha ‘‘il criterio della proporzione tra costi e benefici risulta essere decisamente ridimensionato nella sua enorme potenzialità espansiva dal fatto che le conseguenze assunte come rilevanti sono poi solo quelle incidenti su interessi costituzionali se non addirittura quelle incidenti sui soli diritti individuali’’. (160) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 284. (161) Cfr. per tutte Corte europea dei diritti dell’uomo, 20 novembre 1995, Pressos Compania Naviera S.A. et Autres c. Belgique, in Publications de la Cour Européenne des droits de l’Homme, 1996, Série A, vol. 332, p. 22 ss., dove si precisa che il margine di discrezionalità nel determinare il concetto di pubblico interesse è necessariamente esteso; nel caso di specie, ad esempio, la decisione di introdurre delle leggi che consentono l’espropriazione della proprietà coinvolge normalmente la considerazione di questioni politiche, economiche e sociali, questioni in relazione alle quali è ragionevole che in una società democratica sussistano opinioni ampiamente differenti; la Corte, quindi, considerando normale che il legislatore disponga di una grande discrezionalità nel decidere una politica economica e sociale, rispetta il modo in cui il legislatore ha valutato il pubblico interesse a meno che il giudizio si rivela manifestamente privo di una base ragionevole. Cfr. Corte di giustizia, 5 giugno 1996, NMB France SARL e altre contro Commissione delle Comunità europee, Causa T162/94, in Raccolta, 1996, II, p. 428, dove da una parte si afferma che ‘‘la legittimità di una normativa comunitaria è subordinata al presupposto che i mezzi che essa impiega siano idonei a realizzare l’obiettivo legittimamente perseguito dalla normativa in causa e non vadano al di là di ciò che è necessario per raggiungerlo, fermo restando che, qualora si presenti una scelta tra più misure appropriate, è necessario ricorrere, in linea di principio, alla meno restrittiva’’, ma dall’altra parte si precisa che ‘‘tuttavia nei settori in cui il legislatore comunitario dispone di un ampio potere discrezionale corrispondente alle responsabilità politiche che
— 480 — sprudenza costituzionale tedesca sottolinea che il giudizio della Corte costituzionale ha un ampio Spielraum, nel senso che non si tratta di accertare se il legislatore ha elaborato la regola più giusta e conforme allo scopo, ma si tratta di verificare se in relazione alla legge in esame ‘‘non sia più riconoscibile in assoluto alcuna oggettiva, evidente ragione’’; così ribadendo la libertà del legislatore di scegliere gli scopi da perseguire e di valutare la necessità e l’adeguatezza del mezzo prescelto (162). In sede costituzionale, allora (ma non in sede legislativa), il giudizio sulla necessarietà del mezzo si esprime in termini negativi, non si tratta di verificare in assoluto se lo strumento utilizzato per il perseguimento di un determinato scopo di politica criminale sia il più mite, se lo stesso scopo non poteva essere sufficientemente perseguito anche con altre forme di tutela (amministrativa, civile, disciplinare), ma piuttosto si tratta di verificare se lo strumento penale appaia assolutamente non necessario. 3.2. Alla luce di tale breve esame del principio di proporzione sembra, allora, di poter correttamente affermare che taluni giudizi sulla ragionevolezza di una norma ex art. 3 Cost., utilizzato come mera clausola di stile, facendo riferimento ad una sorta di tertium comparationis implicito rappresentato da un generico diritto di libertà, possano essere legittimamente riportati nell’ambito del principio di proporzione, come criterio di valutazione dell’an e del quantum della disposizione normativa che incide su un diritto costituzionalmente garantito. Non sembra, cioè possibile porre un freno agli arbitri del legislatore attraverso un principio di ragionevolezza fondato sul mero art. 3, comma 1 Cost., che impone un principio di eguaglianza giuridica, ma piuttosto su un principio di proporzione fondato sui Grundrechte riconosciuti dalla Carta costituzionale. Si deve chiarire a tal proposito che si avverte, con le dovute eccezioni (163), nella dottrina costituzionalistica italiana e nella giurispruil Trattato gli attribuisce, solo il carattere manifestamente inidoneo di un provvedimento emanato, in relazione allo scopo che l’istituzione competente intende perseguire, può inficiare la legittimità di un siffatto provvedimento’’. Cfr. MATSCHER, op. cit. (nota 137), p. 51 ss., il quale precisa che, pur non essendo matematicamente determinabile l’estensione del margine d’apprezzamento, dalla giurisprudenza della Corte emerge, però, che laddove una fattispecie riscontra una soluzione più o meno uniforme nei vari Stati membri, il margine d’apprezzamento, lasciato ad uno Stato che adotti un’orientamento diverso, è piuttosto ristretto, mentre questo margine è più esteso dove una tale congruenza non si trova nel diritto degli Stati europei; e inoltre il margine d’apprezzamento è più ristretto o deve essere valutato con criteri più rigidi in presenza di situazioni connesse con diritti fondamentali di particolare importanza, come ad esempio la libertà d’espressione ex art. 10, anche se tale distinzione tra diritti più o meno importanti è problematica, mancando nella Convenzione dei parametri di distinzione. (162) Cfr. PIEROTH-SCHLINK, op. cit. (nota 23), p. 115; LUTHER, op. cit. (nota 152), p. 316. (163) Cfr. ANGIONI, op. cit. (nota 117), p. 163; FIANDACA, Problematica dell’osceno e
— 481 — denza della Corte costituzionale una insufficiente o inesistente valorizzazione di tale principio di proporzione, in quanto, come esaminato, ci si è limitati a tentare di consentire un giudizio costituzionale contro gli abusi manifesti a danno di diritti fondamentali da parte del legislatore ordinario attraverso il principio di ragionevolezza fondato sull’art. 3 Cost.; il principio di eguaglianza, infatti, viene inteso come ‘‘il solo limite generale della funzione legislativa’’, attraverso il cui riconoscimento si concretizza il rispetto dei diritti fondamentali considerati ‘‘quale specificazione ulteriore del principio di eguaglianza’’ (164); il principio di eguaglianza ‘‘fornisce la misura della coerenza (Corte cost., sent. n. 204/82) che regge il rapporto tra autorità e autonomia dei privati’’ (165); o ancora si considera possibile il controllo della Corte costituzionale sulla significatività dell’intera fattispecie astratta di reato, alla luce (oltre che delle norme che riconoscono al singolo diritti fondamentali di libertà) del criterio di ragionevolezza (166). La giurisprudenza costituzionale, invece, parla del principio di proporzione per lo più nell’accezione prima esaminata di Übermaßverbot nell’ambito di un giudizio sul rispetto del principio di uguaglianza da parte di due fattispecie a confronto. Si deve osservare, però, che una legge deve essere razionale non perché lo Stato è costituzionalmente obbligato ad avere delle ragioni per trattare le persone ‘‘unlike’’, ma perché lo Stato è obbligato ad avere razionali e legittime ragioni per ogni ‘‘way in which it treats people’’. Nell’ordinamento statunitense si osserva a tal proposito che, partendo dal presupposto che ogni legge prevede un ‘‘trattamento’’ e quindi deve avere una ragione che la giustifichi, la nozione di ‘‘rationality’’ trova il suo fondamento nel ‘‘substantive due process’’ (V emendamento) e non nella nozione di uguaglianza, e cioè si fonda sul principio in base al quale ognuno ha il diritto a far valere i suoi diritti in un giusto processo, e non nel principio di uguaglianza (XV emendamento) che non ci dice in nessun caso per quale ragione la legge prevede un trattamento e che crea solo degli equivoci. Le questioni di razionalità sono ‘‘matters of substantive constitutional value that must be decided on their own merits’’ (167). tutela del buon costume, Padova, 1984, p. 142, il quale individua nel principio di proporzione il parametro di costituzionalità alla cui stregua effettuare il controllo di legittimità della fondatezza di un’incriminazione; MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 2), p. 150 ss., anche se poi gli autori (p. 207), parlano sempre in relazione ai reati di pericolo di giudizio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., sembrando fare riferimento a un giudizio sulla ragionevolezza in assoluto della norma; CERRI, Ragionevolezza, op. cit.(nota 19), p. 18 ss., il quale ritiene più propriamente riconducibile a un sindacato sulla ‘‘proporzionalità’’ l’opera di bilanciamento tra valori costituzionali che la Corte costituzionale opera nel controllo di ragionevolezza di leggi che pongono limiti a diritti inviolabili; UBERTAZZI, op. cit. (nota 121), p. 79 ss. (164) Così PALADIN, Diritto costituzionale, op. cit. (nota 27), pp. 570-571. (165) Così ARCIDIACONO, op. cit. (nota 26), p. 258. (166) Così ROMANO, Pre-Art. 39, op. cit. (nota 114), p. 282. (167) Cfr. WESTEN, The Empty idea of equality, in Harvard Law Rev., 1982, p. 537
— 482 — Si ritiene cioè che mentre per ogni norma, in particolare ogni norma pubblicistica che incide sui diritti della persona, si pone un problema di rispetto del principio di proporzione, la questione circa il rispetto della ragionevolezza ex art. 3 Cost. interviene solo qualora il legislatore nel disciplinare, e in particolare nel determinare l’ambito o l’intensità dell’intervento, ha creato una discriminazione. Il fatto che il giudizio sulla ragionevolezza di una norma ex art. 3 Cost. non possa essere assorbente del giudizio sul rispetto del principio di proporzione, ma che è necessario mantenere distinte le due questioni e anzi sottolineare la propedeuticità della seconda rispetto alla prima, può essere facilmente dimostrato ricordando il caso giurisprudenziale (che è solo uno fra tanti), prima citato, in cui si è dichiarata l’impossibilità di censurare l’incostituzionalità di una disparità irragionevole perché la norma in questione (l’art. 17, comma 7 del d.l. 8 aprile 1974, n. 95 (168) ) è stata valutata in sé ragionevole (congrua rispetto ai fini perseguiti) (169). Si tratta di un esempio evidente di come le due questioni, quella sul rispetto del principio di proporzione e quella sul rispetto del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., siano distinte e come si rischi di sacrificare il principio di eguaglianza se vengono confuse. Nel caso in esame, infatti, la norma, se valutata in base al principio di proporzione, appare legittima (lo strumento è giustificato e conforme allo scopo), ma se valutata in base al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. è illegittima, perché comporta una discriminazione irragionevole. I due tipi di giudizio, poi, e cioè quello sul rispetto del principio di proporzione e quello sul rispetto del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., sono molto simili; presentano lo stesso tipo di procedimento valutativo, in quanto si tratta in ogni caso di accertare se il sacrificio di un diritto della persona imposto con la norma sia giustificato dal fine perseguito e conforme allo scopo (170); nel giudizio sulla ragionevolezza della discriminazione, il sacrificio imposto dal legislatore, di cui si dovrà valutare il fondamento e l’adeguatezza, è il sacrificio al diritto alla parità di trattamento (171). Soprattutto laddove viene in gioco la valutazione della ss., in particolare pp. 572-573; sugli autori che distinguono i due tipi di giudizio costituzionale, quello di eguaglianza e quello di proporzionalità, vedi nota 144. (168) Vedi nota 109. (169) Così Corte cost. (19 dicembre) 31 dicembre 1986, n. 297, in Giur. cost., 1986, p. 2378. (170) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 303. (171) Vedi nota 154. Anche nell’ambito della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ad esempio, si applica lo stesso tipo di ragionamento del principio di proporzione in relazione al principio di eguaglianza. Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 ottobre 1996, Stubbings et autres c. Royaume-Uni, in Recueil de Arrêts et Dêcisions, 1996, IV, n. 18, pp. 1506-1507-1520, in cui la Corte e la Commissione chiariscono che tale norma non proibisce tutte le differenze di trattamento nell’esercizio di diritti e libertà riconosciuti
— 483 — ragionevolezza di una discriminazione, di una classificazione normativa, e non della mera incongruenza della disparità di trattamento prevista da due norme, i confini tra i due tipi di giudizio sono molto esigui; nel senso che, in linea di massima, se la discriminazione su cui si impernia la norma è giustificata ed adeguata, il che in materia penale vuol dire che la discriminazione è giustificata dall’offensività della classificazione normativa, ne consegue che la norma è conforme al principio di proporzione; non si può, invece, affermare il contrario, e cioè che una norma proporzionata sia anche ragionevole ex art. 3 Cost., perché come dimostra il caso affrontato nella citata sentenza n. 297/86 della Corte costituzionale, pur essendo adeguata e necessaria una fattispecie può comportare una discriminazione irragionevole per avere compreso o escluso dal suo ambito di applicazione determinate persone o situazioni assimilabili (172). Se allora non è possibile un giudizio sulla ragionevolezza in assoluto di una norma ex art. 3 Cost., sembra doveroso per ogni norma, che incide su diritti fondamentali, un giudizio sul rispetto del principio di proporzione, quale limite al potere legislativo di incidere su diritti fondamentali; giudizio fondato oltre che sul riconoscimento costituzionale della dignità umana, sulle norme costituzionali che riconoscono i diritti sacrificati, nel senso che nel riconoscerlo non possono non ammetterne solo le limitazioni necessarie al perseguimento di interessi rilevanti e nella misura strettamente necessaria. Il principio di proporzione, allora, più che il criterio di ragionevolezza, diviene il criterio di valutazione del rispetto delle leggi costituzionali. Sinora la dottrina ha considerato il principio di proporzione come un mero criterio di politica criminale, incapace di tradursi in un criterio di controllo da parte del giudice costituzionale dell’operato del legislatore. Sembra, però, che il moltiplicarsi delle questioni di legittimità costituzionale per violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. abbiano sufficientemente fatto emergere la necessità di consentire un intervento del giudice costituzionale contro le ipotesi di manifesto arbitrio legislativo a danno dei diritti del cittadino; e del resto le sentenze sulla ragionevolezza di una norma ex art. 3 Cost. si sono sviluppate, come già rilevato, come strumenti di giudizio sulla ragionevolezza in assoluto di una norma. dalla Convenzione, ma solo certe distinzioni tra gruppi in posizioni evidentemente similari; occorre, quindi, innanzitutto accertare il carattere della discriminazione, se rientra tra quelle previste dall’art. 14, come attinenti a uno stato personale; se si tratta di una discriminazione che ha come conseguenza il vantaggio di un gruppo a spese di un altro; e, infine, occorre accertare alla luce dell’intero ordinamento se l’elemento di comparazione è puramente teorico. Se si perviene alla conclusione che sussiste una discriminazione rilevante, occorre accertare se è ragionevole e obiettivamente giustificata, il che vuol dire verificare se persegue uno scopo legittimo e se è proporzionata (sussiste una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo usato e lo scopo perseguito; cfr. UBERTAZZI, op. cit. (nota 121), pp. 83-84. (172) Cfr. le sentenze citate in nota 110.
— 484 — Appare allora più realistico e responsabile prendere coscienza dell’avvenuto mutamento della coscienza sociale e giuridica in materia e tentare, invece di limitarsi a rifiutare tout court quello che ormai è un processo in corso difficilmente frenabile, di razionalizzare e di fondare su basi giuridiche di rango costituzionale il controllo del giudice delle leggi contro le ipotesi di arbitrio del legislatore, pur chiaramente non negando la difficoltà e la problematicità di un simile tentativo (173). In tale direzione si deve osservare, del resto, che ‘‘il controllo di costituzionalità risulterà tanto più legittimo, quanto più l’incriminazione di un comportamento comporti una limitazione di diritti fondamentali’’ (174); tanto è vero che negli altri paesi e nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, una volta ammesso il controllo di costituzionalità contro gli arbitri legislativi, tale controllo viene configurato in maniera tanto più stringente quanto più alto è il rango dei diritti sacrificati dall’intervento statale (strict scrutiny; ‘‘the most careful scrutiny’’ - ‘‘le plus scrupuleux’’) (175). Il parametro di costituzionalità più adatto a fondare tale controllo sembra allora il principio di proporzione ex art. 2 Cost. nei termini prima esposti. D’altronde, come si afferma generalmente in relazione a tutta la Costituzione, in mancanza di un eterocontrollo il rispetto di un principio costituzionale è rimesso al mero arbitrio legislativo, il cui autocontrollo non è sicuramente sufficiente; solo attraverso un eterocontrollo è possibile subordinare lo stesso legislatore al principio di legalità, sotto forma di ‘‘principio di costituzionalità’’ (176). Naturalmente anche in questo caso, emerge il problema di individuare un difficile equilibrio nei rapporti tra il potere del legislatore e quello della Corte costituzionale; problema che si è posto anche negli altri paesi che conoscono un organo di giustizia costituzionale. È difficile, infatti, stabilire i confini del controllo da parte della Corte costituzionale (173) Cfr. HELLER, op. cit. (nota 40), p. 117, il quale giudica come un tentativo di razionalizzazione dei parametri del controllo del giudice costituzionale, l’adozione del principio di proporzione da parte della Corte costituzionale austriaca, in luogo dell’Exzeßverbotes. (174) Cfr. FIANDACA, Problematica dell’osceno, op. cit.(nota 163), p. 142. (175) Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 marzo 1996, Goodwin c. Royaume-Uni, in Recueil de Arrêts et Dêcisions, 1996, II, n. 7, p. 500; in tale direzione in relazione ai giudizi della Corte costituzionale relativi al principio di ragionevolezza, cfr. DOLSO, Bilanciamento tra principi e ‘‘strict scrutiny’’, op. cit. (nota 49), p. 4154, il quale ritiene che proprio laddove vengono in gioco principi costituzionali e diritti inviolabili, il giudizio di bilanciamento della Corte è particolarmente severo, non limitandosi a richiedere un ragionevole motivo, ma piuttosto una stringente ragione (compelling) che giustifichi la discriminazione (scrict scrutiny); PALADIN, Ragionevolezza (principio di), op. cit. (nota 34), p. 907 e giurisprudenza ivi citata; a tal proposito, in relazione al principio di proporzione nel diritto amministrativo, cfr. SANDULLI, Eccesso di potere, op. cit. (nota 70), p. 366. (176) Cfr. PALADIN, Diritto costituzionale, op. cit. (nota 27), p. 692, il quale cita a sostegno Corte cost. (12 febbraio) 17 febbraio 1969, n. 15, in Giur. cost., 1969, p. 90; RIZZA, op. cit. (nota 69), p. 490.
— 485 — delle delimitazioni dei diritti fondamentali o delle aggressioni statali nei diritti fondamentali (dei Begrenzung o degli Eingriffe); perché non solo è affidato dalla Costituzione al legislatore, quale espressione della sovranità popolare, il compito di individuare i bisogni della società che giustificano tali delimitazioni, ma la considerazione dei beni da tutelare o l’applicazione del principio di proporzione possono comportare delle considerazioni di carattere politico (177); ben difficilmente, allora, sarà possibile per la Corte costituzionale giungere a delle valutazioni univoche (178). Si deve osservare, però, come anche in materia penale e in relazione al settore che maggiormente pone dei problemi di rispetto del principio di proporzione, e cioè quello dei reati che incriminano condotte di sospetta pericolosità, la valutazione della dannosità di una condotta è fondata su apprezzamenti di tipo prognostico, come tali esposti ai rischi di errore tipici delle asserzioni effettuate in termini probabilistici, e che, quindi, in quanto valutazioni dubbie, non risolubili sul piano meramente cognitivo, comportano delle decisioni politiche del legislatore (179); ma, nonostante il riconoscimento dell’autonomia decisionale del legislatore, presupposto della sua responsabilità politica, non si può escludere il controllo costituzionale su quei calcoli prognostici presupposti dalla sua attività di penalizzazione, altrimenti si ‘‘tornerebbe ad assolutizzare quella discrezionalità legislativa, che proprio la concezione costituzionalmente orientata dello strumento penale oggi tende, invece, quantomeno a problematizzare’’ (180). Fondamentale in tale direzione la verifica delle conoscenze empiriche che sono alla base delle prognosi legislative, e la verifica che le ‘‘opzioni legislative siano fondate su di un’adeguata valutazione dei beni in gioco’’ e su un corretto bilanciamento dei diversi interessi confliggenti; anche se lo scarso coordinamento tra la scienza criminologica e quella penale, e la scarsità dei risultati delle scienze empiriche rendono spesso, già in sede legislativa, alquanto difficili tali prognosi di politica criminale (181) e, quindi, ancor di più il relativo controllo. Anche per il giudizio sul rispetto del principio di proporzione emergono allora le conclusioni già emerse in tema di ragionevolezza, circa la necessità di limitare la possibilità della Corte costituzionale di giungere ad una dichiarazione di incostituzionalità per violazione del principio in que(177) Cfr. HESSE, Gründzuge, op. cit. (nota 33), pp. 218-164, il quale afferma che è proprio in relazione al principio di proporzione che nell’ordinamento tedesco si sono registrati dei sconfinamenti dalle sue attribuzioni da parte del Bundesverfassungsgerichts, in particolare negli interventi della Corte in materia di libertà all’esercizio di una professione. (178) Cfr. HESSE, Grundzüge, op. cit. (nota 33), pp. 128-129; RESS, op. cit.(nota 97), pp. 10-11. (179) Cfr. FIANDACA, Problematica dell’osceno, op. cit. (nota 163), p. 138. (180) Così FIANDACA, Problematica dell’osceno, op. cit. (nota 163), p. 138; cfr. PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale, op. cit. (nota 60), p. 518 ss. (181) Cfr sull’argomento ZIPF, Politica criminale, Milano, 1989, p. 136 ss.
— 486 — stione, solo nei casi di manifesta arbitrarietà, anche in considerazione, come già sottolineato, del carattere ‘‘aperto’’ della nostra Costituzione (addirittura si parla oggi di ‘‘Costituzione debole’’) (182). Si deve sottolineare a tal proposito che lo scopo della Corte costituzionale è solo quello di verificare se il legislatore ha superato i limiti esterni, posti dalla Costituzione, della sua ampia Gestaltungsfreiheit, e non quello di accertare se la soluzione prescelta dal legislatore ‘‘è la più conforme allo scopo, la più ragionevole o la più giusta’’ (si tratta di un controllo negativo, di carattere limitativo - Die Kontrolle muß einen negativen, einen abwehrenden Charakter behalten) (183); il suo compito è delimitato, come già sottolineato, alla verifica delle violazioni della Costituzione (verfassungsrechtliche Verstöße) (i limiti costituzionali del legislatore, insomma, non coincidono sempre con i limiti del controllo di legittimità costituzionale) (184). A tal fine in sede di giudizio di proporzione, sarà importante che la Corte costituzionale si sforzi di seguire il procedimento indicato, o comunque, faccia emergere in maniera trasparente il percorso del suo ragionamento, in modo da rendere controllabile il suo giudizio; la Corte dovrà evitare, insomma, le ‘‘pauschalen Feststellungen’’, che una regola è o non è conforme al principio di proporzione (185); non solo ma si dovrà evitare di trasformare il giudizio di proporzione in uno strumento di giustizia o di correttivo del caso concreto (Einzelfallkorrektiv), ma piuttosto la concreta decisione deve derivare da un fondamento di oggettiva generalizzazione dell’ambito di applicazione (die Konkrete Entscheidung auf der Grundlage einer sachbezogenen Teilbereichsgeneralisierung ergeht) (186). ANNA MARIA MAUGERI Ricercatore Università di Catania (182) Così BIN, Bilanciamento degli interessi, op. cit. (nota 62), p. 53 ss. (183) BVerfGE 10, 354 (371); BVerfGE 3, 162 (182); HESSE, op. cit. (nota 33), p. 217 e altra giurisprudenza ivi citata; HUBER, op. cit. (nota 148), p. 26; cfr. FRIESENHAHN, Die Funktion der Verfassungsgerichtsbarkeit im Gesamten der Verfassung, in Verfassungsgerichtsbarkeit, a cura di HABERLE, Darmstadt, 1976, p. 357; LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), p. 360. (184) Cfr. HESSE, op. cit. (nota 33), pp. 217-218. (185) Cfr. OHLINGER, op. cit. (nota 32), p. 285, che denuncia come la Bundesverfassungsgericht austriaca talora non segua tutte le fasi dello schema indicato, oppure si limiti a tali affermazioni di principio; in relazione al principio di ragionevolezza, nelle sue varie accezioni, cfr. PALADIN, Ragionevolezza (principio di), op. cit. (nota 34), p. 909 ss. il quale denuncia, nonostante i tentativi della Corte costituzionale, l’incapacità della Corte ‘‘di razionalizzare e incanalare il sindacato sulla ragionevolezza delle leggi’’, e sottolinea, allora, l’importanza della motivazione, magari anche con l’intervento delle opinioni dissenzienti; conforme LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), op. cit. (nota 22), pp. 361-362; sulla problematicità delle motivazioni della Corte costituzionale quando opera dei bilanciamenti di valori, cfr. RUGGERI, Note introduttive allo studio, op. cit. (nota 124), p. 22 ss. (186) Così RESS, op. cit. (nota 97), p. 36; cfr. DEGENER, op. cit. (nota 121), pp. 2247 ss.-53 ss., dove in particolare si indicano le argomentazioni contro tale uso del principio.
L’USO DEI COLLEGAMENTI AUDIOVISIVI NEL PROCESSO PENALE TRA NECESSITÀ DI EFFICIENZA DEL PROCESSO E RISPETTO DEI PRINCIPI GARANTISTICI
SOMMARIO: 1. Tecnologia e processo penale. — 2. L’art. 147-bis disp. att. c.p.p. e le proposte di riforma. — 3. Le modifiche introdotte dalla l. n. 11/1998. — 4. Gli interessi in gioco. — 5. Le critiche della dottrina a tutela della funzione difensiva ed epistemologica dell’« esame a distanza ». — 6. (Segue): ...e della « partecipazione a distanza dell’imputato ». — 7. Gli orientamenti favorevoli della giurisprudenza e della dottrina. — 8. Una riconosciuta attenuazione del diritto di difesa... — 9. (Segue): ...costituzionalmente difendibile. — 10. I presupposti tecnici da assicurare ‘‘a latere’’. — 11. L’esperienza di common law. — 12. Un’ultima riflessione.
1. Già nel 1968 la dottrina più accreditata intravede le difficoltà nelle quali il processo penale potrebbe incorrere con l’avvento dei nuovi mezzi tecnici messi a disposizione dal progresso scientifico. ‘‘Il futuro — si scrive — si presenta dominato dalla tecnologia’’ e l’epoca tecnologica è destinata ad alterare i caratteri spaziali e temporali tipici del processo penale ed, in particolare, del dibattimento (1). Questa autorevole osservazione si è tramutata in realtà. Non si può dimenticare, infatti, l’ampia opera di adeguamento realizzata dal legislatore nel campo processual-penalistico negli ultimi anni per adattare le regole processuali alle innovazioni proposte dallo sviluppo elettronico. Si pensi, ma senza pretesa di completezza, alle notificazioni eseguite mediante l’impiego di mezzi tecnici diversi dal telefono o dal telegrafo (quali, ad esempio, il fax e il telefax) (art. 150 c.p.p.), alle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 266-bis c.p.p.) e al ruolo ricoperto dagli ‘‘audiovisivi’’ (ossia dai meccanismi di registrazione sonora (1) Cfr. G. FOSCHINI, Il giudice senza idee, in Arch. pen., 1968, p. 401 s., secondo il quale le conseguenze di questa prospettiva sembrano essere tragiche posto che la supremazia della società dell’artificiale (quella tecnologica) richiede, sul piano giuridico, un sistema più costruito, più razionale, più organico. Ciò conduce alla sostituzione dei giudici (in senso sostanziale) con funzionari amministrativi impositori delle regole legislative così come statuite. ‘‘Più che mai il diritto tenderebbe a risolversi nella forza e il giudizio in un atto di violenza’’. Alcuni accenni si rinvengono ancor prima in ID., Televisione e fonoregistrazione del dibattimento, in Foro it., 1964, IV, c. 172 ss.
— 488 — e visiva) (2); questi ultimi sono presenti almeno in tre diversi ambiti del procedimento penale: relativamente alla documentazione processuale (3), alla disciplina delle riprese dei dibattimenti (4) e al momento di formazione della prova (5). Allo stesso tempo, però, l’osservazione della citata autorevole dottrina si rivela esatta ed illuminante sotto il profilo del difficile rapporto, in termini di compatibilità, tra l’adozione delle nuove tecnologie ed i valori tradizionali del processo penale. Sebbene, infatti, il progresso tecnologico propizi ‘‘risparmi di tempo, di risorse umane e materiali e..., non poche volte, migliori(ano) la percezione o la memoria di quanto accade nel processo’’ (6), tuttavia esso male si adatta ai caratteri propri del modello processuale, ‘‘irrinunciabili non solo perché espressione di un livello di civiltà da cui non ci si vuole discostare, ma perché consacrati in norme sovraordinate alle opzioni del legislatore ordinario’’ (7). Basti pensare alle alterazioni cui vanno incontro le coordinate spaziali e temporali in vista della cancellazione dello spazio e della contrazione del tempo che comunemente connotano il progresso tecnologico. (2) Per un’ampia disamina dell’argomento v. M. CHIAVARIO, L’impatto delle nuove tecnologie tra diritti umani e interessi sociali, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 139 ss. (3) Il riferimento è all’art. 134, comma 4, c.p.p. il quale prevede che la documentazione degli atti sia realizzata attraverso mezzi di riproduzione audiovisiva ‘‘quando le modalità di documentazione indicate nei commi 2 e 3 sono ritenute insufficienti’’, e all’art. 141bis c.p.p. il quale introduce l’uso di strumenti di ripresa fonografica (registratore) o audiovisiva (videoregistratore) per la documentazione dell’interrogatorio della persona in stato di detenzione che non si svolga in udienza. (4) Cfr. art. 147 disp. att. c.p.p. (Riprese audiovisive dei dibattimenti). V., sul tema, G.P. VOENA, Mezzi audiovisivi e pubblicità delle udienze penali, Giuffrè, 1984 (recentemente, ID., Contributi giurisprudenziali in tema di riprese televisive dei dibattimenti, in AA.VV., Studi sul processo penale. In ricordo di Assunta Mazzarra, a cura di A. GAITO, Cedam, 1996, p. 425 ss.) ed i contributi di G. ILLUMINATI, Quando le parti non sono d’accordo sulle riprese audiovisive del dibattimento, in Dir. pen e proc., 1996, p. 472 ss.; A. MELCHIONDA, sub art. 147 disp. att c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, La normativa complementare, vol. I (norme di attuazione), Utet, 1992, p. 556 ss. (5) Al di là del recente fenomeno delle requisitorie ‘‘multimediali’’, intendiamo riferirci alla disciplina dei ‘‘collegamenti audiovisivi’’, oggetto della nostra indagine. (6) In questo senso si esprime G.P. VOENA, L’esame a distanza, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 116 ss. Dello stesso avviso è I. VOLPE, Esame di persone a distanza: il ministero si prepara ai processi in teleconferenza, in Guida al diritto, 30 marzo 1996, p. 111, secondo il quale per il successo ed il favore che l’uso degli strumenti tecnici ha iniziato a suscitare, l’iniziale tentativo, quasi timido, si è rapidamente trasformato in un prepotente bisogno di ricorrere alla tecnologia per favorire il corretto e più rapido svolgimento del processo penale. (7) Così G.P. VOENA, L’esame a distanza, cit., p. 116, il quale acutamente osserva come le difficoltà relative all’adeguamento tecnologico del processo penale sono duplici. Per un verso, esso richiede ‘‘un certo bagaglio di conoscenze tecnico-scientifiche dalle quali l’analisi del dato normativo non può prescindere’’, per altro verso, esso implica un’attenta valutazione dei valori costituzionali — in primis del diritto di difesa — messi in discussione dall’uso dei nuovi mezzi tecnologici.
— 489 — Posto ciò, è facile dedurre la presenza di una sfida tra il « costruito » (il fare, l’artefatto) ed il « dato » (l’essere, il valore) (8); tra i vantaggi che l’elaborazione elettronica comporta ‘‘ai fini di una giustizia meglio organizzata e più efficiente’’ (9) e la conservazione dei valori fondamentali del processo penale. Ma tale scenario contrastante non giustifica un rifiuto aprioristico verso l’affermazione delle nuove tecnologie se non altro perché ogni sfida sarebbe destinata a sicura sconfitta in quanto l’inarrestabilità del progresso tecnologico destina il codice, nella sua immobilità, a divenire ben presto obsoleto. Ne deriva, allora, che il compito del giurista è quello di soppesare i divergenti interessi, di mitigare ‘‘l’asprezza dello scontro tra i fautori — gli ottimisti tecnologici — e gli oppositori — i pessimisti sociologici —’’ (10) dell’accesso degli strumenti tecnologici nel processo penale, di mediare tra le contrapposte esigenze onde consentire un adeguamento dell’apparato normativo alle moderne risorse offerte dalla tecnica. 2. In questa prospettiva di « elasticità processuale » si colloca l’apertura del legislatore all’impiego nel dibattimento di apparecchiature di telecomunicazione (in altre parole, di strumenti capaci di ricevere immagini e suoni provenienti da una postazione e di trasmetterli direttamente in un’altra attraverso l’uso di telecamere e monitors) che permettono di instaurare un collegamento audiovisivo a distanza tra la sala di udienza e la « postazione remota » (11). Nella sua prima apparizione normativa, contenuta nell’art. 147-bis (8)
L’espressione appartiene a S. COTTA, La sfida tecnologica, Il Mulino, 1968, p.
179. (9) Cfr. M. CHIAVARIO, L’impatto delle nuove tecnologie, cit., p. 139. (10) L’osservazione è di G.P. VOENA, Contributi giurisprudenziali, cit., p. 426. (11) Con l’espressione ‘‘collegamento audiovisivo’’ il legislatore consolida nel linguaggio normativo la modalità tecnica attraverso la quale effettuare l’esame a distanza. Comunque, sin dal 1992, gli studiosi adottano una terminologia variegata per definire l’istituto de quo. Ad esempio, A. MELCHIONDA fa uso del termine ‘‘telesame’’ (ID., sub art. 147 disp. att. c.p.p., cit., p. 322), M. NUNZIATA conia il termine ‘‘telecollegamento’’ (ID., La partecipazione al dibattimento mediante ‘‘collegamento audiovisivo’’ a distanza: prodromo della ventura smaterializzazione del processo penale, in Arch. n. proc. pen., 1996, p. 327 ss.), M. PISANI parla di ‘‘Teleconfronto’’ (ID., Teleconfronto, in Ind. pen., 1993, p. 225) e G. TRANCHINA di ‘‘Teletestimonianza’’ (ID., La ‘‘teletestimonianza’’ e i diritti della difesa, in Giornale di Sicilia, 31 maggio 1996, p. 39). Con l’entrata in vigore della l. n. 11/1998 — istitutiva dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. (Partecipazione al dibattimento a distanza) —, G.P. Voena adotta l’espressione ‘‘teleconferenza’’ ovvero ‘‘videoconferenza’’ (ID., L’esame a distanza, cit., p. 116 ss.) per definire la partecipazione dell’imputato al dibattimento mediante strumenti di riproduzione audiovisiva che consentono la contestuale visibilità ed il contestuale ascolto delle persone presenti nelle due postazioni. Il termine, tuttavia, non può essere impiegato per l’esame a distanza in cui, ai sensi dell’attuale art. 147-bis disp. att. c.p.p., il collegamento audiovisivo non è duplice (ossia two-way) poiché impedisce al testimone di vedere ed ascoltare ciò che accade in udienza (ossia one-way).
— 490 — disp. att. c.p.p. (12), introdotto dall’art. 7, comma 2, d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356 (13), l’utilizzazione del collegamento audiovisivo è disposta per l’esame delle persone ammesse, in base alla legge, a programmi o a misure di protezione (i cc.dd. collaboratori di giustizia) (14) (15). Lo scopo della norma, infatti, è quello di evitare che l’esame di tali soggetti, esposti per la loro collaborazione prestata alla giustizia al rischio di ritorsione, si possa tradurre in un’occasione di grave pericolo per la loro incolumità fisica. Per esempio, così da intendere meglio il senso della norma, si ponga mente alla categoria dei cc.dd. pentiti i quali, in ragione del loro apporto collaborativo, sono comunemente (12) La norma inquadra l’esame a distanza nella più generica previsione dell’esame dei soggetti ‘‘protetti’’ (i collaboratori di giustizia) eseguito con le necessarie cautele volte alla tutela dell’esaminando. Laddove non si adotti lo strumento audiovisivo, si può procedere ad un esame protetto mediante l’uso di gabbiotti, cabine etc. Per un ampio commento della normativa v. A. MELCHIONDA, sub art. 147-bis disp. att. c.p.p., in Commento al codice di procedura penale, cit., II agg., 1993, p. 306 ss. L’autore sottolinea come la collocazione topografica dell’articolo in esame tra le disposizioni di attuazione del codice sia insoddisfacente e riduttiva dal momento che l’esame a distanza, rientrando nell’ambito dell’assunzione-formazione della prova, può ben figurare tra le disposizioni relative all’esame del testimone, del perito, del consulente tecnico e delle parti private. (13) Per una lettura dell’istituto nel contesto della legislazione ‘‘antimafia’’ v. M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso. Ipotesi tipiche e modi di utilizzabilità, Giuffrè, 1994, p. 158 e p. 201 ss.; G. CONTI, Le modifiche alla disciplina processuale penale, in Guida al diritto, 11 giugno 1992, n. 113, p. 42; G. NANULA, La lotta alla mafia. Strumenti giuridici. Strutture di coordinamento. Legislazione vigente, III ed., Giuffrè, 1996, p. 472; P.P. RIVELLO, Commento all’art 7 d.l. n. 306/1992, in Leg. pen., 1993, p. 96 ss.; A. SCANDELLARI-G. VOLPE, Le modificazioni al processo penale ex d.l. 8 giungo 1992, n. 306, in Giust. pen., 1992, III, c. 461 s. (14) Ci si riferisce a tutti coloro i quali si trovano nelle condizioni descritte nell’art. 9 del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 convertito, con modificazioni, nella l. 15 marzo 1991, n. 81, cioè ‘‘delle persone esposte a grave ed attuale pericolo per effetto della loro collaborazione o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, relativamente ai delitti previsti dall’art. 380 c.p.p.’’. Sul punto v. D. MANZIONE, Commento agli artt. 9 e 10 d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, in Leg. pen., 1992, p. 676 ss.; v., inoltre, V. BORRACCETTI, Collaboratori di giustizia e processo penale, in Quest. giust., 1997, p. 319 ss.; M. LAUDI, voce Imputati pentiti (sistema di protezione), in Dig. disc. pen., IV ed., vol. VI, Utet, 1992, p. 272 ss.; G. NEPPI MODONA, I ‘‘collaboratori della giustizia’’. Le garanzie per gli accusati e la protezione degli accusatori nel sistema processuale nord-americano, in Quest. giust., 1988, p. 163 ss. (15) Il comma 2 dell’art. 147-bis disp. att. c.p.p., aggiunto alla legge di conversione, stabilisce che le modalità impiegate per l’esame a distanza dei soggetti sottoposti a programmi o a misure di protezione, su richiesta di parte, possono essere applicate anche per l’esame delle persone di cui è disposta la nuova assunzione ex art. 495, comma 1, c.p.p. e per coloro la cui comparizione in dibattimento ai fini dell’esame risulti gravemente difficile. Per alcune perplessità in merito all’ampiezza di tale comma v. F. ALESSANDRONI, Videotestimonianza, esigenze del contraddittorio e diritto di difesa, in Cass. pen., 1997, p. 2892 ss.; M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, cit., p. 207 s.; A. MELCHIONDA, sub art. 147-bis disp. att. c.p.p., cit., p. 327 ss.; P.P. RIVELLO, Commento all’art. 7, cit., p. 96.
— 491 — destinatari delle attività intimidatorie troppe volte poste in essere nei processi alla criminalità di stampo mafioso, talché le loro incontrollate peregrinazioni da un’aula di udienza ad un’altra rappresentano un pericolo per la sicurezza e per l’usura della fonte di prova (16). Purtroppo, l’introduzione di tale innovativa modalità di esperimento dell’esame viene accolta dal legislatore entro confini angusti, forse per la straordinaria portata innovativa dell’argomento (17). Invero, l’adozione del collegamento audiovisivo risulta essere meramente facoltativa — e non obbligatoria —, essendo legata, in primo luogo, ad una valutazione di opportunità del giudice del dibattimento in relazione alle esigenze di protezione e sicurezza delle persone da esaminare ed, in secondo luogo, alla concreta disponibilità degli strumenti tecnici idonei a consentire il collegamento (al momento assenti dalle aule di giustizia italiane e, comunque, altamente costosi (18)). Va da sé che tale scenario si configura davvero desolante poiché i ristretti margini imposti all’operatività dei collegamenti audiovisivi inducono inevitabilmente ad un’applicazione modesta dell’istituto. Ciononostante, la norma conserva il grande merito di avere dato conferma della maturata consapevolezza legislativa della necessità di coniugare due opposte esigenze. Da un lato, quella di sicurezza dei « collaboranti », la cui incolumità è messa in pericolo ogniqualvolta questi debbano presenziare al dibattimento, dall’altro lato, quella di rispetto dei caratteri della dialettica dibattimentale sui quali è incardinato l’attuale codice di procedura penale. Non a caso, in sede di discussione durante i lavori parlamentari di conversione del d.l. n. 306/1992, il Relatore chiarisce che ‘‘la previsione del nuovo art. 147-bis disp. att. c.p.p. è dettata dall’intuibile esigenza di salvaguardare l’immagine delle persone’’ ma, allo stesso tempo, di salvaguardare ‘‘l’oralità e la dinamica probatoria tipiche del (16) In ordine alla figura del ‘‘pentito’’ v. E. AMODIO, I ‘‘pentiti’’ nella common law, in questa Rivista, 1986, p. 991 ss.; A. D’ALTERIO, Pentiti e dissociati: le strategie premiali di contrasto della criminalità di stampo mafioso, in Legalità e giustizia, 1993, p. 454 ss.; G. FRIGO, Problemi deontologici, tecnici e psicologici nella gestione giudiziaria del ‘‘pentito’’: la posizione del difensore, in Cass. pen., 1991, p. 1176 ss.; G.A. VENEZIANO, Indipendenza del p.m., segreto investigativo e protezione dei pentiti (a proposito della sentenza n. 420 del 1995 della Corte costituzionale), ivi, 1996, p. 1040 ss. (17) Infatti, è possibile rinvenire un’unica ipotesi in cui il collegamento audiovisivo è ammesso nell’ordinamento processuale: nel caso di deliberazione del lodo dell’arbitrato internazionale, l’art. 837 c.p.c., introdotto dall’art. 24, comma 1, della l. 5 gennaio 1994, n. 25, ammette che gli arbitri si riuniscono per deliberare in conferenza personale, anche videotelefonica, salvo che le parti abbiano deliberato diversamente. (18) Cfr., in proposito, M. BARGIS, Udienze in teleconferenza con nuove cautele per i sottoposti all’art. 41-bis ord. penit., in Dir. pen. e proc., 1998, p. 159. Si parla, addirittura, di decine di milioni per un’ora di collegamento. L’attuale sistema, via rete telefonica, ha un costo marcatamente più basso pari a ottantamila lire per un’ora. Per ulteriori chiarimenti si rimanda al § 10.
— 492 — contaddittorio dibattimentale’’ (19); osservazione alla quale si aggiunge che ‘‘il collegamento audiovisivo permette comunque di esercitare, anche a distanza, il diritto di difesa mediante esame, controesame e contestazioni’’ (20). Sicuramente, queste indicazioni esprimono ampiamente il favore del legislatore nel senso di incardinare il collegamento audiovisivo nell’odierna sistematica processuale; anzi, sulla scia di questi rilievi favorevoli, l’impiego degli strumenti audiovisivi nel processo penale è stato oggetto di proposte di riforma legislative atte ad ampliarne il margine di utilizzabilità. Volendo ricordare brevemente i passaggi più innovativi di tale sviluppo propositivo, va richiamato l’art. 3 del d.d.l. d’iniziativa governativa n. 3433/1993 (21) (il primo ad aver presentato un progetto di riforma dell’art. 147-bis disp. att. c.p.p. ma non convertito in legge per l’anticipata fine della legislatura) posto che esso contempla un’ipotesi di collegamento audiovisivo assai diversa da quella descritta nell’art. 147-bis disp. att. c.p.p.: innanzitutto, l’articolo de quo consente la partecipazione a distanza dell’imputato e non più del solo collaborante, oltre a prevedere che siffatta partecipazione si estenda all’intero dibattimento e non alla sola fase dell’istruzione probatoria; ma soprattutto (e la portata innovativa della proposta si intuisce in questo), il suddetto articolo prevede un’attivazione « obbligatoria » del telecollegamento nel senso che il giudice è tenuto a disporlo, su istanza del pubblico ministero, tutte le volte in cui si è in presenza di un processo per uno dei delitti indicati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. e sussistano gravi ragioni di sicurezza. Non può passare inosservato come la normativa progettata operi un incisivo ampliamento dell’area di applicazione dei collegamenti a distanza, ma, allo stesso tempo, va ricordato che essa adotta delle specifiche cautele volte a non privare l’imputato delle garanzie difensive comunemente legate alla sua presenza fisica in dibattimento. Infatti, l’ultima parte del succitato art. 3 consente ‘‘al difensore o ad un suo sostituto di essere (19) Cfr. Relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 306, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XI legislatura, vol. I, p. 51; nell’intento di non alterare i caratteri tipici dell’esame dibattimentale e di assicurare la trasparenza, la genuinità e la libertà delle dichiarazioni, l’articolo de quo prevede che l’esame avvenga alla presenza — nella sede remota — dell’ausiliario del giudice o di altro pubblico ufficiale il quale attesti l’identità dell’esaminando e dia atto delle cautele adottate per assicurare la genuinità dell’esame. In sede di conversione, poi, al comma 1 si è aggiunta la previsione secondo la quale il telecollegamento deve assicurare la contestuale visibilità di tutte le persone presenti nella sede remota. (20) Cfr, l’intervento dell’on. Mastrantuono in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XI legislatura, Discussioni, seduta del 4 agosto 1992, p. 22. (21) Si tratta del d.d.l. presentato nel corso della XI legislatura dal Ministro di Grazia e Giustizia Conso di concerto con il Ministro dell’Interno Mancino (S/1167), approvato dal Senato della Repubblica il 1o dicembre 1993 (S/3433), trasmesso dal suo Presidente alla Presidenza della Camera dei Deputati il 2 dicembre 1993 ed esaminato presso la II Commissione (Giustizia) a partire dal 15 dicembre 1993.
— 493 — presente nel luogo remoto ove si trova l’imputato’’ e, nel caso in cui il difensore decida di rimanere in aula, ‘‘di collegarsi riservatamente con il suo assistito durante lo svolgimento dell’udienza’’. Nella prospettiva di un tangibile ampliamento delle ipotesi di applicabilità del collegamento audiovisivo (22) si colloca altresì il d.d.l. governativo n. 2482 (presentato al Senato il 23 gennaio 1996 ma anch’esso non varato per l’anticipata chiusura della XII legislatura (23)) il quale prospetta un’ipotesi di partecipazione dell’imputato anche alle udienze che si svolgono in camera di consiglio (art. 1) nonché una duplice ipotesi di partecipazione dibattimentale a distanza: quella di tipo obbligatorio (disposta anche d’ufficio — quindi, non solo su istanza del pubblico ministero — allorquando si procede per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. e si incorra in una delle seguenti condizioni: gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, particolare complessità del dibattimento, ovvero si tratti di detenuto nei cui confronti è stata disposta la sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza) e quella di tipo facoltativo, richiesta dall’imputato quando vi sia l’esigenza di evitare disagi causati dalla sua presenza fisica al dibattimento e sulla quale il giudice, in presenza della condizione suddetta, non ha margini di discrezionalità. È utile ricordare altresì che, sempre nell’ottica di un adeguato bilanciamento con i principi di oralità ed immediatezza, le previsioni contenute nel disegno di legge de quo garantiscono, per un verso, la presenza del difensore presso la sede remota e, comunque, una consultazione riservata con l’imputato e, per altro verso, una presenza nella postazione remota del pubblico ufficiale la quale è espressamente prevista al fine di consentire la piena esercitabilità dei diritti e delle facoltà difensive spettanti all’imputato (art. 2, comma 4) (24). (22) In tale scenario vanno menzionate anche le proposte di legge n. 3602 e 3607 (presentate alla Camera dei Deputati rispettivamente il 20 e il 21 dicembre 1995) che prospettano un vieppiù automatismo applicativo nell’attuazione della partecipazione dell’imputato al dibattimento mediante collegamento audiovisivo. Di poco successive, poi, le proposte di legge C481 (d’iniziativa del deputati Simeone ed altri, presentata il 9 maggio 1996), C1602 (d’iniziativa dei deputati Bonito ed altri, presentata il 21 giugno 1996) e C3632 (d’iniziativa dei deputati Neri ed altri, presentata il 29 aprile 1997). Il testo dei suddetti progetti legislativi è raccolto in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XIII legislatura, Dossier Provvedimento, luglio 1997, n. 450, p. 13 ss., p. 20 ss., p. 35 ss. (23) Siffatto disegno legislativo, recante norme sulla ‘‘Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e l’esame dei collaboratori di giustizia, nonché la modifica della competenza sui reclami in tema di art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario’’, è stato presentato dal Ministro ad interim di Grazia e Giustizia Dini in concerto con i Ministri Coronas (Interno), Dini (Tesoro) e Fantozzi (Bilancio e Programmazione economica — ad interim). (24) Il testo del d.d.l. S/2482 è in Guida al diritto, 20 luglio 1996, p. 110 ss.
— 494 — Le iniziative legislative appena illustrate potrebbero apparire poco significative in quanto mai convertite in legge. Tuttavia è indispensabile citarle perché esse danno conto dell’attenzione che l’uso processuale dei collegamenti audiovisivi ha riscontrato nell’ambito politico (25) e, soprattutto, perché rappresentano la più valida premessa ideologica e concreta sulla quale è costruito il disegno di legge governativo n. 1845 (S/2724) (26) recante la ‘‘Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonché modifica della competenza sui reclami in tema di art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario’’, che ha acquistato definitiva validità normativa con la l. 7 gennaio 1998, n. 11 (27). 3. Volendo delineare brevemente gli aspetti peculiari introdotti dalla l. n. 11/1998, è bene sottolineare il dato oggettivo più evidente: attualmente nel processo penale l’uso dei collegamenti audiovisivi è consentito in funzione della partecipazione al dibattimento dell’imputato e dell’esame delle persone che collaborano con la giustizia e degli imputati di reato connesso. Infatti, sono questi i titoli sotto i quali sono rubricati rispettivamente gli artt. 146-bis e 147-bis disp. att. c.p.p., anche se — in relazione alla partecipazione a distanza dell’imputato — l’art. 1 della legge in esame provvede ad inserire all’interno della normativa di attuazione l’art. 45-bis disp. att. c.p.p. in virtù del quale la partecipazione audiovisiva dell’imputato o del condannato è consentita anche nel corso delle udienze in camera di consiglio (quali l’udienza preliminare o l’udienza di riesame della misura cautelare (28)) sempreché si incorra nelle stesse condizioni e si adottino le stesse modalità previste per la partecipazione dibattimentale dall’art. 146-bis disp. att. c.p.p., commi 2, 3, 4 e 6 (29). (25) Dal canto suo, anche il C.S.M. auspica l’introduzione di siffatto istituto telematico nei processi di criminalità organizzata. Il contenuto della relativa delibera è in M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 160. (26) Approvato dalla Camera dei Deputati il 30 luglio 1997 e, in seguito alle modifiche apportate dalla II Commissione Permanente (Giustizia) del Senato il 2 dicembre 1997, definitivamente approvato dal Senato della Repubblica il 19 dicembre 1997. (27) Per un commento approfondito delle nuove norme introdotte dalla l. n. 11/1998 si rinvia a M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 158 ss. (28) F. ALESSANDRONI, Videotestimonianza, cit., p. 2900 s., si domanda se la generica formulazione della norma de qua consenta di inquadrare tra le udienze camerali richiamate anche quella prevista per l’incidente probatorio. A sostegno della sua conclusione affermativa v. A. MELCHIONDA, sub art. 147-bis disp. att. c.p.p., cit., p. 316 (nota n. 20). (29) La Relazione ministeriale del 11 luglio 1996 prospetta un’ampia applicazione della disposizione ‘‘essendo particolarmente numerosi i procedimenti o sub-procedimenti regolati dal codice di rito tramite il rinvio alla disciplina dell’art. 127 c.p.p.’’, tuttavia chiarisce che ‘‘il richiamo ai casi previsti dai commi 1 e 2 del nuovo art. 146-bis va... inteso, specialmente per quanto attiene all’ipotesi relativa alla complessità del dibattimento, nei limiti della compatibilità (una fattispecie potrebbe essere, ad esempio, quella del riesame o dell’appello
— 495 — Quest’ultima, del resto, è la previsione maggiormente innovativa contenuta nella l. n. 11/1998. Essa ridisegna i profili dell’istituto del collegamento audiovisivo, ampliandone la sfera di applicazione — precedentemente riconosciuta soltanto all’esame dibattimentale del collaborante dall’art. 147-bis disp. att. c.p.p. — con il proposito di permettere una deroga alla partecipazione fisica al dibattimento dell’imputato detenuto (a qualsiasi titolo) in carcere per un’imputazione relativa ad uno dei delitti indicati nell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. (ossia dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso), tutte le volte in cui sussistano gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, oppure il dibattimento — ove è protagonista l’imputato — si presenti particolarmente complesso e la sua partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nello svolgimento del processo stesso ovvero, infine, si tratti di detenuto cui è stata applicata la sospensione del trattamento penitenziario ordinario ex art. 41-bis l. 26 luglio 1975, n. 354. In altre parole, il nuovo art. 146-bis disp. att. c.p.p. delinea una sorta di automatismo applicativo nell’uso dei collegamenti audiovisivi in virtù del quale l’imputato è tenuto a partecipare a distanza al dibattimento quando si è in presenza di due presupposti: uno di tipo oggettivo, rappresentato dalla tipologia di delitti per cui si procede, l’altro di tipo soggettivo perché rimesso ad una valutazione discrezionale del giudice in ordine all’esistenza delle condizioni ambientali e funzionali del processo penale potenzialmente destinate a rappresentare una minaccia per la sicurezza dei soggetti coinvolti nel processo stesso nonché per il suo regolare svolgimento; ragioni, tutte, che hanno indotto il legislatore a preferire la partecipazione « audiovisiva » dell’imputato all’udienza ad una sua presenza « dal vivo » (30). Va detto, comunque, che nonostante l’art. 146-bis disp. att. c.p.p. alteri gli equilibri processuali, il legislatore de quo si preoccupa di definire, relativamente alle modalità attraverso cui attuare il collegamento, specifici presidi prefigurati a garanzia della pienezza di esplicazione del diritto di difesa. Essi sono di quadruplice ordine: il primo (e fondamentale) consiste avverso ordinanze in materia di libertà personale emesse in dibattimento)’’. Leggila in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XIII legislatura, cit., p. 6. (30) Dal punto di vista procedimentale, l’art. 147-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. prevede che la partecipazione a distanza sia disposta innanzitutto dal presidente del tribunale o della corte d’assise, anche d’ufficio, con decreto motivato (trattandosi di provvedimento pronunciato senza preventivo contraddittorio) emesso nella fase degli atti preliminari (in tale modo si evita di procedere alla celebrazione della prima udienza alla presenza fisica dell’imputato), ovvero dal collegio con ordinanza emessa nel corso del dibattimento. La Relazione ministeriale specifica che ‘‘il riferimento al tribunale o alla corte d’assise non impedirà evidentemente che l’istituto possa trovare applicazione anche nei procedimenti di competenza del pretore o in grado d’appello, attesi i generali richiami contenuti negli artt. 549 e 598 del c.p.p.’’, in Atti Parlamentari, ult. cit., p. 27.
— 496 — nell’attivazione di un collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza ed il luogo della detenzione idoneo ad assicurare la ‘‘contestuale, effettiva e reciproca visibilità’’ delle persone presenti nei due luoghi e la possibilità di udire quanto si dica (two way system), sì da permettere all’imputato di interagire con i protagonisti del processo nel corso dello svolgimento dell’udienza (si specifica, tra l’altro, che qualora la partecipazione a distanza venga disposta nei confronti di più imputati detenuti in luoghi diversi, ciascuno deve essere in grado di vedere ed udire gli altri)(comma 3). In secondo luogo, si prevede che un ausiliario del giudice o, quando non si procede ad esame, un ufficiale di polizia giudiziaria sia presente nel luogo in cui si trova l’imputato al fine di attestarne l’identità ed assicurare che lo stesso non patisca impedimenti o limitazioni all’esercizio del suo diritto di difesa. Egli, inoltre, dà atto della regolarità procedurale del collegamento con l’aula e del collegamento riservato con il difensore (comma 6) (31). In terzo luogo — con particolare riferimento alla difesa tecnica — si assicura il diritto ‘‘incondizionato’’ (32) del difensore o di un suo sostituto di essere presente nel luogo in cui risiede l’imputato o, comunque, di poter consultare riservatamente il proprio assistito per mezzo di idonei strumenti tecnici (comma 4) (33). In quarto luogo, si prevede comunque la presenza dell’imputato al dibattimento (per un tempo strettamente necessario) quando il giudice ritenga indispensabile, sentite le parti, procedere a confronto, a ricognizione dell’imputato o ad altro atto che implichi l’osservazione della sua persona (comma 7). Sebbene l’art. 146-bis disp. att. c.p.p. polarizzi l’attenzione degli studiosi per la pregnante portata innovativa di cui si caratterizza, non si può trascurare di analizzare le modifiche apportate in seno all’art. 147-bis (31) La formulazione del comma 6 dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. è dovuta all’emendamento presentato al Senato (dai senatori Centaro e Greco, emendamento n. 2.23) il quale, discostandosi dalla formulazione approvata dalla Camera secondo cui si poteva procedere liberamente tanto alla nomina dell’ausiliario del giudice quanto a quella dell’ufficiale di polizia giudiziaria, inizialmente prevedeva una nomina eventuale dell’ufficiale di polizia giudiziaria (nei soli casi di urgenza) per ovvie esigenze di carenza del personale amministrativo; in seguito, è stato riformulato (emendamento presentato dal sen. Centaro) nel senso di limitare l’assistenza dell’ufficiale soltanto alle ipotesi in cui l’imputato assiste al dibattimento, posta la minore pregnanza della sua funzione certificativa rispetto a quella dell’ausiliario abilitato ad assistere il giudice all’udienza. V. Atti Parlamentari, II Commissione Permanente del Senato della Repubblica, seduta del 2 dicembre 1997, p. 10 ss. (32) In questi termini v. Relazione al d.d.l. n. C/1845, cit., p. 6. (33) Nel corso dei lavori parlamentari, si è prospettata l’ipotesi di una presenza obbligatoria, a pena di nullità, del difensore o di un suo sostituto nel luogo in cui si trova l’imputato (emendamento n. 2.7 presentato del deputato Siniscalchi, in Atti Parlamentari, II Commissione Permanente (Giustizia) della Camera dei Deputati, seduta del 22 luglio 1997, p. 26, e emendamento n. 2.21 presentato dai senatori Centaro e Greco, in Atti Parlamentari, II Commissione Permanente (Giustizia) del Senato della Repubblica, seduta del 2 dicembre 1997, p. 11).
— 497 — disp. att. c.p.p. dalla l. n. 11/1998, anch’esse altamente significative. Infatti, le novità introdotte dal legislatore incidono marcatamente sull’istituto dei collegamenti audiovisivi, mutando i profili del precedente « Esame a distanza ». Già dal tenore della rubrica (‘‘Esame delle persone che collaborano con la giustizia e degli imputati di reato connesso’’ invece di ‘‘Esame delle persone che collaborano con la giustizia’’) si intuisce in che misura le ipotesi di esame a distanza siano dilatate dal nuovo legislatore. Mantenute ferme le due previsioni secondo le quali l’esame a distanza può essere disposto, per un verso, nei confronti delle persone ammesse, in base alla legge, a programmi o misure di protezione ove siano disponibili strumenti tecnici idonei a consentire siffatto collegamento (comma 2) e, per altro verso, nei confronti della persona di cui è stata disposto un nuovo esame a norma dell’art. 495, comma 1, c.p.p. ovvero presenti gravi difficoltà a comparire in udienza (comma 5), poi il legislatore introduce — innovando — un’ipotesi di esame a distanza c.d. « obbligatorio ». Infatti, sebbene i lavori parlamentari abbiano condotto ad una contrazione di questa ipotesi — talché nella sua attuale formulazione essa attribuisce al giudice il potere di richiedere la comparizione personale del testimone quando ritenga la sua presenza ‘‘assolutamente necessaria’’ (34) —, l’esame audiovisivo assume carattere obbligatorio in presenza di una delle tre ipotesi contemplate dall’art. 147-bis, comma 3, disp. att. c.p.p.: la prima relativa all’esame delle persone ammesse a programmi o misure di protezione sempre che si proceda per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., la seconda relativa all’esame delle persone soggette a cambiamento delle generalità ex art. 3, d.l. 29 marzo 1993, n. 119 e nei cui confronti la nuova disposizione consente di disporre tutte quelle cautele idonee ad evitare la visibilità del volto della persona (35) ed, infine, la terza relativa ai processi di cui all’art. 51, (34) Al momento della sua presentazione ad opera del Ministro di Grazia e Giustizia alla Camera dei Deputati il 11 luglio 1996, il d.d.l. n. 1845 prevedeva il carattere obbligatorio dell’esame effettuato mediante collegamento audiovisivo in presenza di una delle ipotesi contemplate nelle lett. a), b) e c) del comma 3 dell’articolo in commento. Nel corso della discussione in seno alla Camera dei Deputati, si è espressa l’esigenza di ridimensionare tale carattere obbligatorio in favore di un potere discrezionale del giudice posto che ‘‘la norma, operando in un regime emergenziale, si trova al limite della costituzionalità in riferimento al doppio binario del regime probatorio. Pertanto... (è) opportuno affidare al magistrato la scelta di disporre il dibattimento a distanza’’ (C. Carrara) ed, inoltre, perché ‘‘nella pratica, spesso i collaboratori di giustizia considerano giusto presentarsi in Aula, per cui l’obbligatorietà del dibattimento a distanza non sembra condivisibile’’ (G. Pisapia) in Atti Parlamentari, II Commissione Permanente (Giustizia) della Camera dei Deputati, seduta del 24 luglio 1997, p. 37. (35) Nei confronti di questa categoria, inoltre, il nuovo art. 147-ter disp. att. c.p.p. prevede che il giudice, ove lo ritenga indispensabile, autorizzi o ordini la citazione o disponga l’accompagnamento coattivo del teste al fine di procedere alla ricognizione ovvero ad
— 498 — comma 3-bis, c.p.p. per l’esame delle persone imputate in un procedimento connesso (art. 210 c.p.p.) nei cui confronti si procede per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., anche se vi è stata separazione dei procedimenti. Naturalmente, anche relativamente al « telesame », il legislatore si preoccupa di assicurare che il meccanismo audiovisivo non leda il diritto di difesa dell’imputato; a questo proposito, l’art. 147-bis disp. att. c.p.p. mira a preservare la regolarità della conduzione incrociata dell’esame attraverso la presenza nella postazione remota di un ausiliario abilitato ad assistere il giudice in udienza che attesta le generalità dell’esaminando e da atto della corretta osservanza delle regole preposte alla disciplina dell’istituto e delle cautele adottate per assicurare la regolarità dell’esame (comma 2). 4. Si è già detto quanto veritiere si siano dimostrate le previsioni « pessimistiche » di quella autorevole dottrina in vista del difficile adattamento del processo penale alle moderne risorse offerte dal progresso tecnologico (36); a ben vedere, relativamente al tema in esame, queste difficoltà non mancano di interessare la disciplina dei « collegamenti audiovisivi » che, sin dalla sua prima versione contenuta nell’art. 147-bis disp. att. c.p.p., è stata oggetto di eccezioni di incostituzionalità (37) e, negli ultimi mesi, ha subito anche gli attacchi di una parte della dottrina processual-penalistica (38). Naturalmente, i dubbi sollevati nei confronti dell’esame e della partecipazione a distanza investono i profili garantistici riconosciuti dal codice 1988 all’imputato, nel senso che sull’art. 147-bis, prima, e sull’art. 146bis disp. att. c.p.p., dopo, si fa gravare il sospetto di una lesione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e di una violazione del principio di eguaglianza di trattamento (art. 3 Cost.) a discapito dell’imputato stesso. Comunque, prima di ricostruire i punti più salienti della disputa incorsa tra gli oppositori ed i fautori dell’introduzione della disciplina del collegamento a distanza nel processo penale, occorre svolgere alcune considerazioni. altro atto che implichi la sua osservazione per il tempo strettamente necessario al compimento dell’atto stesso. In questo tempo, il dibattimento si svolge a porte chiuse ex art. 473, comma 2, c.p.p. (36) Cfr. § 1. (37) Le ordinanze di manifesta infondatezza, non pervenute alla cognizione della Corte costituzionale, sono: Trib. Palermo, 29 maggio 1996, Andreotti, in Foro it., 1996, II, c. 430 ss.; Ass. Reggio Calabria, 10 gennaio 1996, richiamata dal Parere espresso il 23 novembre 1996 dal C.S.M., in C.S.M. Notiziario, 1996, p. 11; Ass. Torino, 22 luglio 1993, in Dif. pen., 1994, v. 44, p. 102. (38) Cfr., tra gli altri, F. ALESSANDRONI, Videotestimonianza, cit., p. 2890 ss.; G. TRANCHINA, La ‘‘teletestimonianza’’, cit., p. 39.
— 499 — In primo luogo, sul piano rigorosamente giuridico, sarebbe farisaico disconoscere la singolarità o, meglio, la non perfetta coincidenza degli strumenti audiovisivi con la struttura tradizionale del processo penale (39). Ben si intuisce come la partecipazione a distanza dell’imputato (art. 146-bis disp. att. c.p.p.) e l’esame a distanza del collaborante e dell’imputato di reato connesso (art. 147-bis disp. att. c.p.p.) non siano la stessa cosa della partecipazione e dell’esame effettuati dal vivo nel contesto spaziale e temporale dell’udienza (40). Infatti, sino a pochi anni orsono (precisamente prima dell’entrata in vigore dell’art. 147-bis disp. att. c.p.p.), nessun dubbio è stato mai sollevato sul fatto che la « forma processuale » tipica della scena dibattimentale è quella che impone la presenza in aula di tres personae (giudice, pubblico ministero e imputato) e, nel caso di assunzione della testimonianza, anche del testimone cui spetta, tra l’altro, un posto in aula da dove egli sia ‘‘più agevolmente visibile da parti e giudice’’. In altre parole, lo spettacolo processuale si svolge nel « luogo sacro » dell’udienza dove ‘‘gli attori vi celebrano cose fuori dal mondo profano’’ (41). Non stupisce, allora, che l’ingresso dei meccanismi di riproduzione audiovisiva capaci di sostituire la presenza « fisica » del testimone o dell’imputato con quella degli stessi « elettronicamente prodotta » al dibattimento rappresenti una novità formale e simbolica nelle attività processuali, destinate così a perdere definitivamente il loro originario connotato di fisicità (42). In secondo luogo, sul piano delle scelte di politica giudiziaria, è facile accorgersi delle ragioni che hanno indotto il legislatore a prevedere e, poi, ad ampliare le ipotesi di collegamento audiovisivo a distanza, pur nella consapevolezza che a fronte di tali esigenze sarebbe corrisposta una vistosa alterazione della regolare forma del processo penale. A ben vedere, in generale, entrambe le fattispecie (partecipazione ed esame a distanza) rappresentano delle misure differenziate adottate dal legislatore per far fronte alle difficoltà di accertamento dei gravi reati a struttura associativa commessi dalla grande criminalità organizzata. (39) Così G. TRANCHINA, La ‘‘teletestimonianza’’, cit., p. 39. Allo stesso modo per G. ILLUMINATI, Giudizio, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. CONSO e V. GREVI, IV ed., Cedam, 1996, p. 564, ‘‘la migliore ripresa televisiva (anche se « tale da assicurare la contestuale visibilità delle persone presenti », come scrive l’art. 147bis, comma 1) non potrà mai sostituire perfettamente la presenza fisica del dichiarante’’. (40) ‘‘L’impossibilità di ridurre a zero la differenza tra il cosiddetto processo virtuale... ed il processo reale’’ è evidenziata da G.P. VOENA, L’esame a distaraza, cit., p. 118. (41) Le espressioni appartengono a F. CORDERO, Procedura penale, III ed., Giuffrè, 1995, p. 789 ss. (42) Addirittura M. NUNZIATA, La partecipazione al dibattimento mediante ‘‘collegamento audiovisivo’’, cit., p. 329, prefigura un futuro prossimo in cui il processo penale subirà una progressiva smaterializzazione tale da condurre alla sostituzione di tutte le attività implicanti uno spostamento fisico con attività ‘‘virtuali’’.
— 500 — In particolare, relativamente alla partecipazione a distanza dell’imputato, la ratio dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. si coglie quando si pone mente alle specifiche e complesse connotazioni fenomeniche di tali organizzazioni criminose (quali l’articolata struttura dell’associazione radicata nell’intero territorio, l’elevato numero di imputati coinvolti in uno stesso processo, la contemporanea partecipazione di un imputato in più processi) che, sommate soprattutto alla consuetudine per la quale gran parte degli imputati (comunemente detenuti) si avvalgono spesso del diritto di presenziare al dibattimento personalmente, condizionano pesantemente i tempi di definizione dei giudizi e sono di intralcio alla continuità nella trattazione del singolo processo per la necessità delle continue traduzioni degli imputati da una sede all’altra. Per non parlare del serio pericolo che la moltiplicazione di siffatti trasferimenti comporta per l’ordine pubblico e per la sicurezza dell’imputato stesso e delle forze dell’ordine, nonché per il rischio di vedere vanificata l’effettività dei provvedimenti di sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario adottati ex art. 41-bis, comma 2, l. 26 luglio 1975, n. 354 (strumenti atti a garantire l’interruzione dei rapporti tra il detenuto e il resto dell’associazione) e, infine, per la pesante incidenza dei costi connessi alla traduzione degli imputati detenuti (43). Relativamente all’esame a distanza del testimone che collabora con la giustizia e dell’imputato di reato connesso (art. 147-bis disp. att. c.p.p.), le esigenze soddisfatte dall’uso processuale del collegamento audiovisivo non sono meno importanti in considerazione dei pericoli per la sicurezza e per l’usura della fonte di prova che le ‘‘incontrollate peregrinazioni di pentiti da un aula di udienza ad un’altra’’ causano (44). È nota a tutti l’alta capacità intimidatoria posta in essere nei processi della grande criminalità nei confronti dei collaboratori di giustizia onde indurli a sottrarsi a responsabilità testimoniali perché intimoriti o minacciati, o nel bene dell’incolumità o in quello patrimoniale, propri e dei familiari (45). (43) In questi termini v. Relazione al d.d.l. n. C/1845, cit., p. 2 ss. (44) Cfr. M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, cit., p. 158. (45) Cfr. A. MELCHIONDA, sub art. 147-bis disp. att. c.p.p., cit., p. 308; nonché G. DI FEDERICO, Processo penale e tecnologie video, in AA.VV., Verbalizzazione degli atti processuali, tecnologie video e gestione dell’innovazione nell’amministrazione della giustizia, a cura di G. DI FEDERICO-G.F. LANZARA-A. MESTITZ, CNR, 1993, p. 30 s. L’attualità del problema è avvertita anche a livello europeo. Risale, infatti, al 23 novembre 1995 la Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea (n. 95/C 327/04) sulla ‘‘protezione dei testimoni nella lotta contro la criminalità organizzata’’, in cui si esprime efficacemente la consapevolezza della necessità di un bilanciainento tra i diritti del testimone e i diritti della difesa. Per maggiori approfondimenti si rinvia a E. SELVAGGI, Il difficile bilanciamento tra esigenze di difesa della società e diritti della difesa: il teste anonimo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1996, p. 2419 ss. Più di recente il Consiglio dell’Unione Europea ha
— 501 — A questo punto, quanto appena detto sui fenomeni negativi prodotti dalle procedure di traduzione degli imputati e dei soggetti collaboranti, dimostra ampiamente quali e quanti siano i vantaggi insiti nei sistemi di collegamento audiovisivo per mezzo dei quali tali soggetti possono presenziare al dibattimento a distanza. Ciò nonostante, si è anche ricordato come tale procedura comporti un’evidente anomalia all’interno delle regole tradizionali del processo penale. Il nodo della questione, però, non nasce da questo contrasto tra le opposte esigenze di salvaguardia del bene superiore della persona e della giustizia e di conservazione dei canoni sistematici del processo, se non altro perché si ritiene che il processo sia destinato inevitabilmente ad evolversi, dovendo stare al passo con i progressi offerti dalla tecnica. Il punto decisivo, allora, è un altro: occorre, cioè, verificare se la presenza elettronicamente prodotta al dibattimento dell’imputato e del testimone rappresenti una variante di tipo meramente formale rispetto agli schemi tradizionali del processo, non coinvolgendo valori irrinunciabili, oppure assuma un connotato sostanziale tale da incidere negativamente sul contesto delle garanzie difensive accordate all’imputato dal legislatore del 1988 (nel senso che la presenza fisica al dibattimento tanto dell’imputato quanto del testimone riveste carattere strumentale rispetto alla realizzazione di siffatte garanzie). In altre parole, l’interrogativo si traduce nella diversa impostazione data al problema dagli oppositori e dai fautori degli istituti in esame sicché i primi ravvisano negli artt. 146-bis e 147-bis disp. att. c.p.p. un contrasto di interessi in cui a soccombere sono i principi fondamentali del processo (identificati nel diritto di difesa dell’imputato, soprattutto in quella sua particolare esplicazione che è il diritto al contraddittorio), mentre i secondi vi ravvisano un ragionevole bilanciamento di interessi in cui a fronte di innegabili vantaggi offerti dagli strumenti audiovisivi corrisponde un minimo sacrificio equivalente ad un’alterazione dell’assetto meramente formale del processo penale. 5. Si è appena detto che alla categoria dei cc.dd. oppositori (46) appartengono coloro i quali rinvengono nell’esame del collaboratore di giustizia effettuato mediante collegamento audiovisivo (i commenti prevaadottato una Risoluzione sui ‘‘collaboratori di giustizia nella lotta contro la criminalità’’ con la quale invita gli Stati a valutare l’opportunità di prevedere misure di protezione appropriate per costoro. In Internet: http://www.jei.it.diritti umani/europa/news.htm17. (46) Tra questi F. ALESSANDRONI, Videotestimonianza, cit., p. 2898; R. ORLANDI, Il procedimento penale per fatti di criminalità organizzata dal maxi-processo al ‘‘grande processo’’, in AA.VV., Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, a cura di G. GIOSTRA e G. INSOLERA, Giuffrè, 1995, p. 91; D. SIRACUSANO, ivi, p. 19; G. TRANCHINA, La ‘‘teletestimonianza’’, cit., p. 39.
— 502 — lenti, infatti, hanno ad oggetto tale figura e non anche quelle dell’esame a distanza dell’imputato di reato connesso e della partecipazione a distanza dell’imputato poiché queste due figure hanno assunto valenza normativa soltanto pochi mesi orsono con l’introduzione della l. n. 11/1998) una rilevante limitazione del diritto di difesa garantito all’imputato dall’art. 24 Cost., nel senso che l’assenza dell’esaminando dall’aula dibattimentale, impedendo il regolare svolgimento dell’esame incrociato secondo le regole fissate negli artt. 498 ss. c.p.p., condiziona pesantemente il corretto esercizio del diritto alla prova (47), in cui — è noto — il diritto di difesa trova la sua componente più qualificante (48). Ma vi è di più: da parte di suddetta dottrina si obbietta altresì che l’anomalia insita nell’escussione elettronica della persona da esaminare non determina una violazione del diritto di difesa soltanto sotto il profilo della garanzia individuale (ossia del diritto alla prova) ma anche sotto il profilo della garanzia oggettiva (ossia dell’efficacia epistemologica del contraddittorio). In altre parole, l’assenza dell’esaminando dall’aula dibattimentale — nel corso dell’esame diretto, del controesame e dell’eventuale riesame — impedisce alla prova de qua di potere essere riguardata (come, invece, avviene alla presenza in aula del dichiarante) come espressione compiuta del diritto alla prova ed, altresì, come strumento di conoscenza giudiziaria. Dal punto di vista metodologico, per comprendere le ragioni poste a base della critica mossa dalla dottrina de qua, è bene evidenziare brevemente questi due profili di cui comunemente si connota il metodo di escussione orale della testimonianza o dell’esame (49) (si tenga presente, infatti, che l’originario art. 147-bis disp. att. c.p.p. richiama la categoria ‘‘ibrida’’ del collaboratore di giustizia il quale, da un punto di vista strettatnente probatorio, può assumere sia il ruolo di testimone sia quello di imputato in un procedimento connesso). In ordine al primo profilo, va rammentato innanzitutto che la successione delle domande e delle contestazioni di cui si connotano l’esame di(47) Questo è il senso fatto proprio dall’eccezione di incostituzionalità sollevata dinanzi al tribunale di Palermo (Trib. Palermo, 29 maggio 1996, Andreotti, cit.), sulla quale l’organo giudicante ha pronunciato un’ordinanza di manifesta infondatezza. Il contenuto dell’eccezione è in Internet: http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/tribunale/AND0529.HTML — Udienza del 29 maggio 1996. (48) Ritiene che il diritto alla prova sia, non solo un aspetto del diritto di difesa, ma il diritto stesso di difesa giudiziaria sul terreno della prova, G. VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in questa Rivista, 1968, p. 3 ss. (49) Cfr. G. FRIGO, sub art. 498 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. V, 1991, p. 232 ss. Nello stesso senso, secondo P. FERRUA, Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, vol. II, Giappichelli, 1992, p. 77 s., concepire l’esame incrociato solo come diritto individuale ‘‘è una mossa equivoca, sfruttata dai suoi detrattori per evidenziare un conflitto con le esigenze di ricerca della verità e sollecitarne un’applicazione riduttiva in rapporto a certe categorie di reati o a date forme di criminalità’’.
— 503 — retto ed il controesame si propone come espressione compiuta del diritto difensivo alla prova in quanto la partecipazione contemporanea e contrapposta delle parti all’assunzione delle dichiarazioni testimoniali consente il corretto esercizio di quel diritto « sul » mezzo di prova, inteso come diritto di gestire e rappresentare la prova nel modo più compiuto. Infatti, la tecnica dell’esame incrociato sembra la più idonea a ‘‘fare esprimere al mezzo di prova ogni riposta capacità di rappresentazione’’ (50), concorrendo ad esaltare il potere dispositivo riconosciuto alle parti dal legislatore del 1988 (51). Non a caso, alcuni enunciati normativi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 6.3, lett. d) e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 14.3, lett. e) danno contenuto al diritto alla prova nella sua più esatta connotazione di ‘‘diritto di interrogare o fare interrogare i testimoni a carico e di ottenere la convocazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico’’ (52). In ordine al secondo profilo, non v’è dubbio che l’escussione incrociata dell’esaminando assume anche un risvolto diverso da quello strettamente garantistico nel senso che essa si eleva altresì a criterio epistemologico ‘‘o, se si preferisce, a principio metodologico da seguire per approssimarsi al vero’’ (53). Infatti, al di là del volere delle parti, il confronto dialettico al quale l’esame incrociato dà vita, quello scontro, cioè, insito nel contraddittorio per la prova che caratterizza l’escussione incrociata dell’e(50) Cfr. D. SIRACUSANO, Le prove, in D. SIRACUSANO-A. GALATI-G. TRANCHINA-E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, II ed., vol. I, Giuffrè, 1996, p. 348. Parla di contraddittorio argomentativo svolto nel corso dell’esame secondo le regole della procedura adversary M. CHIAVARIO, Garanzie ed efficienza della giustizia penale. Temi e problemi, Giappichelli, 1998, p. 43. (51) È questo uno degli aspetti nei quali si specifica il diritto alla prova; ma può parlarsi di diritto alla prova anche con riferimento al ‘‘diritto all’ammissibilità della prova’’ (artt. 190, 493, 495, 512 e 513 c.p.p.) e al ‘‘diritto alla corretta elaborazione della prova’’ (artt. 495, commi 1 e 4, c.p.p.). Per approfondimenti sul tema v. V. GAROFOLI, L’introduzione della prova testimoniale nel nuovo processo penale, Giuffrè, 1992, p. 9 ss.; più di recente, D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 347 ss. (52) Per una più ampia disamina della disciplina normativa contenuta negli Atti internazionali in relazione alla prova testimoniale, v. V. GAROFOLI, L’introduzione della prova testimoniale, cit., p. 27 ss. Brevemente, si può anticipare che le disposizioni convenzionali rinvengono nel c.d. right of confrontation, ossia nel diritto di confrontarsi e controesaminare i testimoni a carico, e nel c.d. right of compulsory process, ossia nel diritto di ottenere la comparizione ed esaminare i testimoni a discarico, i fondamenti del metodo di escussione probatoria della testimonianza ma, data la centralità che questi rivestono all’interno del contesto normativo dedicato alla prova, finiscono con l’assumere la veste di strumenti attraverso i quali il legislatore internazionale ha inteso accrescere il contenuto del diritto delle parti alla prova. In questo senso v., altresì, G. FRIGO, sub art. 498 c.p.p., cit., p. 234. (53) Cfr. P. FERRUA, Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 45 ss.
— 504 — saminando, presenta una pregnante validità gnoseologica (54) perché è nell’esame diretto, nel controesame e nel riesame che le parti raggiungono la tecnica migliore per accertare la verità (55) o, secondo una diversa angolatura, per scoprire la falsità (56). D’altra parte, se è vero che le dichiarazioni rese dall’esaminando si traducono in una prospettazione del vissuto che non può prescindere da come questo è stato recepito e da come viene rivissuto al momento dell’esternazione (57), allora l’esame incrociato rappresenta « un potente strumento » per rendere più affidabile siffatta prospettazione e di conseguenza più affidabile la sua validità gnoseologica ai fini processuali (58). Non a caso, sempre nei Paesi anglosassoni, e più in generale nella cultura della tradizione di common law, l’esame incrociato (nel suo serrato alternarsi di domande e risposte su fatti specifici) è definito l’unico strumento (54) Di ‘‘Gnoseologia della testimonianza’’ parla F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 605 ss., secondo il quale ‘‘ad eruendam veritatem non esiste tecnica migliore’’ (p. 612). (55) Secondo C. TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. II, Giappichelli, 1995, p. 19 ss., se la prova, già di per sé, costituisce il sostitutivo della certezza nell’esplicazione della logica del probabile (fatta propria dal legislatore 1988), la testimonianza, che è prova per eccellenza, rappresenta lo strumento probatorio più idoneo a raggiungere una consistente certezza giuridica. Inoltre, per P. TONINI, La prova penale, Cedam, 1997, p. 54, l’esame del testimone assume il connotato di garanzia di veridicità degli assunti perché il risultato dell’operazione, cioè la prova, si forgia attraverso il contraddittorio e, inutile dirlo, ‘‘la verità si conosce tanto meglio quanto più è permessa la dialettica delle parti in conflitto’’. Secondo A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, VI ed., Giuffrè, 1997, p. 363, ‘‘Il testimone diviene « strumento » di ricerca della verità condotta dalle parti, attraverso la verifica dell’escussione diretta, che tende ad accertare non solo la sincerità del teste, ma anche la corrispondenza delle sue espressioni verbali al suo pensiero e l’attendibilità sia delle sue percezioni originarie sia della sua memoria rivelatrice’’. Più in generale, sul valore epistemologico del contraddittorio si sono espressi L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 1990, p. 40 ss.; P. FERRUA, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità e al contraddittorio, in Pol. dir., 1989, p. 251; G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. UBERTIS, Giuffrè, 1992, p. 1 ss. Sul valore epistemologico della dialettica, v., inoltre, G. CALOGERO, Logo e dialogo, Ed. Comunità, 1950, p. 126 ss., secondo il quale ‘‘il metodo dialogico vale da solo più di tutti i sistemi di logica che siano stati inventati su questa terra’’. Dello stesso avviso, e per tutti, v. C. PERELMAN, Congetture e confutazioni, Il Mulino, 1994. (56) Cfr. P. FERRUA, Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 101, secondo il quale ‘‘il maggior pregio dell’esame incrociato sta nella sua capacità non tanto di accertare la verità, quanto di scoprire la menzogna; funzione importante, dato che nel processo, come altrove, spesso è decifrando le menzogne che si raggiunge la verità’’. (57) Secondo F. CARNELUTTI, Lezioni dir. proc. civ., vol. II, Cedam, 1986 (ristampa), p. 473, la testimonianza è una dichiarazione rappresentativa della verità ottenuta mediante le regole de linguaggio. Allo stesso modo, secondo E. FASSONE, Garanzia e dintorni: spunti per un processo non metafisico, in Quest. giust., 1991, p. 133, se ‘‘la persona umana... è portatrice di un patrimonio di conoscenze che può svelare in modo più o meno fedele, o non fedele, o non rivelare affatto’’ allora la sua sollecitazione può ‘‘produrre un risultato più affidabile se è compiuta dialetticamente’’. (58) Così E. SELVAGGI, voce Esame diretto e controesame, in Dig. disc. pen., vol. IV, Utet, 1990, p. 280 ss.
— 505 — capace di separare il vero dalla menzogna e di individuare false dichiarazioni (59). Ebbene, alla luce delle rilevanti implicazioni insite nell’« esame » sul piano della garanzia individuale del diritto alla prova e della salvaguardia del valore epistemologico del contraddittorio, va detto che la dottrina « conservatrice » muove delle severe critiche all’introduzione dell’esame a distanza (60) in considerazione del fatto che i due effetti testé menzionati possono essere perseguiti soltanto sul presupposto della presenza fisica del testimone in udienza (61). Più dettagliatamente, tutte le obiezioni si incentrano sulla constatazione per la quale l’esame incrociato può raggiungere il suo ‘‘punto di massimo profitto’’ soltanto attraverso un rapporto diretto (cioè privo di intermediazioni) tra l’esaminante e l’esaminando, tra il giudice e l’esaminando e, secondo alcuni, anche tra quest’ultimo e il pubblico; presupposto per il quale non vi è spazio per l’esame audiovisivo in cui l’« intermediazione » è data dalla distanza tra il dichiarante e gli altri protagonisti del processo nonché dall’intrusione dei mezzi di riproduzione audiovisiva. A sostegno di questa interpretazione, la dottrina de qua richiama quel consolidato e prevalente orientamento di pensiero secondo il quale il rapporto diretto dell’esaminando con le altre parti del processo, soprattutto con colui che lo controesamina e con il giudice ma anche con il pubblico presente in aula, consente di ‘‘estrarre il massimo contributo probatorio da testi ed imputati con il più basso rischio di false dichiarazioni’’ (62) perché il confronto vis-à-vis esercita una forte pressione psicologica sulla persona sotto esame tale da stimolare in lei una maggiore fa(59) Felicissima è l’espressione di John Henry Wigmore secondo il quale la cross-examination ‘‘...is beyond any doubt the greatest legal engine ever ’nvented for the discovery of truth... The cross-examination, not trial by jury, is the great and permanent contribution of the Anglo-American system of law to improve methods of trial procedure’’, in M. STONE, Cross-examination in criminal trial, Butterworths, 1995, p. 4 s. (edizione italiana ID., La Cross-examination. Strategie e tecniche, a cura di E. AMODIO, Giuffrè, 1990, p. 5); secondo J. MCEWAN, Evidence and the adversarial process. The modern law, Blackwell, 1992, p. 16, la cross-examination rappresenta il metodo perfetto per la scoperta della verità. (60) Le critiche si incentrano soprattutto sulla previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 147-bis disp. att. c.p.p. che esclude — diversamente dalla partecipazione dell’imputato e, più in generale, dell’esame della persona che ha diritto ad un difensore — la contestuale, effettiva e reciproca visibilità tra l’aula dibattimentale e la postazione remota di tal che il soggetto esaminato a distanza non può osservare ed udire ciò che accade in aula. (61) Ritengono che dal diritto riconosciuto all’imputato di confrontarsi con i testimoni a carico derivi anche la regola che impone la presenza fisica del testimone in aula, M. CHERIF BASSIOUNI, Lineamenti del processo penale, in AA.VV., Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di E. AMODIO e M. CHERIF BASSIOUNI, Giuffrè, 1988, p. 70; E. SELVAGGI, voce Esame diretto e controesame, cit., p. 282. (62) Così P. FERRUA, Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 78.
— 506 — coltà di attenzione, accrescere il timore di vedere smentita un’eventuale falsa deposizione ed indebolire la sue resistenze. Del resto, non si può negare quanto forte possa essere la coazione psicologica subita dall’esaminando durante quel dialogo a fulminee battute nel quale si scandisce l’esame incrociato (63) così come è facilmente intuibile quanto difficoltoso sia per una mente umana, se non addirittura impossibile, reggere stabilmente quella contestazione diretta ed immediata di eventuali contraddizioni, errori o incertezze, ‘‘quella serie di confutazioni analitiche puntigliose, spesso cattive, protratte e multiformi’’ messe in atto dall’esaminante per smascherare falsità o reticenze, mettere in chiaro dimenticanze o inesattezze del testimone (64). Allo stesso modo, poi, al cospetto del pubblico, il soggetto esaminato — dopo un iniziale stadio di imbarazzo e di timidezza — finisce col subire anche la forza suggestiva determinata dalla situazione ambientale e, nel timore che qualcuno degli spettatori possa essere al corrente della verità, è difficile che menta con la stessa audacia con la quale potrebbe mentire ‘‘in un interrogatorio segreto’’ (65). La stessa validità gnoseologica, in termini di garanzia di veridicità delle dichiarazioni, è comunemente attribuita al rapporto di immediatezza che intercorre tra la fonte di prova ed il giudice (66). Infatti, il principio de quo — già di per sé, garanzia di genuinità della prova stessa in quanto favorisce la diretta conoscenza di questa da parte di colui che è chiamato (63) C’è anche chi sostiene che per predisporre al meglio il controesame ogni pubblico ministero o avvocato dovrebbe disporre di un completo profilo psicologico del teste da controesammare; ‘‘profilo psicologico, magari redatto da un esperto, sul quale basare l’impostazione della più corretta ed utile strategia di interazione con il testimone’’. Così G. CAROFIGLIO, Il controesame. Dalle prassi operative al modello teorico, Giuffrè, 1997, p. 172. (64) Cfr. E. FASSONE, Il processo penale e la valutazione dell’apporto probatorio del chiamante in correità, in ISISC, Atti e documenti. Chiamata in correità, a cura di L. DE CATALDO NEUBURGER, Cedam, 1992, p. 108. (65) L’idea che la pubblicità della deposizione determini una coazione psicologica nel testimone risale alla dottrina illuminista la quale faceva leva su tale concezione per avvalorare il principio di pubblicità del rito. Tramandata dalla dottrina ottocentesca, tale concezione ha subito un momento di arresto per le obbiezioni mosse da coloro i quali ritenevano molto più utile ai fini della genuinità delle risposte del testimone che l’esame si svolgesse in segreto; la dottrina più recente, sensibile al valore della pubblicità e dell’oralità dell’istruzione probatoria, ha rifiutato di giustificare tale scelta in funzione della efficacia gnoseologica dell’assunzione pubblica della testimonianza ritenendo, tra l’altro, che il metodo migliore per raggiungere il maggior grado di veridicità delle dichiarazioni è dato dalla tecnica dell’interrogatorio, ossia dalla ricerca a più voci, dialogata e razionale della verità. Per un’analisi più approfondita e per un’ampia disamina della dottrina espressasi sul punto v. G.P. VOENA, Mezzi audiovisivi e pubblicità delle udienze penali, cit., p. 449 ss. (66) ‘‘Dall’immediato rapporto con la prova il giudice trae... tutta una serie di indicazioni, che non converrebbe in alcun modo disperdere. L’immediatezza va salvaguardata perché il contraddittorio per la prova « serve » al giudice’’, sostiene D. SIRACUSANO, I principi generali del giudizio penale, in D. SIRACUSANO-A. GALATI-G. TRANCHINA-E. ZAPPALÀ, cit., vol. II, p. 280 s.
— 507 — a giudicarla — nei confronti dell’escussione della prova orale assume un significato ancor più pregante dal momento che il controllo del giudice sulla veridicità delle dichiarazioni rese dall’esaminando è tanto più efficace quanto più egli ha la ‘‘possibilità di contestare immediatamente ogni antinomia od ambiguità contenuta nella deposizione’’ (67) e, soprattutto, di osservare le caratteristiche e il contegno del soggetto postogli dinanzi durante l’esame (68). In altre parole, si ritiene che l’escussione incrociata del soggetto da esaminare offra al giudice elementi visibili ed udibili (volontari ed involontari) che — sebbene siano altra cosa rispetto al contenuto delle dichiarazioni — offrono una guida altrettanto valida per stabilire la credibilità delle stesse (69). Si pensi, ad esempio, a quei contributi arrecati all’opera critica di indagine psicologica condotta dal giudice quali la conoscenza dell’età, del sesso, della corporatura del testimone (70), come pure quelle forme di manifestazione soggettiva espressa sia da segni variabili e volontari quali il portamento, la gestualità, i movimenti e le espressioni del volto, sia da segni variabili ed involontari come il pallore improvviso, la sudorazione, il tremito, la congestione, la loquela fluida o balbettata, lo sguardo losco o limpido (71). Ebbene, da queste considerazioni la dottrina de qua trae forza per so(67) Così P. FERRUA, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, Giuffrè, 1981, p. 287. (68) Secondo E. ALTAVILLA, Psicologia giudiziaria, IV ed. agg., vol. II, Utet, 1955, p. 124 ss., ‘‘non può esservi pensiero senza esteriorizzazione’’, così come ‘‘la tristezza, la gioia, la collera, l’amore, tutto ciò che ci commuove, ci turba, ci esalta, ci deprime, si rispecchia fatalmente sul nostro volto. Qui si racconta, ad ogni istante, mercé atteggiamenti fuggevoli e fini movenze, la storia dell’anima’’. In questo stesso senso v. AA.VV., Psicologia e processo: lo scenario di nuovi equilibri, a cura di L. DE CATALDO NEUBURGER, Cedam, 1989; L. DE CATALDO NEUBURGER, Processo penale e psicologia, in AA.VV., Manuale di psicologia giuridica, a cura di A. QUADRIO-G. DE LEO, Led, 1995, p. 225 ss.; G. GULLOTTA, Trattato di psicologia giudiziaria, Giuffrè, 1987, p. 797 ss. (69) Secondo M. STONE, La cross-examination, cit., (ed. it.) p. 92 ss., gli elementi soggettivi del testimone utili a giudicare la sua sincerità sono suddivisibili in: a) caratteristiche fisse quali l’età, il sesso, la corporatura, l’aspetto, la pettinatura, gli eventuali ornamenti, cioè elementi attribuibili a questa categoria della personalità; b) aspetti variabili e volontari quali il portamento, la gestualità, i movimenti e le espressioni controllabili del volto; c) aspetti variabili e involontari nei quali rientrano tutte le espressioni incontrollate del volto; d) condotte variabili e complesse come gli svenimenti, la necessità impellente di urinare, la richiesta d’acqua, l’impazienza, la malattia, la disperazione. (70) Cfr. J. MCEWAN, Evidence and the adversarial process, cit., p. 69, secondo la quale ‘‘in addition to considering the content of the witness’s evidence, the tribunal will consider the appearance and the demeanour of witnesses. It might be relevant that a witness is tall, heavy, built or deformed’’. (71) Secondo F. CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Laterza, 1981, p. 432, ‘‘le dichiarazioni comunicano qualcosa: vi sono coinvolti emittente e destinatario; serve da veicolo una condotta espressiva’’. Allo stesso modo G. TESORO, La psicologia della testimonianza, Bocca, 1929, p. 24 ss., parla di ‘‘fattori della testimonianza che agiscono prima del fatto’’. Per L. DE CATALDO NEUBURGER, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Giuf-
— 508 — stenere l’irrinunciabilità della presenza fisica in aula della persona sottoposta all’esame in quanto indispensabile per l’instaurazione del rapporto diretto ed immediato della fonte di prova con i protagonisti del processo; « immediatezza » che si presta ad essere un presupposto strettamente funzionale al buon esito dell’escussione probatoria e, di conseguenza, ad assumere la veste di criterio metodologico imprescindibile per il corretto esercizio del diritto alla prova (e alla controprova) e per la corretta realizzazione della funzione epistemologica del contraddittorio. In questa prospettiva, allora, si intuisce agevolmente quale sia il contenuto delle obiezioni mosse all’introduzione dell’art. 147-bis disp. att. c.p.p. Si ritiene che ‘‘l’utilizzazione dello strumento telematico... rappresenta un’anomalia nello schema processuale giacché priva il controesame di quella immediatezza che, invece, è indispensabile per il completo ed effettivo esercizio del diritto di difesa (nel controesame sono ammesse domande suggestive ed altri espedienti che, per essere realmente efficaci, esigono il contatto diretto tra esaminatore ed esaminato)’’ (72), ed altresì che ‘‘la percezione ottenuta attraverso il diaframma di un collegamento audiovisivo a distanza’’ (73) non garantisce certo alla visuale del giudice l’immediatezza processuale con tutti gli elementi di prova utili per la decisione. Di tal che, sul piano rigorosamente giuridico (posto che sono ‘‘certamente condivisibili in un’ottica di politica giudiziaria le ragioni che hanno indotto il legislatore a prevedere questo meccanismo di testimonianza per così dire « protetta »’’ (74)), siffatta dottrina è dell’avviso che l’incolumità del teste, quale esigenza tutelata dalla previsione dell’art. 147-bis disp. att. c.p.p., non possa condizionare l’esito del processo fino a comprimere principi e garanzie primarie del processo penale quali il diritto di difesa nonché l’integrità e regolarità del dibattimento (75), senza incorrere in un’ipotesi di illegittimità costituzionale (come in tutti gli altri casi in cui le disposizioni normative sacrificano la funzione individuale ed epistemologica del contraddittorio (76)). frè, 1988, p. 40, si tratta di ‘‘processi psicologici che concorrono a formare la testimonianza’’. (72) Cosi M. GAZZILLI, in Atti Parlamentari, II Commissione Permanente (Giustizia) della Camera dei Deputati, seduta del 17 luglio 1997, p. 13. (73) Cfr. G. TRANCHINA, La ‘‘teletestimonianza’’, cit., p. 39. (74) Cfr. G. TRANCHINA, La ‘‘teletestimonianza’’, cit., p. 39. Inoltre, secondo F. ALESSANDRONI, Videotestimonianza, cit., p. 2898, ‘‘se... si accoglie la tesi che individua nel confronto dialettico tra le parti il metodo per ‘‘estrarre il massimo contributo probatorio da testi ed imputati, con il più basso rischio di false dichiarazioni’’ non sono tollerabili compressioni o limitazioni più o meno sfumate del contraddittorio’’. (75) F. ALESSANDRONI, Videotestimonianza, cit., p. 2899, riconosce i vantaggi offerti dal sistema delle videoconferenze in tema di formazione contestuale della prova ma, in ragione dell’alto prezzo pagato dal soggetto debole del processo, opta per quei rimedi già presenti nell’impianto codicistico come l’esame a domicilio (art. 502 c.p.p.) o il procedimento a porte chiuse del dibattimento (art. 472 c.p.p.). (76) Tra queste disposizioni R. ORLANDI, Il procedimento per fatti di criminalità organizzata, cit., p. 91, individua quella contenuta nell’art. 190-bis c.p.p.
— 509 — 6. Negli ultimi mesi, nel corso dei lavori preparatori che hanno condotto all’emanazione della l. n. 11, sono emerse varie riserve anche in merito all’istituto della partecipazione a distanza dell’imputato (art. 146-bis disp. att. c.p.p.). Il nucleo delle critiche verte sulla sua compatibilità con il diritto di difesa riconosciuto all’imputato, ed in particolare in riferimento ai profili dell’autodifesa e della difesa tecnica. Come dire che la sua assenza dall’aula dibattimentale sostituita da una presenza elettronicamente prodotta riduce le possibilità di difesa materiale e tecnica ad uno stadio tale da non assicurare la garanzia di un pieno ed incondizionato contraddittorio (77). Sul piano dell’autodifesa, l’istituto della « videoconferenza » non convince l’orientamento di pensiero de quo legato all’idea che la presenza fisica dell’imputato in udienza sia presupposto imprescindibile per l’effettiva esplicazione del suo diritto di partecipare personalmente ed attivamente al giudizio su sé stesso così da concorrere al corretto svolgimento della dialettica processuale. Infatti, sin dai lavori preparatori, si dubita che la partecipazione « telematica » dell’imputato all’udienza si traduca in un suo effettivo intervento — mercé il compimento di tutte quelle attività in grado di concorrere alla realizzazione del contraddittorio (78) — scontando sia una conoscenza incompleta degli atti del processo (opinioni, argomentazioni, conclusioni) sia una visione frammentaria del dibattimento nella pienezza di tutte le sue sfumature (79). Per non parlare dei profili di maggiore perplessità rivelati nell’ipotesi in cui più imputati, detenuti in luoghi diversi, siano collegati tra loro in videoconferenza dovendo essere posti, tutti, ‘‘in grado di vedere ed udire gli altri’’ (art. 146-bis, comma 3, disp. att. c.p.p.) (80). A sostegno di siffatto orientamento, si richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale la quale sin sotto la vigenza del codice 1930 (77) In dottrina si sono espressi in questi termini F. ALESSANDRONI, Videotestimonianza, cit., p. 2903, sostenendo che tale limitazione è ancora più irragionevole per il delicato terreno dei procedimenti per reati di criminalità organizzata su cui si innesta; nonché M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 165. (78) In questo modo definisce il concetto di autodifesa G. RICCIO-A. DE CARO-S. MAROTTA, Principi costituzionali e riforma della procedura penale, ESI, 1991, p. 134 ss. Sulla stretta relazione tra il contraddittorio e la garanzia contenuta nell’art. 24, comma 2, Cost. v. V. GAROFOLI, L’introduzione della prova testimoniale, cit., p. 309 ss. (nota 1). In particolare, per una disamina degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali in merito al riconoscimento costituzionale del principio del contraddittorio, v. M. BARGI, Procedimento probatorio e giusto processo, Jovene, 1990, p. 81 ss. (79) In tal senso v. l’intervento dell’on. T. Maiolo nella seduta del 30 luglio 1997 alla Camera dei Deputati, in Resoconto sommario n. 239, p. 23. Inoltre, v. l’intervento del sen. Greco nella 176a seduta della II Commissione (Giustizia) del Senato della Repubblica del 18 settembre 1997 (Atti Comm. Giust., p. 14) nonché l’intervento dell’on. Saponara nella seduta del 22 luglio 1997 (Atti Comm. Giust. Camera p. 35). (80) Cfr. M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 167.
— 510 — pone in rilievo l’imprescindibilità della presenza dell’imputato al dibattimento a garanzia del suo diritto all’autodifesa. In tale ottica, si sostiene che ‘‘l’imputato ha diritto di assistere a tutto il dibattimento’’ (ord. n. 98/1983) e che ‘‘la sua presenza all’udienza è imposta a tutela non solo dei diritti della difesa, ma anche di un più attendibile accertamento della verità’’ (sent. n. 186/1973; sent. n. 213/1974 e sent. n. 99/1975); di tal che l’assenza dell’imputato dalla scena dibattimentale — con conseguente limitazione del contaddittorio — può essere rimessa unicamente ad una sua libera e incoercibile scelta difensiva (sent. n. 9/1982) (81). Poi, sempre nell’intento di non riconoscere spazio nel processo penale alla partecipazione a distanza, la dottina in esame richiama altesì l’orientamento fatto proprio dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a sostegno del diritto dell’imputato di prendere parte alla procedura di cui egli è protagonista ed in primo luogo all’udienza (82). Siffatta giurisprudenza, infatti, sottolinea il diritto dell’imputato non soltanto di essere presente fisicamente in aula — fatta salva una sua eventuale rinuncia, espressa in modo chiaro e non equivocabile (83) — ma anche di sentire e seguire adeguatamente il dibattimento così da ‘‘poter prendere parte alle decisioni del suo avvocato sulla conduzione del caso e di conoscere personalmente gli elementi probatori che lo incriminano’’ (84). (81) A questo proposito il sen. Follieri (Atti Comm. Giust. del 18 settembre 1997, p. 14) pone in risalto una lacuna dell’art. 146-bis comma 1, disp. att., c.p.p. laddove non affronta adeguatamente l’ipotesi in cui l’imputato faccia espressa richiesta di essere presente in aula. (82) La Corte, infatti, si dimostra estremamente sensibile al riconoscimento del diritto in discorso che, sebbene non esplicitamente richiamato nel testo pattizio, viene ricondotto alle finalità e all’oggetto dell’art. 6. Diversamente, un esplicito richiamo è contenuto nell’art. 14, § 3, lett. d) del Patto internazionale sui diritti civili e politici in cui è sancito il diritto di ogni individuo accusato di un reato ‘‘ad essere presente al processo’’. Per un’indagine più approfondita sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo v. M.G. AIMONETTO, La ‘‘durata ragionevole’’ del processo penale, Giappichelli, 1997, p. 240 (nota n. 137). (83) In questi termini si esprime la Corte eur., 6 dicembre 1988, Barberà, Messegué e Jabardo v. Spagna, in Riv. intern. d. uomo, 1989, p. 114 ss.; Id., 26 maggio 1988, Ekbatani v. Svezia, in Riv. d. intern., 1989, p. 94; Id., 12 febbraio 1985, Colozza v. Italia, in Giust. pen., 1985, I, p. 114 ss.; la Corte ha avuto modo, inoltre, di prendere posizione in merito al diritto di difesa dell’imputato nei casi di testimoni anonimi non escussi in dibattimento onde preservare la loro identità (Corte eur., 27 ottobre 1995, Baegen v. Paesi Bassi, in Cass. pen., 1996, p. 2419 con nota di E. SELVAGGI, Il difficile bilanciamento, cit.; Id., 27 settembre 1990, Windisch v. Austria; Id., 20 novembre 1989, Kostousky v. Paesi Bassi e di testimoni collegati soltanto via audio da una postazione remota in presenza di un serio pericolo per la loro incolumità fisica (Corte eur., 23 aprile 1997, Van Machelen v. Paesi Bassi in Dir. pen. e proc., 1997, p. 952). La Corte ravvisa in queste ipotesi una violazione dell’art. 6, § 3, lett. d), perché lesiva del diritto dell’imputato di confrontarsi visivamente con i testimoni per esaminarli direttamente in giudizio e per osservare le loro reazioni alle domande poste. Per ulteriori approfondimenti sulla richiamata giurisprudenza europea si rimanda a G.P. VOENA, L ’esame a distanza, cit., p. 123. (84) In questo caso la Corte europea dei diritti dell’uomo accoglie l’istanza del ricor-
— 511 — Passando all’aspetto relativo alla difesa tecnica, i problemi riscontrati all’interno della previsione normativa dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. rivestono altrettanta pregnanza in termini di compatibilità con il ruolo esercitato dal difensore a ‘‘garanzia del corretto svolgimento del processo penale’’ (85). Innanzitutto, si prospetta il problema dell’aggravio economico legato alla predisposizione di un collegio difensivo che possa garantire all’imputato collegato elettronicamente con l’aula dibattimentale un’adeguata difesa, vale a dire quello composto da un difensore che affianchi l’imputato nella postazione remota e da un sostituto presente in aula con il quale il difensore e l’assistito possano colloquiare direttamente e riservatamente. Ciò che si pone in luce, infatti, è come questa previsione (seppur non esplicitamente contemplata dall’art. 146-bis, comma 4, disp. att. c.p.p., tuttavia facilmente desumibile per l’interpretazione estensiva della norma (86)) comporti costi molto elevati a danno degli imputati non abbienti che non possono permettersi un collegio difensivo di tale dimensione (87). A questo punto, l’alternativa penalizzante dinanzi alla quale l’imputato non abbiente sarà posto è quella di nominare un difensore nel luogo di detenzione, usufruendo così dell’assistenza in loco ma non in dibattimento, oppure nominare un difensore nella sede di celebrazione del dibattimento, restando privo di assistenza nel luogo collegato telematicamente’’ (88). Ma, al di là dei costi relativi all’assistenza di due difensori, vanno richiamate le perplessità espresse in merito alla garanzia di riservatezza dei dialoghi intercorrenti tra il difensore presente in aula e l’imputato « a distanza », a causa della presenza nella postazione remota dell’ausiliario del giudice o, comunque, dell’ufficiale di polizia giudiziaria (89). Così come rente che, nell’impossibilità di ‘‘sentire ciò che si dice nell’aula di tribunale’’, lamenta di non poter seguire il dibattimento invocando la violazione dell’art. 6.1 della Convenzione. V. Corte eur., 23 febbraio 1994, Stanford v. Regno Unito, in Riv. intern. d. uomo, 1994, p. 86 ss. (85) L’affermazione intende sottolineare l’imprescindibilità dell’assistenza tecnica del difensore che, per la qualificazione professionale e l’assenza di implicazioni emotive, potenzialmente assicura una posizione di parità (e di equilibrio del relativo contraddittorio) con l’accusatore. Così G. RICCIO-A. DE CARO-S. MAROTTA, Principi costituzionali, cit., p. 117 ss. (86) È questa la conclusione alla quale si è giunti nel corso dei lavori della Commissione Giustizia del Senato. V. Res. somm. 205a seduta del 2 dicembre 1997. Per maggiori indicazioni si rinvia a M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 167 (nota n. 58). (87) Sul punto v. l’intervento dell’on. Saponara, cit., e l’intervento dell’on. Carrara (Atti Comm. Giust. Camera, seduta del 22 luglio 1997, p. 33). Nel corso dei lavori presso la Commissione Giustizia del Senato della Repubblica, medesime perplessità sono state espresse dai senn. Milio, Callegaro, Follieri, Battaglia (Atti Comm. Giust. Senato, sedute del 17 e 18 settembre 1997, p. 12 ss.). (88) Cfr. M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 167. (89) In questi termini si è espresso l’on. Saponara, cit.
— 512 — desta problemi — in termini di efficienza ed incisività dell’intervento difensivo — la difficile posizione del difensore chiamato a doversi collegare con il luogo remoto e nel contempo seguire quanto si sta svolgendo in udienza. Infine, riserve sono emerse per l’ipotesi in cui il difensore assista più imputati nello stesso processo di cui alcuni sono presenti in aula ed altri sono collegati telematicamente da un luogo remoto. Infatti, sebbene egli possa scegliere di conversare riservatamente con gli imputati che partecipano a distanza, comunque ‘‘gli verrebbe difficile seguire ciò che avviene nell’aula, salva la presenza di un secondo difensore nel collegio di difesa’’ (90). 7. Sin qui le critiche mosse dalla categoria dei cc.dd. « oppositori » volti a ravvisare negli istituti dell’esame a distanza (prima) e della partecipazione a distanza (poi) una compressione delle garanzie difensive dell’imputato. Diversamente, alla categoria dei cc.dd. « fautori » appartengono coloro i quali danno al problema un’impostazione diversa escludendo che la variazione apportata dall’uso dei collegamenti audiovisivi allo schema tradizionale del processo penale comporti una conseguente privazione dei diritti difensivi accordati all’imputato (91). È questa la prospettiva lungo la quale si muovono i giudici di merito chiamati a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 3 e 24 Cost., della disciplina dell’esame a distanza così come regolata dal precedente art. 147-bis disp. att. c.p.p. (92). In tutti i casi (ma va rammentata la motivazione offerta dal Tribunale di Palermo per la pregnanza (90) Cfr. M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, ult. cit. (91) Secondo P.P. RIVELLO, Dibattimento alla ricerca dell’efficienza con l’esame a distanza di testi e imputati, in Guida al diritto, 20 luglio 1996, p. 110, le critiche mosse sul tema risultano prive di fondamento posto che ‘‘detto sistema non lede in alcun modo il diritto di difesa dell’imputato e il principio del contraddittorio’’. Nello stesso senso, considerando il collegamento audiovisivo ‘‘probabilmente il metodo più idoneo per risolvere il conflitto tra la necessità di non mettere in pericolo testimoni o imputati che collaborano con la giustizia ed i principi dell’oralità e del contraddittorio’’, si esprime G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 564. V., inoltre, O. MAZZA, Pubblicità e collaboratori della giustizia, in questa Rivista, 1994, p. 1529. Inoltre, c’è anche chi — ancor prima dell’entrata in vigore della l. n. 11 — propizia l’estensione dell’istituto del collegamento audiovisivo agli imputati di criminalità organizzata come soluzione al paralizzante uso strumentale delle garanzie difensive così da restituire al processo la sua fisiologica dimensione temporale. Cfr. M.G. AIMONETTO, La ‘‘durata ragionevole’’, cit., p. 239; P. GIORDANO, Con l’introduzione della ‘‘teleconferenza’’ la tecnologia va in aiuto del processo penale, in Guida al diritto, 9 marzo 1996, p. 124 ss.; più di recente v. G. FIDELBO, Commento alla disciplina della partecipaione al procedimento penale a distanza e degli esame dei collaboratori di giustizia (L.n. 11 del 1998), in Gazzetta giur., n. 10/98, p. 6. (92) Cfr. Trib. Palermo, ord. 29 maggio 1996, Andreotti, cit.; Ass. Reggio Calabria, ord. 10 gennaio 1996, cit.; Ass. Torino, ord. 22 luglio 1993, cit.
— 513 — che riveste in quanto ha ad oggetto un esame a distanza nel quale è stata soppressa la riconoscibilità del volto del dichiarante) le eccezioni di incostituzionalità sono ritenute manifestamente infondate dai giudici di merito: in rapporto alla violazione dell’art. 3, si osserva che la deroga alla regola ordinaria della presenza dell’esaminando in aula nel corso dell’esame ‘‘sfugge a qualsiasi censura di irragionevolezza’’ alla luce della delicatezza e della eccezionalità della situazione in cui i soggetti protetti vengono a trovarsi; sicché l’atipicità insita nell’uso processuale dei collegamenti audiovisivi ‘‘è giustificata... dalla primaria esigenza di salvaguardare il prevalente diritto alla vita e all’integrità fisica della persona da esaminare’’ (93). In rapporto alla violazione del diritto di difesa, denunciata per l’assenza dall’aula dell’esaminando con l’impossibilità di vederne il viso, cogliendo e valutando le espressioni del volto, i giudici di merito respingono la relativa eccezione ‘‘in quanto anche nelle ipotesi di comparizione al dibattimento della persona ammessa a programmi o misure di protezione può essere preclusa alle parti la visibilità del volto dell’esaminando per le stesse ragioni di sicurezza che hanno imposto l’intoduzione della norma in oggetto’’; ‘‘né la possibilità di vedere il volto della persona da esaminare, e la sua presenza in aula, costituiscono condizioni essenziali per una corretta e completa assunzione della prova’’ (94). In altre parole, si esclude che l’esame a distanza del collaborante, anche quando condotto occultandone i tratti fisionomici, possa compromettere la corretta formazione della prova nel contraddittorio perché pur mancando, rispetto alla svolgimento ordinario dell’esame in dibattimento, l’aspetto che attiene allo studio delle reazioni psicologiche e mimiche, linguistiche e nervose del soggetto, il contegno del testimone non rappresenta elemento qualificante per la valutazione del giudice in merito alla credibilità dell’esaminando. Del resto, tale orientamento di pensiero giurisprudenziale è accolto anche da una parte (seppur minoritaria) della dottrina processual-penalistica secondo la quale il comportamento del testimone non fa parte in genere ‘‘della valutazione tecnico-giuridica dell’attendibilità del dichiarante’’, rappresentando più che altro impressioni che ‘‘il giudice può ricevere dalla condotta processuale del teste’’ nel corso dell’esame (95). Anzi, la (93) Cfr. Trib. Palermo, ord. 29 maggio 1996, Andreotti, cit. (94) Cfr., ancora, Trib. Palermo, ord. 29 maggio 1996, Andreotti, cit. (95) In questi termini si esprime P.GIORDANO, Profili tecnici e giuridici ed esperienze applicative in materia di teleconferenza nel processo penale, con particolare riferimento ai procedimenti di criminalità organizzata (Madrid, 13 marzo 1997), richiamato da D. CARCARANO, Note di cronaca sul seminario di studi in tema di utilizzazione nel processo dei mezzi di audizione a distanza organizzato dal Ministero della Giustizia spagnolo, in Cass. pen., 1997, p. 2626 ss.; P. GIORDANO, Regole più chiare sui collaboratori di giustizia e per i super-
— 514 — condizione di protezione nella quale il collaboratore è posto (soprattutto se il proprio volto non è visibile) è garanzia di obbiettività delle dichiarazioni perché il collaboratore di giustizia potrà rispondere con maggiore serenità alle domande che gli verranno poste dall’aula dibattimentale (96). Di qui, tali considerazioni giurisprudenziali e dottrinali inducono ad escludere che l’esame condotto a distanza per mezzo degli strumenti audiovisivi comprima il diritto dell’imputato di assumere la prova orale secondo le garanzie ordinarie previste per l’esame condotto in aula, soprattutto perché il rapporto di immediatezza tra la prova ed il giudice non è ritenuto essenziale ai fini della corretta realizzazione del diritto di difesa. Se vogliamo, quest’ultima chiave di lettura assume connotati « sostanzialistici » andando oltre il dato formale della « assenza fisica » del testimone dall’udienza. E se questa è la prospettiva in cui si muovono giurisprudenza e dottrina relativamente al testo originario dell’art. 147-bis disp. att. c.p.p., non diversa è l’impostazione assunta dalla Relazione al disegno di legge n. 1845, poi convertito in l. n. 11/1998, nel commentare le norme relative alla partecipazione a distanza dell’imputato (97). Non solo. Il relatore trae forza dalle sentenze della Consulta e della Corte europea dei diritti dell’uomo, paradossalmente quelle stesse prese a baluardo dagli « oppositori » in quanto espressione del riconoscimento di un vero e proprio diritto di presenza dell’imputato al dibattimento (98), per affermare che siffatto diritto va inteso in termini sostanziali, nel senso che vi è presenza dell’imputato al dibattimento quando vi è possibilità concreta di esercitare i diritti difensivi nel contraddittorio con l’accusa. Come dire che laddove non vi sia presenza fisica dell’accusato, ma questi sia comunque posto nelle condizioni, attraverso un idoneo collegamento audiovisivo, di esercitare in modo pieno e completo tutta la gamma dei diritti e delle facoltà difensive riconosciutegli, il principio della presenza all’udienza, inteso nei termini sopra indicati, deve considerarsi osservato. Da un diverso angolo visuale, insomma, sembra che l’interpretazione de qua intenda sottrarre al concetto di presenza ogni riferimento spaziale ove si registri una contiguità fisica in aula tra l’imputato e tutti gli altri protagonisti del processo, preferendo, invece, identificarne il concetto nella concreta ed effettiva esplicazione del diritto dell’imputato di prenboss uno stop al « Turismo giudiziario », in Guida al diritto, 21 febbraio 1998, p. 33. V., inoltre, A. MELCHIONDA, sub art. 147-bis disp. att. c.p.p., cit., p. 324; O. MAZZA, Pubblicità e collaboratori della giustizia, cit., p. 1529 ss. Più in generale, non manca chi si mostra piuttosto scettico circa la possibilità di attingere dal contegno del testimone durante la deposizione orale elementi cosiddetti qualificati e idonei a cogliere la fides dell’esaminando, v. E. DOSI, La prova testimoniale. Struttura e funzione, Giuffrè, 1974, p. 113 ss.; nello stesso senso M. STON, La cross-examination, cit., (ed. it.) p. 98 ss. (96) Cfr., P. GIORDANO, Profili tecnici, cit., p. 3. (97) Cfr. Relazione al d.d.l. n. C/1845, cit., p. 25 s. (98) Rileggile in § 6.
— 515 — dere parte alla dialettica processuale influendo e contribuendo personalmente ad instaurare il contraddittorio. Tra l’altro, è bene ricordare che siffatta prospettiva ermeneutica non rappresenta una novità nel panorama dottrinale poiché già sotto la vigenza del codice di procedura penale abrogato la dottrina più accreditata (99) (ovviamente lungi dal voler affrontare la tematica per offrire una soluzione esegetica al problema della presenza « virtuale » dell’imputato al dibattimento, all’epoca neppure prevedibile), rifiuta comunque di accogliere l’atteggiamento di quegli Autori (100) che identificano il concetto di contraddittorio unicamente nel « dialogo » (101), nell’‘‘intervento... di tutte le parti col diritto di essere interrogate... e di esporre le proprie ragioni sulle singole questioni’’ (102), nel dire in presenza e di fronte ad un altro (103). Si ritiene, infatti, che ‘‘se bastasse l’audizione congiunta di due o più soggetti ad integrare la nozione di contraddittorio, l’istituto del confronto resterebbe assorbito in essa, deformandone i contenuti’’ (104). Per non dire che l’idea di un contraddittorio ristretto entro gli esigui confini del dibattito diretto tra accusa e difesa impedisce di riconoscere il principio in ogni altra forma di dialogo in cui le parti hanno pur sempre la possibilità di contrapporre gli elementi di discolpa a quelli di accusa (105). Di qui, pertanto, si può condividere la conclusione alla quale siffatta autorevole dottrina giunge e cioè che ‘‘la nozione di contraddittorio imperniata sulla sola nota della presenza fisica pecca per difetto’’ (106). Ma, allora, così inteso, il concetto di contraddittorio postula ben altro (107). E l’idea inevitabilmente torna alla definizione offerta dalla dottrina processual-civilistica ed amministrativistica, sulla base della tradizio(99) Cfr. G. CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio nel processo penale italiano, in questa Rivista, 1966, p. 405 ss.; recentemente ripreso in G. GIOSTRA, voce Contraddittorio (principio del): Il diritto processuale penale, in Enc. giur., vol. VIII, 1988, p. 1 ss. (100) Va detto, comunque, che l’atteggiamento de quo, ha l’intento di riportare il concetto di contraddittorio nell’ambito più ristretto del dibattimento, ed in particolare del dibattimento accusatorio tradizionalmente legato ai valori di oralità e contestualità del confronto. (101) G. FOSCHINI, Sistema del dir. proc. pen., vol. I, II ed., Giuffrè, 1956, p. 175. (102) G. LEONE, Trattato di dir. proc. pen., vol. II, Jovene, 1961, p. 333. (103) G. FOSCHINI, Sistema, cit., p. 175 ss. (104) Così G. CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio, cit., p. 409. (105) V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, VI ed. agg., vol. I, Utet, 1967, p. 249. (106) Così G. CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio, ult. cit. (107) Sul significato del concetto di ‘‘contraddittorio’’ v. A.A. DALIA, Giudizio, in AA.VV., Il giudizio di primo grado, a cura di A.A. Dalia, Jovene, 1991, p. 385 ss.; A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, Manuale di procedura penale, Cedam, 1997, p. 121 ss.; P. FERRUA, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità e al contraddittorio, in Pol. dir., 1989, p. 243 ss.; ID., Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 47 ss.; G. LOZZI, I principi dell’oralità e del contraddittorio nel processo penale, in
— 516 — nale formula audiatur et altera pars, in cui il contraddittorio è legato all’esigenza di uguaglianza delle parti nel processo. Come dire che l’idea del contraddittorio enucleata per il processo civile ed amministrativo sottintende innanzitutto una condizione minima: cioè che ognuno degli antagonisti sia in grado di partecipare all’attività di persuasione del terzo su basi di parità o, meglio, di essere coinvolto nella gestione del processo, ed in particolare nella gestione dell’attività probatoria, attivamente ed efficacemente ‘‘sul piede di reciproca e simmetrica parità’’ (108), perché questo equilibrio rappresenta il modo più idoneo e funzionale ad illuminare il giudice circa la verità reale. Sicché, tradotto nel processo penale, per intendere il contraddittorio in termini corrispondenti a quelli che ne costituiscono la pacifica fisionomia nel processo civile ed amministrativo, occorre configurare il processo secondo una ‘‘geometria triangolare’’ (109). Da un lato, non può parlarsi di contraddittorio in termini di uguaglianza se non è garantita la presenza del giudice in aula in quanto organo di tutela del corretto sviluppo del rapporto dialettico e destinatario delle attività probatorie delle parti; ma, dall’altro lato, ogni forma di contraddittorio presuppone anche un perfetto equilibrio tra gli antagonisti in modo che ciascuno possa poter fare quello che fa l’altro per farsi dare ragione godendo degli stessi diritti (110). L’importante è, dunque, che questi siano posti nella condizione di partecipare ed intervenire in posizione di uguaglianza al giudizio integrando, con la propria attività, l’attività complessiva nella quale il dibattimento deve consistere. Ciò, naturalmente, implica che ad ogni singolo antagonista (in primis l’imputato) siano date le stesse opportunità degli altri contendenti di conoscere l’oggetto della contesa nonché le opinioni, le argomentazioni, le conclusioni altrui così da poter acquisire le fonti di conoscenza necessarie per rappresentare al giudice le proprie ragioni, indicare gli elementi di fatto e di diritto che le suffragano e, più in generale, partecipare alla formazione del convincimento del terzo (111). A ben vedere, allora, secondo questa Rivista, 1997, p. 669 ss.; ID., Lezioni di procedura penale, II ed. agg., Giappichelli, 1997, p. 430 ss. (108) Cfr. E. FAZZALARI, voce Processo (teoria generale), in Noviss. D. I., vol. XIII, Utet, 1968, p. 1072, cui si rimanda per un’ampia esposizione bibliografica dell’argomento. (109) Così G. GIOSTRA, voce Contraddittorio, cit., p. 3. (110) Per un’ampia ed articolata analisi della struttura paritetica del rapporto dialettico nel processo penale v. G. GIOSTRA, voce Contraddittorio, cit., p. 1 ss.; nonché, tra gli altri, A. BARGI, Procedimento probatorio e giusto processo, cit., p. 81 ss.; M. CHIAVARIO, Processo e garanzia della persona. Le garanzie fondamentali, III ed., vol. II, Giuffrè, 1984, p. 171 ss. (111) È questo il modello in cui è strutturato il diritto al contraddittorio nei suoi tre momenti: conoscitivo, acquisitivo e rappresentativo. In effetti, si tratta di ‘‘tre aspetti di un categoria inscindibile: tanto più efficace e conferente sarà la dimensione rappresentativa,
— 517 — tale orientamento dottrinale perché il contraddittorio possa dirsi attuato è sufficiente la presenza del giudice — condizione di esistenza di questo — e la ‘‘partecipazione contemporanea e contrapposta di tutte le parti al processo’’ (112); per cui, essendo l’essenzialità del contraddittorio individuabile in questa dualità agonistica e paritetica tra i protagonisti processuali e non nella contrapposizione frontale dell’imputato con i suoi antagonisti, ogniqualvolta l’imputato, assente dall’aula, è comunque posto nelle condizioni di prepararsi e partecipare al giudizio in posizione di uguaglianza, deve desumersi che il contraddittorio sia attuato ed il diritto di difesa rispettato (113). Ebbene, è da questo orientamento di pensiero che il nomoteta ed i fautori dell’introduzione dell’istituto della partecipazione dell’imputato a distanza traggono forza per sostenere la validità — in termini di compatibilità con i princìpi ispiratori del codice di procedura penale 1988 — di un processo in cui l’imputato non è presente in aula ma vi partecipa attraverso un collegamento audiovisivo a distanza. Si può dire, insomma, che aver individuato il nucleo del contraddittorio nella partecipazione paritaria e contrapposta delle parti, in vista della persuasione del terzo, consente a siffatto orientamento dottrinario di attribuire al processo svolto in teleconferenza — mercé strumenti di collegamento audiovisivo atti a consentire l’idonea partecipazione dell’imputato alle attività processuali — un contenuto garantistico sufficiente per poter parlare di processo in contraddittorio; dunque, di giusto processo. 8. A questo punto, si può azzardare una soluzione di questo « autentico problema », ed è possibile farlo traendo spunto proprio dall’ultima considerazione dottrinale appena richiamata. Si respinge fortemente l’atteggiamento di suddetta dottrina che, alla luce dell’autorevole orientamento di pensiero secondo il quale la nozione di contraddittorio poggia sul presupposto della partecipazione contemporanea e contrapposta delle parti al processo e non su quello del loro ‘‘confronto diretto’’ (114), esclude l’idea per cui l’assenza fisica dell’imputato quanto più completa e tempestiva sarà stata l’attività conoscitiva e proficua quella acquisitiva’’. Così A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, Manuale, cit., p. 133. (112) L’espressione appartiene a G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale, XIII ed., Jovene, 1988, p. 47. Sotto un diverso angolo visuale, può dirsi violato il principio del contraddittorio anche se la presenza fisica dell’imputato all’udienza si esaurisce in una funzione di semplice spettatore. Cosi, G. FOSCHINI, Il dibattimento penale di primo grado, Giuffrè, 1964, p. 4. (113) ‘‘La presenza dell’imputato agli atti del processo penale è necessaria per il normale svolgimento del rapporto processuale (principio del contraddittorio), ma non è indispensabile per la costituzione e l’efficienza di questo’’ dice V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, cit., vol. II, 1968, p. 365. (114) Naturalmente intediamo riferirci a G. CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio, cit., p. 405 ss.
— 518 — dall’aula dibattimentale comporti una lesione del principio del contraddittorio (rectius del diritto di difesa) in ragione della capacità degli strumenti audiovisivi di rendere comunque partecipe l’imputato dell’intera dinamica processuale. Ciò che, a nostro avviso, non deve sfuggire è la ratio che induce il richiamato autorevole orientamento di pensiero ad optare per questa interpretazione sicuramente meno rigida del concetto di contraddittorio: vale a dire quella di poter ammettere al procedimento penale forme « minori » di contraddittorio in cui non trova spazio il confronto diretto tra le parti ma dove invece è prevalente l’uso di comparse o memorie difensive e che, non per questo, non sono garanzia per l’imputato di una corretta contrapposizione dialettica finalizzata alla persuasione del « terzo ». Nel contempo, però, questa stessa nozione — legata appunto all’idea della « partecipazione » e non a quella del « dialogo frontale » — non sottrae al contraddittorio dibattimentale i suoi più tipici connotati quali quelli dell’oralità e della immediatezza. Anzi: inteso in questa seconda accezione, il contraddittorio dibattimentale rappresenta il solo modo in cui è data alle parti la possibilità di partecipare alla dialettica, nella contestualità del dialogo (115). Ecco perché può dirsi appropriato distinguere due sottospecie di contraddittorio: uno semplice ed indiretto (enucleato nel processo civile ed amministrativo ma adattabile anche al processo penale nelle fasi diverse dal dibattimento) e l’altro diretto o qualificato (riservato ai casi in cui il dialogo si svolge oralmente e frontalmente tra le parti dinanzi al giudice) (116). Con la conseguenza che quando si parla di contraddittorio dibattimentale, l’unico modello attraverso il quale questo si manifesta compiutamente è quello dell’effettivo confronto vis-à-vis tra le parti in cui ad ognuna è data la possibilità di ‘‘immediatamente ascoltare ed immediatamente controbattere le asserzioni dell’altra(o)’’ e al giudice di cogliere ‘‘gli elementi per il proprio convincimento dalla viva voce e dal comportamento’’ delle stesse (117). In questa prospettiva, allora, si manifesta una prima ed irrinunciabile verità: e cioè che la mancata presenza dell’imputato nel contesto spaziale e temporale dell’udienza dibattimentale comporta pur sempre una lesione del contraddittorio perché comprime irrimediabilmente il suo diritto di fronteggiarsi personalmente in posizione di parità con l’accusa; a meno che, naturalmente, la mancata comparizione dell’imputato in aula e, (115) Cfr. A.A. DALIA, Le regole normative per lo studio del contraddittorio nel processo penale, Napoli, 1970, p. 148 s. Non a caso, ne consegue l’esaltazione del dibattimento come luogo elettivo del contraddittorio. In questo senso si rinvia a G. GIOSTRA, voce Contraddittorio, cit., p. 5. (116) Così G. CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio, cit., p. 410. (117) Così G. GIOSTRA, voce Contraddittorio, cit., p. 1.
— 519 — quindi, la sua sottrazione alla dialettica processuale sia dovuta ad una libera scelta personale. Va, infatti, precisato che il nostro ordinamento, pur avendo assicurato all’imputato il diritto di presentarsi al processo dandogli tutte le facoltà e garanzie necessarie, non gli impone l’obbligo di difendersi personalmente ma rimette ad una sua scelta — come nei casi di contumacia (art. 487 c.p.p.) e di assenza (art. 488 c.p.p.) — la decisone di non presenziare fisicamente al « suo » dibattimento, intendendo questa scelta come una forma di esercizio del proprio diritto di difesa, che è il « non esercizio » (118). Il che spiega perché se, da un lato, la comparizione personale dell’imputato al dibattimento rappresenta un presupposto importante sotto il profilo garantistico consentendogli di aggiungere il suo contributo personale alla dialettica processuale (119), dall’altro lato, l’eventuale rinuncia a prestarsi al confronto non altera la struttura del contraddittorio e, perciò, non lede il diritto di difesa di cui è titolare (120). A questo punto, allora, ci sembra che una seconda considerazione possa essere fatta: si è partiti dalla premessa secondo la quale imporre all’imputato di non presenziare all’udienza dibattimentale, impedendogli di prendere parte personalmente al contraddittorio, equivalga a violare il suo diritto di difesa; per logica deduzione, si giunge a considerare l’assenza dal vivo dell’imputato in aula (e, quindi, la sua presenza prodotta attraverso attrezzature audiovisive) alla stregua di un’attenuazione delle garanzie difensive, perché egli sconta pur sempre una conoscenza incompleta degli atti del processo (opinioni, argomentazioni, conclusioni) nonché una visione frammentaria del dibattimento nella pienezza di tutte le sue sfu(118) A ben vedere, la scelta del legislatore costituisce ‘‘il frutto di un mediato e non agevole sforzo volto a... configurare una equilibrata ed armonica normativa che, da un lato, assicuri l’effettiva partecipazione dell’imputato alla fase centrale del processo e, dall’altro, consenta di pervenire celermente alla celebrazione del dibattimento, scoraggiando il ricorso ad espedienti dilatori’’. Così Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, Serie generale, Supplemento ordinario, n. 2, p. 115. (119) Di questo avviso è G. UBERTIS, Dibattimento senza imputato e tutela del diritto di difesa, Giuffrè, 1984, p. 1. (120) In questi termini v. V. CAVALLARI, voce Contraddittorio (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. IX, Giuffrè, 1961, p. 734. Non diversamente, secondo V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, ult., cit., p. 365 ss., la presenza dell’imputato agli atti del processo penale non è indispensabile per la costituzione e l’efficienza del contraddittorio dal momento che il giudizio contumaciale importa solamente ‘‘una alterazione del contenuto formale ordinario del processo penale’’ e, diversamente dal caso in cui l’imputato venga condannato per decreto e quello in cui, avendo fatto opposizione a tale decreto, non si presenti all’udienza stabilita per la discussione ove ogni discussione è preclusa e il contraddittorio è leso totalmente, agevola la possibilità di un contraddittorio mercé la lettura dell’interrogatorio dell’imputato e di ogni altra sua dichiarazione, la presenza del suo difensore che rappresenta l’imputato a tutti gli effetti, la possibilità del contumace di essere messo ad esporre le sue ragioni se compare prima che sia iniziata la discussione fìnale nonché l’obbligo della notificazione della sentenza.
— 520 — mature (121), che si riverbera negativamente sull’esercizio del diritto di autodifesa, non potendo esternare spontanee dichiarazioni tutte le volte che la situazione lo suggerisca e avendo evidenti difficoltà nel rivolgere domande, tramite i difensori, ai testi addotti, ai consulenti tecnici, ai periti e, soprattutto, ai coimputati. Senza dire poi, a nostro avviso, che l’imputato « protetto » subisce un’attenuazione del diritto di difesa anche sotto il profilo dell’assistenza tecnica. Infatti, innanzitutto, si ritiene difficile per il difensore presente in aula e collegato riservatamente con il proprio assistito (e, a fortiori, il discorso vale per il difensore presente nel luogo di detenzione e collegato con il proprio sostituto in aula) seguire compiutamente la dinamica del dibattimento, dovendo prestare attenzione contemporaneamente all’imputato, all’eventuale sostituto e a tutto ciò che accade in udienza. Per cui, va da sé che il suo intervento si presenti inevitabilmente meno incisivo. Allo stesso modo, poi, incide sul buon esercizio dell’assistenza del difensore il problema dell’accresciuta onerosità delle spese difensive alle quali l’imputato deve andare incontro, soprattutto quando partecipa a processi che si svolgono in città diverse lontane tra loro e dal luogo di detenzione; di tal che è facile immaginare quanto la formazione di un collegio difensivo sufficiente ad assicurare un’adeguata difesa rimanga un’utopia per l’imputato non abbiente, costretto — è evidente — ad accontentarsi di un unico difensore che lo affianchi nella postazione remota (scontando una visione completa della dinamica processuale) o presente in aula (paralizzando — nonostante le conversazioni riservate di cui all’art. 146bis, comma 4, disp. att. c.p.p. — il normale e necessario dialogo con il proprio assistito). Medesimi profili di perplessità in merito all’affievolimento delle garanzie difensive dell’imputato sorgono a proposito dell’esame a distanza del collaboratore di giustizia e dell’imputato di procedimento connesso, condotto attraverso strumenti audiovisivi (art. 147-bis disp. att. c.p.p.). Si ritiene, infatti, che le modalità atipiche di escussione del dichiarante « distante » impediscono alla difesa di dare luogo ad un corretto esame incrociato in mancanza di ‘‘quel rapporto immediato con la fonte di prova che è ritenuto comunemente uno dei migliori strumenti per un’efficace vaglio sull’attendibilità della dichiarazione’’ (122). E, questo, per tre ragioni. Innanzitutto, perché, anche il più fedele dei sistemi telematici, rende difficile condurre l’esame e, soprattutto, il controesame con quella stessa dose di ‘‘pressione, serratezza ed effficienza’’ che comunemente caratterizzano l’escussione del testimone in aula; poi, perché la mancanza di un raffronto vis-à-vis con l’imputato, con il giudice e con il pubblico allenta l’atten(121) (122)
V. nota n. 79. Così G.P. VOENA, L’esame a distanza, cit., p. 121.
— 521 — zione e la tensione psicologica del testimone a danno di una maggior genuinità delle dichiarazioni; infine, perché la lontananza della fonte di prova sottrae a colui il quale è chiamato a valutarla quegli elementi prosodici utili per una più completa valutazione della veridicità delle dichiarazioni. Insomma, anche la miglior ripresa televisiva non può sostituire né la presenza fisica dell’imputato né quella del testimone in aula (123) perché è di tutta evidenza l’impossibilità di assicurare al « telesame » e alla « videoconferenza » quegli effetti garantistici tipici dell’escussione incrociata dell’esaminando e della partecipazione dell’imputato effettuate « dal vivo » nel contesto spaziale e temporale dell’udienza. 9. Ma, allora, se è impossibile ‘‘ridurre a zero la differenza tra il cosiddetto processo virtuale... ed il processo reale’’ (124), per cui le anomalie insite nell’uso dei collegamenti audiovisivi finiscono inevitabilmente col comprimere in parte il diritto di difesa dell’imputato, ci si chiede se tale attenuazione offra il destro ad una censura di legittimità costituzionale, in violazione dell’art. 24, comma 2, Cost. A nostro avviso, la conclusione non può essere questa; il diritto di difesa dell’imputato sottoposto ad un processo in telesame o videoconferenza subisce sì un affievolimento per le ragioni già esposte in precedenza, però, nel contempo, esso esce indenne da ogni censura di incostituzionalità perché la sua attenuazione è assunta nel rispetto di due coordinate essenziali: da un lato, il mantenimento di un nucleo minimo di diritti difensivi e, dall’altro, l’esigenza di un bilanciamento di interessi in cui le limitazioni del diritto di difesa si contemperano con obiettivi e valori contrapposti di prevalente importanza. Quanto al primo aspetto, è noto che il diritto consacrato nell’art. 24, comma 2, Cost. è costituito da « ingredienti non omogenei » dei quali alcuni hanno carattere negoziale, nel senso che possono entrare in bilanciamento con valori costituzionali contrapposti e se del caso farsi ad essi subalterni, ma altri rappresentano davvero il punto di non ritorno in termini di civiltà giuridica (125), ossia rappresentano quel contenuto difensivo (123) Di questo avviso è G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 564. (124) Così G.P. VOENA, L’esame a distanza, cit., p. 118. Sul piano dei concetti, l’impossibilità di una simile riduzione deriva dalla circostanza che ‘‘virtuale’’ non è affatto ciò che si contrappone a ‘‘reale’’. Secondo la definizione fornita da P. Levy il virtuale ‘‘è la trasformazione da una modalità di essere ad un’altra’’, ossia un cambiamento di identità. Pertanto, l’antitesi del virtuale non è reale bensì attuale. Ma se il virtuale comporta una trasformazione dell’identità, tocca stabilire se la mutazione subita dall’entità consenta ancora di riconoscerla sotto la nuova forma. In altre parole, si tratta di accertare se l’esame a distanza sia ancora giuridicamente riconoscibile nella figura dell’esame cosl come disciplinato dal c.p.p. e, quindi ritenersi equivalente. (125) In questi termini si esprime E. FASSONE, Garanzia e dintorni, cit., p. 134 s., a proposito dell’irrinunciabilità dell’assunzione in contraddittorio della prova orale.
— 522 — minimo di cui ogni istituto processuale necessita per superare indenne il vaglio costituzionale. Si pensi, ad esempio, al diritto dell’imputato di esporre le proprie ragioni difensive, al diritto di essere assistito da un difensore, al diritto di interrogare e contro-interrogare i testimoni del processo, tutti elementi che compongono il « nucleo minimo » del diritto di difesa e che, a nostro avviso, risultano pur sempre garantiti dalle previsioni normative contenute negli artt. 146-bis e 147-bis disp. att. c.p.p. (126). Difatti, a ben guardare, il diritto dell’imputato di partecipare a distanza attraverso modalità di collegamento audiovisivo atte ad assicurare ‘‘la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti nei due luoghi’’, potendo udire anche quanto vi viene detto (art. 146-bis, comma 3, disp. att. c.p.p.) sembra garantirgli in buona parte la possibilità di partecipare attivamente e personalmente al processo; il diritto di essere assistito da un difensore dall’aula dibattimentale o dalla stessa postazione remota (art. 146-bis, comma 4, disp. att. c.p.p.) assicura un sufficiente grado di collaborazione difensiva; il diritto di effettuare l’esame a distanza secondo modalità audiovisive tali da garantire la contestuale visibilità delle persone presenti nella sede remota ed il diritto di ottenere la presenza di un ausiliario del giudice a tutela del regolare svolgimento dell’esame incrociato (art. 147-bis, comma 2, disp. att. c.p.p.) è garanzia, tutto sommato anche se in termini diversi, del diritto dell’imputato alla prova e alla controprova. Detto questo, però, si riconosce anche che il mantenimento di un « corredo garantista minimo » non sarebbe sufficiente a difendere gli artt. 146-bis e 147-bis disp. att. c.p.p. da una censura di legittimità costituzionale se l’attenuazione subita dall’imputato non fosse supportata (o, meglio, motivata) da un’ulteriore « ragione giustificatrice ». Infatti, e si passa così al secondo aspetto del problema, l’affievolimento delle garanzie difensive dell’imputato nel corso di un processo c.d. « protetto » supera il vaglio dell’art. 24, comma 2, Cost. soltanto se è controbilanciato, in base al consolidato schema fatto proprio dai giudici della Consulta in numerose occasioni (127), da un altro interesse di rango non inferiore, giudi(126) Di questo stesso parere è il sen. Fassone, come si evince dall’intervento tenuto nella seduta della Commissione Giustizia del Senato il 18 settembre 1997, in Atti Comm. Giust. Sen., cit., p. 12 s. (127) Il consolidato schema del ‘‘bilanciamento di interessi’’ è stato evocato soprattutto da Corte cost., sent. n. 89/1996, in Giur. cost., 1996, p. 819 ss. con note di P.P. RIVELLO, ‘‘Graziata’’ dalla Corte costituzionale la nuova anomala disciplina circa il computo dei termini delle misure cautelari in caso di ‘‘contestazioni a catena’’ per fatti diversi, e A. MOSCARINI, Un buon uso della tecnica di ragionevolezza in tema di applicazione delle misure cautelari, che — nel dichiarare infondata con riferimento all’art. 3 Cost. la questione di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, c.p.p. nella parte in cui prevede la decorrenza del termine massimo di custodia cautelare in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative della misura per fatti connessi, a far tempo dal giorno in cui è stata eseguita o notificata
— 523 — cato però prevalente; se non altro perché tale « sacrificio » si accetta di buon grado solo se ad esso si contrappongono sostanziali vantaggi o, per dirla diversamente, solo se sull’altro piatto della bilancia c’è un valore meritevole di tutela. Ed allora, ciò che innanzitutto si contrappone — prevalendo — al diritto di difesa è l’esigenza di protezione dei testimoni nella lotta contro la criminalità organizzata e, più precisamente, di tutela dell’integrità fisica e morale del dichiarante-collaborante. La ratio, infatti, della normativa contenuta nell’art. 147-bis disp. att. c.p.p. è individuabile nella finalità di rendere impossibile la predisposizione di attentati nei confronti dei collaboratori di giustizia o, più in generale, di quanti offrono un contributo informativo utile all’accertamento dei fatti in processi per delitti di criminalità mafiosa che, in virtù delle loro « conoscenze », sono esposti a pericolo di vita nel corso delle continue peregrinazioni da un’aula di udienza all’altra cui devono sottoporsi continuamente (128); ma, si badi, altrettanto può la prima ordinanza, considera rispettato il principio di eguaglianza posto che la distinzione introdotta dalla norma de qua all’interno del tessuto egualitario dell’ordinamento dipende da una causa giustificatrice che opera un doveroso e ragionevole bilanciamento dei valori in concreto coinvolti. ‘‘Infatti, il parametro della eguaglianza non esprime la concettualizzazione di una categoria astratta, statisticamente elaborata in funzione di un valore imminente dal quale l’ordinamento non può prescindere, ma definisce l’essenza di un giudizio di relazione che, come tale, assume un risalto necessariamente dinamico’’. Va detto, comunque, che già in precedenza la Corte costituzionale ha avuto modo di conciliare il diritto di difesa con altri valori costituzionalmente rilevanti, ‘‘essendo il diritto di difesa suscettibile di adattamenti o anche restrizioni da parte del legislatore ordinario qualora si palesino giustificati da altre norme o da principi fondamentali desunti dal sistema costituzionale’’. Così Corte cost., sent. n. 5/1965, e per uno studio della giurisprudenza più recente si rimanda a M. SCAPARONE, sub art. 24 Cost., in AA.VV., Commentario della costituzione, a cura di C. BRANCA, Cedam, 1988, p. 86. (128) A questo proposito D. CARCARANO, Note di cronaca, cit., p. 2626 ss., riporta i dati forniti dalla relazione semestrale (1o semestre 1996) del Ministero dell’Interno: si sono registrate circa 8000 citazioni a comparire dei collaboratori, per una media di cinquanta/sessanta collaboratori al giorno che si spostano lungo il territorio nazionale. Inoltre, restando inalterata tale tendenza, si è previsto che alla fine dell’anno 1996 sarebbero stati eseguiti 16000 servizi di accompagnamento e di scorta per altrettanti collaboratori che si saranno mossi da una parte all’altra della penisola con conseguente dispiego di almeno 32000 uomini, con relative spese per missioni, pernottamenti, pasti e viaggi. Sul punto v., inoltre, M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 160 (nota n. 3). In senso meno favorevole P.P. RIVELLO, Commento all’art. 7, cit., p. 94 ss., manifesta le proprie perplessità in merito all’idoneità del collegamento ad attuare un’efficace protezione del collaboratore in considerazione del fatto che il collegamento audiovisivo con la sede remota, seppur ‘‘segreta’’, consente comunque alla criminalità organizzata di trarre preziosi elementi per giungere ad una sia pur sommaria individuazione della postazione, magari pedinando o minacciando l’ausiliario del giudice ovvero (ma più difficilmente) gli incaricati della sorveglianza, soprattutto nell’ipotesi in cui il teste dichiarante non sia stato ancora ammesso allo speciale programma di protezione e sia quindi temporaneamente custodito secondo le modalità indicate dall’art. 13-bis, d.l. n. 8/1991: si tratta di persone che, nel silenzio della legge, potrebbero testimoniare a distanza.
— 524 — dirsi a proposito del rischio cui sono esposti i soggetti normalmente impiegati per garantire la sicurezza del trasferimento e la presenza dei collaboratori nell’aula dibattimentale. In questa prospettiva, allora, il diritto di difesa consacrato nell’art. 24, comma 2, Cost. cede il passo alla ‘‘primaria esigenza costituzionale di salvaguardia del prevalente diritto alla vita e all’integrità fisica’’ secondo, a nostro avviso, un doveroso bilanciamento di valori in concreto coinvolti, che è garanzia di ragionevolezza del giudizio e delle scelte (129). Altrettanto può dirsi per due delle tre ipotesi in cui la legge prevede forme di partecipazione audiovisiva dell’imputato al procedimento. Ci si riferisce alle situazioni descritte nelle lett. a) e c) dell’art. 146bis disp. att. c.p.p. in cui la ratio che impone la partecipazione a distanza dell’imputato detenuto per un grave delitto di stampo mafioso è data, nel primo caso, dall’esigenza di impedire che le sue frequenti traduzioni (rese necessarie al fine di garantire la presenza fisica all’udienza) costituiscano un serio pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico; nel secondo caso, dall’esigenza di evitare pregiudizi all’effettività dei provvedimenti di sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza, adottati ai sensi dell’art. 41-bis ord. penit. (130). Ebbene, i valori tutelati dalle norme predette dimostrano già di per sé quale sia il sostanziale vantaggio insito nel meccanismo della partecipazione protetta dell’imputato all’udienza. Ma, in questa direzione si muove anche la Corte costituzionale quando individua nel valore della ‘‘tutela dell’incolumità e della sicurezza pubblica’’ il possibile limite alla piena esplicazione del diritto di difesa (131): per cui ‘‘in un ottica di bilanciamento, le situazioni di cui alle lett. a) e c) dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. paiono in grado di legittimare un’attenuazione del diritto di difesa’’ (132). Non altrettanto può dirsi, a nostro avviso, per la situazione descritta nella lett. b) dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. in cui la necessità di attuare un collegamento audiovisivo con l’imputato detenuto è legata al presup(129) Tra l’altro, è questa l’argomentazione svolta dai giudici del Tribunale di Palermo nell’ord. 28 maggio 1996, Andreotti, cit., p. 2889, secondo i quali la differenziata disciplina normativa prevista nei confronti dei soggetti esposti, per la loro collaborazione processuale, a rischio di ritorsione, risponde ad un principio di ragionevolezza per l’eccezionalità e la delicatezza della situazione in cui costoro vengono a trovarsi. Dello stesso avviso è la Corte d’Assise di Torino, ord. 22 luglio 1993, cit., p. 102, secondo la quale il diritto di difesa ben può essere limitato ove sia contrapposto a diritti e interessi di rango costituzionale, parimenti inviolabili, come quelli dell’incolumità fisica e della libertà morale del testimone, tutelati, per l’appunto, dall’art. 147-bis disp. att. c.p.p. (130) In questo senso v. M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 162. (131) Sul punto v. R. TOSI, sub art. 24 Cost., in V. CRISAFULLI-L. PALADIN, Commentario breve della Costituzione, Cedam, 1990, p. 173. (132) Così M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 168.
— 525 — posto che ‘‘il dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento’’. È evidente l’intento di imprimere un ritmo più celere alla definizione dei processi della criminalità organizzata i cui tempi continuano inesorabilmente ad allungarsi vuoi per l’oggettiva complessità dell’accertamento (dovuta all’articolata struttura dell’associazione, all’elevato numero di imputati coinvolti e di testimoni da esaminare) vuoi anche per la circostanza che molti imputati, dovendo contemporaneamente prendere parte a procedimenti diversi, usano pretestuosamente il diritto di presenziare personalmente all’udienza, con conseguenti ricadute anche sulla decorrenza dei termini di custodia cautelare. Di qui, ciò che dovrebbe controbilanciare l’attenuazione del diritto di difesa subita dall’imputato « protetto » sarebbe quell’esigenza di efficienza del processo ostacolata, appunto, dalla paralisi dell’attività processuale. Considerando, d’altra parte, che più volte la Corte costituzionale riconosce nell’efficienza del processo un valore da tutelare costituzionalmente attraverso il richiamo ai principi della Carta fondamentale preposti all’esercizio della funzione giurisdizionale (133); riconoscimento in virtù del quale essa giunge a « rivisitare » quegli istituti che, preordinati alla tutela di garanzie costituzionali, rischiano di trasformarsi nella prassi in strumenti dilatori e pretestuosi (134). Ma questa scelta applicata all’istituto della partecipazione a distanza ex art. 146-bis, lett. b), disp. att. c.p.p. non convince (135), e perciò non (133) Si consideri la sentenza n. 353/1996, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 1465, che dichiara illegittimo l’art. 47, comma 1, c.p.p. nella parte in cui fa divieto al giudice di pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di rimessione. Nel raffrontare i principi di terzietà del giudice (cui era ispirata la norma prima del vaglio costituzionale) e di economia processuale (cui si ispira la scelta della Corte alla luce dell’utilizzo in chiave pretestuosa cui la richiesta di rimessione aveva finito per risolversi), la Consulta ritiene prevalente il secondo ‘‘posto che il possibile abuso processuale determina la paralisi del procedimento tanto da compromettere il bene costituzionale dell’efficienza del processo, qual è enucleabile dai principi costituzionali che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale’’: ‘‘pienamente libero nella costruzione delle scansioni processuali, il legislatore non può tuttavia scegliere, fra i possibili percorsi, quello che comporti, sia pure in casi estremi, la paralisi dell’attività processuale’’. Sulla base della identica argomentazione v. Corte cost., sent. n. 10/1997, ivi, 1997, p. 152, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 2, c.p.p. nella parte in cui, qualora sia riproposta la dichiarazione di ricusazione, fondata sui medesimi motivi, fa divieto al giudice di pronunciare o concorrere a pronunciare la sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione. (134) Così L. GIULIANI, Una sentenza di incostituzionalità annunciata in tema di rimessione del processo, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 1470. (135) Lo evidenzia anche M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 168, cui si rimanda per una puntuale ricostruzione dei lavori parlamentari nel corso dei quali il problema del bilanciamento tra diritto di difesa e principio di celerità del processo è stato più volte richiamato (v., soprattutto, nota n. 65).
— 526 — appare costituzionalmente difendibile, se non altro perché non va dimenticato che, più di recente, la Consulta precisa che i valori della speditezza e dell’economia processuale vanno tutelati allorché si profili un rischio di paralisi del processo (oppure un irragionevole ed ingiustificato trattamento deteriore in danno dell’imputato) (136); mentre, sembra evidente come il sacrificio — in termini di efficienza — accusato dal processo nel caso de quo, palesandosi nel semplice « ritardo » nello svolgimento del dibattimento, non riesce ad assumere quella portata « lesiva », costituzionalmente protetta, che lo renderebbe preferibile al sacrificio difensivo subito dall’imputato collegato a distanza. Per non parlare, poi, dell’ipotesi — ancora meno difendibile — dell’esame a distanza prevista nel comma 5 dell’art. 147-bis disp. att. c.p.p. ove si richiede la semplice sussistenza di ‘‘gravi difficoltà ad assicurare la comparizione della persona da esaminare’’. Al di là dell’elasticità della previsione (foriera di altrettanto elastiche interpretazioni), anche in questo caso il sacrificio imposto all’economia del processo non può essere considerato prevalente a quello subito dal diritto di difesa, considerando, soprattutto, che il codice di procedura penale già assicura la possibilità di esaminare « a domicilio » il testimone ‘‘assolutamente impossibilitato’’ a comparire in udienza ai sensi dell’art. 502 e 513, comma 2, c.p.p. (137). 10. A ben vedere, l’indagine sulla compatibilità dei collegamenti a distanza con il principio proclamato nell’art. 24, comma 2, della Carta fondamentale non può concludersi qui, nella verifica dell’esistenza di quelle due coordinate essenziali che giustificano il contenimento del diritto di difesa dell’imputato nel corso di un processo realizzato via video (in telesame come in videoconferenza). E ben si comprende la ragione; la novità strutturale introdotta dalla l. n. 11/1998 istitutiva del « nuovo » esame e della partecipazione a distanza è tanto profonda da richiedere l’adozione di ulteriori provvedimenti normativi che consentano a codesti istituti di potere essere realizzati tecnicamente, sia da un punto di vista strettamente organizzativo che da un punto di vista tecnologico (138). Si pensi, ad esempio, alla necessità di garantire un alto grado di funzionalità degli strumenti tecnologici di cui gli uffici giudiziari dovranno (136) Corte cost., sent. n. 146/1997, in Giur. cost., 1997, p. 1604 ss. (137) Per uno spunto in tal senso si rinvia a F. ALESSANDRONI, Videotestimonianza, cit., p. 2892 (nota n. 12); M. BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 176, e G.P. VOENA, L’esame a distanza, cit., p. 122. (138) A questo proposito il 20 febbraio 1998 sono state emesse tre Circolari al fine di disciplinare gli aspetti relativi alla gestione dei processi in collegamento audiovisivo, all’organizzazione strettamente tecnica degli allestimenti delle strutture coinvolte nonché alle istruzioni operative per coloro i quali sono chiamati ad applicare la l. n. 11/1998. Nella prima Circolare, emessa dalla Direzione Generale dell’Organizzazione Giudiziaria e degli Affari Generali, è previsto un addestramento degli ausiliari e degli ufficiali di polizia presenti nella postazione remota, è individuato un criterio di designazione da parte del giudice d’u-
— 527 — adeguatamente essere dotati per assicurare la perfetta qualità sonora e visiva delle immagini trasmesse tra le due postazioni (aula dibattimentale e sede remota) nonché la continuità nella trasmissione delle stesse. Non si può pensare, infatti, che l’imputato collegato a distanza possa interagire compiutamente con gli altri protagonisti del processo se la comunicazione e le immagini riprodotte sui monitors collocati in aula e nella postazione remota non sono sufficientemente chiare o, addirittura, se vi sono interruzioni ripetute. Così come è indubbio che l’esame incrociato del soggetto « protetto » non riesca a conservare la sua efficacia epistemologica e garantistica se il giudice non è in grado di vedere nitidamente il volto ed il corpo del dichiarante e, soprattutto, se le parti non possono condurre esame, controesame e riesame secondo i ritmi fisiologici tipici di questo mezzo di escussione della prova. Anche se, approfondendo l’argomento, viene alla luce la constatazione secondo la quale il sistema di collegamento via rete telefonica scelto dal Ministero di Grazia e Giustizia per trasmettere e ricevere segnali audiovisivi provenienti da due postazioni distanti tra loro (c.d. sistema ISDN — Integrated Services Digital Network che sfrutta le linee di comunicazione telefoniche), diversamente dal sistema via etere caratterizzato dall’elevata qualità delle immagini ma anche dall’alto costo dell’operazione (139), sconta una ‘‘non ancora perfetta qualità del segnale video talché i gesti delle persone risultano non pienamente fluidi’’, oltre a presentare ‘‘un intervallo temporale apprezzabile — almeno un secondo — tra il momento in cui la domanda è formulata e quello in cui essa viene percepita dal destinatario... Il maggior pregio dell’adozione di un simile sistema consiste nella spesa contenuta, quantificabile in circa ottantamila lire per un’ora di collegamento’’ (140). In secondo luogo, si rivela altresì imprescindibile — affinché gli istidienza ed è evidenziata l’esigenza di provvedere alla sicurezza di siffatto personale amministrativo. Nella seconda Circolare, emessa dalla Direzione Generale degli Affari Civili, si rende nota la predisposizione degli uffici giudiziari (aule bunker, tribunali, istituti di pena) allestiti con un sistema di videocomunicazione, di fonia per le comunicazioni riservate tra difensore ed imputato, di linee di telecomunicazione della rete ISDN, di un presidio tecnico Telecom/Philips. Inoltre sono specificati alcuni dettagli in ordine alla riservatezza delle comunicazioni tra avvocato e detenuto e sono definiti gli aspetti operativi per l’instaurazione dei collegamenti audiovisivi. Nella terza Circolare, emessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sono regolati gli aspetti strettamente legati alla ‘‘gestione’’ dei detenuti, al coordinamento delle nuove norme con le disposizioni vigenti sulle traduzioni, alla disponibilità nei luoghi di custodia di sufficienti locali per i collegamenti e alle istruzioni operative per gli istituti penitenziari. Le Circolari sono in Internet: og.html su www.giustizia.it. (139) È questo il sistema cui si è ricorso per dare attuazione all’art. 147-bis disp. att. c.p.p. abr. i cui costi per un’ora d’esame erano altamente proibitivi (si parla di parecchie decine di milioni per ora). Così P. GIORDANO, Con l’introduzione della ‘‘teleconferenza’’, cit., p. 124. (140) Cfr. G.P. VOENA, L ’esame a distanza, cit., p. 118, cui si rimanda per una chiara e puntuale disamina dei sistemi comunemente impiegati nei collegamenti a distanza.
— 528 — tuti telematici risultino compatibili con i parametri costituzionali — la predisposizione degli opportuni provvedimenti atti ad ‘‘assicurare l’esercizio del diritto di difesa anche nei confronti degli imputati non abbienti in vista dei maggiori oneri difensivi derivanti dall’applicazione della legge sui collegamenti audiovisivi’’ (141). Si è già evidenziato quanto gli imputati non abbienti siano penalizzati dall’uso processuale delle comunicazioni a distanza, non potendo usufruire di un collegio difensivo « ideale » quale quello composto da due difensori di cui uno presente in aula e l’altro nel luogo di detenzione. Per cui gli interventi legislativi dovrebbero operare in questa direzione garantendo anche all’imputato non abbiente un’assistenza idonea a soddisfare le proprie esigenze difensive. In terzo luogo, ma non meno importante, è la necessità di garantire effettivamente quella riservatezza della consultazione fra imputato e difensore prescritta dal comma 4 dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. ma che, per logica deduzione, deve incorrere anche nelle conversazioni fra il difensore presente in aula e il difensore presente nella postazione remota accanto al proprio assistito. Non v’è dubbio, infatti, che qualora tale fondamentale aspetto non potesse essere tecnicamente realizzato, verrebbero meno i presupposti per l’operatività dei provvedimenti in esame (142). Detto questo, si intuisce come il giudizio sulla conformità dei collegamenti audiovisivi con i diritti e le garanzie difensive accordate all’imputato sia legato saldamente allo sforzo che gli organi competenti opereranno per assicurare la rapida attuazione di siffatti presupposti tecnicogiuridici, senza i quali non è possibile garantire una corretta applicazione delle garanzie difensive accordate dal legislatore con la l. n. 11/1998. 11. Al di là di quest’ultima considerazione (per il cui esito si dovrà attendere qualche tempo), oggi è possibile dire con convinzione che la compressione — indiscussa — del diritto di difesa subita dall’imputato nel corso di un processo realizzato via collegamento audiovisivo (in « telesame » come in « videoconferenza ») si mantiene entro limiti costituzionalmente accettabili posto che, per un verso, le modalità di collegamento descritte negli artt. 146-bis e 147-bis disp. att. c.p.p. sono dotate di un « corredo garantist » idoneo ad attuare quel « nucleo minimo » dal quale il diritto di difesa non può prescindere e, per altro verso, il sacrificio sopportato dall’imputato è controbilanciato da vantaggi sostanziali quali l’incolumità fisica e morale dei collaboratori di giustizia, la sicurezza e l’ordine pubblico, la sollecita celebrazione dei procedimenti, l’economia delle (141) In questo senso v. Commissione Giustizia del Senato della Repubblica la quale richiama l’impegno del Governo ad assumersi l’onere di sostenere le relative spese professionali. V., Res. somm. Comm. Giust. Sen., 2 dicembre 1997, p. 3 ss. (142) Ulteriori spunti si riscontrano nell’intervento del sen. Russo, in Atti Comm. Giust. Sen., 23 settembre 1997 (seduta pomeridiana), p. 16.
— 529 — spese processuali e l’opportunità di non vanificare i risultati del regime speciale di trattamento penitenziario. Ma, per esigenze di completezza, si è giunti a prendere questa posizione nei confronti del problema de quo partendo da un’impostazione di fondo: e cioè dal rifiuto di identificare il requisito della « presenza » dell’imputato al processo nel concetto di presenza dal ‘‘vivo’’ in aula. Più chiaramente, quest’ultimo elemento fa parte di quegli « ingredienti trattabili » del diritto di difesa dai quali ci si può allontanare senza alterare la funzione e l’essenza stessa delle fondamentali garanzie difensive, soprattutto quando « sull’altro piatto della bilancia » c’è un valore che vale la pena di tutelare e perseguire. A conferma di questo nostro orientamento, è interessante richiamare brevemente l’esperienza dei Paesi di common law ed in particolare le argomentazioni (poiché non molto dissimili da quelle appena esposte) con le quali la giurisprudenza prevalente della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America difende la legittimità costituzionale dei sistemi di collegamento audiovisivo, entrati a fare parte integrante dell’esperienza giuridica degli Stati nordamericani dal 1983 nei processi per reati di abuso di minore (child abuse) onde consentire l’audizione a distanza della vittima senza che questa subisca le intimidazioni ed il trauma psicologico che può procurare l’incontro dal vivo con l’autore del reato (143). Va, innanzitutto, ricordato che l’applicazione del sistema televisivo a (143) A partire dal 1983, ben 31 Stati della Federazione nordamericana consentono ai bambini, vittime di abusi sessuali, di testimoniare a distanza mediante circuiti televisivi chiusi (l’ultimo Statuto è stato approvato dallo Stato dell’Indiana nel 1991. Ind. Code. Ann., § 35.37.4.8). In soli tre Stati (California, Florida e Missouri) il collegamento è previsto anche nei confronti degli imputati detenuti a qualsiasi titolo onde evitare lunghe traduzioni che inciderebbero negativamente sull’economia del processo. Da un punto di vista prettamente tecnico, poi, va detto che il sistema usato in 22 Stati consente di trasmettere e ricevere le immagini e i suoni provenienti dalla postazione dalla quale è collegato il minore ma non permette a questi di udire e vedere ciò che accade in aula (c.d. one-way system). Nei restanti 9 Stati, invece, il sistema consente un’interazione reciproca tra la sala d’udienza e la postazione remota (c.d. two-way system). Per un’indagine più approfondita si rimanda a A.C. GOODMAN, Two critical evidentiary in child sexual abuse cases: closed-circuit testimony by child victims and exceptions to the hearsy rule, in American Criminal Law Review, 1994-95, vol. 32, p. 855 ss.; K.R. HORNBECK, Washington’s closed-circuit testimony statute: an exception to the Confrontation Clause to protect victims in child abuse prosecutions, in University of Puget Sound Law Review, 1991-92, vol. 15, p. 913 ss.; D.M. HUTCHINS, Arkansas rules of evidence in child sexual abuse: Vann v. State, in Arkansas Law Journal, 1994, v. 47, p. 239 ss.; M.S. RAEDER, Navigating between Scylla and Charybdis: Ohio’s efforts to protect children without eviscerating the rights of criminal defendants Evidentiarity consideration and the rebirth of Confrontation Clause analysis in child abuse cases, in University of Toledo Law Review, 1994, v. 25, p. 43 ss.; J.P. SERKETICH, A conflict of interests: the constitutionality of closed-circuit television in child sexual abuse cases, in Valparaiso University Law Review, 1992-93, vol. 27, p. 217 ss.; L. THOMPSON, The use of modern technology to present evidence in child sex abuse prosecutions: a sixth amendment analysis and prospective, in University of West Los Angles Law Review, 1986, v. 18, p. 1 ss.
— 530 — circuito chiuso nelle Corti americane è stata oggetto di lunghi ed accesi dibattiti a proposito della sua compatibilità con i principi fondamentali del fair triar (144). Si consideri, infatti, che il VI emendamento della Costituzione americana annovera tra le garanzie federali riservate all’accusato il diritto di confrontarsi con i testimoni dell’accusa (Confrontation Clause) (145) e che il XIV emendamento ne impone il rispetto anche a livello statale in quanto espressione di uno di quei fundamental rights di cui si compone la clausola del Due process of law: sicché la sua mancata attuazione da parte delle singole legislazioni statali implica di per sé una violazione di un diritto costituzionale (146). (144) Per un’analisi dei diversi orientamenti giurisprudenziali v. M.L. BELL, Constitutional law and child testimony via videotape or closed-circuit television, in Duquesne Law Review, 1994-95, vol. 33, p. 361 ss.; L.C. BRANNON, The trauma of testifying in court for child victims of sexual assault v. the accused’s right to confrontation, in Law and Psychology Review, 1994, v. 18, p. 439 ss.; C.A. CHASE, Confronting Supreme confusion: balancing defendants’ Confrontation Clause rights against the need to protect child abuse vistims, in Utah Law Review, 1993, p. 407 ss.; D. CRUMP, Child victim testimony, psychological trauma and the Confrontation Clause: what can the scientific literature tell us?, in St John’s Journal of Legal Commentary, 1992, v. 8, p. 83 ss.; A. GALLICCHIO, The sixth amendment right to confrontation where reliability or credibility of a witness is at issue: the extent and scope of cross-examination, in Catholic University Law Review, 1984-85, vol. 34, p. 1267 ss.; R.H. KING, The molested child witness and the Constitution: should the Bill of rights be transformed into the Bill of preferences?, in Ohio State Law Review, 1992, vol. 53, p. 49 ss.; P.W. RETSEMA, Testimony of children via closed-circuit television in Indiana: face (to television) to face confrontation, in Valparaiso University Law Review, 1988-89, vol. 23, p. 455 ss. (145) Il VI emendamento della Costituzione federale americana fa parte dei primi dieci emendamenti approvati nel 1791 e noti come Bill of rights in cui dei ventitré diritti sanciti, tredici prevedono specifiche garanzie a tutela dell’imputato. In particolare, il VI emendamento sancisce che ‘‘In all criminal prosecutions, the accused shall enjoy the right to a speedy and public trial, by an impartial jury of the State and district wherein the crime shall have been committed, which distrist shall have been previously ascertained by law, and to be informed of the nature and cause of the accusation; to be confronted with the witnesses against him; to have compulsory process for obtaining witnesses in his favor, and to have the assistence of counsel for his defence’’. (146) È noto che il varo del XIV emendamento nel 1868, in cui è imposto tra l’altro a tutti gli Stati di non privare alcuna persona della libertà senza ‘‘un regolare processo secondo il diritto", pone il problema dell’applicabilità del Bill of rights a livello statale. ‘‘Il principio del due process (già previsto, per l’ordinamento federale, nel V emenedamento e presente anche nelle costituzioni statali) si presta(va), infatti, ad una duplice lettura: accanto a quella tradizionale che lo configura(va) semplicemente come diritto ad un processo celebrato nel rispetto delle norme vigenti, si è fatta (stava facendo), infatti, strada, seppur molto lentamente, la tesi che sia (fosse) comprensivo di « determinati principi immutabili di giustizia, inerenti all’essenza di ogni Stato libero che gli Stati membri dell’Unione non possono trascurare »: la tesi, nota come fundamental rights interpretation propugna l’estensione dei « diritti fondamentali » federali anche ai processi di competenza statale’’. Tuttavia soltanto nel 1932, si assiste all’ingresso di una garanzia costituzionale federale nell’ambito statale (v. Powell v. Alabama, 287 U.S. 45 in tema di diritto di difesa). Così V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense. Corso di lezioni, Giappichelli, 1987, p. 4 s. Sulla clausola
— 531 — Di fronte a tanto ampio ed importante riconoscimento, si intuisce quanta attenzione raccoglie l’ingresso nel processo penale statunitense dei collegamenti audiovisivi in cui il consacrato right of confrontation è messo seriamente in discussione, se non altro perché l’interpretazione restrittiva della formula — quella che riconosce la ratio del principio nel necessario confronto face-to-face tra l’imputato e il testimone a carico — renderebbe incostituzionali tutti gli statuti in cui attualmente è consentito ricevere la testimonianza via video. Il problema, dunque, si incentra sull’interpretazione della Confrontation Clause o, meglio, del termine confrontation; tra chi attribuisce a questo il significato di eye contact between the defendant and an accusing witness (147) e chi, invece, quello più sostanziale di cross-examination (148). A ben vedere, solo sporadicamente la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America interpreta la clausola del diritto al confronto in senso letterale. Nel 1988, in Coy v. Iowa, i giudici annullano una sentenza di condanna per abuso sessuale su minore ritenendo che la testimonianza della vittima, resa dietro ad uno schermo, violi il diritto costituzionale dell’imputato di confrontarsi personalmente con colui che lo accusa (149); nella del ‘‘Due process of law’’ v. E.J. EBERLE, Procedural due process: the original understanding, in Constitutional Commentary, 1987, vol. 4, p. 339 ss.; A. GARCIA, The compulsory process clause and the sporting theory of justice: the Supreme Court events the score, in Duquesne Law Review, 1990, v. 28, p. 619 ss.; H. ROCHMAN, Due process: accuracy or opportunity?, in Southern California Law Review, 1992, vol. 65, p. 2705 ss.; J. RUTHERFORD, The myth of due process, in Boston University Law Review, 1992, vol. 72, p. 1 ss.; D.S. WELKOWITZ, Going to the limits of due process: myth, mystery and meaning, in Duquesne Law Review, 1990, v. 28, p. 110 ss. (147) Così si esprime il giudice Scalia sia in Coy v. Iowa sia, come voce dissenziente, in Maryland v. Craig. (148) Così J.H. WIGMORE, Evidence, III ed., Aspen, 1940, § 131. (149) Coy v. Iowa, 487 U.S. 1012 (1988). Precedentemente, altre Corti (federali e statali) hanno fornito questa stessa interpretazione restrittiva della clausola tanto da esaurirne il significato nel requisito della presenza fisica dell’accusato all’udienza. V. Harrington v. California, 395 U.S. 250 (1969); Barber v. Page, 390 U.S. 719 (1968); Bruton v. United States, 391 U.S. 123 (1968); Douglas v. Alabama, 380 U.S. 415 (1965); Pointer v. Texas, 380 U.S. 400 (1965). Per ulteriori approfondimenti v. S.A. HOLMES, ‘‘Lights, camera, action’’: videotaping and closed-circuit television procedures coyly confront the sixth amendment, in South Carolina Law Review, 1989, v. 40, p. 693 ss.; K.M. GOTTLIEB, Constitutional law. The Confrontation Clause. The emerging trend of literal interpretation, in Dickinson Law Review, 1995, v. 99, p. 835 ss.; T.L.R. JHATTUCK, Justice Scalia’s due process methodology: examining specific traditions, in Southern California Law Review, 1992, v. 65, p. 2743 ss.; M. KNIGHT, Coy v. Iowa: the right to face-to-face confrontation, in Houston Law Review, 1989, v. 26, p. 739 ss.; D. MILLER, Confrontation and cross-examination of the child witness? witness protective measures in light of Coy v. Iowa, in Criminal Justice Journal, 1990, v. 12, p. 79 ss.; C.M. MURPHY, Justice Scalia and the Confrontation Clause: a case study in originalist adjudication of individual rights, in American Criminal Law Review, 1997, v. 34, p. 1243 ss.; L.B. YOUNG, Justice Scalia’s history and tradition: the chief nightmare in Professor Tribe’s anxiety closet, in Virginia Law Review, 1992, v. 78, p. 581 ss.
— 532 — motivazione della Corte si giudica determinante, ai fini della corretta realizzazione del diritto di difesa e del corretto esercizio del contraddittorio, che l’imputato ed il testimone si confrontino face-to-face, in considerazione anche del fatto che la loro reciproca presenza al dibattimento riduce il rischio che il teste menta e consente alla giuria di osservare il comportamento e le reazioni che la presenza dell’imputato determina nel testimone stesso (150). Diversamente, e le argomentazioni addotte sono quelle su cui si richiama l’attenzione, già dal 1970 la giurisprudenza prevalente della Corte Suprema rifiuta di identificare il diritto al confronto, consacrato nel VI emendamento della Costituzione, nella physical confrontation tra imputato e testimone, cogliendo invece l’essenza del diritto de quo nella possibilità concreta, offerta all’imputato, di esercitare i diritti in contraddittorio con l’accusa attraverso l’examination in chief e la cross-examination (151). Non solo. Nel pronunciare l’ultima sentenza emanata in tema di live video link (Maryland v. Craig del 1990 (152)), i giudici della Corte Su(150) Testualmente il giudice Scalia ritiene che ‘‘it is always more difficult to tell lie about a person to his face than behind his back’’ e che, perciò, ‘‘the face-to-face confrontation ensures the integrity of the fact-finding process’’. (151) Così United States v. Owens, 484 U.S. 445 (1988); Bourjaily v. United States, 483 U.S. 171 (1987); Kentucky v. Stincer, 482 U.S. 73O (1987); Delaware v. Van Arsdall, 475 U.S. 171 (1987); United States v. Inadi, 475 U.S. (1986); Del. V. Fensterer, 474 U.S. 15 (1985); Tennessee v. Street, 471 U.S. 409 (1985); Ohio v. Roberts, 448 U.S. 56 (1980); Parker v. Randolph, 442 U.S. 62 (1979); Mancusi v. Stubbs, 408 U.S. 204 (1972); Nelson v. O’Neil, 402 U.S. 622 (1971); Dutton v. Evans, 400 U.S. 74 (1970); California v. Green, 399 U.S. 149 (1970). (152) Nel caso de quo, la Corte rigetta il ricorso della condannata sulla pretesa violazione del VI emendamento della Costituzione americana per avere il giudice del Maryland autorizzato una testimonianza della minore vittima di un abuso sessuale via closed-circuit television. Per approfonditi commenti sulla nota sentenza v. G.A. BESNYL, Maryland v. Craig: defendant’s confrontation right not violated by the use of one-way closed-circuit television testimony in child abuse cases, in Western State University Law Review, 1991, v. 18, p. 861 ss.; R. BLOE, Maryland v. Craig: the courts’ use as evidence of videotaped testimony of a child who has been sexually abused is declared not violate a defendant’s sixth amendment right to confront the accuser, in Southern University Law Review, 1991, v. 18, p. 275 ss.; J.A. BULKLEY, Recent Supreme Court decision case child abuse prosecutions: use of closedcircuit television and children’s statements of abuse under the Confrontation Clause, in Nova Law Review, 1992, v. 16, p. 687 ss.; T.A COTTON, Maryland v. Craig: the Supreme Court clarifies when a child protective statute which allows a child witness to testify outside the presence of the accused will violate the Confrontation Clause, in Thurgood Marshall Law Review, 1993-94, vol. 19, p. 309 ss.; T.F. CULLEN, Maryland v. Craig: the collision of policy and history, in New England Journal on Criminal and Civil Confinment, 1993, v. 19, p. 141 s.; T. CUSICK, Televised justice: has the Supreme Court gone too far?, in Journal of Juvenil Law, 1993, v. 16, p. 150 ss.; G.A. FIELD, Maryland v. Craig: suffering children to testify via closed-circuit television, in Howard Law Journal, 1992, v. 35, p. 285 ss.; L.R. MILLER, Maryland v. Craig: allowing a child abuse victim to testify via one-way closed-circuit te-
— 533 — prema americana ricorrono anche ad un’analisi storica della clausola in esame dalla quale traggono forza per rigettare definitivamente l’interpretazione letterale e restrittiva del diritto al confronto. Secondo tale ricostruzione, l’esigenza di emanare una norma che sancisca il diritto dell’accusato di confrontarsi personalmente con il testimone che lo accusa ha origine dalla consuetudine di common law dei Tudor e degli Stuart di rifiutare di praticare processi basati unicamente su dichiarazioni testimoniali scritte, lette in udienza (c.d. affidavits), sulle quali non sia possibile effettuare un contraddittorio per assenza del testimone dall’aula dibattimentale; consuetudine nata in seguito alla famosa sentenza di condanna a morte, pronunciata nel 1603 nei confronti di Sir Walter Raleigh, ottenuta in seguito ad una sola dichiarazione giurata resa fuori dall’udienza da parte di un testimone assente dall’aula nei cui confronti, evidentemente, l’accusato non ha avuto modo di effettuare la crossexamination e che, in seguito, si è scoperto essere stata sottoposto a tortura (153) onde dichiarare il falso. Ecco che da allora, il confronto tra imputato e testimone nel corso del dibattimento è imposto da ogni sistema di common law in virtù della sua natura di diritto fondamentale mercé il quale è garantito all’imputato di difendersi attivamente ed efficacemente affrontando direttamente, attraverso l’escussione incrociata, colui che lo accusa per metterne in luce le eventuali falsità o reticenze. Allora, da siffatta interessante analisi storica della Confrontation levision does not violate a criminal defendant’s sixth amendment Confrontation Clause right if the trial court specifically finds such a procedure necessary to protect the child’s welfare, in St. Mary’s Law Journal, 1990-91, vol. 22, p. 555 ss. (153) Per maggiori approfondimenti si rimanda a D. SHAVIRO, The Confrontation Clause today in light of its common law background, in Valparaiso University Law Review, 1991-92, vol. 26, p. 337 ss.; ID., The Supreme Court’s bifurcated interpretation of the Confrontation Clause, in Hastings Constitution Law Quarterly, 1990, vol. 17, p. 383 ss.; nonché C. MC CORMICK, On evidence, III ed., Clearly ed., 1984, p. 244 ss.; P. WESTERN, Confrontation and compulsory process: a unifed theory of evidence for criminal cases, in Harvard Law Review, 1978, vol. 91, p. 567 ss. Inoltre, P. RABURN-REMFRY, Due process concerns in video production of defendants, in Stetson Law Review, 1993-94, vol. 23, p. 805 ss., ricorda anche che il governatore romano Festo, discutendo del trattamento dei prigionieri, dichiarò che: ‘‘Non è abitudine dei Romani lasciare che un uomo muoia prima che l’accusato abbia incontrato frontalmente il suo accusatore e gli sia data la possibilità di difendersi personalmente dalle accuse’’. V., per ulteriori approfondimenti sul punto, F.R. HERRMANN-B.M. SPEER, Facing the accuser: ancient and medieval precursors of the Confrontation Clause, in Virginia Journal of International Law, 1994, v. 34, p. 481 ss.; R.N. JONAKAIT, The origins of the Confrontation Clause: an alternative history, in Rutgers Law Journal, 1995, v. 27, p. 76 ss.; J.R. KROGER, The confrontation waiver rule, in Boston University Law Review, 1996, v. 76, p. 835 ss.; D.E. SEIDELSON, The Confrontation Clause and the Supreme Court: from ‘‘faded parchment’’ to slough, in Widener Journal of Public Law, 1993, v. 3, p. 477 ss.; P.T. WENDEL, A law and economics analysis of the right to face-to-face confrontation post Maryland v. Craig: distinguishing the forest from the trees, in Hosafra Law Review, 1993, v. 22, p. 405 ss.; I. YOUNGER, Confrontation, in Washburn Law Review, 1984, v. 24, 1 ss.
— 534 — Clause si intuisce agevolmente perché la Suprema Corte — nel caso de quo — colga il significato più intimo, profondo e sostanziale della clausola nella concreta possibilità per l’imputato di realizzare un contraddittorio per la prova contro di lui addotta (condotto soprattutto attraverso la cross-examination), allontanando lo spettro di dibattimenti inquisitoriamente « cartolari ». Anche se, va detto, tale impostazione non impedisce poi alla Corte di individuare altri elementi posti a corollario della stessa perché, pur sempre, importanti e funzionali per il più corretto ed ampio esercizio del diritto di difesa, in termini di maggiore attendibilità delle dichiarazioni testimoniali ed altresì del verdetto della giuria (c.d. Reliability of guilty verdicts (154)), quali il diritto di essere giudicati in pubblico, l’obbligo del testimone di prestare giuramento, la presenza della giuria che osservi il comportamento del teste per valutarne la credibilità ed, ovviamente, il confronto face-to-face tra testimone e imputato (155); a questi elementi, tuttavia, la giurisprudenza de qua non attribuisce valore assoluto ed imprescindibile tanto da ammettere che la loro inosservanza non debba essere considerata causa di violazione del principio costituzionale sancito nel VI emendamento quando si è in presenza di interessi superiori che ne motivano l’esclusione come, nel caso di processi ad alta tensione psicologica o sociale, la protezione del minore dal trauma di un confronto diretto con l’imputato nonché la possibilità di ottenere dalla vittima dichiarazioni più accurate e complete rispetto a quelle prodotte dinanzi all’autore del reato la cui presenza può essere di ostacolo alla sincerità e serenità delle risposte. L’iter logico-argomentativo espresso nelle sentenze prevalenti della Corte Suprema nordamericana convince in pieno, nonostante — poi — l’analisi comparatistica deve fermarsi laddove le profonde differenze storiche, culturali, politiche e giuridiche tra i sistemi di common law e di civil law impediscono un raffronto più pragmatico tra gli istituti. Ciò non toglie, tuttavia, che la prospettiva ermeneutica assunta dalla giurisprudenza d’oltreoceano de qua dimostri che l’applicazione nel processo penale delle tecnologie video per la trasmissione delle immagini a distanza ha una buona tenuta sotto il profilo delle garanzie costituzionali, e se questo è vero in un sistema in cui il diritto al confronto è sancito esplicitamente nella Carta fondamentale, crediamo che il problema abbia più facile soluzione in Italia dove il parametro costituzionale di riferimento è quello contenuto nell’art. 24, comma 2, Cost. (154) Sul concetto di Reliability si rimanda a T.M. MASSARO, The dignity value of face-to-face confrontations, in University of Florida Law Review, 1988, vol. 40, p. 863 ss. (155) ‘‘The Confrontation Clause embraces a bundle of procedures: the accuser must make her charges in public, under oath, while free of coertion, in view of the defendant and jury, and subject to cross-examination’’, in D. SHAVIRO, The Confrontation Clause today, cit., p. 347. V., inoltre, D. CHO, Evidence: the Confrontation Clause, in Annual Survey of American Law, 1987, p. 831 ss.
— 535 — Si è anche detto, però, che il giudizio positivo sulla legittimità dell’uso processuale delle nuove tecnologie audiovisive è legato — in ultima analisi — alla concreta definizione e messa in atto dei presupposti tecnogiuridici che garantiscano il pieno rispetto delle regole. In particolare, lo abbiamo ricordato (156), risulta importante il buon grado di funzionalità degli impianti tecnologici. Anche in questo caso, l’esperienza dei Paesi di common law viene in aiuto (157). In Gran Bretagna, recenti studi dimostrano che a fronte di un buon funzionamento tecnico degli impianti di videoregistrazione, l’esame incrociato del testimone collegato da una postazione remota non è compromesso. Più precisamente, prima dell’entrata in vigore della s.32 (1) del Criminal Justice Act del 1988, in virtù del quale per la prima volta in Inghilterra sono ammesse testimonianze a distanza di bambini vittime di abusi sessuali nonché dei testimoni non presenti nel Regno Unito, una commissione di studio (Advisory Group on Video Evidence, alias Pigot Committee) è appositamente nominata allo scopo di verificare l’assenza di alterazioni sostanziali nella conduzione dell’esame incrociato effettuato mediante strumenti di collegamento audiovisivo (158). I risultati delle indagini condotte, oltre ad avere portato appunto all’emanazione della predetta normativa, dimostrano che ‘‘gli impianti tecnici utilizzati nei collegamenti a distanza non riducono le possibilità offerte alle parti di esaminare e controesaminare i testimoni, a condizione che tutti i protagonisti del processo siamo messi in grado di vedere, sentire e comunicare tra loro. Il sistema migliore perché ciò avvenga è quello che prevede l’installazione di quattro videocamere, tre in aula ed una nel luogo in cui risiede il testimone, idonee a ricevere i suoni e le immagini della postazione remota e riprodurli sui monitors installati di fronte al prosecutor e al difensore, alla giuria e al giudice (al quale è anche data la possibilità di regolare manualmente l’invio delle immagini ed eventualmente di interromperle) e ad inviare i suoni e le immagini dell’aula nella sede lontana’’ (159). (156) V. § 10. (157) Va ricordato che, oltre agli Stati Uniti d’America e al Regno Unito, molti altri Paesi di common law fanno uso dei collegamenti audiovisivi. Tra questi, l’Irlanda del Nord dal 1989 (Police and Criminal Evidence Order), la Scozia dal 1990 (Law Reform Act), il Canada dal 1987 e la Nuova Zelanda dal 1989. Sul punto si rimanda a K. WARNER, Children’s evidence in legal proceedings, an international prospective, Blackstone, 1989, p. 158 ss. (158) V. B. HILL-K. FLETCHER-B. ROGERS, Sexually related offences, Sweet & Maxwell, 1997, p. 43 ss.; J. SPRACK, Criminal procedure, VII ed., Blackstone, 1997; A.A. ZUCKERMAN, The principles of criminal evidence, Clarendon Press, 1989, p. 164 ss. Per una chiara descrizione (in lingua italiana) del sistema processuale penale anglosassone si rinvia a AA.VV., Procedure penali d’Europa, ed. italiana a cura di M. CHIAVARIO, Cedam, 1998, p. 213 ss. (159) Cfr. AA.VV., The use of video technology at trials of alleged child abusers,
— 536 — Dopo 23 mesi dall’entrata in vigore della prima normativa del 1988, un’ulteriore commissione è nominata in Inghilterra per monitorare gli effetti prodotti dall’applicazione processuale delle tecnologie video (Davies and Noon, 1991 (160)) su un campione di 115 processi. Il rapporto dimostra come l’unico difetto tecnico rilevato nell’esame incrociato condotto a distanza è dato dalla difficoltà di isolare la voce del testimone o di colui che formula le domande da altri suoni presenti nei due luoghi, con conseguenze sulla chiarezza delle risposte e delle domande stesse; nel contempo, comunque, si è altresì riscontrato che gli addetti ai lavori (prosecutors, avvocati e giudici), dopo un iniziale difficoltà di approccio con il mezzo tecnico, sono riusciti a condurre agevolmente l’esame incrociato telematico, esprimendo un quasi unanime consenso stimato in una percentuale del 75% nei prosecutors, dell’83% negli avvocati e del 74% nei giudici (161). Va ricordato, a dimostrazione dell’ampio consenso ricevuto in Gran Bretagna (ma la considerazione può estendersi a molti dei sistemi processual-penalistici di common law), che l’uso dei collegamenti audiovisivi nel processo penale inglese è stato ampliato in maniera significativa dal Criminal Justic Act del 1991 relativamente a quelle ipotesi in cui la vittima minorenne, che per ragioni di sicurezza abbia pre-registrato le proprie dichiarazioni, venga controesaminata a distanza attraverso live video link (S.54) (162). 12. L’analisi delle norme sui collegamenti audiovisivi esposta nella prima parte del presente lavoro, l’osservazione successiva degli scenari critici che su tali norme si sono dischiusi, l’affermazione di due incontrastate verità ricordate poco dopo, la manifesta nonché nostra personale inclinazione verso il riconoscimento di un’adeguata mediazione operata dalla norme de quibus nei confronti dei valori difensivi del processo penale, stimolata e supportata dagli orientamento giurisprudenziali e pragHome office, London, 1987. Per maggiori approfondimenti sugli studi effettuati v. D.J. BIRCH, Children’s evidence, in The Criminal Law Review, 1992, p. 262 ss.; J. MCEVAN, Evidence and the adversarial process. The modern law, Blackstone, 1992, p. 112 ss.; J.R. SPENCER, Child witnesses, video-technology and the law of evidence, in The Criminal Law Review, 1987, p. 76 ss.; S. UGLOW, Evidence, Sweet & Maxwell, 1997, p. 587 ss. (160) Cfr. G. DAVIES-E. NOON, An evaluation of the live link for child witnesses, Home office, London, 1991. (161) I dati statistici sono riportati da M.S. ZARAGOZA, Memory and testimony in the child witness, vol. I, Sage pub., 1995, p. 206 ss. Si rinvia, per ulteriori approfondimenti, a A. MESTITZ, La videoregistrazione negli USA, in Gran Bretagna e in Italia, in AA.VV., Verbalizzazione degli atti processuali, cit., p. 338 ss. (162) Sul Criminal Justice Act del 1991 si rimanda a R. LENG-C. MANCHESTER, A Guide to the Criminal Justice Act, 1991, p. 157 ss.; M. WASIK-R.D. TAYLOR, Criminal Justice Act, 1991, Blackstone, p. 204 ss.
— 537 — matici dei Paesi di common law — da ultimi richiamati —, permettono di fare (quasi in calce) una riflessione di carattere generale. Una verità si schiude alle soglie del nuovo millennio. Anche nei confronti del processo penale si pone, in modo sempre più pressante, l’esigenza di adeguare le norme, i modelli, la struttura (insomma, la morfologia del processo penale stesso) alle innovazioni offerte continuamente dallo sviluppo tecnologico. Non solo perché la chiusura aprioristica verso questa sfida destina il codice di procedura penale (e l’intero processo) a sicura sconfitta, divenendo ben presto obsoleto a causa della sua asincrona immobilità. Ma, soprattutto, perché un’effettiva modernizzazione delle strutture, degli uffici giudiziari, dei meccanismi processuali, può rappresentare « una » strada attraverso cui promuovere una maggiore efficienza della giustizia penale e rispondere alle esigenze ed aspettative dei cittadini. Certo, è una strada affascinante a tale punto forse da coinvolgere il nomoteta fino a « smaterializzare » il processo se non addirittura a trasformare il « luogo sacro dell’udienza » in uno spazio privo di fisicità in cui le azioni si realizzano attraverso meccanismi virtuali, compiuti con l’ausilio di apparecchiature telematiche. Allora, occorre procedere con cautela rifiutando una linea di tendenza tanto evolutiva da aprire le porte del processo a qualsivoglia congegno tecnologico atto ad alterarne totalmente i connotati spaziali e temporali, ma, nel contempo, accettando di fruire di quei moderni mezzi scientifici che ‘‘propiziano risparmi di tempo, di risorse umane e materiali’’ (163) in armonia con il mondo di valori del processo penale. Ed è proprio in quest’ultimo contesto che si colloca la disciplina normativa dei collegamenti audiovisivi. dott. DONATELLA CURTOTTI NAPPI
(163) Così, e per le interessanti riflessioni sul punto, G.P. VOENA, L’esame a distanza, cit., p. 116.
AI MARGINI DELL’ESIGIBILITÀ: NEMO TENETUR SE DETEGERE E FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. L’orientamento della Corte di cassazione. — 3. Nemo tenetur se detegere e diritto di difesa. — 4. Nemo tenetur se detegere, diritto sostanziale ed ‘‘inesigibilità’’: considerazioni generali. — 5. Nemo tenetur se detegere e stato di necessità. — 6. Nemo tenetur se detegere e causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 384 c.p. — 7. Nemo tenetur se detegere: una scusante tacita?. — 8. (Segue): limiti alla rilevanza sostanziale del principio nemo tenetur se detegere. Rilievi sistematici. — 8-a) Potenziale (incontrollabile) estensione dell’ambito di applicazione del principio. - 8-b) Prime indicazioni (di segno contrario) ritraibili dall’art. 219 l. fall. 8-c) La recente normativa in tema di tassabilità dei proventi da attività illecite. - 8d) Indicazioni ritraibili dai rapporti tra il delitto di frode fiscale e le contravvenzioni di cui all’art. 1, comma 2, legge n. 516/1982. - 8-e) L’aggravante della connessione ipotattica: rapporti con l’art. 384 c.p. ed indicazioni sistematiche. - 8-f) La natura eccezionale dell’art. 384 c.p. alla luce della disciplina del c.d. ‘‘blocco dei beni’’ dei famigliari del rapito. - 8-g) Ulteriori indicazioni ritraibili dalla disciplina del reato continuato, dalle figure di reato complesso e dall’amnistia prevista dall’art. 1 del d.P.R. n. 23/1992. - 8-h) Considerazioni sulla gravità del reato (ritenuto) impunemente occultabile in forza del principio nemo tenetur se detegere. - 8-i) (Segue): conseguenze derivanti dalla ‘‘continuità’’ delle poste di bilancio. — 9. Sostanziale inutilità del ricorso al principio nemo tenetur se detegere: l’omissione di informazione non è condotta tipica ex art. 2621, n. 1, c.c. — 10. Conclusioni.
1. ‘‘Il coraggio, se uno non ce l’ha, mica se lo può dare’’. Queste celebri parole che il Manzoni pone in bocca a Don Abbondio racchiudono con straordinaria efficacia la tensione psicologica che talvolta attanaglia la volontà dell’uomo, coartandolo e spingendolo a compiere azioni che — in condizioni ‘‘normali’’ — egli aborrirebbe. Così è per Don Abbondio, costretto a rifiutare la celebrazione del matrimonio tra Renzo e Lucia, ma così è spesso nella vita dell’uomo, talvolta oppresso da circostanze che paiono indominabili. Come può il diritto intervenire in situazioni di questo genere? E può il diritto stesso essere fonte di pressioni psichiche tali da spingere l’uomo a comportamenti che potremmo quasi dire ‘‘contro natura’’? È giusto che il diritto, normalmente servitore dell’uomo, ne possa diventare padrone, comandandogli comportamenti (almeno apparentemente) irragionevoli? Ci rendiamo conto che la risposta a questi interrogativi spetta certamente al filosofo ed al politico prima che al giurista: sono la filosofia e la
— 539 — politica a coniare gli strumenti che poi il giurista è chiamato ad interpretare ed applicare. Sarebbe allora pretenzioso, da parte nostra, prefiggerci di rispondere a tali, inquietanti, domande. Gli è che uno dei più grandi criminalisti del passato, Cesare Beccaria, già ebbe a dire che ‘‘non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti indelebili dell’uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo’’ (1). Ed un autorevole penalista contemporaneo, Franco Bricola (2), rivendica al giurista un ruolo che ‘‘non deve soltanto limitarsi ad approntare gli strumenti concettuali e tecnici per il conseguimento di quei fini di politica legislativa che altri (i politici) devono prefigurare. È una limitazione questa che appare doppiamente criticabile: da un lato, perché essa fa, dell’artificiosa contrapposizione tra giurista e politico, lo strumento per l’alienazione del primo dalla sfera decisionale; dall’altro, perché essa non tien conto del fatto che spesso, in un sistema a costituzione rigida, le stesse finalità di politica criminale sono prefigurate al legislatore e al politico dalla Carta costituzionale’’. Ecco allora che gli interrogativi che si pongono le coscienze dei consociati turbano l’animo del giurista, anch’egli in qualche modo parte in causa, se non complice almeno ambasciatore di un ‘‘sistema normativo’’ pronto talvolta a trasformarsi in Moloch spietato. Si rimane così sconcertati davanti alla possibilità di punire a titolo di favoreggiamento reale chi si adopera al fine di far conseguire agli autori di un sequestro di persona il prezzo della liberazione della vittima (3), prescindendo dal fatto che costui sia emissario della famiglia del sequestrato oppure dei sequestratori (situazione resa tristemente nota dalla cronaca recente); si è titubanti davanti alla pretesa che colui che ha conseguito proventi da attività illecita debba dichiarare gli stessi e sottoporli a tassazione, sotto minaccia di sanzione penale (4). E può destare perplessità la punibilità a titolo di favoreggiamento personale di chi offre ricovero al compagno della propria vita (che però non ha — ancora? — sposato) sapendo che questi si sta sottraendo alle ricerche dell’Autorità; tanto più se si pensa che ciò è permesso a chi compie la stessa condotta in favore del proprio coniuge (5). (1) BECCARIA, Dei delitti e delle pene, § II. (2) BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1967, p. 12. (3) Cfr. art. 1, comma 4, legge 15 gennaio 1991, n. 8. In proposito, si veda infra, il § 8-f). (4) Cfr., infra, note n. 90 e 91. (5) Cfr. infra, la nota n. 106.
— 540 — Da parte nostra, vorremmo limitarci ad aprire uno scorcio su problemi tanto inquietanti soffermandoci su di un caso che a noi pare emblematico e che ha per protagonista il delitto di false comunicazioni sociali, fattispecie che, come è noto, tutela la veridicità delle comunicazioni concernenti la natura e la provenienza dei valori economici investiti nell’impresa. Ma fino a quale segno può spingersi tale obbligo di veridicità? 2. ‘‘Il reato di false comunicazioni sociali non è configurabile quando nelle scritture contabili non siano riportati i proventi e le attività commerciali ricavati da azioni delittuose. Le false attestazioni infatti pur rientrando formalmente nella previsione normativa non sono punibili perché nessuno può essere obbligato a fornire — attraverso la scritturazione nei libri sociali — prove a suo carico di reati commessi’’ (6). Con questa massima, priva di precedenti (7), poco più di dieci anni or sono la Corte di cassazione introdusse in via interpretativa una notevole limitazione all’ambito di applicazione non del solo delitto previsto dall’art. 2621, n. 1, c.c. ma — seppur indirettamente — di moltissime fattispecie penali in qualche modo imperniate su obblighi di annotazione o di dichiarazione (8) (si pensi alle bancarotte documentali e a molte delle fattispecie penali tributarie, solo per fare degli esempi sui quali ci ripromettiamo di tornare). Singolarmente, al momento di codesto pronunciamento, la questione era del tutto ignorata altresì dalla dottrina (9), la quale solo successivamente si è interrogata sulla configurabilità di una portata sostanziale di quel principio generalmente riassunto dal brocardo nemo tenetur se detegere (10). (6) Così Cass., 21 gennaio 1987, in Cass. pen., 1988, p. 379, ed in CRESPI, Rassegna di diritto societario (1987-1988), in Riv. soc., 1990, p. 1491. (7) Ma la stessa tesi enunciata dalla sentenza testé citata è successivamente stata seguita, in giurisprudenza, da Cass., 14 marzo 1989, in Cass. pen., 1990, p. 2208 ed in CRESPI, Rassegna di diritto societario (1989-1990), in Riv. soc., 1992, p. 1043. (8) Avverte questa implicazione anche lo ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’: profili sostanziali, in questa Rivista, 1989, p. 175. (9) Per questa constatazione, cfr. ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 174. (10) Per una dilatazione del principio nemo tenetur se detegere anche al di fuori della sfera processuale cfr., con specifico riferimento all’art. 2621 c.c., ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 174 ss.; ZUCCALÀ, Le false comunicazioni sociali. Problemi antichi e nuovi, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1989, p. 753. In ambito penale fallimentare, pare invece aderire a quest’ordine di idee MANGANO, Disciplina penale del fallimento, Milano, 1993, p. 74. Sul punto, cfr. già MIRTO, Il diritto penale delle società, Milano, 1954, p. 163, secondo il quale ‘‘ci possono essere momenti particolari nella vita di un’azienda o di un’impresa per cui si impone la necessità di mentire; sicché occorre inserire una locuzione che valga a di-
— 541 — Il tema, in effetti, è estremamente delicato, trattandosi di accertare se la portata del diritto alla difesa di cui all’art. 24 Cost. sia tale da travalicare i confini del diritto processuale per giungere a scriminare la violazione generalizzata di norme sostanziali, neppure poste (almeno direttamente) a tutela dell’amministrazione della giustizia. Purtroppo, la motivazione della sentenza che per prima ha affermato l’applicabilità del diritto a non autoaccusarsi al delitto societario, è estremamente scarna (11), come molto succinta è anche la motivazione dell’unico pronunciamento — perlomeno della Corte di legittimità — che si è successivamente uniformato a tale precedente (12). Di conseguenza, non è dato comprendere chiaramente in forza di quale meccanismo giuridico venga dedotta la non punibilità del reato in questione: più in particolare, potrebbe trattarsi di una applicazione dell’art. 51 c.p., ossia dell’esercizio di un diritto a sua volta dedotto dall’art. 24 Cost.; oppure ad operare potrebbe essere una diversa causa di non punibilità (in senso lato (13) ), ristinguere la falsità necessitata dalla falsità delittuosa’’ (l’autore si riferisce all’inserimento nella norma dell’avverbio ‘‘fraudolentemente’’). In senso contrario, invece, a siffatta estensione del diritto a non autoaccusarsi, in dottrina, cfr. ARCESE, Il principio di inesigibilità nei reati fallimentari e societari, in Riv. pen. ec., 1991, p. 126 ss.; AZZALI, Caratteri e problemi del delitto di false comunicazioni sociali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, p. 400; CORCIULO, Falsi in bilancio e redditi illeciti, in Riv. pen. ec., 1992, p. 254; FOFFANI, Lotta alla corruzione e rapporti con la disciplina penale societaria, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1994, p. 961; FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, p. 355 ss., in nota n. 73; TINTI, Rapporti tra le fattispecie di frode fiscale previste dalle lettere d), e) ed f) dell’art. 4 della legge n. 516 e il reato di cui all’art. 2621 del codice civile, in Il fisco, 1997, p. 4270; PEDRAZZI, in PEDRAZZI, SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario alla legge fallimentare, a cura di F. GALGANO, Bologna-Roma, 1995, p. 92, nota n. 9; ID., voce Società commerciali (disciplina penale), in Dig. disc. pen., vol. XIII, Torino, 1997, p. 361; VENEZIANI, Appunti in tema di profili penalistici del bilancio consolidato di gruppo ai sensi del d.lgs. 9 aprile 1991, n. 127, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 253. Cfr. altresì i rilievi del CRESPI, Rassegna di diritto societario (1987-1988), in Riv. soc., 1990, p. 1492. La giurisprudenza, in genere, si dimostra contraria al riconoscimento di una valenza sostanziale del principio in questione. In linea generale, cfr. Corte cost., 30 luglio 1984, n. 236, in Giur. cost., 1984, I, p. 1666 ss., con ulteriori riferimenti a precedenti giurisprudenziali della Corte stessa (cfr. p. 1688 ss.). Per ulteriori riferimenti facciamo rinvio al paragrafo successivo. Con precipuo riferimento al delitto di false comunicazioni sociali, cfr. Trib. Milano, 28 aprile 1994, in Foro it., 1995, II, p. 24 ss.; Cass., 22 gennaio 1992, in Cass. pen., 1992, p. 2198; Cass., 5 dicembre 1995, in Cass. pen., 1996, p. 2780; Trib. Torino, 9 aprile 1997, n. 704, inedita. (11) Condivide questo giudizio lo ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 175. (12) Cfr. le note nn. 6 e 7. (13) Secondo la terminologia adottata dal VASSALLI, voce Cause di non punibilità, in Enc. del diritto, vol. VI, Milano, 1960, p. 610. Sarà nostra cura, nel prosieguo della ricerca, vedere a quale tipologia di causa di non punibilità sia riconducibile, ed in particolare se si tratti di una causa di giustificazione, di una scusante oppure di una causa di non punibilità
— 542 — collegabile a quel principio di inesigibilità spesso invocato dalla dottrina che si è dichiarata concorde con la citata pronuncia (14); ma allora, se di una scusante si dovesse trattare, occorrerebbe altresì comprendere se essa sia riconducibile ad una delle scusanti espressamente previste dal nostro codice penale oppure se si tratti di una c.d. ‘‘scusante tacita’’. Per rispondere a tali quesiti, ci pare allora opportuno prendere le mosse proprio da una verifica della portata dell’art. 24 Cost., così da constatare se una rilevanza anche sostanziale del principio nemo tenetur se detegere possa essere tratta direttamente dal dettato costituzionale. 3. Come accennato, il ricorso a quel diritto a non fornire la prova della propria colpevolezza che si ritiene (15) pacificamente costituzionalizzato dall’art. 24, comma 2 della nostra Carta, pare essere la via maestra per rendere operante nel nostro sistema giuridico un principio quale quello affermato dalle dianzi ricordate pronunce di legittimità. In tal guisa, si potrebbe concludere a favore dell’ingresso di un tale diritto all’interno del nostro ordinamento penale in forza del disposto dell’art. 51 c.p., troncando alla radice qualsiasi necessità di ricorrere alla creazione di cause di non punibilità tacite o di estensione analogica di quelle già esistenti. Non ci sembra, quindi, del tutto coerente la sovrapposizione di piani, talvolta affiorata in dottrina, tra rilevanza del principio di inesigibilità e diritto alla difesa ex art. 24 Cost. (16). A noi pare, infatti, che, ove si riuin senso stretto. Per un’efficace individuazione delle tre categorie, per tutti, ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in Studi in onore di Giuliano Vassalli, vol. I, Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale, Milano, 1991, p. 221 ss.; ID., Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 1995, p. 490. Si rinvia, in proposito, alle note nn. 30 e 31. (14) E si vedano ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., passim, e part. p. 191 ss.; ZUCCALÀ, Le false comunicazioni sociali. Problemi antichi e nuovi, cit., p. 753. (15) Per tutti, SCAPARONE, Il comma 2 dell’art. 24, in AA.VV., Rapporti civili, in Commentario della Costituzione, a cura di BRANCA, Bologna-Roma, 1981, p. 87 ss.; VOENA, voce Difesa penale, in Enc. giur. Treccani, vol. X, Roma, 1988, pp. 16-17. Con riferimento alla riconducibilità del diritto al silenzio al diritto di difesa sancito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si veda Cour européenne des droits de l’homme, 17 décembre 1996, affaire Saunders c. Royaume-Uni, reperibile al sito Internet www.dhcour.coe.fr/fr/Saunders: ‘‘la Cour rapelle que, meme si l’article 6 de la Convention ne le mentionne pas expressément, le droit de se taire et — l’une de ses composantes — le droit de ne pas contribuer à sa propre incrimination sont des normes internationales généralement reconnues qui sont au coeur de la notion de procès équitable consacrée par ledit article’’. (16) Cfr. part. ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 195, ed ivi vedasi nota 45, ove l’autore parla di un possibile ‘‘raccordo tra art. 384 c.p. e diritto costituzionale di difesa’’; cfr. altresì pp. 209-210. Non del tutto immune da questo equivoco pare essere, in giu-
— 543 — scisse a dimostrare che l’operatività sostanziale del principio nemo tenetur se detegere altro non è che espressione del generale diritto alla difesa, allora qualsiasi questione di esigibilità sarebbe da ritenersi superata grazie al ricorso alla disciplina dell’esercizio del diritto, con la relativa possibilità di applicare non solamente una ‘‘scusante’’ bensì una ‘‘causa di giustificazione’’ tout court, espressamente codificata e non bisognosa di equilibrismi giuridici quali quelli che deve necessariamente affrontare — come si vedrà tra breve — l’interprete che voglia ricorrere all’inesigibilità per escludere la punibilità di una determinata condotta. L’equivoco, a nostro modesto avviso, si fa palese laddove si afferma (17) che ‘‘la non punibilità di una testimonianza falsa, se l’esporre la verità si traduce in una confessione per il dichiarante, non è che il riflesso sostanziale del sovraordinato divieto di imporre un obbligo del genere. E non vi è dubbio che, in virtù dell’art. 24, comma 2, Cost., andrebbero espulse dall’ordinamento, perché costituzionalmente illegittime, norme che ponessero, all’interno del processo, un dovere di verità, nei confronti di taluno, a sé pregiudizievole, ovvero doveri di comunicazione in contrasto con il diritto al silenzio. Se si immagina uno scenario normativo da cui sia assente l’art. 384 c.p. non è ipotizzabile che le incriminazioni delle falsità giudiziali possano estendersi anche ai casi in cui il fatto sia commesso per non fornire prove contra se, pena il contrasto con il dettato costituzionale’’. Concludendo poi che ‘‘affermare, conseguentemente, che tramite l’art. 24, comma 2, Cost. si sia provveduto a costituzionalizzare il divieto di obblighi di autoincriminazione non appare affatto arbitrario’’. A noi pare che, se una tale costruzione corrispondesse alla realtà del tessuto normativo, allora la non punibilità delle condotte ‘‘scusate’’ dall’art. 384 c.p. discenderebbe direttamente dall’applicazione dell’art. 51 c.p., rendendo sostanzialmente superfluo, almeno dall’emanazione della nostra Costituzione, il comma 1 della norma di parte speciale. In realtà, l’art. 384, comma 1, c.p., del quale ci occuperemo diffusamente nel prosieguo della nostra indagine, rende non punibili non solo condotte meramente omissive tenute nel corso di un procedimento penale, ma altresì attività di favoreggiamento, menzogne e frodi finalizzate all’impunità di determinati soggetti particolarmente vicini alla persona del reo; e tali insidiosi comportamenti paiono tutt’altro che riconducibili alla sfera dell’esercizio del diritto di difesa. In primo luogo, occorre infatti osservare come da lunga data la Corte risprudenza, la recente Cass., 11 giugno 1994, in Dir. pen. e processo, 1995, p. 90, con nota critica di UBERTIS. (17) ZANOTTI, op. ult. cit., pp. 197-198.
— 544 — costituzionale abbia affermato l’operatività del diritto alla difesa esclusivamente nell’ambito del processo penale (18); e se tale ambito è stato più volte esteso, ricomprendendo circostanze e situazioni più o meno contigue al processo, nondimeno la Corte è sempre rimasta ben distante da una generalizzata estensione del diritto a non fornire la prova della propria colpevolezza fino a ricomprendervi il sistema del diritto sostanziale (19). Ciò emerge altresì da quella dottrina che, pur attenta ai diritti del(18) Perentorie Corte cost., 3 dicembre 1969, n. 149, in Giur. cost., 1969, I, p. 2276 ss., part. p. 2297: il diritto di difesa ‘‘non può essere operante prima che un indizio di reato ci sia e prima che esso si soggettivizzi nei confronti di una determinata persona’’; Corte cost., 17 novembre 1971, n. 179, in Giur. cost., 1971, I, p. 2190, part. p. 2193: ‘‘la legge deve garantire il diritto di difesa a partire dal momento in cui l’indizio di reato ‘si soggettivizza nei confronti di una determinata persona’ ’’; nello stesso senso, Corte cost., 30 luglio 1984 n. 236, in Giur. cost., 1984, I, p. 1666 ss., e part. p. 2689; Corte cost., 16 febbraio 1963, n. 10, in Giur. cost., 1963, I, p. 80, ‘‘l’art. 24 Cost. in tutto il suo contenuto riguarda esclusivamente il giudizio e le garanzie assicurate a chi deve agire in giudizio o comunque subire un giudizio, e non si estende a considerare i momenti anteriori dai quali esso trae origine. Il comma 2 dell’articolo inoltre, nel riferirsi in particolare al diritto di difesa, stabilisce che la difesa è diritto inviolabile ‘in ogni stato e grado del procedimento’ delimitando espressamente tale diritto nell’ambito del procedimento’’. Cfr. altresì Corte cost., 23 aprile 1965, n. 32, in Giur. cost., 1965, I, p. 308. Nello stesso senso, Cour européenne des droits de l’homme, 17 décembre 1996, affaire Saunders c. Royaume-Uni, reperibile al sito Internet www.dhcour.coe.fr/fr/Saunders, secondo la quale: ‘‘...la Commission... estime que les exigences générales d’équité consacrées à l’article 6, y compris le droit de ne pas contribuer à sa propre incrimination, s’appliquent aux procédures pénales concernant tous les types d’infraction criminelle, de la plus simple à la plus complexe. L’intérêt public ne saurait justifier l’utilisation de réponses obtenues de force dans une enquête non juduciaire pour incriminer l’accusé au cours de l’instance pénale’’. A dire che, nonostante gli interessi che sottendono all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non ammettano alcuna subordinazione, l’operatività di tale norma è pur sempre limitata ‘‘aux procédures pénales’’ (si veda altresì Cour européenne des droits de l’homme, 17 décembre 1996, affaire Serves c. France, reperibile al sito Internet www.dhcour.coe.fr/fr/Serves). Di qui l’importante principio enunciato dalla medesima pronuncia: ‘‘... le droit de ne pas s’incriminer soi-même... ne s’étend pas a l’usage, dans une procédure pénale, de données que l’on peut obtenir de l’accusé en recourant à des pouvoirs coercitifs mais qui existent indépendamment de la volonté du suspect, par exemple les documents recuillis en vertu d’un mandat, ...’’. (19) Sul punto, con riferimento alla normativa ante riforma del processo penale, cfr. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 297; CARETTI, La sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 1969 nel quadro di una interpretazione ‘‘dinamica’’ del diritto di difesa, in Giur. cost., 1969, I, p. 2291; ID., Diritto di difesa e misure di sicurezza post-delictum, in Giur. cost., 1968, I, p. 820; FRIGO, Diritto di difesa e atti di polizia giudiziaria nel processo per frodi alimentari, in Giur. cost., 1969, I, p. 2280; DOMINIONI, Prevenzione criminale e diritto di difesa, in Giur. cost., 1968, I, p. 807; SCAPARONE, Il comma 2 dell’art. 24, cit., p. 89. In giurisprudenza, particolarmente incisive Corte cost., 29 maggio 1968, n. 53, in Giur. cost., 1968, I, p. 802; Corte cost., 3 dicembre 1969, n. 149, in Giur. cost., 1969, I, p. 2276. Di recente, cfr. in dottrina VOENA, voce Difesa penale, cit., p. 8 s. Per la giurisprudenza più recente, per tutte, Cass., 11 giugno 1994, in Dir. pen. e processo, 1995, p. 90.
— 545 — l’imputato, aderisce all’orientamento del giudice delle leggi propenso a riconoscere comunque l’esistenza di limitazioni al diritto di difesa, in primis il diritto a che i reati vengano perseguiti (20). Certamente, in dottrina si è rilevato che ‘‘sarebbe inutile ed anzi contraddittorio assicurare alla persona indiziata o imputata di un reato la facoltà di non fornire dichiarazioni sfavorevoli nel processo e nello stesso tempo ammettere che la medesima persona, esaminata come testimone allorché nessun indizio di reità è ravvisabile a suo carico dall’organo che procede, possa essere costretta a rilasciare dichiarazioni che renderanno impossibile ogni sua difesa nel procedimento penale successivamente aperto nei suoi confronti. Per evitare un simile assurdo bisogna convenire che l’articolo in esame comma 2, nella parte in cui garantisce il diritto al silenzio, entra in opera già prima che un indizio di reità emerga a carico di una persona determinata’’ (21). Non possiamo che trovarci concordi con simili, logiche, considerazioni. Tuttavia, come lo stesso Scaparone riconosce, da ciò potrebbe comunque farsi discendere un semplice diritto al silenzio dell’imputato, un diritto a tacere, a non vedersi egli stesso costretto ad autoincrimi(20) SCAPARONE, Il comma 2 dell’art. 24, cit., p. 85 ed ivi riferimenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale. In particolare, cfr. Corte cost., 19 febbraio 1965, n. 5, in Giur. cost., 1965, I, p. 37: ‘‘al precetto costituzionale dell’art. 24, comma 2, Cost., ..., non può attribuirsi un valore assoluto, tale da non consentire adattamenti — o anche restrizioni — da parte del legislatore ordinario qualora si appalesino giustificati da altre norme, o da principi fondamentali desunti dal sistema costituzionale’’; Corte cost., 22 marzo 1971, n. 54, in Giur. cost., 1971, I, p. 566 (e part. p. 571): ‘‘il precetto enunciato nell’art. 24, comma 2, Cost. non esclude che con l’interesse all’accertamento dell’illecito ed alla restaurazione dell’ordine giuridico sia armonizzata l’esplicazione del diritto di difesa come disciplinato dalla legge’’ (nello stesso senso, Corte cost., 2 giugno 1977, n. 98, in Giur. cost., 1977, I, p. 752); Corte cost., 9 giugno 1971, n. 126, in Giur. cost., 1971, I, p. 1209: ‘‘il diritto di difesa deve intendersi garantito non in modo assoluto ed indistinto, bensì in modo condizionato, che tenga conto delle speciali caratteristiche dei singoli procedimenti: ciò sino al limite in cui adattamenti — o anche restrizioni — si appalesino giustificati, da parte del legislatore ordinario, da altre norme del sistema’’. In senso più generale, si veda altresì Corte cost., 22 giugno 1971, n. 136, in Giur. cost., 1971, I, p. 1571. Cfr. altresì GALLI, Dubbi sulla legittimità costituzionale del ‘‘segreto di polizia’’, in Giur. cost., 1968, I, p. 2064 s.; GREVI, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche, in Giur. cost., 1973, I, p. 317, part. p. 319, ove l’autore rileva che ‘‘la norma dell’art. 15, comma 2, Cost. configura un preciso limite all’area di potenziale espansione dell’art. 24, comma 2, Cost. nella prospettiva del nemo tenetur se detegere’’. (21) SCAPARONE, Il comma 2 dell’art. 24, cit., p. 90. Cfr. altresì PALADIN, Autoincriminazioni e diritto di difesa, in Giur. cost., 1965, I, p. 313.
— 546 — narsi (22). La qual cosa è ben diversa dal sostenere un diritto alla menzogna (23). Ma vi è di più. Anche laddove è contemplata dal nostro ordinamento la possibilità che il reo si trovi costretto a rilasciare dichiarazioni contra se in un ambito che talvolta può divenire limitrofo al processo penale, e cioè in sede di interrogatorio del fallito da parte del curatore fallimentare, la Corte costituzionale ha ritenuto la questione risolvibile semplicemente affermando che: ‘‘l’interrogatorio del fallito opera fuori dell’istruzione penale per la quale le dichiarazioni rese prima della assunzione della qualità di imputato non sono utilizzabili, sicché a fortiori resta escluso che possano venire in considerazione le dichiarazioni fatte dal fallito (sia esso imputato o no) al curatore, non qualificabile neppure come ufficiale di polizia giudiziaria’’ (24). Successivamente, anche a seguito del sopraggiungere del nuovo co(22) Non a caso si parla di ius tacendi: per tutti, AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, in Riv. dir. proc., 1974, p. 408; GREVI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, Milano, 1972, p. 1 ss., passim; SCAPARONE, Il comma 2 dell’art. 24, cit., pp. 90 e 91, ove il chiaro autore rileva che ‘‘il diritto di non fornire alle domande rivoltegli (al testimone, n.d.a.) le risposte che potrebbero servire alla prova della sua colpevolezza in ordine ad un reato’’; aggiungendo poi che dalla ratio della disposizione in questione sembrerebbe ‘‘possibile argomentare che la libertà dalle autoincriminazioni ivi garantita comprende, al di là del diritto di non rendere dichiarazioni narrative dei fatti dedotti o deducibili in imputazione, il diritto di non essere costretto a porre in essere alcun comportamento, anche non consistente in dichiarazioni, il quale possa pregiudicare il suo autore nello svolgimento di una difesa nel processo’’. Sul punto, per tutti, si veda altresì BARILE, Diritti dell’uomo, cit., p. 296. Nella giurisprudenza, si veda, significativamente, quanto affermato da Cass., 21 marzo 1997, in Dir. pen. e processo, 1997, p. 556, secondo la quale ‘‘... con riferimento alle dichiarazioni rese da chi aveva la facoltà di non rispondere, e, non essendosene avvalso, ha poi dichiarato il falso, l’esimente deve ritenersi inoperante, poiché in definitiva si ha riguardo non ad altro che alla situazione processuale liberamente determinata dal soggetto’’. In ambito internazionale, si veda Cour européenne des droits de l’homme, 17 décembre 1996, affaire Saunders c. Royaume-Uni, reperibile al sito Internet www.dhcour.coe.fr/fr/Saunders: ‘‘le droit de ne pas s’incriminer soi-même concerne en premier lieu le respect de la détermination d’un accusé de garder le silence’’. (23) E limpidamente, in proposito, Corte cost., 6 maggio 1976, n. 108, in Giur. cost., 1976, I, p. 824, ove, in un caso di integrazione del delitto di cui all’art. 495 c.p., la Corte ha affermato che ‘‘non è dubbio che, se l’imputato, alla domanda rivoltagli dall’inquirente sui suoi precedenti penali risponde in modo contrario al vero, egli incorre nelle sanzioni previste dall’art. 495 c.p. Ma non è esatto che, a tale domanda, egli sia tenuto a rispondere, essendo certo che può rifiutarsi di fornire notizie che in proposito gli vengano richieste, senza incorrere in alcuna responsabilità penale’’. Sul punto, anche il PALADIN, Autoincriminazioni, cit., p. 313, pur in un’ottica estremamente garantista, ritiene non sufficiente ‘‘che l’autorità medesima si limiti a prendere visione dei libri, dei registri e dei documenti, che i singoli debbano tenere per esplicita disposizione di legge’’. (24) Così Corte cost., 14 marzo 1984, n. 69, in Giur. cost., 1984, I, p. 425.
— 547 — dice di procedura penale, il giudice delle leggi si è nuovamente occupato della questione dell’utilizzabilità delle dichiarazioni rese al curatore fallimentare e, con maggior rigore rispetto a quanto fatto un decennio prima, ha concluso per la possibilità di ingresso di dichiarazioni autoincriminanti del fallito all’interno del processo penale attraverso la testimonianza del curatore o tramite la sua relazione (25). È bene sottolineare come una tale presa di posizione non abbia mancato di sollevare immediate reazioni da parte della dottrina (26), la quale si è comunque limitata ad obiettare che ‘‘le dichiarazioni incriminanti eventualmente rese possono essere utilizzate... tutt’al più come notizia del reato, ma non come prova del medesimo nel processo’’ (27). Senza volerci ora avventurare su di un terreno di stretta competenza dei processualisti, vorremmo solo evidenziare come l’intera questione dell’applicabilità del principio nemo tenetur se detegere in ambito fallimentare si risolva non certo in un dibattito sul diritto o meno di mentire al curatore, bensì in una diatriba sul regime processuale delle dichiarazioni rese dal fallito, e quindi sulla valenza probatoria delle stesse. Siamo quindi ben lontani, anche in questa materia, dalla costituzionalizzazione di un diritto a mentire, anche se ciò fosse necessario per sfuggire ad un’azione penale. D’altra parte, ci pare logico che sia così. Si pensi a cosa accadrebbe — da un punto di vista dei principi costituzionali — se il soggetto che si sia macchiato di un fatto di reato potesse poi mentire in un bilancio per non denunciare il proprio precedente reato: colui che si limitasse a mentire nel bilancio sarebbe passibile di sanzione penale; colui che già avesse violato la legge penale, per una medesima menzogna non sarebbe perseguibile ai sensi dell’art. 2621, n. 1, c.c. La disparità di trattamento sarebbe evidente e a tutto vantaggio di chi avesse commesso più illeciti penali. Si noti allora che, ritenendo discendente dalla nostra Costituzione il diritto a mentire in una comunicazione sociale pur di evitare una autoin(25) Corte cost., 27 aprile 1995, n. 136, in Giur. cost., 1995, II, p. 1062. Sul punto, cfr. altresì Trib. Milano, 4 maggio 1990, in Cass. pen., 1991, II, p. 178, con nota di VITTORINI-GIULIANO, La relazione del curatore fallimentare nel processo penale per bancarotta: il problema dell’utilizzabilità dibattimentale, ivi, p. 179. (26) Si veda SCAPARONE, Obbligo di autoincriminazione del fallito, in Giur. cost., 1995, I, p. 2183. (27) Così SCAPARONE, Obbligo di autoincriminazione, cit., p. 2184. Ma cfr. altresì, in linea generale, SCAPARONE, Il comma 2 dell’art. 24, cit., p. 90: ‘‘qualora, poi, simili risposte (autoincriminanti, n.d.a.) debbano comunque essere rese, l’articolo in esame al comma 2 esige quantomeno che esse non possano essere utilizzate ai fini di tale prova’’.
— 548 — criminazione, dovrebbe da ciò farsi conseguire — coerentemente — una dichiarazione di incostituzionalità dell’intera norma sanzionante le false comunicazioni sociali, in quanto confliggente con gli artt. 24 e 3 Cost.: una interpretazione ‘‘monca’’ del dettato civilistico, volta a garantire l’impunità di chi già ha commesso reati, se fosse necessaria per salvare la norma codicistica dal conflitto con l’art. 24 Cost., aprirebbe comunque un insanabile contrasto con l’art. 3 della stessa Carta. Ecco allora che non si sfugge al dilemma: o l’art. 2621, n. 1, c.c. non può mai confliggere con il diritto alla difesa di cui all’art. 24, comma 2, Cost., oppure è norma da dichiararsi in toto incostituzionale, essendo impossibile una interpretazione ‘‘costituzionalmente orientata’’ che ne permetta la contemporanea compatibilità con quanto previsto dagli artt. 24 e 3 Cost. (28). Così stando le cose, pare possibile concludere che l’‘‘ombrello’’ offerto dal diritto di difesa non sia agevolmente estensibile al di fuori del processo penale e, soprattutto, non sia certamente così ampio da permettere al reo di mentire o di tenere comunque condotte attive volte a trarre in inganno l’autorità giudiziaria. In quest’ottica, quindi, la menzogna inserita in un bilancio o in un’altra comunicazione sociale pare senza dubbio esorbitare dalla sfera di impunità garantita dall’art. 24, comma 2, Cost., il quale potrebbe — al più — proteggere il silenzio dell’imputato (o del futuro imputato) o garantire la non acquisizione a titolo di prova nel processo penale di quelle comunicazioni sociali che fossero ritenute equiparabili ad autoincriminazioni. Oltre non pare possibile spingersi. Ma allora, esaurita questa prima opzione interpretativa, occorrerà rivolgere l’attenzione ad altri meccanismi giuridici che permettano di spingere più in là, almeno in linea di principio, l’ambito della non punibilità, rivelandosi idonei a privare di conseguenze penali anche condotte di contenuto attivo quali quelle integranti il falso societario. 4. A nostro modesto avviso, occorre a tal fine circoscrivere subitamente l’ambito dell’indagine, rilevando che, se una qualche valenza sostanziale è attribuibile al principio nemo tenetur se detegere, ebbene, ciò (28) Sulla limitazione dell’art. 24 Cost. alla luce di altri principi costituzionali, cfr. la nota n. 20. Con particolare riferimento all’art. 3 Cost., si veda CARETTI, La sentenza della Corte costituzionale, cit., p. 2303. In linea generale, sui problemi costituzionali connessi alla non punibilità, per tutti, STORTONI, Profili costituzionali della non punibilità, in questa Rivista, 1984, p. 626.
— 549 — può essere fatto esclusivamente agendo all’interno della teoria della colpevolezza. Ed infatti, non ci troviamo qui al cospetto di una circostanza in grado di rendere ‘‘non lesiva’’ una condotta altrimenti tipica, e quindi ad un elemento negativo del fatto, come invece avviene — almeno secondo parte della dottrina — con riferimento alle scriminanti o cause di giustificazione (29). Si tratta, invece, di valutare l’incidenza di una particolare situazione di pressione psicologica, dipendente da una condotta precedentemente tenuta dal soggetto agente e quindi non riguardante il fatto materiale di reato bensì la rimproverabilità dello stesso in capo all’agente (30): in altri termini, occorre domandarsi se il profondo travaglio interiore al quale si trova esposto il soggetto lo renda comunque destinatario di quel precetto penale il cui rispetto lo esporrebbe ad una maggiore probabilità di essere punito per un fatto illecito precedentemente commesso. È quindi rimproverabile colui che viola la legge penale quando l’osservanza della stessa comporti il quasi sicuro assoggettamento a sanzione per un precedente illecito ancora impunito? Da una prospettiva di teoria generale del reato, ciò equivale a chiedersi se il principio nemo tenetur se detegere possa costituire una ‘‘scusante’’, vale a dire una condizione di esclusione della colpevolezza (31); scu(29) Ciò almeno in una concezione bipartita del reato: per tutti, GALLO (Marcello), voce Dolo (dir. pen.), in Enc. del diritto, vol. XIII, Milano, 1964, p. 770 ss.; GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità, Milano, 1964, p. 286 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1992, p. 250; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 1993, p. 412 ss. Per una recente analisi delle questioni inerenti la bipartizione e la tripartizione del reato, per tutti, GIULIANI-BALESTRINO, Sull’intima crisi della concezione tripartita del reato, in Indice pen., 1984, p. 465; ID., L’influenza di Pietro Nuvolone sull’analisi del reato, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, Milano, 1991, p. 13. Per una diversa impostazione, per tutti, MARINUCCI, voce Antigiuridicità, in Dig. disc. pen., vol. I, Torino, 1987, p. 172; ID., voce Cause di giustificazione, in Dig. disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 130; ID., Fatto e scriminanti, in Studi in memoria di Giacomo Delitala, vol. II, Milano, 1984, p. 759, passim, e part. p. 765 ss. e p. 818 ss.; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1993, p. 175 ss. Trattandosi di argomento di parte generale estremamente ricco di studi, ci limitiamo a rinviare — per ulteriori riferimenti — agli scritti testé citati. (30) Sottolinea esattamente la diversità di prospettiva il ROMANO, Giustificazione e scusa nella liberazione da particolari situazioni di necessità, in questa Rivista, 1991, p. 53; ID., Cause di giustificazione, cause scusanti, cit., pp. 222-223; ID., Commentario, cit., p. 490. In particolare, rileva questo autore come — in presenza di cause scusanti — ‘‘in considerazione della particolare situazione che l’agente si trova a dover affrontare, l’ordinamento penale ‘non se la sente’ di incrudelire con una sua sanzione’’ (op. ult. cit., p. 223). Sul punto, si vedano già DOLCE, Lineamenti di una teoria generale delle scusanti nel diritto penale, Milano, 1957, p. 170 ss. e SCARANO, La non esigibilità nel diritto penale, Napoli, 1948, p. 70 ss. Per ulteriori riferimenti facciamo rinvio alla nota successiva. (31) È nota, in dottrina, la distinzione tra cause di giustificazione, scusanti e cause di
— 550 — sante il cui fondamento sarebbe riconducibile alla inesigibilità della condotta comandata dal precetto penale (32). Questa, d’altra parte, è la via costantemente seguita da quella parte di dottrina e giurisprudenza che ha riconosciuto una portata anche sostanziale al principio in questione (33), ritenuto particolare estrinsecazione di quella inesigibilità che permeerebbe il nostro sistema penale ed efficacemente definita dall’Antolisei come impossibilità di ravvisare tanto il dolo quanto la colpa (ma meglio sarebbe dire ‘‘la colpevolezza’’ (34) ) ‘‘quando l’agente si è trovato in condizioni tali da non potersi umanamente pretendere da lui un contegno dinon punibilità in senso stretto: nonostante tra gli studiosi italiani il dibattito su codesto tema non abbia raggiunto il grado di approfondimento proprio della dottrina d’oltralpe, recenti (e non solo) contributi hanno ormai portato una certa chiarezza in uno dei terreni più delicati della teoria del reato. Rinviando subitamente il lettore a codesti studi di parte generale, ci limitiamo in queste sede a ricordare come si sia ormai raggiunta una certa uniformità di posizioni nell’inquadrare la categoria delle c.d. ‘‘scusanti’’ tra le cause di esclusione della colpevolezza. Vale a dire che, in una concezione normativa della colpevolezza, la presenza di codeste scusanti farebbe venir meno la rimproverabilità del fatto in capo al soggetto al quale tali scusanti si riferiscono. Diversamente da quanto accade in presenza di cause di giustificazione, quindi, le scusanti non intervengono sulla tipicità del fatto (per chi aderisca alla concezione bipartita del reato) e neppure (per i seguaci della concezione tripartita) sull’antigiuridicità dello stesso (ma cfr., per la diversa opinione, PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in questa Rivista, 1987, p. 814 ss., part. p. 818). Ciò in quanto le cause di giustificazione sarebbero fondamentalmente imperniate su situazioni di bilanciamento di interessi (ritengono le cause di giustificazione fondate su un bilanciamento di interessi o comunque su di un giudiuzio di tipo strettamente oggettivo sugli interessi in conflitto, per tutti — e limitandoci alla manualistica — BETTIOL, PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1986, p. 413 ss.; FIORE, Diritto penale, Parte generale, I, Torino, 1993, p. 307; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 249; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 179; ROMANO, Commentario, cit., p. 487), mentre nelle scusanti ‘‘l’ordinamento mostra di tenere in speciale conto i riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere’’ (così ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cit., p. 222). Per la dottrina prevalente, per tutti, cfr. soprattutto DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., passim, part. la Sezione seconda del Capitolo I ed il Capitolo III; ROMANO, Giustificazione e scusa, cit., p. 42 ss.; ID., Cause di giustificazione, cause scusanti, cit., p. 211 ss., passim; ID., Commentario, cit., p. 489 ss.; VASSALLI, voce Cause di non punibilità, cit., p. 609 ss.; ma si vedano altresì, seppur in contributi che solo incidentalmente trattano della questione, CAVALIERE, Riflessioni dommatiche e politico-criminali sulle cause soggettive di esclusione della responsabilità nello schema di delega legislativa per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1994, p. 1478 ss.; FIORE, Diritto penale, cit., vol. I, p. 299 ss.; HIRSCH, La posizione di giustificazione e scusa nel sistema del reato, in questa Rivista, 1991, p. 767 ss. Per un’impostazione particolare (sia cause di giustificazione che scusanti come elementi negativi del fatto) cfr. MOLARI, Profili dello stato di necessità, Padova, 1964, p. 21 ss. (32) E per un’analisi della riconduzione del concetto di esigibilità alla teoria della colpevolezza, dagli scritti di Frank in avanti, cfr. FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 54 ss. Per ulteriori riferimenti, cfr. infra la nota n. 67. (33) Si vedano la dottrina e la giurisprudenza citate alle note 6, 7 e 10. (34) Cfr. infra la nota n. 67.
— 551 — verso da quello tenuto, e, quindi, da non potersi da lui esigere un comportamento conforme al precetto’’ (35). A tale proposito, il riconoscimento di una valenza (anche) sostanziale a codesto diritto di non autodenunciarsi, potrebbe avvenire — a nostro avviso — teoricamente in tre modi, battendo quindi tre diverse vie che — di primo acchito — si mostrano come altrettanti possibili spiragli attraverso i quali un generale (ma non codificato) principio di inesigibilità potrebbe filtrare nella teoria del reato. Una prima possibilità sarebbe quella di ritenere che dietro al brocardo nemo tenetur se detegere si celi null’altro che un caso specifico di stato di necessità, rientrando quindi nell’ambito di applicazione dell’art. 54 c.p. È chiaro come una simile interpretazione presupponga però una particolare lettura di codesta norma, volta a ritenerla imperniata non tanto su di un bilanciamento di interessi quanto — appunto — sulla inesigibilità di un comportamento diverso rispetto a quello necessitato; lettura questa che — come si vedrà tra breve — appare tutt’altro che pacifica in dottrina. Altro possibile percorso ermeneutico potrebbe essere quello di considerare il principio nemo tenetur se detegere come caso particolare della più ampia scusante prevista dall’art. 384 c.p., soluzione questa che si discosterebbe dalla precedente solamente a patto di non ritenere a sua volta lo stesso art. 384 c.p. un caso particolare di stato di necessità (e si veda infra, § 6). Infine, una rilevanza sostanziale del principio in questione la si potrebbe dedurre ammettendo la configurabilità di cause di non punibilità tacite, non codificate (a rigore si tratterebbe di una ‘‘scusante’’ tacita), così da ritenere possibile un’estensione analogica (evidentemente in bonam partem) di quanto previsto dal legislatore nell’ambito dello stato di (35) ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, Milano, 1994, p. 394, il quale ricorda gli esempi con più frequenza addotti dalla dottrina per illustrare casi ritenuti risolvibili mediante il ricorso alla inesigibilità: ‘‘un autista fugge, lasciando senza soccorso la persona investita, per sottrarsi al pericolo di essere linciato dalla folla; un individuo, attraversando una montagna, abbandona la propria amica colta da congelamento agli arti inferiori perché non conosce la strada e la notte si avvicina; un medico condotto si rifiuta di recarsi a visitare un infermo per la grande stanchezza che gli deriva da altre visite già compiute’’. Cfr., su tali esempi, SCARANO, La non esigibilità, cit., p. 89 ss. Vedasi altresì FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 12, secondo il quale si avrebbe applicazione del principio di inesigibilità ‘‘allorché un comportamento C (pur materialmente realizzabile) non può essere umanamente (qualcuno potrebbe dire anche: moralmente) preteso dalla persona P’’. L’esigibilità assume così i connotati di quella che a più riprese il Fornasari definisce una ‘‘valvola respiratoria’’ del sistema penale (cfr., ad esempio, FORNASARI, op. ult. cit., pp. 4-5, p. 26).
— 552 — necessità e/o dell’art. 384 c.p.; si delineerebbero in tal guisa i contorni di una scusante — sempre fondata sul principio di inesigibilità — che qualificherebbe come non ‘‘esigibile’’, non ‘‘comandabile’’ al consociato un comportamento risolventesi in un’autodenuncia (36). Ci ripromettiamo, nei paragrafi che seguono, di sondare l’attendibilità di ognuna di queste possibili letture, così da verificare se il diritto a non autodenunciarsi sia davvero di latitudine tale da lambire gli istituti sostanziali del sistema penale. 5. Prendendo allora le mosse dal primo dei percorsi interpretativi di cui ci siamo ripromessi di verificare la percorribilità, ci chiediamo se sia possibile sostenere una efficacia sostanziale del principio nemo tenetur se detegere ancorando lo stesso al disposto di cui all’art. 54 c.p. È quindi possibile ritenere che, in conseguenza di quanto previsto dall’art. 54 c.p., un soggetto possa mentire impunemente in un bilancio o in un’assemblea pur di non autoaccusarsi di un illecito precedentemente commesso? È ovvio che ad una tale domanda debba dare risposta decisamente negativa tutta quell’ampia parte della dottrina (37) che ritiene lo stato di necessità essere una causa di giustificazione, fondata quindi su di un giu(36) Non pare condivisibile già a priori, invece, la tesi del MIRTO, Il diritto penale delle società, cit., p. 163, il quale pare adombrare un’assenza, in siffatti casi, di dolo in capo al soggetto mentitore. In realtà, a noi pare che il mentire per nascondere un precedente reato sia condotta che possa benissimo essere dolosa, e possa altresì essere connotata da quel particolare dolo che è richiesto per la sussistenza del delitto societario. In realtà, la questione del nemo tenetur se detegere — al massimo — potrebbe concernere non tanto il dolo del reato quanto le motivazioni che portano alla commissione dello stesso (cfr. lo stesso MIRTO, Estensione specifica dello stato di necessità, in Giust. pen., 1937, II, p. 1024; tuttavia, diversamente, PAGLIARO, I reati connessi, Palermo, 1956, p. 73 s.), quindi non si tratterebbe, ci pare, di un problema di qualificazione del processo volitivo bensì di analisi dello stato psicologico dal quale il suddetto processo nasce. In realtà, l’impostazione del Mirto pare risentire fortemente di una radicata concezione psicologica della colpevolezza. (37) Per tutti, AIELLO, voce Stato di necessità, in Enc. giur. Treccani, vol. XXX, Roma, 1993, p. 8; ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., p. 279; BETTIOL, PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 392-393; FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 345; GROSSO, voce Necessità, cit., p. 893 ss.; ID., Difesa legittima, cit., p. 237 ss., part. p. 254; MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 273-274; MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1993, p. 393; PAGLIARO, Principi, cit., p. 442; ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cit., p. 219; ID., Giustificazione e scusa, cit., p. 43 ss.; ID., Commentario, cit., p. 533, anche se con un’apertura nei confronti del costringimento psichico, ritenuto (questo solo) una scusante (cfr. p. 540); analogamente al Romano, cfr. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, p. 259 e p. 366; VASSALLI, voce Colpevolezza, in Enc. giur. Treccani, vol. VI, Roma, 1988, p. 20; per una lettura in chiave oggettiva dell’art. 54 cfr. altresì SUCHAN, Sui rapporti tra l’art. 54 e l’art. 384 c.p., in Cass. pen., 1976, p. 676; ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 183 (ed ivi ulteriori riferimenti nelle note
— 553 — dizio di bilanciamento di interessi (38): sarebbe infatti impensabile che il legislatore valutasse l’interesse (chiaramente contra jus) del reo a sfuggire la potestà punitiva dello Stato prevalente rispetto all’interesse (non solo riconosciuto giuridicamente ma penalmente tutelato) a che vengano redatti bilanci ed emesse comunicazioni sociali rispondenti a verità. E ciò per limitarci al delitto oggetto della nostra indagine. In realtà, come efficacemente rileva il Pagliaro (39) commentando una situazione del tutto analoga, ‘‘la scriminante dello stato di necessità non è applicabile nel caso di chi dichiari agli agenti di polizia false generalità per sottrarsi alla esecuzione di un mandato di cattura’’; e ciò in quanto, ancor prima di argomentare muovendo dalla constatazione che si tratterebbe pur sempre di un pericolo volontariamente causato, rileva il Pagliaro che si giungerebbe all’evidente assurdo di vedere ‘‘l’ordinamento contraddire(bbe) se stesso, se in casi del genere ammettesse una scriminante’’. Da prima una determinata lesione ad un bene giuridico verrebbe sanzionata; successivamente, però, si riterrebbe prevalente l’interesse del reo a sfuggire a tale sanzione fino al punto di considerare giustificata la lesione di un ulteriore bene giuridico. L’evidente assurdità di tali conseguenze (40) ci impone di sottoporre ad una precisa condizione la proseguzione dell’analisi dell’applicabilità dell’art. 54 c.p. alla questione de qua: l’adesione a quella corrente di pensiero che vuole la causa di non punibilità (in senso lato) di cui all’art. 54 c.p. essere fondata su di un giudizio di inesigibilità, così da ritenere lo stato di necessità non una causa di giustificazione bensì una scusante. In altri termini, senza voler in questa sede prendere posizione sulla 17 e 18); ZOTTA, Casi di non punibilità, in AA.VV., I delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di COPPI, Torino, 1996, p. 536 s. Intermedia la posizione del FIORE, Diritto penale, cit., vol. I, p. 336 ss., mentre, dubitativamente, PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 209 e p. 213, che pure opta per l’impostazione tradizionale con riferimento alla prima parte dell’art. 54 c.p., mentre riconduce all’ambito delle scusanti il disposto dell’art. 54, comma 3. (38) Cfr. supra, nota n. 31. (39) PAGLIARO, voce Falsità personali, in Enc. del diritto, vol. XVI, Milano, 1967, p. 651. Ricorre invece all’efficace esempio dell’ergastolano evaso il MOLARI, Profili, cit., p. 55. E cfr. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 275, il quale fa leva sulla non evitabilità di un’azione ‘‘giuridicamente autorizzata o imposta’’. Per analoghe considerazioni con riferimento al pericolo causato da un’azione umana lecita, limpidamente, GROSSO, voce Necessità, cit., p. 887; ID., Difesa legittima, cit., p. 127 ss.; mentre il NUVOLONE, Sistema, cit., p. 213, esclude espressamente la possibilità di ricorrere al disposto dell’art. 54 c.p. in presenza di un danno voluto dall’ordinamento giuridico. In giurisprudenza, si vedano Corte cost., 6 maggio 1976, n. 108, in Giur. cost., 1976, I, p. 824; Cass., 4 febbraio 1964, in Cass. pen., 1964, p. 500. (40) E cfr. infra, le considerazioni svolte alla nota n. 61.
— 554 — natura dell’art. 54 c.p., ci limitiamo a rilevare che ha senso proseguire il discorso sulla percorribilità di una certa opzione interpretativa solamente a patto di aderire ad una particolare lettura dello stesso che ne riconosca la natura di scusante (41); altrimenti, accogliendo quella che è forse l’interpretazione prevalente dello stato di necessità così com’è disciplinato dal legislatore italiano, il discorso sarebbe destinato subitamente a chiudersi (42). Diamo quindi per ammessa la (controversa) natura di scusante rivestita dall’art. 54 c.p. ed interroghiamoci sulla possibilità di ricondurvi la presunta efficacia sostanziale del principio nemo tenetur se detegere. Anche muovendo da questo presupposto, tuttavia, non sembra che la tesi in esame vada incontro a miglior fortuna: infatti, tanto il riferimento alla ‘‘proporzione’’ che deve esistere tra il pericolo da evitare e la reazione del pericolante, quanto la richiesta di ‘‘attualità’’ del pericolo, paiono ostacolare la riconduzione del principio che ci occupa alla disciplina dell’art. 54 c.p. L’elemento della proporzione parrebbe infatti aprire le porte a delicatissime questioni in merito al (necessario) confronto tra la pena comminata per il reato in tesi ‘‘scusabile’’ e la pena conseguente al reato del quale si vorrebbe occultare (rectius: non denunciare) la commissione (43); il requisito dell’attualità del pericolo pare invece attagliarsi con fatica a situazioni nelle quali la minaccia per la libertà del reo scaturente da un’autodenuncia, pur se (forse) inevitabile, non altrettanto sembra definibile come attuale. Vale a dire che, anche senza accogliere una ri(41) Diffusamente, GIULIANI, Dovere di soccorso e stato di necessità nel diritto penale, Milano, 1970, p. 56 ss., passim, part. pp. 126-127; MUSOTTO, Colpevolezza, dolo e colpa, Palermo, 1948, p. 119 ss.; DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., p. 27 ss.; SCARANO, La non esigibilità, cit., p. 177 ss. Cfr. altresì l’originale posizione dello SPAGNOLO, Gli elementi soggettivi nella struttura delle scriminanti, Padova, 1980, p. 38 ss. Per considerazioni sulle origini storiche dell’art. 54 e sui suoi rapporti con l’inesigibilità e con l’antico istituto della ‘‘forza irresistibile’’, cfr. GIANNOTTA, A proposito della non esigibilità nella falsa testimonianza, in Riv. it. dir. pen., 1953, p. 22 ss.; MIRTO, Estensione specifica, cit., p. 1015 ss.; SANTAMARIA (Dario), Lo stato di necessità nella falsa testimonianza, in questa Rivista, 1955, p. 220. (42) E cfr. i rilievi di AZZALI, Caratteri e problemi, cit., p. 399; FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 345. Non a caso, infatti, lo Zanotti, che è probabilmente il più convinto e coerente sostenitore della tesi della rilevanza anche sostanziale del principio nemo tenetur se detegere, aderendo ad un’interpretazione dell’art. 54 c.p. in chiave decisamente oggettiva, abbandona pressoché immediatamente l’opzione interpretativa che stiamo vagliando: cfr. ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., pp. 183-184. Nello stesso senso, pur in un’ottica di rifiuto della rilevanza (anche) sostanziale del diritto a non autoaccusarsi, Trib. Torino, 9 aprile 1997, n. 704, inedita. (43) Si vedano le considerazioni svolte nel successivo § 8-h).
— 555 — duttiva identificazione del concetto di attualità con quello di immediatezza (44), non saremmo così sicuri che un’eventuale autodenuncia si risolva in un automatico pericolo attuale per la persona del reo. Ci rendiamo conto della portata forse non dirimente di codeste osservazioni, le quali tuttavia ci paiono indicative del disagio con il quale l’interprete deve subitamente fare i conti non appena tenti di inquadrare il prospettato allargamento del principio nemo tenetur se detegere nel paradigma dello stato di necessità; e proprio continuando a sondarne la disciplina, ci si imbatte in quello che — a nostro avviso — è il vero argomento capace di chiudere definitivamente la questione: la disposizione sullo stato di necessità, come si desume inequivocabilmente dalla formulazione dell’art. 54 c.p., non trova applicazione qualora il pericolo sia volontariamente causato proprio da colui che si trova nella situazione necessitata. Così, non potranno ricorrere all’art. 54 c.p. i ‘‘terroristi che affondano il natante e si impossessano dell’unica scialuppa di salvataggio’’ o ‘‘l’autista che, cacciatosi imprudentemente in una situazione pericolosa, investa un pedone per salvarsi’’ (45). È chiaro come un tale rilievo, esattamente ritenuto superfluo dal Pagliaro (46) in un approccio che individua nello stato di necessità una causa di giustificazione, riacquisti di valore allorquando si argomenti muovendo dalla presupposta natura di scusante rivestita dallo stato di necessità. Ed infatti, atteso che pressoché pacificamente la ‘‘volontarietà’’ alla quale fa riferimento l’art. 54 c.p. è identificata con il dolo o la colpa (47), si avrebbe che il principio nemo tenetur se detegere — una volta che lo si abbia inquadrato nello schema dello stato di necessità — (44) Si rinvia, in proposito, alle considerazioni di ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., p. 281; DE FRANCESCO, La proporzione nello stato di necessità, Napoli, 1977, p. 214 ss., diffusamente; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 260; GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità, Milano, 1964, p. 77 ss.; MARINI, Lineamenti, cit., p. 395; MEZZETTI, voce Stato di necessità, in Dig. disc. pen., vol. XIII, Torino, 1997, pp. 677-678; ROMANO, Commentario, cit., p. 535. (45) Per queste esemplificazioni, rispettivamente, MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 276.; ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., p. 282. (46) Cfr. PAGLIARO, voce Falsità personale, cit., p. 651. (47) Per tutti, FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., pp. 260-261; GROSSO, voce Necessità, cit., p. 888; ID., Difesa legittima, cit., pp. 98-99; MARINI, Lineamenti, cit., p. 396; MEZZETTI, voce Stato di necessità, cit., p. 678; PADOVANI, Diritto penale, cit., pp. 210-211; ROMANO, Commentario, cit., p. 536. In giurisprudenza, cfr. Cass., 5 maggio 1988, in Giust. pen., 1989, II, p. 368 (sufficiente la colpa per escludere il ricorso allo stato di necessità). In senso contrario, BETTIOL, PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 394; PAGLIARO, Principi, cit., p. 433, i quali escludono che la causazione colposa della situazione pericolosa sia sufficiente a precludere il ricorso all’art. 54 c.p. In senso dubitativo, MOLARI, Profili, cit., p. 98 ss.
— 556 — non sarebbe applicabile ogniqualvolta il reato che non si voglia denunciare fosse stato commesso con dolo o con colpa. In sostanza, residuando i soli casi di responsabilità oggettiva, se ne svuoterebbe totalmente la portata. Né contro tale tesi potrebbe obiettarsi che dolo o colpa sono da riferire alla situazione di pericolo rilevante nell’art. 54 e non a momenti anteriori: si fa così il caso del dissipatore del proprio patrimonio al gioco che è costretto a rubare per acquistare la medicina indispensabile alla moglie malata (48). Certamente in tali casi continuerebbe ad operare l’art. 54 c.p., ma il caso che ci occupa è ben diverso, essendo il ‘‘pericolo’’ di sottoposizione a pena la necessaria ed inevitabile conseguenza di una condotta ‘‘voluta’’. Quindi, è la stessa situazione di pericolo che si vorrebbe rilevante ex art. 54 c.p. ad essere ‘‘voluta’’ nella misura in cui è ‘‘voluta’’ la condotta illecita (49). Non solo. Rileva esattamente il Mantovani che ‘‘nello Stato di diritto la scriminante dello stato di necessità non può trovare applicazione rispetto alle attività già giuridicamente disciplinate nella loro portata e limiti da specifiche norme di legge o sulla base dei principi generali dell’ordinamento giuridico, per cui eventuali conflitti di interessi sono già previamente risolti dal diritto’’ (50). È quindi ovvio che una simile considerazione preclude qualsiasi dilatazione del principio nemo tenetur se detegere che sia fondata sull’art. 54 c.p.: le circostanze nelle quali viene infatti invocato codesto canone sono perfettamente disciplinate dal legislatore, tanto da prevedere — appunto — la sottoposizione a pena del reo. Infine, le conclusioni alle quali siamo giunti paiono trovare definitiva conferma nell’inapplicabilità della disposizione sullo stato di necessità a coloro che hanno l’obbligo di esporsi a pericolo. Anche senza voler giungere a sostenere che proprio da una tale previsione potrebbe derivarsi la natura di causa di giustificazione dello stato di necessità così come disciplinato nella nostra legislazione (51), rimane tuttavia confermato che non (48)
Per tale esempio, ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., p. 282; MANTO-
VANI, Diritto penale, cit., p. 276; ROMANO, Commentario, cit., p. 536.
(49) Si noti che, secondo il MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 276 (ed ivi esemplificazioni), è sufficiente (per la non applicabilità dello stato di necessità) che ad essere voluta sia ‘‘la causa del pericolo, non essendo necessario che il reo abbia voluto anche l’evento del pericolo’’. Diversamente, GROSSO, voce Necessità, cit., p. 888; ID., Difesa legittima, cit., p. 39. (50) MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 274. Cfr., nello stesso senso, PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 213. (51) Cfr., in questo senso, DE FRANCESCO, La proporzione, cit., p. 20; MOLARI, Profili, cit., p. 103 ss.
— 557 — ogni spinta psicologica, per quanto intensa possa essere, trova accoglimento da parte del legislatore penale, assurgendo a motivo di scusa (52): non certo — perlomeno — spinte che portino ad eludere un dovere (di esposizione al pericolo) imposto dal diritto. Ora, anche se è certamente eccessivo sostenere che il reo abbia un dovere di sottostare alla pena (53), nondimeno lo stato di necessità pare capitolare allorquando le motivazioni dalle quali dipende la spinta psicologica siano contra jus. E, certamente, le motivazioni del reo che troverebbero riscontro nell’ablativo principio nemo tenetur se degere sono contra jus. In altri termini, nell’economia dell’art. 54 c.p. sembrerebbe comunque essere attribuito un valore alla tipologia di spinta psicologica che porta l’agente a commettere un fatto illecito (54), con la conseguenza che ove questa sgorghi da un punto di rottura con il diritto (la commissione di un precedente, ulteriore fatto illecito) anche lo stato di necessità viene a perdere di operatività. In questa prospettiva, tuttavia, il disposto dell’art. 384 c.p. si mostra — almeno di primo acchito — più indulgente nei confronti del soggetto agente, suggerendoci così, una volta constatati i limiti della disposizione di parte generale, di spostare su tale norma la nostra attenzione. 6. Esclusa la diretta riconducibilità all’art. 54 c.p. della presunta rilevanza sostanziale del principio nemo tenetur se detegere, si tratta ora di interrogarci sulla possibilità di inquadrare codesta scusante all’interno dell’alveo di applicazione della causa di non punibilità prevista dal comma 1 dell’art. 384 c.p. (55). Giova ribadire che una tale questione non si porrebbe qualora si ritenesse l’art. 384 c.p. norma speciale rispetto all’art. 54 c.p. (56) in quanto, assodata la non applicabilità del principio generale, risulterebbe automati(52) Trae da ciò argomento per sottolineare la natura normativa della inesigibilità il FIORE, Diritto penale, cit., vol. I, p. 342; cfr. altresì i rilievi del DE FRANCESCO, La proporzione, cit., p. 21 e del MOLARI, Profili, cit., p. 54. Si veda inoltre la successiva nota n. 81. (53) Sul punto, per tutti, ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., pp. 53-54; VASSALLI, voce Potestà punitiva, in Enc. del diritto, vol. XXXIV, Milano, 1985, p. 793 ss., ed oggi in Scritti giuridici, vol. I, tomo I, Milano, 1997, p. 365 ss., ed ivi vedasi la nota n. 22. (54) E cfr. i rilievi del GIULIANI, Dovere di soccorso, cit., p. 68. (55) E cfr., in merito, le tesi di MAZZACUVA, Il falso in bilancio. Profili penali: casi e problemi, Padova, 1996, p. 178; ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 191 ss. (56) Sembra fare riferimento, seppur molto fugacemente, al carattere speciale dell’art. 384 c.p. rispetto all’art. 54 c.p., il NUVOLONE, Il sistema, cit., p. 317: ‘‘quanto, infine, alla norma dell’art. 384 c.p., si tratta, a tutta evidenza, di un’ipotesi di stato di necessità’’. Nello stesso senso, MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 311; SANTAMARIA (Dario), I termini
— 558 — camente dimostrata anche l’inapplicabilità della disposizione speciale. Condividendo tuttavia un ordine di idee largamente diffuso in dottrina e favorevole ad una solo parziale sovrapponibilità dei due disposti normativi (57), non riteniamo inutile spendere qualche osservazione sulla latitudine di una causa di esclusione della punibilità senz’altro singolare e priva di corrispondenza in altri ordinamenti (58). Con la disposizione in esame il legislatore esclude la sanzione penale per chiunque abbia commesso taluni reati contro l’amministrazione della giustizia ‘‘per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore’’; siccome tale causa di esclusione della punibilità viene generalmente ritenuta espressione del principio nemo tenetur se accusare (59), occorre verificare se non sia possibile ritenere direttamente ritraibile da tale disposto, senza quindi dover ricorrere ad una sua estensione analogica (60), una efficacia scusante generalizzata di situazioni risolventesi in autoincriminazioni. Vale a dire che, una volta identificato nella non esigibilità il fondamento di tale scusante (61), potrebbe sostedello stato di necessità nell’art. 384, in Foro pen., 1963, p. 77; VASSALLI, voce Cause di non punibilità, cit., p. 631. Non ci è tuttavia ben chiaro se il riferimento allo stato di necessità voglia essere un rinvio specifico alla norma di cui all’art. 54 c.p. oppure se gli autori citati intendano semplicemente fare riferimento ad una generica situazione necessitata. Nella dottrina meno recente, cfr. PISAPIA, I rapporti di famiglia come causa di non punibilità, in Studi di diritto penale, Padova, 1956, p. 170. (57) AIELLO, voce Stato di necessità, cit., p. 10; ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte speciale, cit., vol. II, p. 478, il quale pare tuttavia fare impropriamente riferimento alla ‘‘specialità’’ (‘‘forma speciale di stato di necessità’’) pur se chiarisce, in seguito, la propria posizione; DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., pp. 36-37; GIANNOTTA, A proposito della non esigibilità, cit., p. 32; GROSSO, Di un preteso limite all’applicabilità dell’art. 384, comma 1, c.p., in questa Rivista, 1962, pp. 216-217; ROMANO, Commentario, cit., pp. 490491; RUGGIERO, voce Falsa testimonianza, in Enc. del diritto, vol. XVI, Milano, 1967, pp. 544-545; SUCHAN, Sui rapporti tra l’art. 54 e l’art. 384 c.p., cit., p. 675; ZANOTTI, Studi in tema di favoreggiamento personale, Padova, 1984, p. 66 ss.; ZOTTA, Casi di non punibilità, cit., p. 534 ss. Vedasi altresì MIRTO, Estensione specifica, cit., p. 1022. (58) Per questa constatazione, cfr. ANTOLISEI, op. loc. ult. cit., p. 478. (59) Per tutti, ANTOLISEI, op. loc. ult. cit., p. 478; ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 209; ZOTTA, Casi di non punibilità, cit., p. 529. (60) Sulla percorribilità di questa diversa ipotesi interpretativa, si veda il paragrafo successivo. (61) CHIAROTTI, La non punibilità per cause speciali in alcuni delitti contro l’attività giudiziaria, in Arch. pen., 1956, I, pp. 258-259; DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., p. 35 ss. e p. 64; FIORELLA, voce Responsabilità penale, in Enc. del diritto, vol. XXXIX, Milano, 1988, pp. 1327-1328; FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 212, nota n. 29; GIANNOTTA, A proposito della non esigibilità, cit., p. 25; PISAPIA, I rapporti di famiglia, cit., p. 170, al quale rinviamo anche per i riferimenti alla dottrina meno recente: cfr. p. 151
— 559 — nersi che in realtà proprio attraverso il disposto dell’art. 384 c.p. transiti nel nostro sistema penale un più ampio riconoscimento della non esigibilità, con la conseguenza di ritenere scusate proprio in forza dell’art. 384 c.p. le condotte ritenute inesigibili e, tra queste, tutti i comportamenti in qualche modo autoaccusatori (62). Senonché, una siffatta interpretazione è destinata a scontrarsi irrimediabilmente con la inequivoca delimitazione che la lettera della norma pone all’ambito di applicazione della causa di non punibilità de qua, la cui efficacia scusante risulta senz’altro circoscritta ai (non pochi) delitti in essa elencati (artt. da 361 a 366 c.p., art. 369 c.p., artt. da 372 a 374 c.p. e art. 378 c.p.). A nostro avviso, infatti, proprio la presenza di una elencazione di fattispecie ‘‘scusabili’’ denota con chiarezza l’impossibilità di applicare l’art. 384 c.p. al di fuori dei casi in esso previsti (63), a meno di voler ricorrere a quel già citato procedimento analogico che ci occuperà tra breve. Tant’è che, se in sede di applicazione dell’art. 384 c.p., si è giunti persino a dubitare dell’operatività della scusante nei casi di testimonianza ss.; ROMANO, Giustificazione e scusa, cit., p. 47; SCARANO, La non esigibilità, cit., p. 66 ss.; SUCHAN, Sui rapporti tra l’art. 54 e l’art. 384 c.p., cit., p. 676; ZOTTA, Casi di non punibilità, cit., p. 529 s.; ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 187. Cfr. altresì le considerazioni del CRESPI, Falsa testimonianza e possibilità di astensione dalla deposizione, in Riv. it. dir. pen., 1952, pp. 656-657, e del FIORE, Diritto penale, cit., vol. I, p. 304. Ciò permette di spiegare perché l’ordinamento giuridico ritenga prevalente l’interesse del reo a sottrarre sé medesimo o un prossimo congiunto alla sanzione penale rispetto all’interesse a punire chi si sia macchiato di un reato, circostanza questa evidentemente non spiegabile qualora si ritenesse di ricorrere alla tesi del bilanciamento di interessi. Cfr., sul punto, ANTOLISEI, op. loc. ult. cit., p. 480; ANTONIONI, Considerazioni sull’art. 384 c.p. in relazione al delitto di falsa testimonianza, in Giust. pen., 1958, II, pp. 23-24; AZZALI, Caratteri e problemi, cit., p. 399; FIORELLA, voce Responsabilità penale, cit., p. 1328; FLICK, L’esimente speciale dell’art. 384, comma 1, c.p. e l’aggravante generale dell’art. 61, n. 2, c.p. nel delitto di falsa testimonianza, in questa Rivista, 1964, p. 218; FORNASARI, op. loc. ult. cit.; ancora ROMANO, Giustificazione e scusa, cit., p. 48; ID., Cause di giustificazione, cause scusanti, cit., p. 223. In una prospettiva di bilanciamento di interessi contrapposti, vedasi SANTAMARIA (Dario), I termini dello stato di necessità, cit., pp. 80-81. Per i riferimenti alla dottrina di lingua tedesca, vedasi HIRSCH, La posizione di giustificazione, cit., pp. 777-778. (62) E questo, se non abbiamo mal inteso, è il percorso interpretativo seguito dallo ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., passim, part. p. 210, ove esclude espressamente la necessità di ricorrere ad un’estensione analogica del disposto dell’art. 384 c.p. Ma in senso critico, seppur comunque in una prospettiva di ammissibilità della scusante in questione, cfr. ZUCCALÀ, Le false comunicazioni sociali. Problemi antichi e nuovi, cit., p. 754, nota n. 140. (63) Ed infatti, cfr. ZUCCALÀ, op. loc. ult. cit.; ma vedasi altresì FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 356, in nota. A noi pare essere questo l’argomento dirimente, più che non qualsiasi rilievo legato al dato topografico, e quindi alla collocazione della norma nella parte speciale del codice penale. Su tale ultimo aspetto, cfr. ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 192 s.
— 560 — falsa resa spontaneamente (64), casi nei quali quindi il reo — pur violando l’art. 372 c.p. — non si è trovato forzatamente davanti al dilemma di delinquere oppure di condannare sé stesso o un prossimo congiunto, a fortiori dovrà concludersi per la non applicabilità dell’art. 384 c.p. qualora vengano integrate fattispecie addirittura diverse da quelle in esso specificamente indicate (65). (64) In questo senso, CHIAROTTI, La non punibilità, cit., p. 260; GIANNOTTA, A proposito della non esigibilità, cit., p. 27 ss. Cfr. altresì COCCIARDI, Possibilità di astenersi dalla deposizione e necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento, in Giur. it., 1953, II, p. 319 ss.; RUGGIERO, voce Falsa testimonianza, cit., p. 545. In giurisprudenza, vedasi già Cass., 30 giugno 1951, in Riv. it. dir. pen., 1952, p. 655 ss. Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali, cfr. PISA, I delitti contro l’amministrazione della giustizia, in Codice penale, Parte speciale, vol. IV, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di BRICOLA, ZAGREBELSKY, Torino, 1996, p. 493. Tuttavia, in senso contrario, cfr. ANTOLISEI, op. loc. ult. cit., pp. 481-482; ANTONIONI, Considerazioni sull’art. 384 c.p., cit., p. 22 ss.; BOSCARELLI, Sulle scriminanti previste dall’art. 384 c.p., in rapporto alla falsa testimonianza, in Giust. pen., 1952, II, p. 967 ss.; CRESPI, Falsa testimonianza, cit., p. 655 ss.; FLICK, L’esimente speciale, cit., p. 217; GROSSO, Di un preciso limite, cit., p. 218 ss.; MOLARI, Profili, cit., p. 63 ed ivi nota n. 28; SANTAMARIA (Dario), I termini dello stato di necessità, cit., p. 78 ss.; ID., Lo stato di necessità nella falsa testimonianza, in questa Rivista, 1955, p. 209 ss. (65) Parla di ‘‘esimente tassativa’’ PEDRAZZI, voce Società commerciali (disciplina penale), in Dig. disc. pen., vol. XIII, Torino, 1997, p. 361, mentre anche chi ha rivalutato ed ampliato notevolmente la portata della non esigibilità (ci riferiamo allo SCARANO, La non esigibilità, cit.), è costretto ad ammettere che ‘‘l’impunità non può venire estesa a quei reati ai quali la disposizione non è stata dalla legge appositamente dedicata’’ (p. 104); concludendo che ‘‘è evidente che tale disposizione non può essere estesa a tutti i reati ma soltanto a quei reati di natura simile per i quali parimenti non è possibile il ricorso all’art. 54 e per i quali si verifica quel bivio angoscioso sopra illustrato (tra il delinquere ed il denunciare un prossimo congiunto, n.d.a.), del quale ha tenuto conto il legislatore nel formulare l’esimente espressamente prevista dalla legge’’ (p. 108). A nostro avviso, quindi, anche aderendo all’impostazione (che pur non ci pare condivisibile) dello Scarano, certamente molto largheggiante in tema di non esigibilità della condotta, non sarebbe comunque possibile addivenire ad una dilatazione tanto ampia dell’inesigibilità quale quella prospettata dai sostenitori della valenza (anche) sostanziale del principio nemo tenetur se detegere. E cfr., in proposito, i chiari rilievi dello ZOTTA, Casi di non punibilità, cit., p. 542. Vale allora la pena ricordare che, secondo la Cassazione (sent. 13 dicembre 1989, in Cass. pen., 1991, I, p. 1222), ‘‘il reato di falso giuramento della parte, di cui all’art. 371 c.p., è escluso dall’ambito dell’art. 384 c.p. ... che ipotizza uno speciale stato di necessità obiettivamente più ampio di quello previsto dall’art. 54 c.p., in quanto tutela anche la libertà e l’onore, e tuttavia riservato esclusivamente a determinati soggetti processuali... obbligati, per legge, a rispondere ai quesiti loro posti. Trattandosi di norma speciale e scriminante, essa non può essere interpretata oltre i casi ivi tassativamente elencati e che non comprendono l’ipotesi di falso giuramento reso in sede civile’’. Analogamente, con riferimento all’art. 376 c.p., la Corte costituzionale (sent. 13 dicembre 1982, n. 228, in Giur. cost., 1982, I, p. 2266), ha ritenuto ‘‘manifestamente infondata — in riferimento all’art. 24 Cost. — la questione di legittimità costituzionale dell’art. 376 c.p., assumendo che si verificherebbe la violazione del diritto di difesa... nelle ipotesi in
— 561 — 7. Assodata allora la non diretta inquadrabilità negli artt. 54 e 384 c.p. di una presunta efficacia scusante generalizzata del principio nemo tenetur se detegere, occorre ora occuparci di quella che è probabilmente la via più battuta da quanti (66) hanno visto nel diritto a non autodenunciarsi un limite alla sfera di applicabilità dell’art. 2621, n. 1, c.c.: l’estensione analogica dell’art. 384 c.p. e quindi il sostanziale riconoscimento di una scusante ‘‘tacita’’ fondata sull’idem ratio di codesta disposizione. È in questo contesto, allora, che si pone in tutta la sua problematicità l’annosa questione del ruolo svolto dalla più volte citata inesigibilità all’interno del nostro sistema penale. Gli ovvi limiti di questo lavoro ci impediscono una compiuta trattazione di un tale argomento di teoria generale, consentendoci semplicemente di dar conto del diffuso scetticismo che accompagna ogni tentativo di riconoscere alla inesigibilità una portata che vada al di là di un’istanza de jure condendo o di un ruolo che superi la qualifica di ratio ispiratrice di alcune scusanti (67). cui il favoreggiatore, il cui reato sia rimasto in ipotesi ignoto, non possa manifestare il vero al giudice che lo interroga sugli stessi fatti, se non rivelando il reato precedentemente commesso. A parte l’ovvia osservazione che egli sarebbe escusso come testimone, onde il diritto di difesa non potrebbe venire in considerazione, la situazione prospettata risulta comune a tutti i casi in cui il teste si trovi di fronte all’alternativa di manifestare il falso o di confessare, dichiarando il vero, un reato. In tale ipotetico contesto, l’assumere che la norma costituzionale, in tanto sarebbe rispettata, in quanto la manifestazione del vero comportasse l’impunità in ordine al reato confessato, è affermazione che avrebbe senso logico solo se il diritto di difesa potesse legittimamente riguardarsi in un’accezione semantica che lo consideri sinonimo di rinuncia alla pretesa punitiva da parte dello Stato’’. (66) Vedasi nota n. 75. (67) Da un’analisi della manualistica più diffusa nel nostro Paese, infatti si può riscontrare una certa riluttanza quando non una totale preclusione ad ammettere una diretta efficacia scusante del principio di inesigibilità; ciò per lo più argomentando dalla violazione del principio di legalità che ne conseguirebbe: cfr. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 360; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 311; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 296; ROMANO, Commentario, cit., p. 337 ss., i quali affrontano l’analisi di tale principio da un punto di vista delle cause di esclusione della colpevolezza. A conclusioni sostanzialmente coincidenti giunge pure il PETROCELLI, La colpevolezza, 3a ed., Padova, 1955, p. 140 ss. Sempre in un’ottica di rigetto del principio di inesigibilità ma più propensi ad una collocazione (ammessane l’esistenza) dello stesso nell’ambito della tipicità o dell’antigiuridicità, cfr. ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., p. 395; NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Padova, 1972, p. 101 ss. Dubbioso sulla (ipotetica) collocazione di tale principio, del quale comunque rifiuta l’esistenza (sotto pena di veder abbandonato il principio di legalità), è il MARINI, Lineamenti, cit., p. 437 ss.; ID., ‘‘Non colpevolezza’’ dell’agente per non esigibilità dell’azione conforme al precetto o errore su elemento normativo del fatto?, in questa Rivista, 1966, p. 1028 ss. Una maggiore apertura verso l’accoglimento di tale principio si riscontra in FIORE, Diritto penale, cit., vol. I, p. 344 ss., il quale ne ammette esplicitamente l’esistenza (ponendolo a fondamento delle c.d. ‘‘scusanti’’) e rileva la possibilità di estenderne analogicamente l’ambito di applicazione. Analoga apertura è ancora rinvenibile in MARINUCCI, DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1995, p. 288 ss., i quali identificano l’esigibilità con la ‘‘normalità
— 562 — In altri termini, si tende ad attribuire all’inesigibilità il valore di canone ispiratore dell’operato del legislatore, e quindi di principio da utilizzare in sede di legiferazione; de jure condito, invece, l’inesigibilità sarebbe un ‘‘largo paravento’’ dietro al quale possono ‘‘stare infinite cose, ma una così ampia e indefinita comprensività non serve ai fini dell’analogia e la formula viene ad essere soltanto una vaga etichetta non un principio, una ratio, che regge e governa’’ (68). Di conseguenza, ‘‘il criterio della non esigibilità si traduce, in fondo, in un criterio del caso per caso: che è la negazione non della certezza del diritto, ma del diritto stesso’’ (69). A ben vedere, non pare difficile condividere l’orientamento della prevalente dottrina, constatando come in fondo ci si trovi ancora una volta al cospetto di un tentativo di colmare un presunto vuoto legislativo ricorrendo a principi ed a criteri extra-normativi, assunti come fondamento di talune cause di non punibilità e poi utilizzati per ridurre l’area del penaldelle circostanze concomitanti alla commissione del fatto’’, inserendola anch’essi nell’analisi della colpevolezza. Per l’inesigibilità quale ratio posta a fondamento delle c.d. ‘‘scusanti’’, da ultimi e per tutti, FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 170. Una più convinta adesione alla teorica della non esigibilità si riscontra invece in BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1982, p. 489 ss. Spostando la nostra attenzione sugli studi monografici, comparsi nel nostro Paese, è solo nel 1948 che incontriamo il contributo dello SCARANO, La non esigibilità nel diritto penale, cit., mentre di recente l’argomento è stato oggetto di notevole approfondimento da parte del FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., al quale rinviamo anche per i necessari riferimenti bibliografici (part., con riferimento alla dottrina italiana, p. 173, nota n. 17). Ciò che interessa evidenziare in questa sede è l’originalità dell’approccio del Fornasari, il quale — aderendo ad una concezione tripartita del reato — individua nell’inesigibilità una causa di esclusione talvolta della tipicità, altre volte dell’antigiuridicità ed altre volte ancora della colpevolezza (p. 245 ss.). Da rilevare — in proposito — la posizione del Giuliani-Balestrino, il quale considera il principio di inesigibilità come causa di esclusione della coscienza e volontà della condotta: cfr. GIULIANI, Dovere di soccorso, cit., p. 200. Con riferimento sempre alle opere monografiche, segnaliamo ancora (oltre ad alcuni rilievi del DE FRANCESCO, La proporzione, cit., p. 18 ss. e del MOLARI, Profili, cit., p. 45 ss.) la presa di posizione, sfavorevole alla configurabilità di una scriminante generale fondata sulla non esigibilità, del GALLO, Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951, p. 144 ss., mentre, venendo alle voci enciclopediche, occorre dar conto della recente, ribadita e convinta adesione alla tesi della configurabilità di una generale non esigibilità da parte del VASSALLI, voce Colpevolezza, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, pp. 20-21 (precedentemente, dello stesso autore, cfr. Limiti del divieto di analogia in diritto penale, Milano, 1942, p. 122, mentre — in senso parzialmente critico su tale posizione — cfr. FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 362 s.). Sempre tra le voci enciclopediche, cfr. FIORELLA, voce Responsabilità penale, in Enc. del diritto, vol. XXXIX, Milano, 1988, p. 1327 ss. (anch’egli favorevole ad una certa apertura verso il criterio dell’esigibilità); MARINI, voce Colpevolezza, in Dig. disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 322 (in posizione di totale preclusione). (68) Così PETROCELLI, La colpevolezza, cit., p. 145. (69) PETROCELLI, La colpevolezza, cit., p. 156. Parla di ‘‘incompatibilità (dell’inesigibilità, n.d.a.) con primarie esigenze di ‘tenuta’ dell’ordinamento’’, ROMANO, Giustificazione e scusa, cit., p. 43.
— 563 — mente illecito anche oltre i limiti tracciati dal legislatore. D’altra parte, è da sempre questa la sorte toccata al principio di inesigibilità, utilizzato dalla dottrina tedesca per colmare delle supposte lacune del § 54 del codice penale tedesco (70) (ante riforma del 1975) e quindi condannato a fungere — in buona sostanza — da principio ‘‘tappa-falle’’; con però l’inconveniente che proprio quella duttilità, quella capacità di essere adattabile alle più disparate situazioni che ne rendono così suggestivo il ricorso (71), costituiscono caratteristiche destinate a rivoltarsi contro i suoi caldeggiatori non appena, in sede di critica, si rilevi la vaghezza di un canone interpretativo inconsistente (72), inammissibilmente esposto all’arbitrio dell’interprete e capace di prestarsi ‘‘non solo ad interpretazioni diversissime, ma anche ad assoluzioni scandalose’’ (73). Questo — in estrema sintesi — il ragionamento dal quale muove la prospettazione di scusanti tacite fondate sulla ‘‘non esigibilità’’: individuato in essa un minimo comune denominatore rispetto alle norme sullo stato di necessità e sulla non punibilità di determinati reati commessi in nome di un vincolo di sangue (art. 384 c.p.), si pretende di utilizzare tale fattore comune per escludere la punibilità di altri casi, ritenuti formalmente estranei ma sostanzialmente analoghi a quelli disciplinati dagli artt. 54 e 384 c.p. (74); ed infatti, in dottrina, si è espressamente sostenuto che la scusante in questione scaturirebbe da una applicazione analogica dell’art. 384 c.p. (75). Da questo punto di vista, l’intera interpretazione in chiave sostanziale del principio nemo tenetur se detegere pare essere fondata su di un equivoco, quello stesso equivoco che da sempre mina alle fondamenta la configurabilità di una generica ‘‘non esigibilità’’ di una condotta comandata sotto minaccia di sanzione penale: la presupposta presenza di lacune normative, l’assunto che vuole determinati istinti umani prevalere sull’ordinamento giuridico, anche a dispetto delle regole da questo poste; e ciò in un implicito riconoscimento di una sorta di diritto naturale destinato a (70) Si vedano, in proposito, ancora le considerazioni del PETROCELLI, La colpevolezza, cit., p. 140 ss. (71) Si vedano i rilievi del FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 195. (72) Ed ammette ciò, pur in una prospettiva di rivalutazione dell’inesigibilità, anche il FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 26. Infatti, tale autore, proprio per rivalutare tale principio si adopera per fissarne i contorni: cfr. FORNASARI, op. ult. cit., p. 196 ss. (73) ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., p. 396. (74) Limpidamente, in proposito, ancora PETROCELLI, La colpevolezza, cit., p. 143. Un emblematico esempio di codesta ricostruzione della inesigibilità si ha nell’opera dello SCARANO, La non esigibilità, cit., passim, e part. il Capitolo II. (75) TENCATI, L’applicabilità dell’art. 2621 al bilancio consolidato, in Impresa, 1995, p. 1444; ZUCCALÀ, Le false comunicazioni sociali. Problemi antichi e nuovi, cit., pp. 753-754.
— 564 — prevalere sul diritto ‘‘scritto’’ (76) ed in nome del quale decidere di ciò che si può ‘‘pretendere’’, di ciò che può essere richiesto, di ciò che si può ‘‘esigere’’ dal cittadino. L’accoglimento del principio di inesigibilità, in quest’ottica, equivale alla capitolazione del diritto scritto al cospetto di codesto diritto naturale, dando luogo non ad un semplice rammollimento del diritto penale ma, come limpidamente ebbe a dire il Petrocelli, ad un annullamento del diritto penale (77). In verità, pare che il principio di inesigibilità sia criterio destinato a non intervenire direttamente nell’applicazione delle norme penali ma a svolgere un ruolo limitato alla produzione delle stesse, alla decisione di quali comportamenti punire e quali lasciare invece privi di sanzione penale. La non esigibilità è certamente un canone che deve guidare la mano del legislatore nella produzione di norme socialmente accettabili, ma che deve necessariamente cedere il passo una volta che determinate scelte di politica criminale siano compiute, allorquando la norma penale sia ormai scritta. A nostro avviso, quindi, il principio di inesigibilità ‘‘filtra’’ certamente all’interno del nostro sistema penale, ma vi filtra attraverso l’adozione di norme quali l’art. 54 c.p. (sotto condizione di accogliere una determinata lettura dello stesso: cfr. supra, § 5) o l’art. 384 c.p. (78) che paiono essere concepite dal legislatore proprio avendo a mente ciò che (76) Fa riferimento a norme ‘‘etico-sociali’’ il PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 225. Vedasi, in proposito, la lucida ricostruzione storica del FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 133 ss. (77) PETROCELLI, La colpevolezza, cit., p. 150. E pare emblematico che il principio di inesigibilità veda la luce proprio in un clima di avversione verso l’ordinamento penale, in un momento di ‘‘scissione tra coscienza popolare e ordinamento giuridico’’ (così FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 47 ss., al quale rinviamo per i riferimenti storici) dovuto all’entrata in vigore del codice penale prussiano del 1871 in un clima politico caratterizzato ‘‘dall’unificazione realizzata manu militari dalla potentissima Prussia’’ (così ancora FORNASARI, op. ult. cit., p. 48). In quest’ottica, proprio l’inesigibilità pare nascere come ‘‘correttivo’’, come parziale ‘‘antidoto’’ ad un sistema penale imposto alla coscienza sociale. (78) In realtà, non sono solamente queste le norme attraverso le quali il principio di inesigibilità farebbe espressamente ingresso nel nostro sistema penale, in quanto sarebbero da annoverare altri casi che — più o meno concordemente — la dottrina riconduce a tale canone. Essendo tuttavia un evidente fuor d’opera l’analisi di ognuno di questi singoli casi, ci limitiamo a far rinvio a chi diffusamente e recentemente si è occupato della materia (ci riferiamo, evidentemente, al più volte citato studio del FORNASARI, Il principio di inesigibilità) al quale ci affidiamo anche per i riferimenti dottrinali. Con riferimento, invece, al comma 4-bis della legge 15 marzo 1991, n. 82, facciamo rinvio al § 8-f). In questa sede, ricordiamo solamente come sia abbastanza pacifico che anche le disposizioni di cui agli artt. 307, comma 3 e 418, comma 3 c.p. siano imperniate sulla non esigibilità, analogamente a quanto accade per l’art. 384 c.p. (e cfr. FORNASARI, op. ult. cit., p. 357), mentre più dubbia è la natura dell’art. 242, comma 2, c.p. (FORNASARI, op. ult. cit., p. 359; e vedasi altresì — per il ricorso all’inesigibilità — DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., p. 37 s.). Sempre nell’ambito della colpevolezza, lo sviluppo della teoria dell’inesigibilità trova altro terreno fertile — seppur non senza controversie — anche in tema di aspetto soggettivo
— 565 — può essere richiesto, ciò che si può esigere dal cittadino, e, per contro, ciò che può essere ‘‘scusato’’. Ma in ciò non solo si sostanzia, ma altresì si esaurisce il ruolo svolto dalla inesigibilità, almeno de jure condito (79). Il principio nemo tenetur se detegere non pare allora in grado di svolgere in tale ambito un ruolo sostanziale proprio perché altro non è se non una estrinsecazione di un più generale principio destinato a rimanere ai margini del diritto scritto, votato ad influire sull’ordinamento giuridico esclusivamente nella misura in cui il legislatore decida di riconoscervi spazio e non in funzione della decisione dell’interprete sul se e sul come colmare una lacuna legislativa che è soltanto supposta. Sembra invece più coerente ammettere che tanto l’art. 54 c.p. quanto l’art. 384 c.p. siano norme di carattere eccezionale, e quindi non estensibili per analogia (80); cosicché, una volta individuata una ratio comune ispiratrice di codeste didella colpa (FORNASARI, op. ult. cit., p. 320 ss.) e di delimitazione della figura dell’errore inevitabile sul precetto (FORNASARI, op. ult. cit., p. 359 ss.). Come già si è accennato (cfr. supra, nota n. 67), il Fornasari individua nell’inesigibilità altresì una causa di esclusione dell’antigiuridicità del fatto (cfr. i rilievi con riferimento all’art. 40, cpv., c.p., FORNASARI, op. ult. cit., p. 316 ss.) o della tipicità dello stesso; a riguardo di quest’ultima tipologia di casi, si vedano le considerazioni inerenti gli artt. 328 c.p. (FORNASARI, op. ult. cit., p. 288), 731, 732 c.p. (FORNASARI, op. ult. cit., p. 286), e 570 c.p. (sempre FORNASARI, op. ult. cit., p. 291. In senso parzialmente critico, CAVALIERE, Riflessioni dommatiche e politico-criminali, cit., p. 1482 ed ivi nota n. 16). Preme ancora ricordare, a testimonianza dell’incertezza che ancora ammanta la materia delle scusanti, che in un altro importante studio monografico a queste dedicato (DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit.,) vennero invece individuate tre sole cause ‘‘scusanti’’, identificate con il disposto degli artt. 54, 384 e 242 c.p. (cfr DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., passim, part. Capitolo I, ed ivi pp. 128-129 per una ricapitolazione). (79) Obietta il MANNA, L’art. 394 c.p. e la ‘‘famiglia di fatto’’: ancora un ingiustificato ‘‘diniego di giustizia’’ da parte della Corte costituzionale?, in Giur. cost., 1996, I, pp. 93-94, che ‘‘una cosa è utilizzare l’inesigibilità come causa generale di esclusione della colpevolezza, altra, e ben diversa, cosa è estendere analogicamente singole ipotesi tipizzate, di ‘Nichtzumutbarkeit’, a casi non regolati, di cui è tuttavia avvertibile l’identità di ratio’’. A nostro avviso, tale distinguo non può essere accolto, in quanto l’estensione analogica di quelle che si ritengono essere singole ipotesi tipizzate di inesigibilità presuppone — come lo stesso Manna ammette — un riconoscimento di una ratio comune alle stesse, e tale ratio comune è appunto quella inesigibilità in nome della quale si attua l’estensione analogica. Pare allora più corretto ritenere che l’unico meccanismo giuridico percorribile, qualora si voglia ammettere una generalizzata applicabilità del (non codificato!) principio di inesigibilità, sia proprio l’estensione analogica delle situazioni ad esso riconducibili ed espressamente tipizzate dal legislatore. Solo in tal modo, mediante quindi un procedimento di tipo induttivo, sarebbe infatti possibile applicare in via generale ciò che si appalesa come disciplina di casi particolari. Diversamente, come ben rileva il FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 172, non sarebbe dato comprendere ‘‘con l’aiuto di quale bacchetta magica è possibile la singolare trasformazione di un’entità di natura puramente empirico-fenomenologica (ovvero l’inesigibilità come ratio delle norme che escludono il reato per difetto dell’elemento soggettivo) in una di natura squisitamente normativa (ovvero l’inesigibilità come autonoma causa di esclusione della colpevolezza nei casi non previsti dalla legge)’’. (80) Ciò prescindendo dalla soluzione che si intenda dare alla più generale questione
— 566 — sposizioni, occorrerà riconoscere comunque che tale ratio trova cittadinanza nel nostro sistema penale esclusivamente nei limiti tracciati da tali previsioni, svolgendo la propria funzione scusante unicamente nei confronti di quelle condotte ad esse riconducibili. Ecco allora che le condotte altrimenti supposte ‘‘inesigibili’’ paiono in realtà comportamenti nei quali il legislatore non ha ritenuto di far prevalere gli istinti dell’agente sulle esigenze della società, condotte che quindi non rientrano in un vuoto normativo ma che scontano un’opzione di politica criminale che, in ambito di norme eccezionali, traccia confini ben nitidi tra ciò che è regola e ciò che è eccezione (81). della configurabilità delle scriminanti tacite, sulle quali, cfr. in primis il sempre attuale studio del NUVOLONE, I limiti taciti, cit., passim, diffusamente; inoltre, per tutti, (prevalentemente in senso negativo) ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., p. 284; BRICOLA, Il comma 2 e 3 dell’art. 25, in AA.VV., Rapporti civili, Artt. 24-26, in Commentario alla Costituzione, a cura di BRANCA, Bologna-Roma, 1988, p. 257 ss.; DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., p. 135; GIULIANI, Le norme di liceità nel diritto penale, in questa Rivista, 1974, p. 830 ss.; GIUNTA, L’applicazione analogica delle scriminanti: un luogo di tensione tra certezza del diritto e favor libertatis, in Studium iuris, 1995, p. 182; MANNA, L’operatività del consenso presunto nell’ordinamento penale italiano, in Giust. pen., 1984, II, p. 231 ss. (favorevole all’ammissibilità di scriminanti non codificate); MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 283 (‘‘inconciliabili con gli ordinamenti penali incentrati sul principio di legalità sostanziale’’); MARINI, Lineamenti, cit., p. 412; MARINUCCI, voce Cause di giustificazione, in Dig. disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 140 s.; MIELE, voce Cause di giustificazione, in Enc. del diritto, vol. VI, Milano, 1960, p. 596; MORSELLI, Analogia e fattispecie penale, in Studi Vassalli, cit., p. 69 ss.; NUVOLONE, Il sistema, cit., p. 223; PAGLIARO, Principi, cit., p. 443. Giova comunque sottolineare che anche chi ammette l’estensibilità analogica delle cause di giustificazione, esclude l’applicabilità di una tale conclusione allo stato di necessità: cfr. GROSSO, Difesa legittima, cit., p. 257 ss., part. p. 281; ID., voce Necessità, cit., p. 896 ed ivi ulteriori riferimenti. Sottolineano l’impossibilità di ricorrere all’estensione analogica dell’art. 54 c.p., AIELLO, voce Stato di necessità, cit., p. 11 ss.; GIULIANI, Dovere di soccorso, cit., p. 198; MEZZETTI, voce Stato di necessità, cit., p. 687; VASSALLI, Limiti del divieto di analogia, cit., p. 121; ZOTTA, Casi di non punibilità, cit., p. 538. Una limitata apertura (stato di necessità anticipato) si riscontra in MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 284, mentre il NUVOLONE, I limiti taciti, cit., p. 163 ss. appare propenso ad un’estensione del disposto dell’art. 54 c.p. non tanto fondata sul ricorso all’analogia (come lo stesso autore avverte: cfr. p. 167) bensì facendo leva sull’esistenza di quello che il Nuvolone stesso definisce ‘‘un limite tacito derivante dalla stessa posizione della norma incriminatrice’’ (p. 167), e quindi riconoscendo l’esistenza e l’efficacia di uno stato di necessità extra-legale. Con riferimento all’art. 384 c.p., cfr. AZZALI, Caratteri e problemi, cit., p. 400; RUGGIERO, voce Falsa testimonianza, cit., p. 544; ZOTTA, Casi di non punibilità, cit., p. 533. In giurisprudenza, Cass., 21 gennaio 1998, in Guida al diritto, n. 8/1998, p. 85 ss.; Cass., 13 dicembre 1989, in Cass. pen., 1991, I, p. 1222. In via generale, sull’impossibilità di ricorrere al procedimento analogico in ambito di cause di non punibilità, cfr. VASSALLI, voce Cause di non punibilità, cit., p. 623. (81) Lo stesso NUVOLONE, I limiti taciti, cit., p. 163 ss., che si è visto (cfr. la nota precedente), essere probabilmente l’autore più propenso a dilatare la sfera di applicabilità dello stato di necessità, riconoscendo non solo l’esistenza ma altresì l’efficacia di uno stato di necessità extra-legale, allorquando tratta dell’art. 384 c.p. afferma che tale norma ‘‘indica chiaramente che, in via normale, il legislatore considera l’interesse pubblico di giustizia pre-
— 567 — In quest’ottica, prescindendo dalla soluzione che si intenda dare al problema della configurabilità di scriminanti tacite, non pare esservi spazio per una rilevanza sostanziale del principio nemo tenetur se detegere che vada al di là di quanto previsto dall’art. 384 c.p., conclusione questa che, d’altra parte, trova conferma anche in importanti indicazioni di carattere sistematico sulle quali non sarà inutile soffermarci. 8. Numerosi, a nostro avviso, sono gli argomenti che possono essere tratti dal sistema penale (e non solo) per confutare il tentativo di generalizzare la portata sostanziale del diritto a non autoaccusarsi, spingendolo oltre i confini — tutto sommato neppure troppo angusti — tracciati dall’art. 384 c.p. 8-a) In primo luogo, occorre evidenziare che, una volta riconosciuta l’esistenza di una simile scusante e ammessane l’applicabilità a qualsivolgia fattispecie penale, verrebbe ad essere ampiamente travalicato il semplice diritto a non autoaccusarsi per sconfinare in un autentico diritto all’impunità, ormai sganciato da fattispecie penali poste a tutela della sfera valente rispetto agli interessi privati’’ (p. 166). Ciò a dire che anche chi si è dimostrato estremamente possibilista nell’ampliare l’ambito dello stato di necessità, fino al punto di considerare lo stato di necessità extra-legale l’unico caso di autentica scriminante tacita (cfr. NUVOLONE, I limiti taciti, cit., p. 187), nel momento in cui deve prendere posizione sulla possibilità di estendere altresì la portata dell’art. 384 c.p. è costretto a riconoscere che solamente nei limitati casi ivi enunciati è possibile far prevalere l’interesse privato su quello pubblico. Ammesso che potrebbe trattarsi di una ‘‘scriminante che, in se stessa, potrebbe essere automaticamente applicata a tutti i reati’’ (p. 166), e nella convinzione che ‘‘l’art. 54 c.p. trova applicazione tutte le volte che, in una situazione di necessità, vengano in conflitto due interessi giuridici equivalenti o non equivalenti: nel secondo caso varrà il criterio dell’interesse prevalente’’ (p. 167), è però il Nuvolone stesso che, in fin dei conti, riconosce che è l’ordinamento a dirci qual è l’interesse prevalente; e ad essere prevalente (né potrebbe essere altrimenti) è di norma l’interesse pubblico. A ciò fa eccezione il disposto dell’art. 384 c.p., la cui presenza vale a testimoniare — dicendoci appunto ciò che è eccezione — di quale tenore sia la regola. Così stando le cose, restano allora penalmente indifferenti situazioni nelle quali, pur venendosi a creare una situazione di pressione psicologica sul reo, non è normativamente prevista una specifica causa di non punibilità. Paiono così destinate a rimanere in un ambito pregiuridico considerazioni appellantesi alla ‘‘normale incoercibilità dell’impulso di autoconservazione’’ quali quelle poste a fondamento dell’argomentare dello Zanotti (cfr. ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 180). E d’altra parte, già il PETROCELLI (La colpevolezza, cit., p. 147) rilevò che ‘‘anche l’istinto di conservazione... trova nel diritto un riconoscimento niente affatto assoluto. Al di sopra di esso ben possono essere collocate più alte necessità umane e sociali, e basterebbe tener presenti, per tutte, quelle inerenti ai doveri militari’’. Vedasi altresì SANTAMARIA (Dario), Lo stato di necessità nella falsa testimonianza, cit., p. 222; e FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 350, il quale efficacemente parla di ‘‘principio selettivo di inesigibilità’’; mentre, in posizione parzialmente critica con riferimento agli argomenti del Petrocelli, cfr. DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., p. 130 ss.
— 568 — processuale, o comunque dell’attività giurisdizionale, per spaziare in tutto il sistema penale. In altri termini, se può avere un significato ritenere scusate in virtù del principio nemo tenetur se detegere condotte costituenti — ad esempio — delitto di falsa testimonianza (art. 372 c.p.), allorquando si abbandoni l’ambito dei reati posti a tutela dell’amministrazione della giustizia, il diritto a non autodenunciarsi perde qualsivoglia aggancio processuale per divenire un’autentica licenza di delinquere, un diritto a sfuggire la sanzione penale, a violare ulteriormente la legge penale pur di porsi al riparo dalla legittima reazione dello Stato (82). Diviene un salvacondotto riconosciuto al delinquente per continuare ad essere tale (83). (82) Non pare, quindi, neppure condivisibile quanto affermato dallo ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 199, allorquando sostiene che il precetto costituzionale disciplinerebbe ‘‘il principio e non l’eccezione’’, vale a dire il diritto a non autoaccusarsi laddove è normale che un tale diritto venga esercitato: in sede endoprocessuale. All’ ‘‘eccezione’’ (ossia alla sfera sostanziale) provvederebbe — ove necessario — l’art. 384 c.p., ritenuto esaustivo dei casi nei quali, nel codice Rocco, si riscontrano ‘‘fattispecie prevedenti obblighi il cui adempimento implica automatica autodenuncia’’ (ZANOTTI, op. loc. ult. cit.). La normativa speciale, di conseguenza, sarebbe stata lasciata dal legislatore del ’30 alla mercé di una logica proiezione di quanto previsto dall’art. 384 c.p., neppure dovendo ricorrere ad un procedimento analogico ma semplicemente considerando meramente esemplificativa l’elencazione di fattispecie ‘‘scusabili’’ in esso contenuta (ed infatti, cfr. ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 210). Ora, se questo fosse vero, non si comprenderebbe perché il legislatore avrebbe ritenuto di dettare una norma (l’art. 384 c.p.) capace di scusare i soli casi di possibile autodenuncia previsti dal codice penale laddove invece i principi codicistici si vollero applicabili anche alla legislazione speciale (cfr. art. 16 c.p.), la quale già comprendeva norme sostanzialmente identiche a quanto oggi previsto dal n. 1 dell’art. 2621 c.c. Non si comprenderebbe, quindi, il perché di tanta miopia da parte del legislatore in sede di stesura dell’art. 384 c.p., norma che concernerebbe il solo e limitato orizzonte del codice penale laddove invece si volle un codice capace di dispiegare efficacia anche sulla normativa speciale, provvedendosi ad affidare tale efficacia ad un’espressa disposizione codicistica (e cfr., sul punto, FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 357, in nota). Inoltre, non pare affatto vero che l’art. 384 c.p. esaurirebbe tutti i possibili casi di automatica autodenuncia scaturenti dalle norme del codice Rocco (e cfr. GIULIANI, Dovere di soccorso, cit., pp. 85-86): basti pensare al caso della calunnia resa allorquando appaia altrimenti inevitabile l’incolpazione per un reato, come nel caso in cui si sostenga la falsità della verbalizzazione di precedenti dichiarazioni sfavorevoli (vedasi Cass., 16 aprile 1991, in Cass. pen., 1992, p. 2744; per rilievi inerenti la falsa affermazione dell’imputato di aver reagito perché aggredito, vedasi PULITANÒ, voce Calunnia e autocalunnia, in Dig. disc. pen., vol. II, Torino, 1988, pp. 18-19; in giurisprudenza, Cass., sez. VI, 1989, n. (CED) 181543, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Complemento giurisprudenziale, 1996, p. 975; Cass., sez. I, 1984, n. (CED) 164563, ivi; Cass., 4 luglio 1989, in Cass. pen., 1990, p. 2101 ed ivi, in nota redazionale, ulteriori riferimenti giurisprudenziali; ma si confrontino le perplessità del PULITANÒ, voce Calunnia e autocalunnia, cit., p. 17 s., il quale esattamente rileva la commistione tra piano oggettivo e soggettivo della fattispecie; particolare il caso deciso da Cass., 2 maggio 1984, in Cass. pen., 1985, p. 1079, con nota del NAPPI, Delitto di calunnia e diritto di difesa, ed in PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, Delitti contro la pubblica amministrazione e contro la giustizia, Padova, 1994, p. 245, nel quale il sostenere la falsità del rapporto redatto da un Maresciallo dei Carabinieri
— 569 — Una volta imboccato questo pericoloso sentiero, a nostro avviso non solo il delitto di false comunicazioni sociali rischierebbe di essere travolto da codesta aberrante scusante (e ciò proprio nei casi presumibilmente di maggiore gravità), ma sarebbe l’intero sistema penale ad essere gravemente minato alle fondamenta (84); ed infatti, non a caso la Corte costituzionale ha parlato di ‘‘causa di esclusione della pena, operante a cascata con effetti imprevedibili’’ (85). Si sarebbe ad un passo dal dubitare che sia ancora un furto punibile l’impadronirsi di un’auto per sfuggire alle forze dell’ordine dopo aver commesso un altro reato (86), o un sequestro non venne considerato rilevante ex art. 368 c.p. in quanto ritenuto l’unica possibilità di difesa dell’imputato; per ulteriori riferimenti giurisprudenziali rinviamo a PISA, op. ult. cit., p. 251 ss.); non solo: in pressoché tutte le ipotesi di falso possono darsi casi nei quali il soggetto attivo si trovi nell’alternativa tra il mentire o il denunciare un precedente reato, e non per questo risultano ricomprese nella sfera dell’art. 384 c.p.: basti pensare alle false indicazioni sulla residenza del reo rese all’autorità di pubblica sicurezza al fine di deviare le indagini (in tale caso, Cass., 17 marzo 1978, in Giust. pen., 1979, II, p. 94 ha ritenuto sussistente il delitto di cui all’art. 495 c.p.), magari al fine di guadagnare tempo per meglio occultare il prodotto di un delitto altrimenti a questo immediatamente riconducibile. Evidente, poi, la discrasia scaturente dal mancato inserimento del delitto di subornazione tra le fattispecie ‘‘scusabili’’ ex art. 384 c.p.: rileva il ROMANO (Bartolomeo), La subornazione, Milano, 1993, p. 221, che ‘‘infatti, in un caso (art. 384, comma 1, c.p.) si ritiene addirittura non punibile chi ha commesso il falso, nell’altro, invece, integralmente sottoponibile a sanzione chi, nella stessa situazione e con le medesime motivazioni, si è limitato a offrire o a promettere ai destinatari legislativamente predeterminati per raggiungere, mediatamente, i medesimi risultati’’. Ciò comporterebbe, ad avviso del ROMANO (Bartolomeo), op. ult. cit., p. 225, la violazione dell’art. 3 della Costituzione. Non paiono invece persuasivi, in merito, i rilievi dello SCARANO, La non esigibilità, cit., p. 69, il quale pare giustificare la scelta legislativa. (83) E si vedano, in proposito, i chiari rilievi di Cass., 22 gennaio 1992, in Cass. pen., 1992, p. 2201, secondo la quale il diritto alla difesa comporta ‘‘la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva. In altre parole il diritto di difesa non comprende anche il diritto di arrecare offese ulteriori’’. (84) Ed infatti, con indubbia coerenza, la Corte di cassazione (14 marzo 1989, in Cass. pen., 1990, p. 2208), allorquando ha ritenuto di riconoscere l’esistenza di un tale principio, ha poi affermato che si tratterebbe di ‘‘un principio generale che può trovare applicazione in ogni ipotesi di reato, siccome affermazione di un criterio generale e superiore, espressivo di consolidata civiltà giuridica; e, con riferimento a fattispecie consimili, può concludersi che l’obbligo di fedeltà documentale contabile è esigibile quando le operazioni o i movimenti economico-finanziari, che si dovrebbero annotare, non presentino già carattere di illecito penale’’. (85) Corte cost., 30 luglio 1984, n. 236, in Giur. cost., 1984, I, p. 1666 ss. E ciò nonostante lo ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 211, abbia cura di precisare che ‘‘il principio nemo tenetur se detegere, di conseguenza, è funzionale soltanto in rapporto ad incriminazioni che abbiano ad oggetto una specifica violazione di un dovere di collaborazione probatoria, che non può estendersi fino al punto di una irragionevole pretesa di fedeltà toutcourt allorché l’adempimento involga automaticamente autoincriminazione’’. (86) Cfr. ARCESE, Il principio di inesigibilità, cit., 1991, p. 127.
— 570 — di persona colpevole il trattenere ostaggi per tentare di guadagnarsi l’impunità. 8-b) Quale obbligo documentale potrebbe ancora essere preteso da chi già ha commesso un reato (87)? Anche la bancarotta documentale, sia semplice che fraudolenta, dovrebbe vedere il proprio ambito di applicazione fortemente limitato dal principio in questione (88). Ciò soprattutto in presenza di bancarotte patrimoniali, che a questo punto diventerebbero lecitamente occultabili perché da chi ha distratto beni non sarebbe lecito esigere altro che l’accorta falsificazione altresì delle scritture contabili. Ma a tanto si oppone, inequivoco, il disposto dell’art. 219 l. fall., il quale considera la pluralità di fatti di bancarotta una circostanza aggravante e non certamente una causa di — seppur parziale — non punibilità (89). Già questo può costituire un indicativo segno di quale sia la direzione che orienta il legislatore, di quanto strida con il sistema una tal esasperata applicazione di un concetto già di per sé tanto controverso quale la non esigibilità. Non solo. Si rifletta sulla condotta di bancarotta fraudolenta documentale realizzata attraverso la distruzione totale delle scritture contabili, espressamente prevista dall’art. 216, comma 1, n. 2, l. fall.: accogliendo un’interpretazione estensiva del diritto a non autodenunciarsi, si giungerebbe all’assurdo di punire solamente chi ha distrutto una contabilità che non aveva alcun interesse a distruggere perché del tutto veritiera e fedele specchio di una gestione inappuntabile; in pratica, si abrogherebbe di fatto una delle ipotesi di bancarotta documentale normativamente previste. Analogamente con riferimento al delitto di frode fiscale di cui all’art. 4, lett. b), legge n. 516/1982, il quale punisce la distruzione e l’occultamento delle scritture contabili realizzati con fini di evasione fiscale: aderendo alla teoria che qui avversiamo, dovrebbe sostenersi la non rimproverabilità dell’evasore che, alla vigilia di una verifica fiscale, distruggesse tutte le prove delle proprie precedenti malefatte. (87) Infatti, nota puntualmente Cass., 22 gennaio 1992, in Cass. pen., 1992, p. 2201, che ‘‘non sono rari i casi in cui è necessario violare le disposizioni in materia di documenti per commettere un reato o per occultarlo e in questi casi la violazione documentale è deliberata fin dall’inizio, anche quando avviene dopo la commissione del reato cui è collegata, sicché non può ritenersi che essa sia espressione del diritto di difesa’’. (88) E proprio in un caso di bancarotta fraudolenta documentale, tale principio è stato invocato dalla difesa, non trovando tuttavia accoglimento da parte della Corte di cassazione: cfr. Cass., 22 gennaio 1992, in Cass. pen., 1992, p. 2198. Ma in senso contrario, ammettendo quindi la controversa scusante, cfr. la già citata Cass., 14 marzo 1989, in Cass. pen., 1990, p. 2208. (89) Per tutti, cfr. GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concursuali, Milano, 1991, p. 471 ss.; SGUBBI, in PEDRAZZI, SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario alla legge fallimentare, a cura di F. GALGANO, Bologna-Roma, 1995, p. 202 ss.; CARRERI, I reati di bancarotta, Milano, 1993, p. 279 ss.; CONTI, Diritto penale commerciale. I reati fallimentari, Torino, 1991, p. 341 ss.
— 571 — 8-c) Ma a tali sconcertanti conclusioni si oppone anche la recente normativa in tema di tassabilità dei proventi da attività illecite, assumendo una posizione di frontale contrasto con una presunta valenza sostanziale e generalizzata del principio nemo tenetur se detegere; in forza dell’art. 14, legge 24 dicembre 1993, n. 537 è infatti previsto l’obbligo di annotare e di dichiarare anche i proventi da attività costituenti illecito penale qualora rientrino in una delle categorie reddituali previste dall’art. 6, comma 1 del Testo unico delle imposte sui redditi, sempre che non siano già stati sottoposti a sequestro o a confisca penale (90). (90) Ed infatti, in una curiosa inversione metodologica, argomentano proprio dal principio nemo tenetur se detegere per negare la legittimità dell’art. 14, legge n. 537/1993, LONGARI, Profili di incostituzionalità dell’art. 14, comma 4, della legge n. 537/1993, in Rass. trib., 1997, p. 1071 (anche se tale autore esclude l’estensibilità di tali conclusioni in ambito di false comunicazioni sociali facendo leva sulla presunta tutela di interessi collettivi che scaturirebbe dal delitto societario); TENCATI, Ancora sul falso in bilancio commesso esclusivamente per finalità di evasione fiscale, in Il fisco, 1997, p. 5564; ID., L’applicabilità dell’art. 2621 al bilancio consolidato, cit., p. 1443. È chiaro che un simile argomentare sarebbe sostenibile solamente muovendo da una diretta valenza costituzionale del principio, con la conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale del citato art. 14; ma a ciò osta quanto si è dianzi rilevato in merito alla portata dell’art. 24 Cost. Abbandonato il terreno dei principi costituzionali, ci sembra invece che la prospettiva debba essere rovesciata, indagando sulle singole norme per cercare di dedurre se sussista o meno un principio generale che in qualche modo permei il sistema. Ci pare allora aprioristico presupporre l’esistenza di un siffatto principio generale per poi porlo in contrasto con le singole disposizioni dell’ordinamento. Sempre con riferimento al problema della tassabilità dei proventi da reato, cfr. Cass., 24 gennaio 1997, in Giust. pen., 1997, II, pp. 630-631; Cass., sez. I civ., 8 febbraio 1995, n. 4381, in Riv. dir. trib., 1995, II, p. 558 e ss., part. p. 575; (implicitamente) Trib. Torino, 4 giugno 1996, in Il fisco, 1997, p. 6126, con nota di MASTROGIACOMO. In un’analoga inversione metodologica ci pare incorrere lo ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 200, allorquando denuncia la disciplina emergente dall’art. 51 del d.P.R. n. 600/1973 (il quale poneva l’obbligo — tutelato penalmente — gravante su amministratori e sindaci di denunciare nella dichiarazione dei redditi che sottoscrivono la mancanza delle scritture contabili obbligatorie) come frutto di un difetto ‘‘di coordinamento sul piano della successione delle leggi’’. A ben vedere, poi, la norma in esame non pareva neppure costituire un’ipotesi collidente con il principio nemo tenetur se detegere in quanto l’amministratore o il sindaco avrebbero potuto sempre rifiutarsi di firmare la dichiarazione dei redditi con le uniche conseguenze dell’applicazione di una sanzione amministrativa e di legittimare un accertamento ex art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600/1973 da parte della Pubblica Amministrazione, senza alcuna conseguenza di ordine penale (cfr. art. 1, comma 1, l. n. 516/1982: ‘‘non si considera omessa la dichiarazione... non sottoscritta’’). A meno di non volere estendere l’applicabilità di tale principio anche al di fuori dell’ordinamento penale, ci sembra che nel caso prospettato dallo Zanotti non si presenti dunque quella secca alternativa tra delinquere o denunciare un altro reato che funge da presupposto per l’applicazione del canone nemo tenetur se detegere (cfr. CONTI, in ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, vol. II, Milano, 1995, p. 385, il quale tuttavia pare poi condividere la tesi dello Zanotti (vedasi p. 386)). Sull’art. 51, d.P.R. n. 600/1973, per tutti, D’AVIRRO, NANNUCCI, I reati nella legisla-
— 572 — Potrà certo discutersi dell’efficacia innovativa o interpretativa di tale norma, sulla costituzionalità o meno di una disposizione che tassa il frutto di attività disconosciute e sanzionate dallo Stato (91); nondimeno, un aspetto non pare equivoco: se il legislatore ritiene di porre un simile obbligo, è chiaro che considera estraneo al sistema un generalizzato diritto ad occultare i propri comportamenti illeciti. 8-d) Sempre dal diritto penale tributario è poi possibile trarre ulteriori indicazioni sistematiche che avvalorano una lettura restrittiva del diritto a non autoaccusarsi che ne confini l’operatività alla sola sfera processuale. Si consideri, infatti, il delitto di frode fiscale di cui alla lett. f) dell’art. 4, legge n. 516/1982 e lo si confronti con la contravvenzione di cui all’art. 1, comma 2, lett. a) della stessa legge. In quest’ultima disposizione viene penalmente sanzionata una omessa annotazione di valori fiscalmente rilevanti nelle scritture obbligatorie, omissione destinata a ripercuotersi sulla dichiarazione annuale dei redditi che, conseguentemente, risulterà non veritiera. Alla lett. f) dell’art. 4, invece, è punita la presentazione di una dichiarazione dei redditi non veritiera che — al di fuori dei casi puniti dal comma 2 dell’art. 1 — sia supportata o da falsità ideologiche o da altri equivalenti comportamenti fraudolenti. Infine, il comma 4 dell’art. 1 (sempre della stessa legge), alla lett. a) prevede una causa di esclusione della punibilità per le contravvenzioni zione tributaria, Padova, 1984, p. 156 ss.; DELL’ANNO, TITO, I reati tributari in materia di imposte dirette e IVA, Milano, 1992, p. 219 ss. Ad ogni buon conto, tale disposizione è stata abrogata dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 e sostituita dal comma 5 dell’art. 9 dello stesso decreto, il quale per la medesima condotta commina la sanzione amministrativa da quattro a venti milioni di lire. (91) Sulle varie questioni sorte attorno alla tassabilità dei proventi da reato, oltre alla dottrina citata alla nota precedente, facciamo rinvio a CERRATO, Considerazioni sul carattere pseudo-interpretativo dell’art. 14, comma 4, della legge n. 537/1993 (in tema di tassabilità di proventi illeciti): conseguenze in ordine alla sua irretroattività ed alla sua legittimità costituzionale, in Riv. dir. trib., 1996, II, p. 849; FIORETTI, La tassazione dei proventi da attività illecite, in Rass. trib., 1996, I, p. 1101; GRASSI, Ancora una volta torna in primo piano il problema della tassazione dei proventi illeciti, in Il fisco, 1996, p. 10726; MARCHESELLI, Legittimità costituzionale, responsabilità penale e problemi applicativi della tassazione dei proventi illeciti, in Dir. prat. trib., 1997, II, p. 481 ss.; PARLATO, Presupposti e limiti di tassabilità dei proventi derivanti da attività illecite, in Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, p. 931 ss.; PERINI, Tassabilità dei proventi illeciti. Inesistenza in materia di errore scusabile, nota a Cass., 20 marzo 1996, in Il fisco, 1996, p. 8494 ss.; ID., Tassabilità dei proventi illeciti e scusabilità dell’ignoranza, nota a Trib. Napoli, 12 marzo 1997, in Il fisco, 1997, p. 13652; TOPPAN, La disposizione che sottopone a tassazione i proventi illeciti viola il principio di irretroattività della norma penale?, in Riv. dir. trib., 1997, II, p. 259. A tali contributi rinviamo anche per ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali. In giurisprudenza, da ultime, cfr. Cass., 2 maggio 1996, in Dir. prat. trib., 1997, II, p. 452; G.i.p. Milano, 5 marzo 1996, ivi; Cass., 24 gennaio 1997, in Il fisco, 1997, p. 4892, con Commento di IZZO; Cass., 6 febbraio 1996, in Giust. pen., 1997, II, p. 428.
— 573 — previste dalle lett. a) e b) del comma 2 dello stesso art. 1 qualora ‘‘le annotazioni siano effettuate in taluna delle scritture contabili indicate nel comma 6... e i corrispettivi non annotato o non fatturati risultino altresì compresi nella relativa dichiarazione annuale e sia versata l’imposta globalmente dovuta. Le annotazioni devono essere effettuate... prima che la violazione sia stata contestata e che siano iniziate ispezioni o verifiche’’. Dal combinato disposto di queste norme si desume che, qualora un contribuente, nel corso di un periodo d’imposta, non abbia annotato valori fiscalmente rilevanti per importi capaci di superare le soglie di punibilità previste dall’art. 1, comma 2, lett. a), si trova davanti ad una triplice possibilità: a) può non far nulla, e quindi presentare una dichiarazione dei redditi non veritiera perché non terrà conto dei proventi non annotati nella contabilità; integrerà in questo caso la sola contravvenzione prevista dall’art. 1, comma 2, lett. a) (92); b) può decidere di ‘‘ravvedersi’’, di porre rimedio alla propria attività illecita, e può far ciò annotando nelle scritture obbligatorie quanto ha precedentemente omesso; in tal modo viene immediatamente ‘‘congelata’’ la punibilità (già sorta con il superamento delle soglie di punibilità) per la contravvenzione di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), punibilità che verrà definitivamente esclusa allorquando, in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi, il nostro contribuente ‘‘ravveduto’’ provvederà a dichiarare il vero ed a versare la corrispondente imposta (93); c) infine, può decidere di occultare la propria evasione, di porsi meglio al riparo da possibili attività di accertamento, arricchendo così la condotta evasiva già posta in essere con comportamenti ingannatori che permettano di rendere più credibile quell’apparato contabile che un giorno, forse, dovrà essere esibito agli organi accertatori. Ecco allora che il contribuente potrebbe adoperarsi per creare false pezze giustificative, oppure potrebbe trasferire i proventi non annotati in conti bancari intestati a nomi di fantasia (94), magari all’estero, ecc.. Tuttavia, verrebbe così ad (92) Sul punto, ci sia permesso fare rinvio a PERINI, Elementi di diritto penale tributario, Torino, 1997, pp. 128-129. (93) Per l’immediata efficacia della causa di non punibilità di cui alla lettera a) del comma 4, cfr. Corte cost., 26 giugno 1996, in Corr. trib., 1996, p. 2623. Sul punto, per una disamina della disciplina, facciamo ancora rinvio a PERINI, Elementi di diritto penale tributario, cit., p. 63 ss., part. p. 66. (94) Sull’idoneità di tale condotta ad integrare gli estremi del delitto di frode fiscale, cfr. BRICCHETTI, DE RUGGIERO, I reati tributari, Milano, 1994, p. 317; DI NICOLA, in Responsabilità e processo nei reati tributari, a cura di GROSSO, Milano, 1992, p. 359; VENTURATI, MARIOTTI, La nuova frode nella dichiarazione dei redditi, Padova, 1993, pp. 150-151. In giurisprudenza, in senso contrario (ma in un caso di evidente inidoneità ingannatoria dell’azione), cfr. Trib. Urbino, 26 giugno 1996, in Il fisco, 1996, p. 9685. Vedasi altresì Trib. Torino, 3 aprile 1997, in Il fisco, 1997, p. 11305; Trib. Torino, 28 aprile 1998, in Il fi-
— 574 — integrare il grave delitto di frode fiscale di cui all’art. 4, lett. f) (95). Quali, allora, le indicazioni sistematiche che emergono da tale disciplina? A nostro avviso, appare evidente come, lungi dal poter operare una efficacia sostanziale del diritto a non autoaccusarsi, il legislatore indichi chiaramente al contribuente quale sia la via dell’impunità: il ‘‘ravvedimento’’ di cui al comma 4 dell’art. 1. In modo diametralmente opposto, costituisce grave delitto l’assunzione di una posizione più defilata, la protrazione della condotta evasiva fino alla creazione di una situazione artatamente credibile e perfettamente capace di occultare la precedente contravvezione. Ciò a dimostrare non certo l’indulgenza bensì la massima severità dimostrata dal legislatore nei confronti di chi delinque per occultare ciò che già è illecito (96). 8-e) Ma la migliore dimostrazione di tale severità può essere tratta, a nostro avviso, dalla parte generale del codice penale: si consideri infatti l’aggravante del nesso teleologico (rectius: della connessione ipotattica (97) ) prevista dal n. 2 dell’art. 62 c.p. (98), laddove la pena viene aumentata qualora il reato sia stato commesso per ‘‘occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri... la impunità di un altro reato’’. In tale caso, lungi dal porsi in un’ottica quale quella riassunta dal sco, 1998, p. 9340. Per la rilevanza penale della condotta in questione, si veda Trib. Torino, 26 marzo 1998, in Il fisco, 1998, p. 9753. (95) Sul punto, ci sia permesso rinviare a PERINI, Indagine sul perfezionamento del delitto di frode fiscale di cui all’art. 4, lett. f), legge n. 516/1982, in Il fisco, 1995, p. 11493 ss. (96) Questa disciplina, emergente dalla riforma del diritto penale tributario avutasi con la legge 15 maggio 1991, n. 154, permette di superare, almeno in parte, i rilievi mossi dallo ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., pp. 207-208 con riferimento alla previgente formulazione dell’art. 4, n. 7, legge n. 516/1982. Non è del tutto mutata, tuttavia (almeno così a noi pare) quell’impostazione di fondo che sanziona blandamente comportamenti omissivi, ma che reagisce duramente contro qualsiasi attività di supporto posta ad avvalorare la credibilità di una mendace situazione contabile. Questi rapporti tra art. 1 ed art. 4 della legge n. 516/1982 sono denunciati come ‘‘perversi’’ dallo Zanotti (p. 207) ma, qualunque sia il giudizio di valore che se ne vuole dare, rimane — a nostro avviso — l’indicazione di ordine sistematico che ne può essere tratta. Anzi, anche in tale ambito, occorrerà porre attenzione a non incorrere in inversioni metodologiche quali quelle denunciate alla precedente nota n. 91. (97) Cfr. PAGLIARO, I reati connessi, cit., p. 65, nota 31 e p. 69 ed ivi nota 39. Si veda altresì AZZALI, L’aggravante della connessione nella prospettiva del concorso di reati, in Arch. pen., 1965, p. 133. (98) Argomentazione diffusa in dottrina: per tutti, FOFFANI, Lotta alla corruzione, cit., p. 961; FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 357, in nota; PEDRAZZI, voce Società commerciali, cit., p. 361. In giurisprudenza, Cass., 21 gennaio 1998, in Guida al diritto, n. 8/1998, p. 85 ss.; Cass., 22 gennaio 1992, in Cass. pen., 1992, p. 2198; Trib. Torino, 9 aprile 1997, n. 704, inedita. Cfr. altresì Corte cost., 30 luglio 1984, n. 236, in Giur. cost., 1984, I, p. 1666 ss., part. p. 1689. In senso critico, MAZZACUVA, Falso in bilancio, cit., p. 178.
— 575 — brocardo nemo tenetur se detegere, il legislatore rafforza la risposta penale qualora il reo delinqua spinto proprio da quello stesso istinto di autoconservazione (99) che si vorrebbe posto a fondamento della controversa scusante (100). A tale proposito, si è anzi autorevolmente constatato (101) come tra la circostanza aggravante in questione e la speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. sussista un rapporto di specialità, nel quale il genus previsto dall’art. 61, n. 2, c.p. sarebbe derogato dai casi speciali disciplinati dall’art. 384 c.p. A ciò non osta, evidentemente, l’opposta natura delle due disposizioni, l’una aggravante e l’altra esimente, in quanto il principio di specialità è pacificamente ritenuto idoneo a disciplinare qualsivoglia fenomeno di concorso apparente di norme giuridiche, indipendentemente dagli effetti da queste previsti (102). E, a dimostra(99) Giustifica la circostanza in questione in base alla ‘‘maggiore malvagità e pericolosità di cui il reo dà prova, quando al fine di porre in essere un reato non si perita di commetterne un secondo’’, CRESPI, nota a Cass., 29 novembre 1958, in questa Rivista, 1959, p. 937; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 386: circostanza ‘‘giustificata in base alla maggiore pericolosità di colui il quale, pur di attuare il suo intento criminoso, non arretra di fronte alla commissione di un reato-mezzo’’, ma cfr. tuttavia, in senso critico, ivi la nota n. 27; ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., pp. 407-408, anch’egli in senso critico; DE LIGUORI, Connessione teleologica e concorso di reati, in Giur. merito, 1987, p. 1028. Concorda invece con la scelta del legislatore, MORSELLI, voce Reato continuato, in Noviss. Dig. it., Appendice, vol. VI, Torino, 1986, p. 369. In giurisprudenza, cfr., Cass., 17 novembre 1970, in Cass. pen., 1971, p. 1571; Cass., 17 dicembre 1984, in Riv. pen., 1986, p. 198; Cass., 19 aprile 1956, in questa Rivista, 1956, p. 316. (100) Esorbita dagli obiettivi del nostro lavoro la trattazione della questione dell’intervenuta abrogazione tacita di tale norma ad opera della riforma dell’istituto del reato continuato. Ci limitiamo pertanto a ricordare come in dottrina sia prevalente la tesi favorevole alla sopravvivenza della circostanza: per tutti, ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte generale, cit., p. 407; DE LIGUORI, Connessione teleologica, cit., p. 1032; MORSELLI, voce Reato continuato, cit., p. 369; NUVOLONE, Il sistema, cit., p. 387 (pur se in senso critico); ROMANO, Commentario, cit., p. 626, ZAGREBELSKY (Vladimiro), voce Reato continuato, in Enc. del diritto, vol. XXXVIII, Milano, 1987, pp. 844-845; vedasi altresì, in modo particolarmente diffuso e con ricchezza di riferimenti bibliografici, DE FRANCESCO, La connessione teleologica nel quadro del reato continuato, in questa Rivista, 1978, p. 103 ss. In senso contrario, per tutti, MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 498. Favorevole alla tesi della sopravvivenza della circostanza aggravante è anche la giurisprudenza, per un’esposizione della quale facciamo rinvio a LOI, Le circostanze del reato, in Codice penale, Parte generale, vol. II, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di BRICOLA, ZAGRBELSKY, vol. II, Torino, 1996, pp. 256-257 e ad AMBROSETTI, Problemi attuali in tema di reato continuato, Padova, 1991, p. 53 ss. Per una tesi intermedia, cfr. CARACCIOLI, Sul problema della sopravvivenza dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p. (tra mini-riforma e progetto di riforma del codice penale), in Riv. pen., 1976, p. 3 ss. (101) FLICK, L’esimente speciale, cit., p. 215 ss. Tuttavia, in senso contrario, ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 181 ss. (102) Oltre alla dottrina citata dal FLICK, L’esimente speciale, cit., p. 224, note nn.
— 576 — zione della gravità del tutto particolare che il legislatore attribuisce alla circostanza in questione, vi è il disposto del n. 1 dell’art. 576 c.p., laddove è comminata la pena dell’ergastolo per l’omicidio commesso con taluna delle circostanze indicate nel n. 2 dell’art. 61 c.p.: in questo contesto, l’omicidio aggravato ex art. 61, n. 2, c.p. viene equiparato dal legislatore all’omicidio dell’ascendente o del discendente (cfr. art. 576, n. 2, c.p.)! Non solo. L’omicidio commesso dal latitante per sottrarsi alla cattura o alla carcerazione, o anche solamente per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza, lungi dall’essere visto con occhio compassionevole o comprensivo, è anch’esso omicidio aggravato ex art. 576, n. 3, c.p., punito con la pena dell’ergastolo. Ma se questo è vero, può allora dirsi che di norma il legislatore vede con la massima severità la connessione conseguenziale (103) tra più reati, di qualunque specie essa sia. Quindi, anche quella particolare forma di connessione basata sulla volontà di conseguire l’impunità (connessione ipotattica), di delinquere per non denunciare un precedente delitto. Questa la regola, alla quale il disposto dell’art. 384 c.p. fa eccezione, eccezione fondata proprio sulla non esigibilità di determinati comportamenti, sull’indulgenza che il legislatore mostra al cospetto di casi particolarmente delicati, nei quali la tensione psicologica alla quale è sottoposto il reo viene giudicata, in sede legislativa, insostenibile (104). In questi casi, e diremmo in questi ben circoscritti casi, il legislatore abbandona il principio generale dettando una norma non solo speciale, ma altresì eccezionale, come eccezionale si è visto essere l’art. 54 c.p. e come eccezionale è quindi qualsiasi incursione del principio di non esigibilità nel nostro ordinamento penale (105); e così eccezionale, dai contorni talmente rigidi, 24 e 25, cfr., per tutti, GIULIANI, Le norme di liceità, cit., passim, e part. p. 813; MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme, Bologna, 1966, p. 49 ss. (103) Per questa terminologia, cfr. PAGLIARO, I reati connessi, cit., p. 64; ma vedasi altresì AZZALI, L’aggravante della connessione, cit., pp. 132-133, il quale preferisce non distinguere tra connessione paratattica e connessione ipotattica. (104) Per simili prese di posizione già nella giurisprudenza tedesca degli inizi degli anni ’30, cfr. FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 111. (105) Si noti come molto chiaramente il FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., p. 296, pur in una prospettiva volta a rivalutare l’inesigibilità all’interno del nostro ordinamento, osservi che l’efficacia limitativa di tale canone non può essere estesa ‘‘aldilà dei casi in cui le norme presentino un dato letterale o logico che permetta tale interpretazione’’, concludendo con un ‘‘deciso rigetto’’ di qualsiasi possibile estensione analogica dell’inesigibilità. Conclusioni, queste, tratte con riferimento alla tipicità del reato ma che ci sembrano valide per tutte le componenti dello stesso, indipendentemente dall’adesione ad una concezione bipartita o tripartita. E lo stesso GIULIANI, Dovere di soccorso, cit., p. 201, pur ritenendo ‘‘il principio dell’inesigibilità... giuridicamente fondato’’, si affretta a precisare che ciò vale ‘‘a patto però che si precisi subito che esso è suscettibile di limitatissime applicazioni nei rari casi in cui il soggetto ha agito a causa di una pressione psicologica maggiore di quella preveduta dall’art. 54 c.p.’’.
— 577 — da non poter essere applicata neppure a chi menta per salvare non un prossimo congiunto ma il convivente more uxorio (106). Ma, proprio in conseguenza di tale eccezionalità, è allora norma non suscettibile di estensione analogica, essendo invece applicabile — ogniqualvolta si fuoriesca dai confini dell’art. 384 c.p. — la norma generale di cui all’art. 61, n. 2, c.p. (107). In questa ricostruzione risulta allora chiaro Esattamente, quindi, il ROMANO, Giustificazione e scusa, cit., pp. 52-53, rileva che ‘‘l’idea di fondo dell’inesigibilità, pur entro i ristretti confini di una precisa delimitazione legale, mostra nondimeno una considerevole vitalità. Inaccettabile in termini generali, in quanto potrebbe comportare, se non un’aprioristica abdicazione del diritto penale, certo gravi arbitri e diseguaglianze nell’applicazione giudiziale della legge, l’inesigibilità riemerge a pieno titolo come fondamento materiale di specifiche scusanti’’. Nello stesso senso, pur con argomentazioni non del tutto coincidenti, cfr. DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., p. 130 ss. Ritiene invece estensibile analogicamente il disposto dell’art. 384 c.p., MANNA, L’art. 394 e la ‘‘famiglia di fatto’’, cit., p. 92 ss. Con riferimento alla natura eccezionale degli artt. 54 e 384 c.p., cfr. supra, nota n. 80. (106) La Corte costituzionale ha più volte affermato la legittimità costituzionale dell’art. 384, comma 1, c.p. nella parte in cui non è applicabile al convivente more uxorio (recentemente, Corte cost., 11 gennaio 1996, in Giur. cost., 1996, I, p. 81; per i precedenti, vedasi Corte cost., 18 novembre 1986, n. 237, in Giust. pen., 1986, I, p. 353 ed in PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, Delitti contro la pubblica amministrazione e contro la giustizia, cit., p. 327): da ultimo, il Tribunale di Torino (ordinanza 16 febbraio 1995, in G.U. n. 19 del 10 maggio 1995, 1a serie speciale) aveva sollevato la questione di costituzionalità con riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., rilevando che ‘‘la situazione di convivenza in nulla si distingue da quella del coniugio se non per la mancanza, appunto, di una ‘sanzione legale’ del vincolo; la relazione coniugale, infatti, si fonda su taluni elementi essenziali, rappresentati da un legame affettivo stabile, con disponibilità reciproca ai rapporti sessuali, e da una base di reciproca assistenza e solidarietà, elementi questi che danno fondamento anche al rapporto di convivenza’’. Ritenendo poi implicitamente impercorribile la via dell’estensione analogica dell’art. 384 c.p., il Tribunale ne richiedeva la declaratoria di incostituzionalità. La Corte costituzionale (sent. 11 gennaio 1996, cit.), tuttavia, sbarra la strada a qualsiasi estensione della scusante de qua dichiarando infondata la questione di costituzionalità e non certo perché l’incongruenza sarebbe risolvibile mediante il ricorso al procedimento per analogia — soluzione che quindi viene, pur implicitamente, respinta (ma soluzione alla quale invece si è appellato chi, in senso critico, ha commentato la pronuncia: MANNA, L’art. 394 c.p. e la ‘‘famiglia di fatto’’, cit., p. 90 ss.) — ma in quanto ‘‘l’estensione di cause di non punibilità, ...comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzioni aperte tra ragioni diverse e confliggenti’’, e, nel caso di specie ‘‘si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, ...da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro’’. Con la conseguenza che, riconosciuta la non identità di peso tra famiglia legittima e famiglia di fatto, viene considerata perfettamente compatibile con il sistema l’incriminabilità di chi commetta una falsa testimonianza per ‘‘proteggere’’ il convivente more uxorio. Ci sembrano, allora, davvero difficili da immaginare confini più rigidi posti ad un istituto giuridico! (107) Non ci pare quindi condivisibile l’opinione di chi, trattando dei rapporti tra art. 61, n. 2, c.p. e art. 384 c.p., ha ritenuto le due disposizioni disciplinare situazioni del tutto differenti: l’art. 61, n. 2 interverrebbe nei casi nei quali il reo sia del tutto libero di scegliere o meno di delinquere per conseguire l’impunità, mentre nell’art. 384 c.p. la scelta si
— 578 — come non vi sia spazio per una rilevanza sostanziale del principio nemo tenetur se accusare che vada oltre quanto previsto dall’art. 384 c.p. 8-f) L’eccezionalità del disposto dell’art. 384 c.p. ci pare dimostrata altresì dall’iter legislativo che ha portato alla formulazione della legge 15 marzo 1991, n. 82 recante nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei collaboratori di giustizia. È noto come la suddetta legge preveda quello che è conosciuto come il ‘‘blocco dei beni’’ della famiglia del rapito, vale a dire ‘‘il sequestro dei beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge e ai parenti e affini conviventi’’ (art. 1, comma 1). È altresì noto come il comma 4, sempre dell’art. 1, renda punibile a titolo di favoreggiamento reale chiunque ‘‘si adopera con qualsiasi mezzo al fine di far conseguire agli autori del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione il prezzo della liberazione della vittima’’, sempre che ciò avvenga senza l’autorizzazione del Pubblico Ministero. Questo fu il testo in sede di prima stesura del provvedimento, che assunse la forma del decreto legge e venne emanato il 15 gennaio 1991, (d.l. n. 8/1991). farebbe ben più stringente, in quanto il reo si troverebbe nella necessità di scegliere tra commissione di un nuovo reato o confessione di un reato pregresso (cfr. MAZZACUVA, Il falso in bilancio, cit., pp. 178-179; ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 181 ss.). Ad argomentare diversamante, secondo il Mazzacuva, si ammetterebbe un’ ‘‘antinomia normativa insolubile e difficilmente comprensibile’’. Ora, a noi pare che, anche non accogliendo codesto argomentare, non si finisca comunque per ricadere nella paventata ‘‘antinomia normativa insolubile’’, in quanto ci si troverebbe semplicemente al cospetto di un concorso apparente di norme risolvibile in base al principio di specialità. Inoltre (giusta quanto si è testé visto), una coerente applicazione dell’interpretazione che i chiari autori offrono dell’art. 384 c.p. al delitto di falsa testimonianza, comporterebbe la possibilità di ritenere ‘‘scusati’’ i soli casi nei quali il reo si trovi nell’obbligo di testimoniare, inserendo così implicitamente nella norma il requisito della inevitabilità del nocumento: solo allora vi sarebbe la secca alternativa tra mentire o ‘‘confessare’’. In realtà, come si è dianzi accennato (cfr. supra, nota n. 64) la dottrina prevalente tende ad ammettere la scusante in questione anche in presenza di false testimonianze rese spontaneamente, ponendo in tal modo in crisi la costruzione che qui si avversa (e cfr. altresì SANTAMARIA (Dario), I termini dello stato di necessità, cit., p. 78, il quale rileva come ‘‘la facoltà di astenersi dal deporre non implica di per sé l’esclusione dello stato di necessità’’; in giurisprudenza, favorevole all’applicabilità della scusante in questione in casi di situazione di pericolo volontariamente cagionata dall’agente, cfr., da ultima, Cass., 9 luglio 1996, in Cass. pen., 1997, p. 3416, in netta controtendenza rispetto all’orientamento prevalente, per il quale, per tutte, Cass., 23 maggio 1995, in Cass. pen., 1996, p. 3654; Cass., 25 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 2000). Pare invece che la limitazione all’applicabilità dell’art. 61, n. 2, c.p. ai soli casi di scelte delinquenziali motivate da mere spinte opportunistiche non possa essere in alcun modo dedotta dal sistema, ed anzi, ci sembra smentita proprio dal confronto tra la circostanza de qua e la scusante di cui all’art. 384 c.p.
— 579 — Successivamente, in sede di conversione nella citata legge 15 marzo 1991, n. 82, all’art. 1 venne aggiunto un comma, il 4-bis, il quale prevede la non punibilità di chi ha violato il disposto del comma 4 (sempre dell’art. 1) in favore del prossimo congiunto. Cosa dimostra tutto ciò? A nostro avviso, la evidente impossibilità di ritenere il comma 1 dell’art. 384 c.p. estensibile analogicamente al favoreggiamento reale posto in essere da chi si adopera per pagare il riscatto per la liberazione del proprio genitore o del proprio coniuge. Vale a dire che quella pressione psicologica indominabile che si ritiene trovi riconoscimento nell’art. 384 c.p., è ivi racchiusa in confini talmente rigidi da non poter essere estesa analogicamente neppure a chi, disperato, paghi pur di riavere libero il proprio genitore o il proprio coniuge. Ed il legislatore è talmente persuaso di ciò che, in sede di conversione del decreto, si avvede dell’enormità della propria pretesa e conia ad hoc una causa di non punibilità perfettamente identica al comma 1 dell’art. 384 c.p. A nostro avviso, ciò suona come una secca sconfessione di qualsiasi tesi incline ad un allargamento in via interpretativa della portata dell’art. 384, comma 1, c.p. 8-g) Ma si rifletta anche sulla disciplina del reato continuato che, pur essendo indiscutibile espressione del favor rei (108), è ben lontana dal sancire tout court la non punibilità di reati avvinti ad altro reato dalla medesimezza del disegno criminoso (109). E ciò a prescindere dal fatto che una scusante fondata sul principio nemo tenetur se detegere sarebbe di portata tale da abbracciare — di norma — spinte delittuose neppure concomitanti ma successive nel tempo, quindi neppure riconducibili ad un’unica manifestazione delinquenziale dell’agente. Ed anche a tacere della pur significativa disciplina della recidiva, la particolare severità (e quindi non certo l’indulgenza) che il legislatore mostra nei confronti di chi commette più reati tra loro connessi da un qualche vincolo di conseguenzialità o di contiguità, è altresì dimostrata — ad abundantiam — da numerose figure di reato complesso nelle quali, come è stato efficacemente notato (110), vengono comminate sanzioni di severità maggiore rispetto a quanto risulterebbe operando la semplice somma delle pene comminate per i diversi reati componenti la figura complessa: ciò accade, ad esempio, nella rapina (fino a quattro anni di reclusione per il delitto di violenza privata ex art. 610 c.p., fino a tre anni di reclusione per il furto, da tre a dieci anni di reclusione per la rapina, tralasciando le pene pecuniarie), nel furto aggravato dalla violenza sulle cose (fino a tre anni di reclusione per (108) Per tutti, AMBROSETTI, Problemi attuali, cit., p. 5 ss. (109) E cfr. i rilievi di MORSELLI, voce Reato continuato, cit., p. 369. (110) PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 82. Ma si veda altresì ROMANO, Commentario, cit., p. 752-753.
— 580 — il furto, fino a un anno di reclusione per il danneggiamento, reclusione da uno a sei anni ex art. 625, n. 2, c.p.), nell’evasione aggravata dall’effrazione (fino a un anno di reclusione per il danneggiamento, da sei mesi ad un anno di reclusione per l’evasione, reclusione da uno a tre anni ex art. 385, comma 2, c.p.), e gli esempi potrebbero continuare. Si consideri altresì il già citato provvedimento di amnistia previsto dal comma 5 dell’art. 1 del d.P.R. 20 gennaio 1992, n. 23, laddove è detto che sono amnistiati i reati previsti dall’art. 2621 c.c. (oltre che per altre fattispecie di falso) qualora ‘‘tali reati siano stati commessi per eseguire od occultare’’ taluno dei reati previsti in materia di imposte. Con tale norma viene quindi ad essere concessa l’amnistia ai delitti di false comunicazioni sociali commessi per occultare un precedente reato fiscale, in situazioni nelle quali ben avrebbe potuto operare quel principio nemo tenetur se detegere al quale si vorrebbe riconoscere efficacia scusante. Ma allora, proprio la concessione di un provvedimento di amnisita inerente tali condotte ci sembra dimostrare chiaramente l’impossibilità di considerare le stesse in qualche modo già ‘‘scusate’’. 8-h) Infine, un ultimo e — a nostro avviso — risolutivo argomento permette di respingere fermamente la possibilità di ammettere quell’ampia valenza scusante che si è ritenuto di ravvisare dietro al brocardo nemo tenetur se detegere; e tale argomento emerge non appena ci si interroghi sulla gravità del reato che sarebbe impunemente occultabile, la cui denuncia non sarebbe quindi esigibile: il considerare comunque lecito l’occultamento di un precedente reato, comporterebbe, infatti, l’assurdo di poter vedere scusato un grave delitto commesso per non svelare una lieve contravvenzione. Si pensi al caso di Tizio che, dopo aver commesso la fattispecie contravvenzionale di omessa annotazione di valori fiscalmente rilevanti punita dall’art. 1, comma 2, lett. a), legge n. 516/1982, decida di evitare il rischio di un’autodenuncia distruggendo in toto la contabilità o di rafforzarne l’attendibilità ricorrendo alla creazione di pezze giustificative false. Con una coerente applicazione di un non più circoscritto principio nemo tenetur se detegere, si avrebbe che la perpetrazione di gravi delitti di frode fiscale (art. 4, lett. b) e lett. f), legge n. 516/1982) sarebbe non punibile perché commessa per occultare una lieve contravvenzione. La contradditorietà del sistema sarebbe non solo evidente, ma anche inaccettabile, capace di stravolgere del tutto le scelte di politica criminale che portano a sanzionare in modo diverso aggressioni di varia gravità a beni giuridici gerarchicamente ordinati (111): da un lato il legislatore deciderebbe di punire più severamente determinati comportamenti rispetto ad altri; dall’al(111) Per tutti, si veda MARINUCCI, Fatto e scriminanti, in Studi in memoria di Giacomo Delitala, vol. II, Milano, 1984, p. 789.
— 581 — tro lato permetterebbe alla condotta meno grave — e quindi alla lesione più lieve — di fungere da causa di esclusione della punibilità per la lesione più grave (112). In questo modo, non solo la sanzione più lieve si sostituirebbe a quella più grave, ma addirittura la commissione di un reato di scarsa gravità costituirebbe una sorta di licenza di delinquere, purché i successivi reati siano commessi per non rivelare il precedente illecito. E solo un parziale correttivo potrebbe essere quello di escludere che lievi contravvenzioni possano integrare quel ‘‘grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onere’’ che l’art. 384 c.p. richiede per poter rendere operante la causa di non punibilità: se infatti ciò potrebbe valere quante volte il reato da non svelare fosse una contravvenzione oblazionabile, ogniqualvolta vi fosse un concreto rischio di subire una pena detentiva o comunque un processo penale risolventesi in una condanna, non pare che tali pregiudizi (perlomeno) all’onorabilità (quando non anche alla libertà) del reo potrebbero essere valutati con leggerezza dal giudice penale, so(112) Si rifletta altresì sulla difficoltà di ritenere il principio nemo tenetur se detegere applicabile solamente qualora il reato commesso, per non denunciare il reato precedente, fosse di gravità minore rispetto a quello che non si vuole denunciare. A ciò potrebbe forse giungersi muovendo da una presupposta implicita presenza del requisito della proporzione tra lesione cagionata e lesione evitata che accomunerebbe tutte le ‘‘ipotesi in cui l’ordinamento giuridico consente che sia offeso un interesse per salvaguardarne un altro’’ (cfr. ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte speciale, cit., vol. II, p. 480; RUGGIERO, voce Falsa testimonianza, cit., p. 546; Cass., 30 giugno 1975, in Cass. pen., 1977, p. 65; in senso critico su una tesi — che peraltro già fu del MIRTO, Estensione specifica, cit., pp. 1019-1020 — cfr. GIANNOTTA, A proposito della non esigibilità, cit., p. 26, nota 30). A parte il fatto che, vista la severità delle pene comminate dall’art. 2621, n. 1, c.c., tale principio avrebbe ben scarsa possibilità di venire applicato in materia societaria, in più si aprirebbero le porte a problematiche di ardua soluzione: quale la disciplina da applicarsi qualora il secondo reato fosse erroneamente ritenuto meno grave del primo? E nel caso inverso? Opererebbe la disciplina dell’art. 59 c.p. qualora la spinta a delinquere, fondamentale per ritenere sussistente una situazione di non esigibilità, non fosse stata sentita da chi ha mentito in un bilancio ignorando di aver precedentemente commesso un reato? E come risolvere le questioni in merito alla commissione di un reato putativo, di uno condizionato, ecc.? Per acuti rilievi sulla operatività in casi analoghi delle cause scusanti in generale, si veda ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cit., p. 228 ss., part. p. 235; ID., Commentario, cit., p. 491, mentre per la dottrina meno recente, cfr. DOLCE, Lineamenti di una teoria generale, cit., pp. 49 ss. e 75. Per questioni speculari in merito all’applicabilità dell’art. 61, n. 2, cfr. già CICALA, Interpretazione sistematica della circostanza ‘‘aver commesso il reato per eseguirne un altro’’, in Annali, 1935, p. 822; MANGINI RUFFO, Sussiste l’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, c.p., quando reato mezzo e reato fine sono costituiti da azione unica?, in Annali, 1935, p. 943; PAGLIARO, I reati connessi, cit., pp. 57-58 e 77 ss. Più recentemente, cfr. DE LIGUORI, Connessione teleologica, cit., pp. 1028-1029. Con riferimento all’art. 384 c.p., cfr. ZOTTA, Casi di non punibilità, cit., pp. 546-547, mentre, in linea generale, sulla disciplina dell’errore in ambito di cause di non punibilità, si veda VASSALLI, voce Cause di non punibilità, cit., p. 623 ss. Nella dottrina meno recente, si veda PISAPIA, I rapporti di famiglia, cit., p. 177 ss.
— 582 — prattutto ove comunque si rientrasse nell’ambito di reati puniti con pena detentiva (113). Si pensi al caso del bilancio falso. Il non dichiarare proventi di attività di contrabbando (114) giustificherebbe — perlomeno — un’appostazione non veritiera dei ricavi d’impresa (ed infatti è questa la tesi sostenuta dalla sentenza Musselli (115)). Perché, a questo punto, limitarsi a non indicare i proventi del contrabbando? Una volta che la posta dei ricavi fosse falsa, e magari anche notevolmente falsa, sarebbe possibile ‘‘giustificare’’ la menzogna nei soli limiti in cui è finalizzata a ‘‘coprire’’ l’attività di contrabbando, oppure dovrebbe giungersi fino a ‘‘scusare’’ comunque la falsità di quella posta? E ancora, una volta che si decida che una posta può essere falsa senza che a ciò consegua la sanzione penale, si finisce con l’ammettere che un intero bilancio possa essere impunemente falso, stanti i legami che inevitabilmente avvingono le diverse appostazioni contabili; ma allora, qualsiasi menzogna inserita in quel bilancio, che sarebbe comunque falso, dovrebbe ritenersi giustificata? È chiaro come, in questo modo, ad essere imboccato sia un sentiero che — più che tortuoso — pare impercorribile, perennemente in bilico non solo tra lecito ed illecito, ma tra illecito scusabile ed illecito non scusabile, a seconda del legame intercorrente tra vari comportamenti oggettivamente tipici ma tra i quali occorrerebbe ancora discernere la colpevolezza. 8-i) Ma ancora non basta. Una volta che un bilancio fosse falso ma ‘‘giustificatamente’’ (rectius: ‘‘scusabilmente’’) falso, ossia inficiato da falsità ‘‘scusate’’ in ossequio a codesto canone nemo tenetur se detegere, che accadrebbe ai bilanci relativi ad esercizi successivi? Si rammenti che i dati di bilancio ‘‘passano’’ da un esercizio all’altro, che le poste ‘‘di chiusura’’ sono le appostazioni del bilancio ‘‘di apertura’’, che esiste una logica continuità tra valori di bilancio. Ed allora, una menzogna giustificata, o si ripercuote su tutti i bilanci degli esercizi successivi, inficiandone l’attendibilità, oppure viene mondata, sconfessata nel bilancio successivo. Ma anche questa sarebbe un’au(113) Si rifletta sul fatto che anche l’attribuzione a persona innocente di una contravvenzione costituisce delitto di calunnia — seppur sanzionato meno severamente in forza del disposto dell’art. 370 c.p. —, calunnia che viene generalmente considerata fattispecie posta a tutela anche dell’onore del soggetto falsamente incolpato e non solamente del buon andamento dell’attività giudiziaria: cfr. per tutti ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte speciale, cit., vol. II, p. 432; BARTOLO, Calunnia, in AA.VV., I delitti contro l’amministrazione della giustizia, cit. p. 162 ss.; PULITANÒ, voce Calunnia e autocalunnia, cit., p. 10. (114) Sulla questione della depenalizzazione del contrabbando, vedasi Cass., sez. un., 21 aprile 1995, in Riv. trim dir. pen. ec., 1996, p. 183 ss. ed ivi nota di CERQUA, Esclusa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione la depenalizzazione del contrabbando doganale. (115) Cass., 21 gennaio 1987, in Cass. pen., 1988, p. 379.
— 583 — todenduncia del falso precedentemente commesso, ed anche qui potrebbe invocarsi il principio nemo tenetur se detegere; quindi non resterebbe che rassegnarsi alla perpetua — o perlomeno alla prolungata — inattendibilità dei bilanci redatti da quell’impresa o da quell’amministratore (116). E si apre qui un’altra ed ultima questione. Quali sarebbero i soggetti legittimati ad invocare codesto principio nemo tenetur se detegere? Solamente l’amministratore che ha commesso (o concorso a commettere) un determianto reato potrebbe mentire allorquando redige il bilancio, così da non denunciare sé stesso, oppure sarebbe altresì legittimo mentire per ‘‘salvare’’ il proprio collega, attuale o precedente? Che dire allora delle deliberazioni collegiali: se il bilancio, come accade in presenza di un consiglio di amministrazione, è approvato dall’intero consiglio ed è documento a questo direttamente attribuibile anche in virtù della non delegabilità dell’obbligo di redazione (cfr. art. 2381 c.c.), quali le conclusioni qualora la falsità di tale bilancio fosse stata perpetrata per non denunciare un reato precedentemente commesso da uno soltanto dei consiglieri? Qui non sarebbe in gioco solamente un diritto a non autodenunciarsi, ma si giungerebbe a discutere di un diritto a non denunciare il collega, l’amico, il superiore, ecc. E si rifletta sul fatto che la ratio sarebbe comunque la stessa, che anche qui si potrebbe dire che non si può esigere che il collega sconfessi il collega, che l’amico tradisca l’amico, e così via (117). Ma si consideri, altresì, che non si verserebbe neppure in presenza di quei vincoli di sangue che pure connotano la scusante prevista dall’art. 384 c.p. 9. Non solo. A ben vedere, in ambito di false comunicazioni sociali, non sussiste giammai una ferrea alternativa tra il mentire e l’autoaccusarsi, in quanto il legislatore concede sempre l’alternativa di non redigere il bilancio e, quindi, di omettere qualsivoglia comunicazione, senza per ciò andare incontro a sanzione penale (118). La concessione di una simile ‘‘via di fuga’’ — certamente ‘‘a buon prezzo’’ — pone seriamente e definitivamente in crisi qualsiasi possibile appello al principio di inesigibilità, (116) Sul punto, chiaramente, Trib. Torino, 9 aprile 1997, n. 704, inedita. (117) E cfr., in proposito, le considerazioni di ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cit., pp. 231-232. (118) Si ricorda che la costante giurisprudenza ritiene l’omessa redazione del bilancio di esercizio rilevante ex art. 2626 c.c., prescindendo in questa sede da considerazioni in merito alla responsabilità civile degli amministratori ed all’azionabilità del procedimento ex art. 2409 c.c. Sul punto, cfr. Cass., sez. un., 2 luglio 1955, in Giur. it., 1955, II, p. 345; Cass., 12 novembre 1976, in Cass. pen., 1978, p. 878; Cass., 23 marzo 1976, in Cass. pen., 1977, p. 1042; Cass., 3 dicembre 1974, in Mass. pen., 1975, p. 1292; Cass., 24 febbraio 1970, in Giust. pen., 1971, II, p. 29; Cass., 24 maggio 1966, in Foro it., 1967, II, p. 284; Cass., 17 gennaio 1964, in Giur. it., 1964, II, p. 337; Cass., 7 maggio 1962, in Giust. pen., 1963, II, p. 148.
— 584 — principio che non solo si è visto destinato ad essere applicabile in casi ben circoscritti dal nostro ordinamento, ma altresì invocato a sproposito di fronte ad un così commodus discessus offerto dal legislatore (119). In verità, se si riconosce che il principio nemo tenetur se detegere permette di scusare il silenzio antidoveroso davanti all’alternativa di autoaccusarsi (120), allora occorre altresì ammettere che è del tutto superfluo ricorrere a tale principio per escludere la punibilità del delitto di false comunicazioni sociali, visto che il mero silenzio già risulta atipico rispetto alla fattispecie in questione. E non vi è certo necessità di scusare ciò che — ab origine — non è penalmente illecito (121). 10. In realtà, a nostro avviso, proprio da questa analisi delle implicazioni connesse ad un coerente sviluppo del percorso interpretativo inaugurato dalla dianzi citata sentenza Musselli (122), emerge con estrema chiarezza la fondatezza del pensiero del Petrocelli che, evidenziando la completa assenza di confini entro i quali racchiudere una supposta ‘‘non esigibilità’’, denunciò l’inconsistenza di un principio altrimenti capace di scardinare l’intero sistema penale; tale situazione si ripeterebbe qualora si riconoscesse una generalizzata rilevanza anche sostanziale a codesto diritto di non autodenunciarsi, giungendo così a privare di sostanza larga parte del diritto penale economico, e soprattutto di quella parte del diritto penale economico volta a tutelare obblighi documentali la cui importanza si fa vieppiù sentita con lo svilupparsi dell’economia. Come nota il Giuliani-Balestrino, l’imprenditore commerciale ha l’obbligo di conservare le scritture contabili ‘‘anche a costo di conservare in tal modo le prove dei propri reati, anche a costo cioè di autoaccusarsi’’ (123). È questo il prezzo che paga per vedersi riconosciuta la c.d. ‘‘immunità commerciale’’ (124), per poter continuare a ricorrere al credito senza destare la diffidenza dei creditori, ad operare fintanto che sia in grado di far fronte ai propri debiti. D’altra parte, egli è un professionista (119) Ed infatti, lo Zanotti stesso (ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., p. 213) riconosce che ‘‘quando è sufficiente allo scopo l’omissione, il sistema non tollera (né c’è ragione di farlo) l’impunità del falso’’. (120) Si veda supra, la nota n. 22. (121) Ciò permette di superare — almeno in ambito penale societario — le preoccupazioni espresse dallo Zanotti (ZANOTTI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, cit., pp. 196-197) con riferimento alla possibilità di aggirare la tutela costituzionale del diritto di difesa semplicemente ricorrendo ad una proliferazione di fattispecie omissive. Il problema, infatti, non si pone con riferimento al delitto di false comunicazioni sociali che non può mai ritenersi fattispecie meramente omissiva. In proposito, facciamo rinvio a PERINI, Il delitto di false comunicazioni sociali, in corso di pubblicazione, Sezione V, passim. (122) Cass., 21 gennaio 1987, in Cass. pen., 1988, p. 379. (123) GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 45. (124) Cfr. ancora GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 32 ss.
— 585 — del credito (125). Ma per poter godere di siffatto privilegio, l’imprenditore deve ‘‘rendere il conto’’, deve dimostrare dove sono stati investiti i denari che gli sono stati prestati, e — nelle società commerciali, soprattutto se di capitali — deve essere sincero con chi investe i propri denari accettando di fidarsi di chi ha — in buona sostanza — il solo obbligo di rendere il conto una volta all’anno. L’obbligo di rendiconto consegue alla nascita delle grandi Compagnie e quindi alla necessità di attingere alle sostanze dei piccoli risparmiatori: i crescenti obblighi documentali sono quindi il logico risvolto, l’ovvia conseguenza dello sviluppo dell’economia, e ciò non può che essere accompagnato da una parallela crescita del bisogno di tutela di codesti obblighi. In questa prospettiva, il riconoscimento di una diffusa valenza sostanziale del diritto di non autodenunciarsi equivarrebbe — a nostro giudizio — ad inserire un corpo estraneo nel sistema giuridico economico, in palese controtendenza con quelle che sono le istanze scaturenti dal progresso economico ed altresì in contrasto con i principi generali ritraibili dal nostro ordinamento penale. Proprio in ambito di diritto penale economico, quindi, diviene difficile ammettere l’esistenza di un principio che sembra confliggere sia con i dogmi del diritto penale che con le esigenze dell’economia; più fondatamente, pare invece doveroso riconoscere che alla non esigibilità il nostro legislatore riservi un ruolo che, lo si consideri più o meno marginale, è comunque confinato nei limiti tracciati da norme quali l’art. 384 c.p. (126); ed a questi limiti è estraneo l’avversato tentativo di dilatare quel principio riassunto dal brocardo nemo tenetur se detegere, la cui efficacia processuale si inserisce perfettamente nel diritto alla difesa garantito dall’art. 24 Cost., ma diritto alla difesa che non può certo essere distorto fino ad intravvedervi un salvacondotto per delinquere. E ciò sotto pena di privilegiare la posizione di chi delinque più volte rispetto a chi violi una volta soltanto la legge penale; ma a tanto ostano altri e non meno importanti principi costituzionali, sanciti in primis dagli artt. 3 e 27 della Costituzione. Non a caso — ci pare — la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, in sede di delimitazione del diritto a non autoaccusarsi, ha avuto (125) GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 316. (126) Si veda la precedente nota n. 78 per l’individuazione di altre disposizioni analoghe. E si noti che già il MIRTO, Estensione specifica, cit., p. 1013, rilevava che ‘‘il principio di necessità, come un principio da cui scaturisce un diritto, il diritto della necessità, ha nel sistema giuridico regolamentazione meramente casistica’’. Ed ancora, (p. 1018), ‘‘le disposizioni del codice penale, che disciplinano i casi dell’azione necessaria, o delle situazioni di necessità, non danno il fondamento di una teoria generale della necessità nell’orbita della fenomenologia giuridica, ma costituiscono soltanto ipotesi speciali e concrete, per le quali in determinati casi si esclude la colpevolezza’’. Recentemente, cfr. ZOTTA, Casi di non punibilità, cit., p. 533.
— 586 — modo di affermare, chiaramente, che ‘‘... le droit de ne pas s’incriminer soi-meme... ne s’étend pas a l’usage, dans une procédure pénale, de données que l’on peut obtenir de l’accusé en recourant à des pouvoirs coercitifs mais qui existent indépendamment de la volonté du suspect, par exemple les documents recuillis en vertu d’un mandat, ...’’ (127). Ed allora, a ‘‘tristo annunzio di futuro danno’’, riecheggia invece nel nostro sistema il suono di un altro, antico brocardo, risalente al diritto romano, e che avverte: nemo auditur suam turpitudinem allegans. Se quindi un’efficacia sostanziale è attribuibile al principio nemo tenetur se detegere, ebbene questa è tutta e soltanto delineata e delimitata dall’art. 384 c.p., disposizione senz’altro eccezionale ed unico possibile cedimento della potestà punitiva di fronte al travaglio psicologico e morale di chi si trova innanzi al lacerante dilemma di delinquere o di tradire un forte legame di sangue (128). ANDREA PERINI Dottorando di ricerca in diritto penale dell’impresa Università di Torino
(127) Cour européenne des droits de l’homme, 17 décembre 1996, affaire Saunders c. Royaume-Uni, reperibile al sito Internet www.dhcour.coe.fr/fr/Saunders. Si noti che anche la giurisprudenza americana ha interpretato in senso analogo la pur inequivoca formulazione del Quinto Emendamento: cfr. Shapiro v. United States, 23 ottobre 1947, 21 giugno 1948, in United States reports, The Supreme Court, vol. 335, 1949, p. 1 ss. (128) E si vedano le limpide considerazioni del CRESPI, Falsa testimonianza e possibilità di astensione dalla deposizione, in Riv. it. dir. pen., 1952, pp. 659-660, il quale rileva che ‘‘se è vero che l’art. 384 indica chiaramente come, in via normale, il legislatore consideri l’interesse pubblico di giustizia prevalente rispetto agli interessi privati (in caso contrario non occorreva riprodurre, per alcuni casi soltanto e con una limitazione, una scriminante che, in sé stessa, potrebbe essere automaticamente applicata a tutti i reati) — offrendo così una pietra di paragone per il giudizio sopra una categoria di interessi — è però anche vero che tale disposizione offre pure la possibilità di concludere che altri interessi, sebbene pubblici, non devono considerarsi prevalenti rispetto a determinati interessi privati’’. Cfr. altresì ROMANO, Giustificazione e scusa, cit., p. 48.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
L’ART. 6 DELLA CONVENZIONE DI ROMA E L’APPLICAZIONE DELLE GARANZIE DEL GIUSTO PROCESSO AI GIUDIZI D’IMPUGNAZIONE
1.1. L’iniziale assenza di un diritto al secondo grado nella Convenzione europea. — La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) (1) non conteneva originariamente alcuna disposizione specifica che riconoscesse alla persona dichiarata colpevole di un reato il diritto ad ottenere un riesame della pronuncia del giudice di primo grado (2): né un tale diritto poteva desumersi implicitamente da altre norme della Convenzione, quali l’art. 13 o l’art. 6. Relativamente all’art. 13, che sancisce l’obbligo per gli ordinamenti riceventi di prevedere un ‘‘ricorso effettivo, davanti ad un’istanza nazionale’’ accessibile a chi lamenti la violazione dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione, gli organi di Strasburgo hanno ripetutamente affermato (3) che esso non postula l’esigenza di un rimedio di tipo giurisdizionale, per di più articolato su un meccanismo processuale a più gradi, potendo la ‘‘istanza na(1) Il Protocollo n. 11, entrato in vigore il 1o novembre 1998 (la ratifica dell’Italia era avvenuta con la legge n. 296 del 28 agosto 1997, G.U. n. 213 del 12 settembre 1997), ha completamente rinnovato il meccanismo di garanzia, incidendo profondamente sull’assetto organico e soprattutto sulle modalità di ricorso individuale. Qui si fa il punto sulla giurisprudenza precedente. (2) Diversamente, l’art. 14, n. 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978, in seguito ad autorizzazione disposta con la legge n. 881 del 25 ottobre 1977, G.U. n. 333 del 7 dicembre 1977, Suppl. ord.) riconosce ad ‘‘ogni persona dichiarata colpevole di un reato’’ il ‘‘diritto di far riesaminare da una giurisdizione superiore la dichiarazione di colpevolezza e la condanna conformemente alla legge’’. Il gap tra i due strumenti convenzionali è stato parzialmente colmato con l’adozione del Protocollo n. 7, il cui art. 2 ha introdotto a livello europeo una garanzia di contenuto analogo ma non identico (v. F. PEDRAZZI, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e Protocollo n. 7, in Riv. int. dir. uomo, 1992, p. 478 ss.; P. VAN DIJK-G.S.H. VAN HOOF, Theory and Practice of the European Convention on Human Rights, The Hague, 1998, p. 685 ss.). Molti rimangono, tuttavia, i profili di interferenza fra i due sistemi di tutela dei diritti umani, tanto che del problema della loro coesistenza fu investito, fin dal 1967, il Comitato di esperti in materia di diritti umani del Consiglio d’Europa, il quale nel 1969 sottopose un dettagliato rapporto al Comitato dei Ministri, successivamente formalizzato nel Doc. H (70) 7, Problémes decoulant de la coexistence des Pactes des Nations Unies relatifs aux Droits de l’Homme et de la Convention européenne des Droits de l’Homme - Différences quant aux droits garantis, Strasburgo, 1970. Sul punto si vedano, tra gli altri, F. MODINOS, Coexistence de la Convention européenne des Droits de l’Homme et du Pacte des Droits Civils et Politiques des Nations Unies, in Revue des Droits de l’Homme, 1968, p. 65 ss; T. OPSAHL, Ten years’ coexistence Strasbourg - Geneva, in Protecting Human Rights: the European Dimension, Studi in onore di G. Wiarda, 1989, p. 431 ss.; G. MALINVERNI, Il Patto delle Nazioni Unite e la protezione dei diritti dell’uomo in Europa: un confronto, in Riv. int. dir. uomo, 1990, p. 189 ss., e l’ampia bibliografia ivi citata. (3) Si vedano, a titolo esemplificativo, la sentenza della Corte eur. del 18 giugno
— 588 — zionale’’ essere rappresentata da un organismo amministrativo o politico ovvero da una Corte superiore del tutto sganciata dall’organizzazione giudiziaria (4). La giurisprudenza di Strasburgo ante-riforma, e cioè sino a tutto il 31 ottobre 1998, ha pure escluso che sia l’art. 6 la norma cui ci si possa richiamare per pretendere un diritto al doppio grado di giurisdizione (5), riconoscendo in termini molto ampi la libertà dei legislatori nazionali di condizionare, limitare o addirittura sopprimere l’esercizio della facoltà d’impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali (6). E ciò costituisce un argomento di indubbio peso a sostegno della tesi che nega la diretta riconducibilità dogmatica del principio del doppio grado di giurisdizione alla clausola del due process of law (7). Ciò nonostante, dalla giurisprudenza in esame (8) è progressivamente emerso un interesse crescente per l’applicabilità delle garanzie processuali stabilite dall’art. 6 CEDU ai giu1971, casi De Wilde, Ooms, Versyp, la sentenza del 21 febbraio 1975, caso Golder e la sentenza del 6 settembre 1978, caso Klass. Diverso è, invece, il caso dell’art. 5, n. 4 che, prevedendo ‘‘il diritto di ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione di presentare un ricorso’’, individua espressamente in un ‘‘tribunale’’ l’istanza cui si deve garantire l’accesso. Peraltro, neppure questa norma richiede che venga assicurata la possibilità di ottenere un riesame della questione, decisa in senso sfavorevole al ricorrente dall’organo giurisdizionale adito in prime cure. Va pure ricordato come la case-law degli organi convenzionali abbia definito con una certa precisione il diritto di accesso ad un’istanza giurisdizionale desumibile dall’art. 6, sicché quest’ultimo si sovrappone all’art. 13 ampliando la garanzia del rimedio legale in esso prevista, sia sotto il profilo qualitativo (si deve trattare non più di un’istanza nazionale ma di un tribunale) sia sotto il profilo quantitativo (si applica a tutti i casi in cui vi sia una determination of civil rights and obligations or of any criminal charge, e non dunque limitatamente ai diritti e alle libertà sanciti dalla Convenzione medesima come richiede l’art. 13). Su questo punto si veda, per tutti P. VAN DIJK-G.S.H. VAN HOOF, op. cit., p. 695 ss. Per uno studio dedicato all’elaborazione giurisprudenziale del right to access to a court, vedi P. VAN DIJK, Access to court, in The European System for the Protection of Human Rights, a cura di R. St. J. MacDONALD, F. MATSCHER, H. PETZOLD, Dordrecht-BostonLondon, 1993, p. 369 ss. (4) La precisazione si riferisce a quegli ordinamenti che comprendono tra le competenze della Corte costituzionale, o di analogo organo di legittimità costituzionale, quella di ricevere ricorsi proposti direttamente dagli individui che si ritengano lesi nei loro diritti fondamentali da un atto amministrativo o giurisdizionale. È questo, ad esempio, il caso della Verfassungsbeschwerde nella Repubblica Federale Tedesca: l’idea è stata di recente ripresa anche nel nostro Paese, in sede di elaborazione del progetto di riforma della Costituzione, prevedendo all’art. 134 del testo definitivo adottato dalla Commissione bicamerale il 4 novembre 1997 la competenza della nuova Corte costituzionale a giudicare ‘‘sui ricorsi per la tutela, nei confronti dei pubblici poteri, dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, secondo condizioni, forme e termini di proponibilità stabiliti con legge costituzionale’’. (5) Emblematiche a proposito le sentenze del 23 luglio 1968, caso linguistico, e del 17 gennaio 1970, caso Delcourt. (6) Cfr., ad esempio, la decisione della Comm. eur. 16 maggio 1977 (7413/1976), relativamente alla compatibilità con la CEDU dell’istituto di matrice inglese del leave to appeal (di cui si parlerà più avanti nel testo); la decisione del 2 febbraio 1970 (3775/1968), sulla piena legittimità di un mezzo di impugnazione limitato ai soli motivi di diritto; la decisione del 6 luglio 1977 (7620/1976) dove si afferma letteralmente che ‘‘nulla nella Convenzione impedisce di abolire per via legislativa un mezzo di impugnazione o di sostituirlo con un altro’’: la decisione del 16 luglio 1981 (8769/1979) relativamente alla possibilità per il legislatore di subordinare il diritto d’impugnazione ad una delibazione giudiziale. (7) V., per tutti, S. PIERI, Il diritto al doppio grado di giudizio come diritto dell’uomo; rapporto tra processo italiano, Costituzione e norme convenzionali, in Giustizia e Costituzione, 1982, p. 72. (8) Per le decisioni della Commissione si rinvia a COUNCIL OF EUROPE, Decisions and Reports, Strasburgo, 1955-1997; per le sentenze della Corte europea si vedano le raccolte di P. KEMPEES, A systematic guide to the case-law of the European Court of Human Rights, Dordrecht-Boston-London, 1995, e R. FACCHIN (a cura di), L’interpretazione giudiziaria
— 589 — dizi successivi a quello di prima istanza. In particolare, si è più volte ribadito (9) che, se un determinato sistema processuale si articola su più gradi di giurisdizione, i giudizi devono essere disciplinati all’interno di ciascun grado osservando, nei limiti che più oltre si vedranno, le garanzie del fair trial sancite dall’art. 6 CEDU. In sostanza, il legislatore è libero di fare le proprie scelte in materia di doppio grado, ma una volta optato per la previsione di un mezzo di gravame scatta il vincolo di quello che potremmo definire il ‘‘giusto processo di secondo (o terzo) grado ». Sebbene la giurisprudenza europea non sia del tutto lineare pro parte de qua, si dovrebbe, anzi, ritenere che la conseguenza della mancata previsione convenzionale di un diritto di impugnazione sia che le garanzie di cui all’art. 6 richiedano di essere pienamente soddisfatte solo in ultima istanza, purché l’organo davanti al quale essa si svolge sia competente a conoscere tutte le circostanza del caso (cioè si tratti, secondo la terminologia degli organi di Strasburgo, di un full appeal (10) ). Questa conclusione è stata applicata con una certa univocità ai casi in cui la competenza a giudicare su determinate controversie, intrinsecamente riconducibili al concetto di determination of civil rights and obligations o di criminal charge (11), sia devoluta ab initio ad un organo di natura amministrativa o disciplinare che adotti moduli procedimentali non conformi ai canoni dell’art. 6 (12). In questo caso, è sufficiente che sia data la possibilità alla persona interessata di accedere ad un’ulteriore istanza giurisdizionale in cui siano pienamente rispettate tutte le garanzie del giusto processo. Per quanto riguarda, invece, la possibilità che un tribunale di primo grado funzioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1960-1987), Padova, 1988 ed idem, (19881989), 1990. (9) Così, in particolare, la sentenza del 17 febbraio 1970, caso Delcourt, in cui si afferma: ‘‘Certamente, l’art. 6 CEDU non costringe gli Stati contraenti a creare delle Corti d’appello o delle Corti di cassazione: tuttavia, uno Stato che si doti di giurisdizioni di tale natura ha l’obbligo di provvedere a che gli utenti della giustizia godano, presso le medesime, delle garanzie fondamentali dell’art. 6’’. Analogamente, cfr. la decisione del 28 settembre 1964 (1135/1962) e la decisione del 9 marzo 1973 (4859/1971). La citata pronuncia della Corte europea riveste un’importanza centrale nella giurisprudenza sull’argomento di cui ci si occupa, come dimostrato dal fatto che ad essa si farà più volte riferimento nel corso della trattazione: per un’analisi particolareggiata, sotto il profilo che qui interessa, del caso Delcourt si rinvia a K. NADELMANN, Due process of law before the European Court of Human Rights, 1972. p. 516 ss. e J. VELU, L’Affaire Delcourt, Institut d’Etudes Europeénnes de l’Université de Bruxelles, 1972. (10) L’espressione viene utilizzata per indicare una certa strutturazione del giudizio di impugnazione, peraltro abbastanza infrequente nei vari sistemi processuali, che consenta il riesame complessivo della questione decisa dal primo giudice senza alcuna limitazione sostanziale alla proponibilità dei motivi di gravame; la Corte si è, inoltre, riservata la competenza esclusiva a verificare se effettivamente, nel caso specifico sottoposto al suo esame, si possa parlare di full appeal: cfr. la sentenza del 23 ottobre 1985, caso Benthem. (11) Sul concetto di determination of civil rights and obligations or of any criminal charge v., in particolare, D.J. HARRIS-M. O’BOYLE-C. WARBRICK, Law of the European Convention on Human Rights, London-Dublin-Edinburgh, 1995, p. 166 ss.; JACOT-O. GUILLARMOD, Rigths Related to Good Administration of Justice, in The European System for the Protection of Human Rights, cit., p. 390; P. VAN DIJK-G.S.H. VAN HOOF, op. cit., p. 394 ss.; S. STAVROS, The Guarantees for the Accused Persons Under Article 6 of the European Convention on Human Rights, Dordrecht-Boston-London, 1992, p. 173 ss. (12) Cfr. la sentenza del 23 giugno 1981, caso Le Compte, Van Leuven, De Meyere, dove la Corte afferma testualmente che l’art. 6 non prescrive l’obbligo per gli Stati ‘‘to submit ‘contestations’ over ‘civil rights and obligations’ to a procedure conducted at each of its stages before ‘tribunals’ meeting the Article’s various requirements. Demands of flexibility and efficiency, which are fully compatible with the protection of human rights, may justify the intervention of administrative or professional bodies and, a fortiori, of judicial bodies which do not satisfy the said requirements in every respect’’. Analogamente, cfr. la sentenza del 10 febbraio 1983, caso Albert, Le Compte.
— 590 — senza l’osservanza degli standards dell’art. 6, con la successiva ‘‘sanatoria’’ del giudizio d’impugnazione, il discorso si fa più complicato. Sembra, infatti, che l’intenzione dei redattori della norma fosse quella di prevedere un complesso articolato di garanzie processuali da applicare ai giudizi di primo grado, stante la riluttanza a riconoscere convenzionalmente un diritto di impugnazione (13). E proprio attorno a questo argomento ruotano le osservazioni del Governo svedese nel caso Ekbatani (14), in cui si è tentato di rimettere in discussione la giurisprudenza costante in ordine all’applicabilità delle garanzie dell’art. 6 nei procedimenti di secondo grado (che si atteggiano come full appeal) sulla base del rilievo che ‘‘il fatto che si sia ritenuto necessario aggiungere l’art. 2 del Protocollo n. 7 deve essere ricostruito in modo da consentire la conclusione che l’art. 6 non prende in considerazione la questione dell’appello, tantomeno i requisiti del giudizio d’appello’’. Il che ovviamente tende a riconoscere come naturale sfera di operatività della norma convenzionale lo svolgimento della fase processuale di primo grado. La Corte, dal canto suo, ha cercato di ridimensionare la portata delle conclusioni cui era pervenuta nel caso Le Compte, Van Leuven, De Meyere (15), allo scopo di non fornire agli Stati un alibi per limitare le garanzie fondamentali del giusto processo proprio in quello che dovrebbe essere, nella normalità delle cose, il momento cruciale del suo svolgimento: nel caso De Cubber (16), i giudici europei hanno puntualizzato che il principio enunciato in precedenza non si applica a quelle procedure che hanno carattere civile o penale conformemente alla legge dello Stato interessato ed alla Convenzione europea, e nelle quali la decisione è nelle mani di ‘‘courts of classic kind’’, poiché i requisiti dell’art. 6 non devono essere limitati ‘‘in their traditional and natural sphere of application’’ (17). Attraverso questo tortuoso cammino, si è consolidato un orientamento incline a richiedere comunque il rispetto dell’art. 6 sia nel giudizio di prima istanza, se si svolga di fronte ad un tribunale ordinario, sia nei successivi gradi di impugnazione: con la conseguenza che, come qualche autore non ha mancato di osservare (18), si finisce per generare un po’ paradossalmente una situazione per cui quanto più è sofisticata (ed evoluta) l’organizzazione giudiziaria in un dato Paese, tanto più è alto il rischio di violare le disposizioni convenzionali, così da spingere gli Stati ad optare per la soluzione più sicura che è quella di evitare, come prima del Protocollo n. 7 doveva ritenersi consentito, di prevedere strumenti di impugnazione, garantendo a pieno le garanzie dell’art. 6 in primo grado. Dopo l’entrata in vigore del suddetto Protocollo, ciò potrebbe tradursi in un forte incentivo a valersi delle possibilità di eccezione consentite dall’art. 2, comma 2o, in casi particolari, per sfuggire alle inevitabili lungaggini di un giudizio di secondo grado che rispetti a pieno le garanzie dell’art. 6 (19). (13) Cfr. S. STAVROS, op. cit., p. 270 ss. (14) Cfr. infra nota n. 23. (15) Cfr. supra nota n. 12. (16) Sentenza del 26 ottobre 1984. (17) Si legge nella pronuncia in esame: ‘‘The flexible standpoint with regard to disciplinary and administrative proceedings cannot justify reducing the requirements of Article 6 (1) in its traditional and natural sphere of application. A restrictive interpretation of this kind would not be consonant with the object and purpose of Article 6 (1)’’. Di conseguenza, ‘‘if proceedings are concerned which are to be classified as civil or criminal, both in virtue of the Convention and under domestic law, and if the body which makes the determination is a proper court both in the formal and the substantive meaning of the term, Article 6 applies to this body irrespective of whether its decision is open to appeal’’. Analogamente, cfr. la sentenza del 22 giugno 1989, caso Langborger. (18) Cfr. JACOT-O. GUILLARMOD, op. cit., p. 381 ss. (19) Così S. STAVROS, op. cit., p. 282; sull’art. 2, comma 2, del Protocollo n. 7 v. pure le osservazioni di P. VAN DIJK-G.S.H. VAN HOOF, op. cit., p. 685 ss.; D.J. HARRIS-M. O’BOYLE-C. WARBRICK, op. cit., pp. 566-567; F. PEDRAZZI, op. cit., p. 478 ss.; M.G. MARCHETTI, Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Legislazione penale, 1991, p. 234 ss.
— 591 — 2.3. I diversi parametri di ‘‘equità’’ nella giurisprudenza della Corte europea: a) il ‘‘leave to appeal’’. — La Corte europea è venuta, di volta in volta, specificando la portata della sua affermazione di principio circa l’applicabilità dell’art. 6 ai giudizi d’impugnazione, contenuta nella sentenza sul caso Delcourt. Ciò si è reso necessario soprattutto per rispondere alle numerose obiezioni che a proposito venivano sollevate dai Governi convenuti, per comprensibili esigenze di efficienza e tempestività della macchina giudiziaria: l’estensione, sempre e comunque, delle disposizioni in materia di giusto processo ai giudizi di impugnazione avrebbe comportato un considerevole dispendio di risorse umane ed economiche, nonché un’insostenibile moltiplicazione dei tempi processuali tale da rendere difficile il rispetto stesso del fondamentale principio della ragionevole durata dei processi sancito nell’art. 6 (20). Dopo aver riaffermato l’assoluta imprescindibilità del rispetto delle garanzie del fair trial in sede di gravame (21), la giurisprudenza di Strasburgo si è impegnata nella elaborazione di un autonomo concetto di fairness (22) per i giudizi successivi al primo, tentando di centrare il difficile obiettivo di un bilanciamento fra la necessità di assicurare adeguati standards di tutela processuale per gli individui in ciascun grado di giurisdizione e quella di rispettare le peculiarità dei singoli ordinamenti nazionali, talvolta molto distanti l’uno dall’altro sotto il profilo della disciplina dei mezzi d’impugnazione. I nodi più intricati da sciogliere riguardano i limiti all’applicazione integrale delle garanzie dell’art. 6 che si possono ritenere ammissibili rispettivamente nello speciale procedimento del leave to appeal, nel giudizio d’appello ed in quello di cassazione (23). Meno problematica è stata, invece, la definizione del contenzioso in merito ai giudizi che si svolgono davanti ad organi giurisdizionali del tipo della nostra Corte costituzionale (24). (20) Analogo principio è sancito dall’art. 14, comma 3o, lett. c) del Patto internazionale: si tratta delle due norme in assoluto più violate dal nostro Paese tra quelle relative alle garanzie del giusto processo. (21) Cfr. le sentenze della Corte europea del 19 dicembre 1989, caso Kamasinski, del 22 aprile 1992, caso Vidal, del 12 ottobre, caso C.-T. vs Italy, del 16 dicembre 1992, caso Hadjianastassiou, del 23 novembre 1993, caso Potrimol. (22) Il termine fairness racchiude in sé il significato globale delle garanzie riconosciute dalla CEDU nello svolgimento dei processi: correttamente osserva M. CHIAVARIO, Le garanzie fondamentali..., cit., p. 474, che si tratta di un’espressione ‘‘pressoché intraducibile in tutte le sue sfumature di significato’’. (23) In particolare si segnalano le sentenze della Corte europea del 23 aprile 1983, Pakelli, del 2 marzo 1987, Monnel e Morris, del 26 maggio 1988, Ekbatani, del 19 dicembre 1989, Kamasinski, del 19 febbraio 1991, Alimena vs Italia, del 30 ottobre 1991, Borgers vs Belgio, del 22 febbraio 1994, Tripodi vs Italia, del 22 settembre 1994, Lala vs Paesi Bassi, del 28 ottobre 1994, Boner vs Regno Unito, del 28 ottobre 1994, Maxwell vs Regno Unito, del 19 febbraio 1996, Botten vs Norvegia, del 17 dicembre 1996, Vacher vs Francia, del 25 marzo 1998, Belziuk vs Polonia. (24) La Corte ha escluso, in linea di principio, che l’art. 6 debba trovare applicazione nei procedimenti instaurati davanti agli organi di giustizia costituzionale, allorché questi siano diretti esclusivamente ad accertare la legittimità costituzionale di determinati atti dei pubblici poteri ovvero di una precedente decisione giurisdizionale, sulla base dell’assunto che un tale tipo di competenza non concerne la determination della controversia civile o dell’accusa penale, cui solo si riferisce l’art. 6 (cfr. la sentenza del 22 ottobre 1984, caso Sramek). Perché si possa parlare di determination nel senso dell’art. 6 ‘‘there must be a close link between the subject matter of the proceedings before the constitutional court and that of the proceedings which led to the referral of the matter to the constitutional court’’ (sentenza del 23 giugno 1993, caso Ruiz-Mateos). Tuttavia, una marginale rilevanza della norma de qua nei giudizi costituzionali è stata rinvenuta dalla stessa Corte con riguardo alla loro durata, allo scopo di determinare se, nel caso di specie, sia ravvisabile una violazione del requisito del reasonable time, entro cui i singoli ordinamenti devono contenere la durata di ogni processo: sul punto cfr. la sentenza del 29 marzo 1989, caso Bock, in cui si afferma che ‘‘vi sono circostanze in cui i procedimenti davanti alla Corte costituzionale di uno Stato devono essere presi in considerazione nel determinare il periodo rilevante (ai fini dell’accertamento
— 592 — Brevi riflessioni si dedicheranno al primo punto, che interessa solo gli ordinamenti, come tipicamente quello britannico, che prevedono l’istituto della preventiva autorizzazione alla proposizione dell’appello (leave to appeal). La Commissione ha esaminato una serie di ricorsi (25) in cui si lamentava l’incompatibilità del procedimento del leave to appeal, assunto in sé e per sé come appello sui generis, con i requisiti del giusto processo di cui all’art. 6: pur concordando sulla qualificazione data alla particolare procedura autorizzativa, e dunque ritenendo applicabili le garanzie dell’art. 6, la Commissione non si è pronunciata nel senso della loro violazione, nonostante il leave to appeal fosse disciplinato in modo tale da non potersi sicuramente dire rispettati i canoni del fair trial (26). Soltanto su un aspetto della disciplina del leave la Commissione ha manifestato dubbi di conformità ai precetti convenzionali; si tratta dell’istituto del loss of time order, in virtù del quale il giudice adito con la richiesta di leave può stabilire, nel caso di non meritevolezza (27) della medesima, che il tempo di detenzione fra la condanna di primo grado e l’udienza per l’autorizzazione all’appello, o parte di esso, non venga più considerato in scomputo dalla pena imposta con la sentenza impugnata. Incidendo una tale decisione sulla libertà dell’imputato, la Commissione ha ritenuto opportuno esigere un maggiore grado di rispetto delle garanzie dell’art. 6, in particolare di quella che richiede la presenza dell’imputato in udienza e il suo diritto di essere ascoltato. Una tale prospettazione non è stata tuttavia accolta dalla Corte nella sentenza del 2 marzo 1987, caso Monnel and Morris, in base al rilievo che il presupposto da accertarsi per ordinare il loss of time, e cioè la non meritevolezza della richiesta di leave, non è tale da richiedere come essenziale per la decisione la presenza fisica dell’appellante davanti all’organo giudicante (28). Pertanto, alcune delle garanzie di cui si compone il concetto di fair trial in base all’art. 6 sono state parzialmente ridimensionate in relazione al procedimento di leave, del rispetto del tempo ragionevole). Si deve considerare se la decisione della Corte costituzionale sia in grado di incidere sul risultato del caso che è stato oggetto di controversia davanti alle Corti ordinarie’’. Per un commento critico su questa posizione della Corte v. S. STAVROS, op. cit., p. 292. (25) Cfr. le decisioni della Commissione sui ricorsi n. 3075/1967 vs UK, n. 3168/1967 vs UK, n. 4133/1969 vs UK, n. 5871/1972 vs UK. Più di recente si vedano le decisioni sui ricorsi n. 18066/1991, n. 20087/1991, e n. 28809/1994, in cui è stato ribadito che la procedura del leave, allorché implica la valutazione del fumus di fondatezza dei motivi dell’impugnazione, deve essere considerata come un giudizio di secondo grado a tutti gli effetti. Una conferma di tale orientamento si ritrova nel memorandum esplicativo annesso al Protocollo n. 7 (Explanatory Report on Protocol n. 7 to the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, COUNCIL OF EUROPE, Strasburgo, 1985, p. 10), dove la procedura del leave to appeal viene espressamente definita come una forma di review ai fini della garanzia consacrata nell’art. 2 del Protcollo. (26) La richiesta di leave viene proposta davanti ad un giudice monocratico della Corte d’appello, che decide in camera di consiglio; contro l’eventuale rigetto della richiesta è possibile adire la Corte in composizione collegiale che si pronuncia in pubblica udienza. Il gratuito patrocinio è raramente concesso e l’appellante può comparire davanti alla Corte solamente se non è detenuto al tempo dell’udienza: se detenuto deve ottenere una speciale autorizzazione da parte della Corte. Per un maggiore approfondimento in merito al funzionamento del sistema impugnatorio inglese si rinvia a V. AMODIO, La riforma dell’appello nel processo penale inglese, in Ind. pen., 1968, p. 238. (27) Pretestuosità, artificiosità, manifesta infondatezza. (28) Evidentemente una tale presa di posizione si spiega con l’esigenza di non compromettere il tentativo dell’ordinamento inglese di alleggerire il peso dei giudizi d’appello, insieme con quella di rispettare il modo particolare di intendere il riesame delle decisioni giudiziarie, tipico dei sistemi anglosassoni. Tuttavia questi retroscena di ordine pratico non hanno persuaso sulla correttezza giuridica della decisione della Corte: in particolare si è obiettato (cfr. S. STAVROS, op. cit., pp. 279-280), da un lato, che l’esigenza di assicurare che le impugnazioni possano essere considerate e decise in tempi brevi, riducendo il tempo di detenzione di coloro che hanno veramente buone ragioni per proporle, può essere soddi-
— 593 — anche nell’ipotesi in cui esso si concluda con una sorta di reformatio in peius a danno del soggetto che ha richiesto l’autorizzazione ad appellare. (Segue): b) il giudizio d’appello. — Con riferimento al mezzo dell’appello, la Corte ha mantenuto una posizione più rigorosa, non senza tuttavia concedere gli opportuni margini di elasticità alle disposizioni dell’art. 6. Un problema preliminare, che gli organi di Strasburgo sono stati chiamati a risolvere già nei primi anni di vigenza della Convenzione e che riguarda congiuntamente l’appello (29) ed il ricorso per cassazione, è stato quello della riconducibilità di un giudizio d’impugnazione limitato alle questioni di diritto al concetto di determination of civil rights and obligations of any criminal charge. Nel più volte citato caso Delcourt, il Governo convenuto sosteneva che si poteva parlare di determination of a criminal charge solo con riferimento a procedimenti in cui fosse discusso il merito dell’accusa: per di più, un giudizio di tipo cassatorio non poteva in definitiva avere una diretta incidenza sulla condizione dell’imputato, potendo concludersi soltanto o con il rigetto del ricorso e la conseguente conferma della sentenza impugnata, o con l’accoglimento del ricorso ed il rinvio del caso ad un giudice inferiore per la decisione di merito. La Corte replicava affermando, nella sua decisione, che l’espressione determination of a criminal charge deve essere intesa in senso ampio, come completa definizione in fatto ed in diritto dell’accusa, sicché anche un’impugnazione fondata sic et simpliciter su questioni di diritto rappresenta un momento di quella definizione cui, conseguenzialmente, si rende applicabile l’art. 6 (30). Risolto questo ostacolo iniziale, si è passati ad analizzare se ed in che misura le peculiari caratteristiche rispettivamente del giudizio d’appello e di quello di cassazione potessero giustificare l’adozione di moduli processuali non pienamente rispondenti agli standards del giusto processo. Per l’appello, le soluzioni sono state parzialmente differenti a seconda che esso implicasse un completo riesame in fatto ed in diritto oppure soltanto un riesame limitato alla corretta applicazione della legge (31): tuttavia, nella sua più recente giurisprudenza, la Corte sembra aver assunto quale discrimen un elemento diverso dall’ampiezza della competenza del giudice di secondo grado, fondato sulla verifica caso per caso circa la funzionalità della singola garanzia invocata alle determinazioni da assumere in tale sede. sfatta attraverso un aumento delle risorse destinate alla giustizia penale, dall’altro che non vi è alcuna ragione plausibile per cui solo chi si trovi in stato di detenzione al momento della richiesta di leave debba subire la minaccia di un prolungamento del tempo di detenzione, mentre chi non si trovi in tale stato può permettersi senza alcun rischio la leggerezza di un’impugnazione manifestamente infondata. (29) Nell’ipotesi in cui questo venga concretamente proposto senza contestazioni del fatto ma sollevando questioni di diritto che avrebbero potuto essere dedotte davanti alla Corte di cassazione, ovviamente negli ordinamenti in cui è previsto un tale organo giurisdizionale. (30) Si legge al paragrafo 25 della sentenza sul caso Delcourt che l’accusato ‘‘loses his status as a convicted person or, as the case may be, the benefit of his acquittal, at any rate provisionally when a decision is set aside and the case is referred back to a trial court... If the highest court dismisses the appeal in cassation the acquittal or conviction becomes final. If the Court of Cassation allows appeal without ordering the case to be sent back because, for example, the fact which led to the conviction do not constitute an offence known to the law, then by its sole decision, it puts an end to the prosecution’’. Analoghe conclusioni sono state accolte con riguardo alla giustizia civile (cfr., per tutte, la sentenza del 29 maggio 1986, caso Deumeland). (31) La tendenza era, infatti, quella di escludere alcune garanzie dell’imputato (quali il diritto a chiedere ed ottenere a condizioni di parità l’ammissione di prove a discarico, il diritto ad una udienza pubblica, il diritto ad essere presente personalmente davanti all’organo giudicante) nei casi in cui l’appello fosse stato fondato esclusivamente su questioni di diritto, e di richiedere, invece, il pieno rispetto di tali garanzie allorché il giudizio fosse instaurato anche per un riesame del fatto.
— 594 — Più precisamente, nel già citato caso Ekbatani, la Commissione aveva ritenuto manifestamente infondate le doglianze del ricorrente relative alla mancata acquisizione di una prova testimoniale a discarico in grado d’appello, in cui si era deciso con rito sommario camerale sulla base delle memorie scritte depositate dalle parti, motivando con riferimento al potere discrezionale riconosciuto in capo all’organo giudicante in merito alla rilevanza della prova richiesta, mentre aveva dichiarato ricevibile il ricorso sotto il profilo della mancanza di un’udienza pubblica ed orale, poiché la Corte d’appello aveva competenza a conoscere in fatto e in diritto, potendo ridurre la pena inflitta in primo grado ed anche assolvere l’imputato. La Corte, tuttavia, ha corretto leggermente la mira, fornendo delle precisazioni importanti per comprendere come la sua giurisprudenza vada intendendo il ‘‘giusto processo d’appello’’. Essa, infatti, ha concordato con la Commissione in ordine alle assunte violazioni dell’art. 6, ma nella motivazione si è spinta oltre il rilievo del ruolo e dei poteri esercitabili dal giudice d’appello nel caso di specie, sottolineando l’importanza della ‘‘nature of the issue submitted’’ davanti a quest’ultimo ed, in particolare, che il ricorrente sosteneva di non avere commesso il fatto di reato contestatogli. Così facendo, la Corte poneva le premesse per una dipendenza funzionale del grado di garanzie da rispettare in appello dal tipo di doglianza sollevata in quella sede: il che si comprende meglio esaminando due casi successivi a quello Ekbatani. Nel caso Fejde e nel caso Andersson (32), le lamentate carenze in termini di pubblicità ed oralità sono state respinte, perché tutti i motivi d’impugnazione proposti potevano essere adeguatamente decisi sulla base degli atti del giudizio di primo grado (33): inoltre, si trattava di procedimenti relativi a ‘‘offences of a minor character’’ per i quali operava il divieto di reformatio in peius (34). In sostanza, la Corte ha ritenuto che alcune delle garanzie previste dall’art. 6 di cui l’imputato può (anzi deve) beneficiare in primo grado possono essere limitate in appello, se il contenuto sostanziale delle doglianze lo consente (35), allo scopo di favorire un’amministra(32) Sentenze del 29 ottobre 1991. (33) A proposito la Corte affermava: ‘‘Even where the court of appeal has jurisdiction to review the case both as to facts and as to law, the Court cannot find that Article 6 always requires a right to a public hearing irrespective of the nature of the issue to be decided. The publicity requirement is certainly one of the means whereby confidence in the courts is maintained. However, there are other considerations, including the right to a trial within a reasonable time and the related need for expeditious handling of the courts’ case-load, which must be taken into account in determining the need for a public hearing at stages in the proceedings subsequent to trial at first instance’’. Da ultimo questo orientamento giurisprudenziale ha ricevuto piena conferma nella sentenza del 25 marzo 1998, caso Belziuk (commentata in Dir. pen. e proc., 1998, p. 717): la natura delle questioni da risolvere era tale da richiedere la partecipazione diretta dell’imputato che, se fosse comparso personalmente, avrebbe potuto esercitare il suo diritto di difendersi, contestando le ragioni della condanna e le osservazioni dell’accusa nonché fornendo prove a sostegno dei motivi d’impugnazione. (34) L’esistenza di un divieto di reformatio in peius non rappresenta, comunque, un criterio decisivo per stabilire l’applicabilità delle garanzie dell’art. 6, come si evince dall’esame della sentenza del 12 settembre 1993, caso Kremzow, in cui il diritto dell’imputato di partecipare personalmente al giudizio d’appello è stato mantenuto fermo nonstante la preclusione di un’aggravamento della pena. (35) Per un altro esempio in tal senso cfr. la sentenza del 2 marzo 1987, caso Kamasinski, in cui è stato preso in considerazione il diritto dell’imputato di essere presente in appello: la necessità di una tale garanzia nel giudizio di secondo grado dipende, secondo la Corte (per l’opinione parzialmente diversa della Commissione nel caso in esame v. S. STAVROS, op. cit., pp. 283-284), dai motivi d’impugnazione sollevati, oltre che dai poteri della Corte d’appello, sicché la partecipazione fisica dell’imputato si renderà necessaria allorquando la decisione sul gravame implichi delle valutazioni e degli apprezzamenti sul fatto di cui è causa o sulla personalità dell’imputato che non possono essere compiuti ‘‘fairly’’ senza un contraddittorio diretto con la parte interessata. Sulla base di queste premesse si è venuto
— 595 — zione della giustizia maggiormente efficiente. E questa conclusione, in fondo, poteva già considerarsi implicita nella sentenza sul caso Delcourt in cui la Corte, muovendo i primi passi su questo terreno, affermava: ‘‘The way in which Art. 6 applies... must depend on the special features of such proceedings’’. L’elasticità di questa posizione non deve, però, essere equivocata: non basta, cioè, richiamarsi genericamente ad esigenze di economia processuale per essere dispensati dall’osservanza di alcuni dei precetti dell’art. 6, tanto è che nel caso Ekbatani la Corte ha respinto le argomentazioni del Governo che facevano leva sulla necessità di ridurre il consistente arretrato delle Corti d’appello e di tagliare i costi delle pendenze giudiziarie. (Segue): c) il giudizio di cassazione. — La ricerca di un punto d’equilibrio tra le opposte esigenze di un processo garantistico e di una giustizia efficiente e sostenibile ha trovato il suo punto più delicato in relazione ai procedimenti dinanzi alla Corte di cassazione: nonostante le differenze di struttura, funzioni e ruolo che tale organo giurisdizionale presenta nei vari ordinamenti nazionali che lo prevedono, si è generalmente imposta rispetto ad esso una tendenza ad adottare discipline processuali che fossero, da un lato, funzionali ad un tipo di giudizio essenzialmente confinato alla garanzia della corretta applicazione della legge, dall’altro, idonee a ridurre il rischio di una strumentalizzazione a fini meramente dilatori del ricorso per cassazione (36). Il perseguimento di un tale obiettivo implicava la rinuncia ad alcune delle garanzie tradizionali del giusto processo, o meglio una rilettura delle stesse che tenesse conto delle suddette caratteristiche del giudizio di cassazione. Già si è detto della decisione con cui la Corte europea ha sgombrato il campo da ogni possibilità di appigliarsi al concetto di determination of civil rights and obligations or of any criminal charge per escludere che i procedimenti cassatori rientrino nel campo di applicazione dell’art. 6. Tuttavia, a partire dallo stesso caso Delcourt, gli organi convenzionali hanno manifestato piena consapevolezza della necessità di un atteggiamento particolarmente flessibile in merito all’applicazione di alcune garanzie del fair hearing, sì da conservare un ampio margine discrezionale in capo alle autorità nazionali. Sennonché, come hanno osservato alcuni commentatori (37), proprio queste preoccupazioni di ordine pratico hanno portato a conclusioni discutibili dal punto di vista sostanziale. consolidando un orientamento giurisprudenziale tale per cui: nel caso in cui sia possibile la reformatio in peius vi è una sorta di presunzione sulla necessità della presenza dell’imputato; nel caso in cui con l’appello vengano sollevate solo questioni di diritto vi è una presunzione analoga ma di segno contrario: negli altri casi si devono valutare tutte le circostanze particolari. (36) Nel nostro ordinamento questo problema è vivamente sentito, ma non ha finora ricevuto risposte convincenti a livello normativo: in particolare, l’endemica lentezza nella trattazione degli affari giudiziari associata all’ampio favor per le impugnazioni pone con urgenza la necessità di una serie di interventi volti a disincentivare l’abuso indiscriminato dei mezzi di gravame, in modo da realizzare quell’equilibrio tra garanzie di giustizia ed efficienza giudiziaria che non può certo dirsi allo stato raggiunto nel nostro sistema di giustizia penale. Su questi problemi v., in particolare, M. CHIAVARIO, Nel nuovo regime delle impugnazioni i limiti ed i mancati equilibri di una riforma, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, VI, Torino, 1991, pp. 14 ss.; ID., Processo e garanzie della persona, II, Milano, 1984, pp. 243 ss.; E. FASSONE, L’appello: un’ambiguità da sciogliere, in Quest. giust., 1990, pp. 625 ss.; M.G. AIMONETTO, La ‘‘durata ragionevole’’ del processo penale, Torino, 1997, pp. 173 ss. (37) Sul punto particolarmente pungenti sono le osservazioni di S. STAVROS, op. cit., p. 289 ss., il quale, dopo un accurato confronto della sentenza sul caso Delcourt con quella successiva sul caso Borgers, afferma che le manchevolezze rilevabili nella motivazione con cui la Corte ha modificato il suo precedente orientamento ‘‘must be attributed, in our view, to the failure of the Court to acknowledge that it had committed an error in Delcourt’’. Su una linea meno vibrante si collocano, invece, le considerazioni di K. NADELMANN, op. cit., p.
— 596 — Le due questioni principali venute al vaglio della Corte europea riguardano, da un lato, le garanzie della pubblicità e dell’oralità del procedimento, dall’altro, il principio della parità delle armi processuali tra le parti. Il primo punto è stato affrontato nel caso Axen e nel caso Sutter (38), con riferimento a giudizi di cassazione che si erano svolti interamente per iscritto, senza intervento delle parti ad una pubblica udienza, in pretesa violazione dell’art. 6 (39). La Corte, seguendo una linea di pensiero analoga a quella sviluppata a proposito dell’appello, ha ridimensionato il rilievo formale del contrasto con la lettera della norma ed ha imboccato la via di una interpretazione teleologica della stessa, che fosse più sensibile alla sostanza delle cose. In particolare, esaminando la misura in cui la garanzia della pubblicità veniva realizzata nel procedimento davanti alla Corte di cassazione e nelle fasi precedenti di giudizio, in modo da avere presente l’intera cornice di svolgimento dell’iter processuale, i giudici di Strasburgo si sono prefissati come ratio decidendi la verifica circa la concreta possibilità che un’udienza pubblica, in cui le parti potessero svolgere oralmente le loro deduzioni, fornisse qualche ulteriore garanzia in ordine alla realizzazione dei principi fondamentali contenuti nell’art. 6 (40). Evidentemente, in caso di esito negativo di siffatto accertamento, non vi sarebbe più significato sostanziale nel voler pretendere comunque la piena osservanza dei precetti convenzionali in tema di pubblicità ed oralità, ed anzi un’ostinazione in tal senso potrebbe rivelarsi estremamente controproducente sotto il profilo della tempestività dei processi, pure rilevante ai sensi dell’art. 6 (41). 516 ss., che ravvisa nella decisione della Corte un’espressione (non necessariamente negativa) dell’influenza che le concrete circostanze e le caratteristiche di ciascun sistema processuale possono esercitare nella definizione delle controversie davanti agli organi di Strasburgo. (38) Le sentenze della Corte su entrambi i casi sono del 22 febbraio 1984: nel rapporto adottato dalla Commissione il 14 dicembre 1981 si legge molto significativamente che ‘‘the public nature of the proceedings helps to ensure a fair trial by protecting the litiyant against arbitrary decisions and enabling society to control the administration of justice’’. Di particolare interesse è anche la sentenza dell’8 dicembre 1983, caso Pretto, in cui la Corte ha affrontato il problema della mancanza di adeguate garanzie di pubblicità nei giudizi di fronte alla Corte di cassazione italiana. (39) Sul punto si veda anche la sentenza sul caso Ekbatani dove si è riaffermato il principio in virtù del quale, qualora i gravami abbiano ad oggetto solo questioni di diritto, le garanzie dell’art. 6 possono ritenersi soddisfatte anche in mancanza di pubblicità o della personale audizione dell’imputato: nel caso di specie, tuttavia, la Corte d’appello doveva conoscere anche delle questioni di fatto, decisive per accertare la colpevolezza o meno dell’imputato, e di conseguenza la Corte europea ha ritenuto necessario esigere il rispetto delle suddette garanzie, nonostante il divieto di reformatio in peius, che non influiva sulla questione dell’accertamento della reità ma su quella della determinazione della pena. (40) L’esito di una tale valutazione dipende, ovviamente, da una molteplicità di fattori circa il concreto atteggiarsi del giudizio di cassazione nel singolo ordinamento di volta in volta considerato, sicché non è escluso che la Corte europea possa in alcuni casi pervenire a risultati diversi da quelli precedentemente accolti. D’altro canto, si deve pure rilevare che il controllo dell’opinione pubblica, cui è preordinata la garanzia della pubblicità delle udienze, difficilmente potrebbe esplicarsi rispetto ad un giudizio in cui si discute di questioni ad alto contenuto tecnico-legale e che parimenti poco utile potrebbe essere il contributo di un intervento orale della parte interessata ai fini della formazione del convincimento del giudice, qui tutto basato sull’interpretazione della legge e non del fatto. (41) Dal canto suo, la Commissione europea aveva in numerose occasioni (cfr., ad esempio, le decisioni sui ricorsi n. 599/1959, n. 1169/1961, n. 5474/1972, n. 7211/1975) dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi con cui si lamentava l’assenza di un’udienza pubblica ed orale di fronte alla Corte di cassazione, la cui competenza era limitata alla conferma della decisione impugnata od al suo annullamento con rinvio al giudice di merito. Sembra, peraltro, implicito anche nella sentenze della Corte, che le suddette garanzie tornerebbero ad operare nella loro portata originaria allorché il giudizio di cassazione fosse strutturato in modo da consentire una valutazione estesa anche al merito (come avviene, nel nostro sistema processuale, per le controversie in materia di estradizione, per le quali è competente in primo
— 597 — Per quanto riguarda, invece, la c.d. parità delle armi, l’attenzione si è concentrata soprattutto sulla funzione del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, al quale di frequente vengono attribuiti dei poteri latu sensu di ‘‘partecipazione processuale’’, anche in sede di decisione, che non trovano corrispondenti in capo alla parte ricorrente (42). La Corte, lo si è accennato, si è pronunciata nel caso Delcourt, accogliendo nella sostanza le osservazioni del Governo convenuto che, alla doglianza del ricorrente di non essere stato giudicato da un tribunale imparziale per la partecipazione alla deliberazione della Corte di cassazione del Procureur general, aveva replicato sottolineando la sua particolare posizione di organo super partes chiamato a sottoporre al collegio il proprio consiglio giuridico-legale in nome di un interesse obiettivo alla corretta applicazione della legge. Secondo la Corte, più precisamente, non si poteva parlare nel caso di specie di una diseguaglianza tra accusa e difesa, poiché nel giudizio di cassazione la vera controparte del ricorrente era la Procura generale presso la Corte d’appello che aveva pronunciato la sentenza impugnata, la quale come tale non era rappresentata nel procedimento davanti alla Corte superiore. Gli elementi in base ai quali si è ricostruita la posizione del Procureur general in termini, per così dire, di ‘‘indifferenza’’ rispetto all’esito processuale fanno essenzialmente riferimento, oltre che alla peculiare collocazione dell’organo all’interno dell’apparato giudiziario (43), al fatto che in tale fase del giudizio il compito dell’autorità inquirente subisce un significativo mutamento di contenuti in ragione della specifica funzione giurisdizionale che ivi si attua: essa è chiamata ad interpretare il suo ruolo secondo dei canoni di maggiore oggettività per assicurare il rispetto della legge nello svolgimento dei processi, senza perseguire il fine ulteriore di garantire che le persone per cui esistono forti sospetti di colpevolezza siano condannate e ragionevolmente punite (44). Se queste argomentazioni colgono indubbiamente degli aspetti di verità, soprattutto quando dirette ad evidenziare le differenze funzionali ed organizzative tra i vari uffici della pubblica accusa, non può tuttavia negarsi che dal rilevare queste peculiarità con riguardo alla Procura presso la Corte di cassazione ad affermare che si tratta di un organo imparziale non sussumibile nell’ambito di applicazione del principio di parità, il passo è notevole. Non mancano, infatti, elementi altrettanto meritevoli di considerazione che dimostrano come la presenza del Procureur general di fronte al collegio giudicante possa costituire una circostanza sfavorevole per l’imputato, ove questi non sia messo in grado di avvalersi degli stessi canali di partecipazione processuale garantiti al primo. Prefigurando i vuoti del proprio ragionamento, la Corte ha, in verità, cercato di sviluppare in anticipo un argomento ulteriore, mettendo in rilievo come l’istituzione del Procureur general formasse parte di un sistema onorato dal tempo, sopravvissuto a numerose codificazioni e modificazioni del sistema processuale, senza mai essere messo in discussione dagli operatori giuridici o dall’opinione pubblica del Paese interessato. Ciò doveva intendersi come l’espressione di una giustizia sostanziale pienamente realizzata, cui non avrebbe avuto senso applicare le garanzie formali dell’art. 6. Che la decisione abbia sofferto di una certa forzatura è reso evidente dal fatto che la stessa Corte, venti anni dopo (in tempi probabilmente più maturi per fare certe affermazioni grado la Corte d’appello, contro le cui decisioni è ammesso ricorso alla Corte di cassazione che giudica con poteri estesi al merito ex art. 706 c.p.p.). (42) Per una ricostruzione schematica della posizione della Corte in merito alla par condicio delle parti nei giudizi d’impugnazione v. M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, cit., pp. 234-235. (43) La Corte ha osservato come il Procureur general operasse in piena indipendenza rispetto al Ministro della Giustizia, come la sua funzione di controllo sull’operato dei pubblici ministeri presso le Procure inferiori fosse più teorica che pratica e come in più occasioni esso avesse sostenuto le ragioni del ricorrente davanti alla Corte di cassazione. (44) Una tale ricostruzione della figura del pubblico ministero nei procedimenti di cassazione era già emersa con chiarezza nella giurisprudenza della Commissione europea: cfr., in particolare, la sua opinione sul caso Ofner e Hopfinger.
— 598 — di principio), nel citato caso Borgers (45), ha sostanzialmente rivisto la sua precedente opinione in merito. Pur eludendo l’antinomia attraverso un espediente formale (46), i giudici di Strasburgo hanno elevato gli standards di fairness nel procedimento di cassazione, sostenendo che, nel caso in cui il Procuratore generale avesse proposto alla Corte il rigetto del ricorso, egli, oggettivamente parlando, avrebbe assunto la qualità di controparte dell’imputato, con la conseguente necessità di assicurare a quest’ultimo la facoltà di sottoporre all’esame del giudicante le proprie osservazioni di replica (47). Su questa linea si è venuta sviluppando una giurisprudenza particolarmente attenta alla piena estrinsecazione del c.d. adversarial proceedings, che non va ricostruito soltanto attraverso il canone della equality of arms, peraltro non sempre propriamente invocabile, bensì anche in termini di diritto delle parti ‘‘to have knowledge of and comment on all evidences adduced and observations filed’’, a prescindere dalla natura del soggetto che le ha prodotte (48). Da questa breve panoramica degli orientamenti della giurisprudenza di Strasburgo in ordine al rispetto delle garanzie del giusto processo di cui all’art. 6 nei giudizi successivi a quello di primo grado, anche a seguito del riconoscimento del diritto d’impugnazione con il Protocollo n. 7, si ricava un concetto di ‘‘garanzia dell’impugnazione’’ in materia penale, inteso come garanzia di accesso ad un’istanza di riesame e come garanzia che questo ulteriore giudizio si svolga secondo i principi del fair trial, nei limiti che sopra si è cercato di illustrare. Ciò evidenzia come dare accesso ad un’istanza di riesame non può significare, nel contesto della Convenzione europea, sacrificare le garanzie dirette in primo grado ad assicu(45) Cfr. nota n. 23. (46) La Corte ha, infatti, precisato che nel caso Delcourt l’oggetto del ricorso concerneva il diritto ad un tribunale imparziale, mentre nel caso Borgers analoga questione veniva sollevata con riferimento al principio dell’uguaglianza delle parti. (47) Analogamente, cfr. la sentenza del 28 ottobre 1991, caso Brandstetter vs Austria, e del 22 febbraio 1996, caso Bulut vs Austria: in queste pronunce è stata ritenuta in contrasto con i principi del fair trial la circostanza che il pubblico ministero avesse potuto presentare una memoria al giudice dell’impugnazione senza darne comunicazione all’imputato. Il che non manca di sollevare alcuni dubbi sulla legittimità costituzionale (mediata dal parametro costituito dalla clausola di adeguamento alle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo e processo penale contenuta nell’art. 2, comma 1o, della legge di delega n. 81 del 1987) dell’art. 121 c.p.p. nella parte in cui non prevede come obbligatoria per le parti la comunicazione (al pubblico ministero) e la notificazione (alle parti private) delle memorie o richieste presentate al giudice: sul punto v. G. UBERTIS, Rilanciato il ‘‘giusto processo’’, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 794. Da ultimo cfr. anche la sentenza del 25 marzo 1998, caso Belziuk vs Polonia, in cui si è ribadito che il Procuratore, avendo richiesto in sede di gravame, sebbene da lui non promosso, la conferma della sentenza di condanna, ha svolto il ruolo di sostenitore dell’accusa, rendendo necessaria, per il rispetto del principio di parità delle armi e del contraddittorio, la presenza in udienza dell’interessato. In questo caso la possibilità per l’imputato di presentare memorie scritte non sarebbe stata sufficiente, tenuto conto sia della circostanza che l’accusa era presente personalmente al dibattimento sia del vigore della requisitoria. (48) A questo proposito uno spunto interessante proviene dalla sentenza del 18 febbraio 1997, caso Nideröst-Huber, in cui il potere di presentare memorie davanti al giudice dell’impugnazione era riconosciuto allo stesso tribunale che aveva pronunciato la sentenza oggetto di gravame: in questa circostanza sarebbe stata una forzatura ritenere che, per il sol fatto di aver espresso alcune considerazioni in merito al rigetto dei motivi del gravame, il giudice a quo assumeva la veste di parte contrapposta all’imputato, con conseguente violazione della par condicio perché a quest’ultimo non era stata data possibilità di conoscere il contenuto della memoria contenente valutazioni a lui sfavorevoli e di sottoporre al giudice ad quem le proprie osservazioni a riguardo. Pertanto, esclusa la violazione del principio della parità delle armi, la Corte ha ritenuto sussistere una violazione del diritto ad un processo equo e contraddittorio, che implica tanto per l’accusa quanto per la difesa la facoltà di conoscere le osservazioni e gli elementi di prova prodotti dalla controparte, nonché di discuterli.
— 599 — rare il due process of law: il che, se da un lato consente di mantenere la coerenza del sistema, scongiurando il pericolo di una decisione finale assunta senza rispettare i valori fondamentali alla base dell’art. 6, dall’altro rende ancora più delicato quel compito di mediazione e di bilanciamento tra contrapposte esigenze di efficienza e garanzia della giustizia penale, cui si è fatto riferimento più sopra. dott. ANDREA SACCUCCI
COMMENTI E DIBATTITI
MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA Ufficio Legislativo RELAZIONE DELLA COMMISSIONE MINISTERIALE PER LA RIFORMA DEL CODICE PENALE ISTITUITA CON D. M. 1 OTTOBRE 1998 (*)
Composizione della Commissione: Presidente: Prof. Avv. Carlo Federico Grosso. Componenti: Dott. Giovanni Canzio, Avv. Fabrizio Corbi, Prof. Francesco Palazzo, Prof. Paolo Pisa, Prof. Avv. Domenico Pulitanò, Avv. Ettore Randazzo, Prof. Sergio Seminara, Prof. Avv. Filippo Sgubbi, Avv. Filippo Siciliano, Dott. Giovanni Silvestri, Dott. Giuliano Turone, Dott. Vladimiro Zagrebelsky, Avv. Giampaolo Zancan. Composizione del Comitato Scientifico della Commissione: Coordinatore: Dott. Elisabetta Cesqui. Componenti: Dott. Raffaele Cantone, Dott. Piero De Crescenzio, Dott. Ombretta Di Giovane, Dott. Giacomo Fumu, Dott. Giovanni Masi, Dott. Andrea Padalino Morichini, Dott. Carlo Piergallini, Dott. Andrea Vardaro. Hanno partecipato ai lavori, personalmente o con loro delegati, il Capo di Gabinetto, il Capo dell’Ufficio Legislativo e il direttore generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. OSSERVAZIONI PRELIMINARI SU OGGETTO E METODO DEL LAVORO. In data 21 ottobre 1998 il Ministro di Grazia e Giustizia, premesso che « occorre procedere a una riforma del codice penale che, muovendo dai lavori già svolti in materia dalle Commissioni Parlamentari e Ministeriali, approfondisca in particolare a) il tema delle sanzioni in una prospettiva che tenda a una loro razionalizzazione nel quadro del contemperamento delle esigenze di prevenzione generale e di prevenzione speciale; b) il tema della riduzione dell’ambito dell’intervento penale previa la ricognizione dei beni giuridici meritevoli di tutela penale e l’indicazione di massima delle relative fattispecie di reato », ha proceduto alla costituzione di una Commissione di esperti costituita da docenti universitari, da magistrati e da avvocati penalisti finalizzata alla « stesura di un documento nel quale siano esposti gli orientamenti e le priorità di una riforma di parte generale e di parte speciale del codice penale e siano inoltre prospettati gli eventuali criteri di un disegno di legge-delega coordinato fra l’altro con i provvedimenti all’esame del Parlamento e con le elaborazioni che su aspetti collegati sono in corso da parte di altri gruppi di lavoro costituiti presso il Ministero di Gra(*) La relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale è giunta alla redazione della Rivista quando il presente fascicolo era ancora in bozze. data l’importanza della relazione stessa se ne è ritenuta opportuna la pubblicazione più sollecita.
— 601 — zia e Giustizia (specie in materia di responsabilità penale delle persone giuridiche e depenalizzazione) ». Il termine per la conclusione dei lavori è stato fissato al 30 giugno 1999. La Commissione, tenendo conto delle indicazioni contenute nel Decreto istitutivo, valutato che i tempi stretti concessi alla stesura del documento non consentivano una elaborazione che affrontasse con la medesima attenzione l’analisi dei temi di parte generale e di quelli di parte speciale, ha ritenuto di privilegiare il primo di tali aspetti e di riservare per il momento ai profili di parte speciale considerazioni riguardanti soprattutto i criteri generali ai quali dovrebbe ispirarsi la relativa disciplina. Ciò è apparso tanto più opportuno considerato che le indicazioni desumibili dai disegni di legge in discussione al Parlamento, o già approvati dallo stesso, apparivano non del tutto univoche, e soprattutto perché una analisi dettagliata della parte speciale presupponeva il consenso sulle scelte di fondo della parte generale e sugli stessi criteri generali cui ispirare i dettagli di quella speciale. La Commissione, seguendo le indicazioni ricevute dal Ministro, è partita dalla analisi dei lavori già svolti in materia di riforma del codice penale dalle Commissioni Parlamentari e Ministeriali, facendo particolare riferimento alla proposta di legge-delega elaborata dalla Commissione Pagliaro (1992) ed al disegno di legge di riforma della parte generale elaborato dalla Commissione Giustizia del Senato nel corso della XII legislatura (c. d. Progetto Riz), ripresentato in sede referente alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 26 gennaio 1999 con ampia relazione illustrativa. In alcuni punti qualificanti la Commissione si è discostata dalle soluzioni suggerite in tali progetti, proponendo soluzioni talvolta fortemente innovative, ad esempio in materia di disciplina delle sanzioni penali, nella attenzione dedicata al problema delle garanzie in taluni settori di diritto penale sostanziale (es., realizzazione complessiva del principio di colpevolezza, disciplina delle c.d. forme di manifestazione del reato, disciplina della imputabilità), nella considerazione, tradizionalmente negletta, del problema della responsabilità delle persone giuridiche. I lavori della Commissione si sono articolati attraverso la attività di ricerca, di approfondimento e di stesura di documenti intermedi svolto da Sotto-commissioni costituite per settori, e discussione e revisione di tali documenti da parte della Commissione plenaria. Approvate, nel corso di una serie di riunioni concluse il 12 giugno 1999, singole determinazioni, nelle quali si è dato comunque atto delle divergenze di opinioni emerse su alcuni problemi affrontati, la Commissione ha dato mandato al Presidente di procedere alla stesura della Relazione finale sulla base del materiale complessivamente elaborato nelle Sotto-commissioni e nelle sedute plenarie. I documenti predisposti dalle Sotto-commissioni, o prodotti da singoli commissari, anche se in alcuni punti superati dalla discussione plenaria, sono stati raccolti in materiale numerato da 1 a 13. I.
NECESSARIA OFFENSIVITÀ E IRRILEVANZA PENALE DEL FATTO.
Sia il tema della necessaria offensività del fatto, sia, soprattutto, quello della sua irrilevanza penale, sono destinati a suscitare, e già hanno suscitato, discussioni e fermento fra i penalisti. La Commissione, dopo avere affidato ad una Sotto-commissione una prima riflessione sui due temi, li ha poi discussi in seduta plenaria, formulando le proposte ‘alternative’ di seguito indicate, rinviando comunque ai risultati di un più ampio dibattito fra i tecnici, e soprattutto fra i politici, le scelte definitive. 1. Necessaria offensività del fatto. — La Commissione prende innanzitutto atto del fatto che il principio di necessaria offensività costituisce ormai connotato pressoché costante dei più recenti progetti riformatori. Esso ha trovato ingresso nello schema di legge-delega Pagliaro, che in uno dei primi articoli, collocato non a caso subito dopo la enunciazione del principio di legalità, invita a « prevedere il principio che la norma sia interpretata in modo da limitare la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico » (art. 4 comma 1). Ed è stato enunciato a tutto campo nel Progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, li-
— 602 — cenziato il 4 novembre 1997 dalla Commissione Bicamerale: « non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività ». La Commissione ritiene che, al di là delle opinioni specifiche di ciascuno sulle modalità di inserimento di tale principio nel codice, le posizioni sopra enunciate esprimano la esigenza insopprimibile di ancorare, anche visivamente, la responsabilità penale alla offesa reale dell’interesse protetto, nel quadro di un diritto penale specificamente finalizzato a proteggere i (più rilevanti) beni giuridici, e centrato sulla tassativa descrizione di fatti costituenti reato già di per sé costruiti in modo da assicurare, nei limiti del possibile, la punibilità di condotte offensive dell’interesse protetto. Che di conseguenza il nuovo codice penale non possa rinunciare ad enunciare espressamente fra i suoi capisaldi il principio secondo cui un fatto di reato, per risultare punibile, deve avere offeso l’interesse tutelato dalla norma penale incriminatrice. Divergenze si sono invece manifestate con riferimento alle modalità di configurazione della regola ed alle specifiche conseguenze pratiche connesse alla introduzione della stessa. Queste divergenze hanno costituito l’inevitabile riflesso delle differenti posizioni emerse in dottrina sul principio di offensività nel dibattito degli ultimi trent’anni. Una parte della Commissione sostiene la necessità di introdurre nel codice penale il principio di necessaria offensività del reato grosso modo nel modo in cui esso è stato formulato dagli estensori della Commissione Bicamerale: non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato concretamente la offesa dell’interesse protetto. Il significato di questa scelta è evidente. Si tende a cristallizzare in una norma esplicita quanto una parte della dottrina ritiene già oggi desumibile dall’art.49 comma 2 c.p., con l’obbiettivo di inserire la offesa fra gli elementi strutturali del reato, e consentire di conseguenza al giudice di escludere la responsabilità penale ove dovesse accertare che un fatto, che pure riproduce gli elementi astrattamente configurati dalla norma penale incriminatrice, non ha in concreto offeso il bene che tale norma era destinata a proteggere. L’importanza pratica di questa impostazione è stata individuata da una parte dei componenti della Commissione soprattutto sul terreno dei reati di pericolo, che, si è sostenuto, per risultare concretamente offensivi dell’interesse tutelato devono per forza assumere la veste della reità a pericolosità concreta. Non è un caso che sul solco della sopra menzionata interpretazione dell’art. 49 comma 2 c.p. una parte della dottrina, e della stessa giurisprudenza, abbia sostenuto che già oggi i reati di pericolo astratto previsti dal codice penale Rocco, o quantomeno la maggior parte di essi, devono essere intesi tutti come reati di pericolo concreto. Altra parte della Commissione sostiene invece che il principio di offensività debba essere introdotto nel codice penale come criterio di interpretazione, secondo il modello offerto dallo schema di legge-delega Pagliaro. Muovendo dal presupposto secondo cui il contenuto offensivo deve essere espresso dalla struttura della fattispecie, nella quale integralmente si identifica, si afferma che non vi è alcun spazio per ammettere un elemento costitutivo aggiuntivo rispetto a quelli essenziali indicati dalla singola norma incriminatrice. L’offesa deve svolgere invece un ruolo ermeneutico, sia pure essenziale e primario, per l’accertamento del significato e della portata della fattispecie. Come è stato osservato, mentre per la concezione strutturale gli elementi descrittivi del reato concorrono insieme alla offesa ad individuare l’area della tipicità, per la concezione interpretativa essi segnano il limite esterno della tipicità, all’interno della quale l’offesa può operare come ulteriore criterio selettivo. In questa prospettiva alcuni componenti della Commissione hanno, in particolare, esplicitamente sostenuto che recepire il principio di offensività non deve significare presa di posizione contro la configurabilità di reati a pericolo astratto, né deve attribuire al giudice la facoltà di sostituire alla struttura della fattispecie una struttura diversa. 2. La irrilevanza penale del fatto. — La Commissione ha innanzitutto preso atto dei precedenti in materia e del contesto in cui si è cominciato a parlare di attribuzione alla magi-
— 603 — stratura della possibilità di dichiarare improcedibili, o non punibili, situazioni in cui elementi di marginalità potrebbero indurre a non considerare rilevante penalmente un fatto nonostante la sua corrispondenza al modello di un reato. Si è rilevato da un lato che l’ipotesi di irrilevanza del fatto è già presente nel nostro ordinamento limitatamente al diritto minorile, ove l’art. 27 comma 1 D.P.R. 22 settembre 1998, n. 448 dispone che « durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne ». Si è osservato dall’altro che il problema è diventato di attualità nel momento in cui alcuni disegni di legge, nell’intento di contribuire al decongestionamento delle aule di giustizia, hanno previsto di dare rilievo alla irrilevanza del fatto dapprima sotto la veste di causa di improcedibilità (disegno di legge C⁄4625, contenente disposizioni in tema di definizione del contenzioso civile pendente), e successivamente di causa di non punibilità (testo unificato delle proposte di legge n. 411, 4625 bis/C e abbinate: c.d. testo unificato Carotti), prevedendo che « 1. Per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando risulta la irrilevanza penale del fatto; 2. L’imputato non è punibile quando rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché le modalità della condotta, la sua occasionalità, valutata anche in relazione alla capacità a delinquere del reo, e il grado di colpevolezza non giustificano l’esercizio della azione penale; 3. L’irrilevanza penale del fatto può essere dichiarata solo se vi è stata la richiesta del pubblico ministero o dell’imputato. Se è stata esercitata l’azione penale l’irrilevanza del fatto può essere dichiarata se l’imputato non si oppone ». Si è ulteriormente considerato che il disegno di legge-delega in materia di competenza penale del giudice di pace, approvato dalla Camera dei Deputati e successivamente anche dalla Commissione Giustizia della Camera, prescrive (art. 16 comma 1 lett. c) « la introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia, di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato ». Nonostante che l’istituto di maggiore rilievo, perché destinato ad operare in via generale sul terreno della giustizia penale, sia stato stralciato dal testo unificato Carotti, e pertanto oggi la sua introduzione nel sistema penale sia tutt’altro che imminente, la Commissione ha ritenuto di affrontare comunque i problemi aperti dalla prospettiva di una sua possibile utilizzazione, tanto più che non mancano in Europa esempi di utilizzazione di istituti similari. Una parte della Commissione si è espressa in termini del tutto contrari alla introduzione del nuovo istituto, a causa della eccessiva discrezionalità che esso attribuirebbe alla magistratura, e dei problemi di costituzionalità che esso, comunque venga definito, porrebbe con riferimento al principio di obbligatorietà della azione penale. Altra parte della Commissione, pur non nascondendosi i problemi, ha assunto invece un atteggiamento di maggiore apertura. Si è rilevato che l’istituto ha funzionato comunque bene in materia minorile. Si è soggiunto che se si considerano le prassi seguite in sede di archiviazione (o di dichiarazione di ‘inoffensività’), si constata che ‘di fatto’ il criterio viene già usato con una certa ampiezza al di fuori da qualunque regolamentazione e da qualunque controllo, per cui una sua disciplina contenuta e razionale potrebbe risultare positiva sul terreno della legalità. Si è affermato che in fondo l’idea soggiacente al criterio della esiguità della offesa o della tenuità del fatto è quella della esclusione dall’area del penalmente rilevante della fascia di criminalità bagatellare che ben può annidarsi all’interno di fattispecie costruite in termini espressivi di un disvalore quantitativamente molto differenziato (come ad es. i reati patrimoniali, i reati fiscali, nei quali fra l’altro l’utilizzazione di soglie quantitative di punibilità, sia pure tipizzate, costituisce una costante). Si è sostenuto che i dubbi di incostituzionalità costituiscono un falso problema, in quanto il principio di obbligatorietà della azione penale
— 604 — non esclude che l’ordinamento possa prevedere ipotesi specifiche e predeterminate in cui l’obbligo del pubblico ministero è subordinato al contemperamento tra gli interessi della giustizia ed interessi di altra natura, privatistici e pubblicistici, con la prevalenza dei secondi; è essenziale che tale bilanciamento non possa avvenire in modo da pregiudicare i valori sottostanti al principio di obbligatorietà quale garanzia di non discriminazione, e si moduli pertanto « sulla base di situazioni predeterminate dalla legge, di categorie generali e non di casi in cui al potere politico sia attribuita la facoltà di impedire il promovimento dell’azione penale per motivi contingenti e estemporanei ». Piuttosto, hanno osservato i componenti della Commissione non ostili alla introduzione del nuovo istituto, occorre riflettere con attenzione sui limiti entro i quali esso (che, non si dimentichi, è comunque istituto ‘di favore’) può essere utilizzato senza scardinare il sistema della responsabilità penale. Al riguardo sono stati evidenziati alcuni requisiti: a) necessità di una rigorosa delimitazione dell’area applicativa dell’istituto attraverso limiti quantitativi di pena edittale; b) per il giudizio in concreto di irrilevanza, considerazione primaria degli elementi ‘interni’ al fatto: la particolare tenuità del fatto, scaturente dalla esiguità del danno o del pericolo e dal grado della colpevolezza; c) la considerazione dei requisiti esterni al fatto, quali la occasionalità dello stesso, o la prognosi in ordine alla sua non ripetibilità da parte dell’autore, dovrebbero essere costruiti come ‘limiti negativi’ alla dichiarazione di irrilevanza nonostante la sussistenza dei requisiti indicati sub a) e sub b); d) possibilità di allargare i criteri di valutazione a situazioni di non esigibilità in concreto di una condotta diversa. Alcuni componenti della Commissione si sono dichiarati non contrari alla introduzione dell’istituto alla condizione che sia configurato sul terreno del processo come causa di improcedibilità e non su quello del diritto penale sostanziale come causa di non punibilità. II.
SUPERAMENTO O MANTENIMENTO DELLA DICOTOMIA DELITTI-CONTRAVVENZIONI.
La bipartizione dei reati in delitti e contravvenzioni ha costituito oggetto di ampia discussione prima in Sotto-commissione, poi in Commissione. Una parte dei componenti ritiene che sia giunto il momento di abolire le contravvenzioni, superando un modello che lo schema di legge-delega Pagliaro ed il progetto di legge Riz avevano invece previsto di conservare, pur contemplando incisive modificazioni in materia di pena (rispettivamente, semidetenzione in luogo dell’arresto, eliminazione dell’arresto). Le ragioni di questa proposta, tendente a semplificare il sistema dei reati depenalizzando le infrazioni veramente bagatellari, e configurando come delitti tutte le altre, con esplicita articolazione nella veste dolosa e colposa (differentemente punita) delle fattispecie per le quali si ritiene opportuna anche la ipotesi della responsabilità colposa, possono essere sintetizzate nei seguenti profili: a) frequente irrazionalità e casualità delle scelte operate nell’inserimento dei reati nell’una piuttosto che nell’altra categoria, rivelata fra l’altro dalla presenza di delitti puniti con la sola multa e dalla collocazione fra le contravvenzioni di fatti di notevole gravità; b) appiattimento in una unica cornice edittale delle condotte colpose e di quelle dolose; c) facile preda della prescrizione di contravvenzioni di notevole rilevanza ma di lungo e complesso accertamento; d) frequente non esecuzione, o addirittura ineseguibilità, delle pene irrogate, e conseguente significato meramente simbolico della previsione di numerose contravvenzioni; e) inflazione delle previsioni di reati conseguente alla possibilità di ricorrere al modello contravvenzionale. Altra parte della Commissione giudica invece utile la conservazione del modello contravvenzionale. A sostegno di questo assunto si sottolinea: a) il pericolo di un appesantimento eccessivo della categoria dei delitti a fronte della difficoltà di realizzare una depenalizzazione che superi determinate soglie di incisività; b) la persistente validità del modello contravvenzionale in ragione della sua specifica idoneità a recepire le esigenze di una configurazione dinamica delle fattispecie di reato (fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, con una tipicità soggettiva poco marcata e tale da giustificare la previsione indifferenziata,
— 605 — ecc.); c) la esistenza di contravvenzioni non trasformabili agevolmente in delitti (es., contravvenzioni concernenti la sicurezza del lavoro), e che è opportuno sottrarre comunque alla depenalizzazione allo scopo di continuare a sottoporle al controllo giurisdizionale; d) la validità del modello di reato contravvenzionale individuato dallo schema di legge-delega Pagliaro nelle tre categorie dei reati consistenti nella violazione di regole cautelari, dei reati integranti un irregolare esercizio di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione, controllo o vigilanza, e dei fatti di ridotta offensività. Né, si è soggiunto, ha pregio il riferimento alla prescrizione, che può essere agevolmente modulata in modo da evitare una troppo agevole prescrittività delle contravvenzioni complesse, o alla frequente ’ineffettività’ delle sanzioni, che può essere anch’essa superata attraverso idonea disciplina. Si concorda comunque sulla eliminazione della pena dell’arresto, e sulla sua sostituzione con pene diverse da quella detentiva carceraria secondo il modello dello schema di legge-delega Pagliaro. III.
REALIZZAZIONE DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA.
1. Principi generali. — L’individuazione del principio di colpevolezza quale uno dei principi fondamentali ed inderogabili del diritto penale costituisce opinione comune in dottrina. La rilevanza costituzionale del principio è stata affermata dalla Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza n. 364⁄88. L’adeguamento completo al principio di colpevolezza appare obbiettivo fondamentale d’una riforma del codice penale. Per quanto concerne la struttura dell’imputazione soggettiva si ritiene valida la struttura di fondo del sistema vigente, con le modifiche finalizzate alla piena attuazione del principio di colpevolezza, e con una semplificazione tendente ad eliminare disposizioni ridondanti. In questa prospettiva si ritiene di confermare: a) la previsione del dolo e della colpa come forme base dell’imputazione soggettiva; b) l’esclusione della responsabilità penale nel caso di errore o ignoranza di fatto e nel caso di errore o ignoranza incolpevole sull’illiceità del fatto secondo l’indirizzo dettato dalla Corte Costituzionale; c) nell’ambito dei delitti, responsabilità per dolo, salvo l’espressa previsione di figure di delitto colposo; d) nell’ambito delle contravvenzioni (se confermate: v. retro punto II), responsabilità indifferentemente per dolo o per colpa. 2. Dolo e colpa. — Le definizioni del codice Rocco hanno contribuito più a far sorgere problemi che ad additare soluzioni. La scelta che si pone in sede di riforma è fra la loro sostituzione con definizioni nuove e più idonee ad orientare la prassi, ovvero la rinuncia a qualsiasi definizione legale, lasciando l’elaborazione degli istituti alla razionalità interna della cultura giuridica. L’opzione a favore di definizioni legislative è ritenuta preferibile per esigenze di certezza del diritto. 2.1. Questioni relative al dolo. — Relativamente al dolo (forma più grave di colpevolezza e criterio normale di imputazione soggettiva dei delitti) v’è sostanziale concordia sui tratti fondamentali: dolo significa volontà consapevole di realizzazione del fatto illecito; la consapevolezza deve abbracciare tutti gli aspetti da cui dipende la tipicità penale del fatto commesso. L’ambito problematico, nella teoria e nella prassi, è il c.d. dolo eventuale. Lo schema Pagliaro, con il richiedere (art. 12) una definizione di dolo « univocamente comprensiva del dolo eventuale », si limita ad esprimere l’esigenza che l’imputazione per dolo sia estesa a fatti che l’agente si è rappresentato non in termini di certezza, come conseguenza della propria condotta. In realtà l’esigenza di fondo, in sede di riforma, non è quella di consolidare il già incontroverso ancoraggio normativo della figura del dolo eventuale, ma, al contrario, quella di precisare i limiti di tale forma di dolo: la formula corrente della ‘accettazione del rischio’ ha carattere essenzialmente retorico, e la prassi applicativa
— 606 — evidenzia il pericolo di slabbramenti della figura del dolo, sia sotto il profilo definitorio, sia sotto il profilo probatorio e applicativo. Si tratta allora di determinare le condizioni minime in presenza delle quali resti fondato il rimprovero di volontaria realizzazione del fatto illecito, ancorché la previsione dell’evento o (più in generale) la rappresentazione del fatto non siano in termini di certezza. Alla luce dell’esperienza, il legislatore potrebbe utilmente stabilire: a) che occorre comunque, per l’imputazione per dolo, una rappresentazione della realizzazione del fatto tipico in termini di alta probabilità, e non di generica possibilità; b) che l’oggetto della rappresentazione, sia pure in termini di probabilità e non di certezza, deve essere il fatto realizzato in concreto, e non una generica rappresentazione di qualcosa d’illecito. 2.2. Questioni relative alla colpa. — Relativamente alla colpa lo schema di base resta quello della attribuzione di responsabilità per avere realizzato il fatto con inosservanza di regole di comportamento aventi funzione cautelare. Rispetto alla formula del codice Rocco, ed alla prassi che su di essa si è formata, si pongono diversi problemi: a) Individuazione delle regole cautelari pertinenti al giudizio di colpa. Resta valido il modello vigente, nel quale hanno rilievo sia regole ‘non formalizzate’ (di diligenza prudenza perizia), ricostruibili secondo i criteri della prevedibilità e prevenibilità, sia regole tipizzate a livello normativo (inosservanza di leggi ecc.). b) Questione della prevedibilità: la prevedibilità dell’evento (o meglio, di un fatto del tipo di quello in concreto realizzato) deve o non deve essere considerata un autonomo elemento caratterizzante della fattispecie colposa, non necessariamente assorbito nella violazione della regola cautelare? La rilevanza del tema è bene evidenziata da vicende giudiziarie come quella dei processi relativi a tumori per esposizione ad amianto in anni remoti: l’imputazione per omicidio colposo è sufficientemente fondata sulla violazione di regole cautelari generiche, relative alla esposizione a polveri, o richiede la prevedibilità di eventi di morte da tumore, alla luce delle conoscenze disponibili al momento del fatto? c) Questione della prevenibilità: si può affermare la responsabilità per colpa quando risulti che l’evento non si sarebbe evitato nemmeno tenendo una condotta conforme alla regola di diligenza? d) Metro della colpa. Lo schema Pagliaro propone (art. 12) di formulare la definizione della colpa « in modo che tutte le forme di imputazione si fondino su di un criterio strettamente personale ». L’indicazione, pur poco chiara, sottende l’esigenza di ancorare la colpa ad un criterio non meramente oggettivo. A tal fine è sufficiente il criterio dell’agente modello, diversificato per tipi di attività, o si può (si deve) riconoscere rilevanza a condizioni personali di incapacità? e) Metro della colpa relativamente alle attività professionali: il limite della colpa grave, previsto dal codice civile per le prestazioni professionali di speciale difficoltà, vale anche in materia penale? Con motivazioni apparentemente contrastanti, la prassi recepisce l’esigenza di una delimitazione della colpa per imperizia, che tenga conto delle peculiari difficoltà di certe prestazioni. A livello normativo potrebbe essere espressamente sancito il principio che eventuali limitazioni di responsabilità, previste in altri settori dell’ordinamento, valgono anche per il diritto penale. f) Rischio consentito. Relativamente allo svolgimento di attività pericolose è affermazione comune che i confini del rischio permesso dipendono da un bilanciamento d’interessi: da un lato l’interesse allo svolgimento dell’attività, dall’altro la misura del rischio ad essa connesso (in funzione della natura e della probabilità di eventi lesivi). La concretizzazione di tale bilanciamento rappresenta un punto critico (di incertezza) nella disciplina delle attività pericolose. Rispetto alla colpa, vengono in rilievo sistemi più o meno complessi di regole cautelari formalizzate da leggi, regolamenti ecc.: vi è spazio, ove tali sistemi esistano, per ulteriori riferimenti ai criteri della colpa generica? In via di principio sembra ragionevole tenere ferma la corrente risposta affermativa, con l’avvertenza che il riferimento alla colpa generica non
— 607 — può essere adoperato per spostare le soglie del rischio accettabile che fossero riconoscibilmente individuate dal legislatore con la determinazione di valori soglia o di altri parametri definiti. La criticità del rapporto fra esigenze inderogabili di tassatività del precetto ed esigenze di tutela ‘a tutto campo’ è bene esemplificata dal tipo di questioni esaminato dalla Corte Cost. 312/96 (rinvio della legge a ‘misure tecniche, organizzative e procedurali’ necessarie per la riduzione al minimo del rischio rumore). La soluzione interpretativa proposta dalla Corte (riferimento agli standard generalmente adottati nei diversi settori), volta a salvare la determinatezza del precetto, rischia di disperdere la dimensione ‘normativa’ propria delle regole cautelari, la cui funzione è di controllo (non dunque di mera convalida) delle prassi. Si pone qui l’interrogativo radicale, se clausole generali come quella della ‘riduzione al minimo’ di dati rischi possano trovare diretta applicazione in sede penale, senza la mediazione di più puntuali specificazioni da parte di fonti autorizzate, che traducano la direttiva generale in precetti sufficientemente determinati. 3.
La disciplina dell’errore.
3.1. L’errore sul precetto. La disciplina dell’errore sul precetto, rimodellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 364/88, rappresenta un ragionevole punto d’equilibrio. L’errore (o ignoranza) sull’illiceità del fatto commesso esclude (per vincolo costituzionale) la colpevolezza, se si tratta di errore o ignoranza incolpevole. La questione (su cui v’è contrasto sia in dottrina che in giurisprudenza) se occorra avere riguardo alla consapevolezza dell’illiceità penale o della generica illiceità giuridica, dovrebbe essere risolta nel senso di ritenere sufficiente, per affermare la colpevolezza dell’agente, la possibilità di conoscere l’illiceità giuridica del fatto commesso. Andare oltre, verso una più ampia rilevanza scusante dell’errore (anche ‘evitabile’) sul precetto, rischierebbe di indebolire le condizioni d’efficacia generalpreventiva dell’ordinamento penale, senza che ciò trovi giustificazione in serie esigenze di garanzia dell’individuo da interventi arbitrari della potestà punitiva. L’attribuzione di responsabilità per dolo (cioè secondo la forma più grave di colpevolezza, e con conseguenze sanzionatorie consistenti) appare sufficientemente fondata sulla volontaria realizzazione del fatto, sempre che l’illiceità di questo fosse riconoscibile dall’agente. Resta ovviamente prioritaria l’esigenza di ridurre al minimo lo spazio di credibili errori sull’illiceità mediante una adeguata selezione e formulazione delle fattispecie di reato. 3.2. L’errore sul fatto. La rilevanza dell’errore ‘essenziale’ sul fatto costitutivo di reato è il riflesso logico dei principi sul dolo e sulla colpa, ed è destinata ad essere riconosciuta anche indipendentemente da una sua eventuale espressa riaffermazione. L’errore sul fatto esclude il dolo, non esclude la colpa se dovuto a colpa, la esclude se incolpevole. Un problema particolare si pone peraltro per l’errore su legge extrapenale, trattandosi di questione controversa, con una contrapposizione fra giurisprudenza e dottrina. In una prospettiva di riforma non interessa tanto prendere posizione su quale sia l’interpretazione corretta del vigente art. 47 u.c., quanto individuare la soluzione preferibile, avendo riguardo innanzi tutto ai vincoli posti dal principio di colpevolezza, e trovare una formulazione normativa capace di trasmettere un messaggio chiaro, superando le attuali incertezze interpretative. Anche se, teoricamente, una norma espressa potrebbe apparire a qualcuno non necessaria, una disciplina specifica sembrerebbe opportuna nella prospettiva della necessità di una correzione della prassi, con un messaggio puntuale in grado di correggere i principi giuridici affermati in materia dalla giurisprudenza, probabilmente per ragioni di semplificazione probatoria. L’obiettivo è di evitare che, in sede applicativa, vengano sottratti alla applicazione dei principi generali tipi di errore che incidono sulla comprensione del fatto, ricadendo su profili giuridici o comunque ‘valutativi’ da cui dipende la tipicità penale dello stesso. 3.3. Errore sugli elementi differenziali tra più reati ed errore sulle cause di giustificazione. In tema di errore « sugli elementi differenziali tra più reati » la soluzione concorde-
— 608 — mente ritenuta preferibile (e già leggibile, però non senza incertezze, nel vigente art. 47, 2o comma) è quella della punibilità per il reato meno grave (schema Pagliaro, art. 15). I criteri generali di disciplina dell’errore vanno tenuti fermi anche in materia di errore sulle cause di giustificazione, come già nel sistema vigente (art. 59) e come propone lo schema Pagliaro (art. 15). 4.
Eliminazione delle residue ipotesi di responsabilità oggettiva o anomala.
4.1. Linee generali e specifiche della riforma. L’indirizzo di « escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole » (schema Pagliaro, art. 12) esprime una posizione comune della dottrina, e costituisce la doverosa attuazione di un principio affermato dalla Corte Costituzionale (sentenze n. 364/88 e 1085/88). Come è noto, in proposito la Corte ha affermato, in un importante obiter dictum della sentenza n. 364/88, che pur non essendo posto dall’art. 27 Cost. un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, « va, di volta in volta, stabilito quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere ‘coperti’ almeno dalla colpa dell’agente perché sia rispettata la parte del disposto di cui all’art. 27, primo comma, Cost., relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto ». Nel modello delineato dalla Corte, l’inserzione fra i presupposti della punibilità di elementi meramente obiettivi, non toccati dalla colpevolezza dell’agente, potrebbe mantenere un ambito residuale ed eccezionale, all’interno di un sistema nel quale siano comunque assicurate le condizioni dell’imputazione per un fatto illecito colpevolmente realizzato. Dalla funzione garantista del principio di colpevolezza deriva dunque — per vincolo costituzionale — l’inaccettabilità dell’imputazione meramente oggettiva di elementi i quali siano a) significativi rispetto all’offesa, nel senso che (anche) da essi dipenda la realizzazione dell’offesa o messa in pericolo dell’interesse protetto, e quindi la riconoscibilità dell’illecito; b) oppure significativi rispetto alla pena, nel senso che da essi venga fatta dipendere la misura della sanzione: in un ordinamento conforme al principio di colpevolezza, condizioni obiettive di maggiore punibilità non possono avere spazio, come del resto il legislatore ha (parzialmente) riconosciuto superando il criterio della rilevanza meramente obiettiva delle circostanze aggravanti. L’unica categoria ammissibile di presupposti ‘meramente oggettivi’ della responsabilità è ravvisabile in condizioni di punibilità che, accedendo ad un fatto illecito già riconoscibile come tale indipendentemente dalla condizione, delimitino ulteriormente la risposta penale per ragioni ‘estrinseche’ d’opportunità. Una riforma ispirata ai criteri sopra enunciati dovrebbe comportare: a la eliminazione di disposizioni (tipo art. 42, 3o comma, del vigente codice) legittimanti forme d’imputazione dell’illecito ‘altrimenti’ che per dolo o per colpa. b) la modifica della disciplina delle condizioni obiettive di punibilità. La disposizione vigente (art. 44) è una formula tautologica, che equivale ad una sorta di riconoscimento dell’esistenza di condizioni oggettive di punibilità, ma non pone limiti contenutistici espliciti alla possibilità del legislatore di prevedere condizioni ‘operanti oggettivamente’, e nemmeno indica all’interprete delle disposizioni di parte speciale criteri idonei a far riconoscere le condizioni oggettive, distinguendole da altri presupposti della punibilità. A livello di parte generale, una disposizione sulle condizioni obiettive di punibilità può avere un concreto significato normativo in quanto indichi un criterio di identificazione degli elementi riconducibili a tale categoria. c) l’abrogazione della figura generale della preterintenzione e (anche mediante una clausola abrogativa di carattere generale) delle singole figure di delitti preterintenzionali e di delitti aggravati dall’evento, nelle quali l’imputazione dell’evento aggravante non sia conseguenza prevedibile (colposa) della commissione del reato-base doloso, ma sia fondata sul mero criterio del versari in re illicita. Realizzata questa operazione, si tratta di disciplinare in sede di parte speciale ipotesi di eventi di morte, di lesione o di ‘disastro’ cagionati involontariamente mediante condotte dolosamente aggressive o pericolose per l’incolumità delle per-
— 609 — sone o di beni collettivi, previsti espressamente sotto il profilo della responsabilità per colpa, e muniti di un trattamento sanzionatorio adeguato alla peculiare forma di colpevolezza: più grave rispetto alle altre ipotesi di colpa, ma in misura comunque agganciata al carattere colposo dell’evento realizzato. d) l’abrogazione della attuale disciplina (art. 83) della aberratio delicti, con conseguente riconduzione ai principi generali sulla responsabilità per colpa. e) nella parte speciale e nella legislazione penale speciale: a) radicale eliminazione di ogni ipotesi di condizioni obbiettive di maggiore punibilità; b) abrogazione di disposizioni che escludano l’esigenza della colpevolezza con riguardo ad elementi del fatto costitutivo di reato (dai quali dipenda l’offesa o messa in pericolo dell’interesse protetto); c) riforma delle figure di reato (in particolare, dei reati fallimentari) in cui attualmente sia attribuito un ruolo centrale a condizioni obiettive di punibilità o di maggiore punibilità. f) in materia di aberratio ictus: sono stati prospettati argomenti sia per l’eliminazione dell’istituto, con conseguente applicabilità dei criteri generali, sia per il mantenimento della disciplina attuale. 4.2. In particolare sul reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti e sul concorso dell’estraneo nel reato proprio. Sia l’attuale disciplina della responsabilità per reato diverso da quello voluto (art. 116) interpretata secondo le indicazioni della Corte Costituzionale (sentenza n. 42 del 1965), sia la proposta di modifica dello schema Pagliaro (agevolazione colposa del reato realizzato da altri), presentano i medesimi scarti dal modello normale dell’imputazione soggettiva: una responsabilità che strutturalmente è per colpa viene imputata a titolo di dolo, comporta una pena la cui misura è agganciata (sia pure con il correttivo di una forte diminuzione) alla pena prevista per il reato doloso realizzato, e l’ambito della responsabilità strutturalmente colposa copre anche delitti non previsti fra le figure di reato colposo. Tali modelli di disciplina, poco conciliabili con il principio di colpevolezza, non sono nemmeno giustificati da esigenze di politica criminale. L’estensione dell’ambito della responsabilità sulla base della colpa in relazione a fatti non previsti come reati colposi, appare incoerente con la selezione delle figure di delitto colposo operata dal legislatore ‘di parte speciale’. La mancata punizione di eventuali contributi colposi alla realizzazione di eventi dolosi, come tali ascritti a responsabilità degli autori, non aprirebbe alcuna lacuna rispetto alle esigenze di tutela generalpreventiva, così come valutate dal legislatore della parte speciale. Con riguardo ad eventi previsti anche come delitti colposi, realizzati dolosamente da altri, è conforme al sistema l’attribuzione di responsabilità a titolo di colpa al partecipe che abbia dato un contributo colposo, con applicazione della pena prevista per il delitto colposo. Un aggravamento di pena, comunque agganciato alla pena base per il delitto colposo, potrebbe essere giustificato (soltanto) quando la condotta di concorso nel reato voluto costituisca una consapevole violazione di una regola cautelare volta a prevenire l’evento realizzato, e siano in gioco interessi di particolare importanza. In concreto, il problema si rivela essere ‘di parte speciale’: come dimostra la casistica applicativa dell’art. 116 cod. pen., si tratta essenzialmente di assicurare adeguata tutela all’integrità o alla libertà della persona, in relazione a prevedibili sviluppi di azioni esecutive di determinati delitti. Meglio, allora, rinunciare a clausole generali di estensione della punibilità secondo modelli ‘anomali’, e riportare il problema alla parte speciale. Individuate le situazioni tipiche per le quali si ritenga opportuno intervenire (delitti contro la persona, rapina, eventuali altre ipotesi ‘nominate’) si potrà provvedere o con la previsione ‘mirata’ di eventuali figure specifiche di agevolazione colposa, o con circostanze aggravanti speciali, evitando in ogni caso di agganciare le pene per la realizzazione colposa a quelle previste per la realizzazione dolosa. Mentre, se proprio si volesse mantenere una (sostanzialmente inutile) disciplina di carattere generale, essa non potrebbe che riflettere nella fattispecie i principi generali sulla responsabilità soggettiva (ciascuno dei concorrenti risponde nei limiti della sua colpevolezza;
— 610 — se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando nel suo comportamento sia ravvisabile almeno la colpa, ed il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo). Analogamente, in materia di concorso dell’estraneo nel reato proprio la Commissione, superato il testo proposto dallo schema di legge-delega Pagliaro (non risultando chiaro come si concili la persistente vigenza della fattispecie speciale con il collegamento al principio di colpevolezza), ritiene che l’unico modo di realizzare senza ambiguità il principio di colpevolezza sia di procedere alla abrogazione pura e semplice dell’art. 117 c.p., sottoponendo la disciplina di tale tipo di concorso di persone ai principi generali sulla responsabilità soggettiva. 4.3. Reati a mezzo stampa o radiotelevisione. La vigente disciplina dei reati a mezzo stampa (artt. 57 s.) presenta gli stessi caratteri strutturali dell’art. 116: anche qui un meccanismo ‘di parte generale’ estende l’ambito della responsabilità sulla base della colpa in relazione ad eventi non previsti come reati colposi nella parte speciale, ed aggancia la pena per un fatto strutturalmente colposo a quella prevista per delitti dolosi. Lo schema Pagliaro (art. 31) si muove nel solco della disciplina vigente, con importanti innovazioni: la considerazione congiunta della stampa e della radiotelevisione; la previsione — quali destinatari della norma penale accanto al direttore o vicedirettore responsabile — di soggetti ‘delegati’ a svolgere la funzione di controllo; una accentuata riduzione di pena per il caso di omesso impedimento colposo. Il problema concerne sostanzialmente un gruppo delimitato di reati d’opinione previsti nella parte speciale come reati dolosi. Per ciascuno di essi può essere posta autonomamente la questione se sia opportuno estendere la responsabilità penale a soggetti ‘garanti’, incriminando condotte di mancato impedimento colposo. Un meccanismo ‘di parte generale’ sottende una risposta globalmente affermativa, e prefigura un modello tendenzialmente accentrato di impresa giornalistica o radiotelevisiva, caratterizzato dalla presenza obbligatoria di poteri di controllo gerarchico. Appare preferibile lasciare la soluzione alla disciplina di singole figure di reato, o ad una organica riconsiderazione della legislazione sui mezzi di comunicazione. Se proprio si ritiene di mantenere un meccanismo unitario nel codice penale, occorre: rendere effettivo l’aggancio al criterio della colpa, prevedere per il mancato impedimento colposo una pena svincolata da quella prevista per il fatto doloso, ed evitare di bloccare, con l’imposizione di un modello di responsabilità necessariamente accentrata al vertice, le opzioni relative alla disciplina dell’impresa giornalistica o radiotelevisiva. 4.4. Le circostanze del reato. Lo schema Pagliaro mantiene il criterio della colpa per l’imputazione delle aggravanti, e lo estende alle attenuanti nel senso di attribuire rilevanza alle attenuanti « supposte per errore non dovuto a colpa ». Si tratta d’un adeguamento a esigenze imposte dal principio di colpevolezza, da considerare positivamente. Una compiuta valutazione delle soluzioni prospettabili non può essere tuttavia fatta se non nell’ambito di una revisione complessiva della disciplina delle circostanze, anche con riguardo al profilo sanzionatorio. IV.
REATI OMISSIVI E POSIZIONI DI GARANZIA NELL’AMBITO DI ORGANIZZAZIONI COMPLESSE.
1. I reati omissivi. — L’indirizzo di fondo dovrebbe essere nel senso di una forte selezione delle figure di reato omissivo, per la più penetrante incidenza dei comandi di agire nella sfera di libertà dei destinatari e per il peculiare rischio di forzatura dei criteri della responsabilità personale. Da ciò la opportunità di uno speciale fondamento della responsabilità per omissione, da ricercare in esigenze non altrimenti soddisfacibili di tutela di beni giuridici importanti, e la conseguente necessità di una costruzione particolarmente attenta delle fattispecie di reato omissivo, che ne assicuri, ad un tempo, la ‘tenuta’ garantista e la funzionalità generalpreventiva.
— 611 — 1.1. I reati omissivi propri. Nei casi in cui la fattispecie di reato omissivo è autonomamente e compiutamente configurata dal legislatore di parte speciale (reati omissivi propri), il problema fondamentale, per quanto concerne la costruzione delle fattispecie, attiene alla determinazione dei presupposti del dovere di agire penalmente sanzionato. L’indirizzo di fondo, per il legislatore di parte speciale, è che il comando d’agire sia agganciato (con la chiarezza imposta dal principio di legalità) a situazioni tipiche ben profilate e di significato pregnante, tali cioè da evocare immediatamente il problema dell’attivarsi in un certo modo per la salvaguardia di riconoscibili interessi, e da costituire perciò, ad un tempo, il fondamento del carattere offensivo dell’omissione, e un solido punto di riferimento per il giudizio sulla colpevolezza dell’omittente. 1.2.
Reati commissivi mediante omissione.
1. Il problema dell’individuazione delle posizioni di garanzia rilevanti. Secondo il modello generalmente adottato (anche dal codice Rocco, nell’interpretazione ormai consolidata) il presupposto dell’obbligo d’attivarsi (di ‘impedimento dell’evento’) dipende da una ‘posizione di garanzia’ il cui fondamento non è dato dalla norma penale ‘di parte speciale’, ma questa recepisce come rilevante ai fini dell’equiparazione del non impedimento alla realizzazione positiva del fatto. Il rispetto del principio di legalità, e comunque esigenze di certezza del diritto, esigono che le posizioni di garanzia penalmente rilevanti abbiano fondamento legale. I progetti di riforma mantengono la struttura formale della disciplina, che affida ad una disposizione di parte generale il compito di dettare il criterio generale di individuazione delle posizioni di garanzia penalmente rilevanti, fondamentalmente con rinvio a figure disciplinate da altri settori dell’ordinamento. Nello schema Pagliaro si propone (art. 11) di introdurre una distinzione fra obblighi di garanzia ed obblighi di sorveglianza, limitando la rilevanza penale di questi ultimi ai soli casi specificamente previsti dalla legge. Il modello vigente, che comporta un rinvio del diritto penale ad altri settori dell’ordinamento mediante una disposizione costruita come clausola generale, tende ad assicurare coerenza e completezza del sistema di tutela, a prezzo però di un deficit di determinatezza e di rinuncia a selezionare le posizioni di garanzia rilevanti secondo valutazioni specificamente penalistiche. Può essere opportuno cercare di individuare, preliminarmente alla definizione di formule normative, quali siano le posizioni di garanzia che appaia necessario selezionare per una adeguata tutela dei beni penalmente protetti, o delle quali sia opportuno discutere. Un abbozzo di casistica, suscettibile di integrazioni, può essere il seguente: a) Posizioni di protezione nei confronti di persone incapaci (minori, infermi, soggetti che si siano affidati a un esperto nello svolgimento di attività rischiose). b) Posizioni di controllo su fonti di pericolo. Viene qui in rilievo, in particolare, la gestione di attività pericolose da parte di organizzazioni complesse, di natura imprenditoriale o anche non imprenditoriale. Gli interessi rilevanti sono quelli dell’incolumità individuale, della sicurezza individuale e collettiva, della tutela dell’ambiente. Nella medesima prospettiva si inquadra il problema della custodia di cose che possano costituire un pericolo, nonché quello della rilevanza della attività pericolosa precedente. c) Funzioni di gestione di affari altrui (ruoli di direzione, amministrazione e controllo entro persone giuridiche, e simili). d) Svolgimento di attività terapeutica, o di funzioni relative al soccorso di privati o pubblici infortuni. e) In tutti gli ambiti sopra indicati si pone il problema dell’impedimento di fatti illeciti ad opera di terze persone, che ricorre con profili peculiari relativamente ai corpi di polizia. 2. Il problema della causalità dell’omissione. Sul piano sistematico, la disciplina delle posizioni di garanzia dovrebbe essere sganciata dal problema della causalità, cui nel codice Rocco è collegata. Le posizioni di garanzia determinano non già la causalità, ma la tipicità dell’omissione ‘non impeditiva’.
— 612 — Circa i presupposti ‘materiali’ della causalità, dovrebbero valere i criteri generali. Ciò comporta l’esigenza di un ripensamento, e della eventuale correzione con una disposizione ad hoc dell’indirizzo giurisprudenziale che afferma la causalità dell’omissione, anche quando l’impedimento dell’evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità lontano dalla certezza. Alle possibili lacune di tutela, di fronte ad inadempimenti colpevoli ma dei quali sia dubbia la rilevanza causale (‘non impeditiva’), si potrebbe ovviare con la previsione di figure di reato omissivo proprio, di mera condotta (eventualmente con la condizione di punibilità del prevedibile verificarsi dell’evento lesivo, ma con livello sanzionatorio comunque dimensionato secondo il disvalore della condotta omissiva). Con riguardo alla disciplina vigente (art. 40 cpv.) del reato commissivo mediante omissione, un indirizzo dottrinale sostiene che essa concerne i soli reati con evento naturalistico. Tale delimitazione è di fatto disattesa dalla giurisprudenza, e non poggia su ragioni sostanziali: non la struttura dei fatti da impedire, ma la funzione delle posizioni di garanzia è il criterio razionale di determinazione dell’ambito della responsabilità omissiva. 2. Le posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse. — Nel ridisegnare i principi generali in materia di responsabilità penale appare opportuno definire i principi generali sui ‘soggetti responsabili’ nelle organizzazioni complesse (impresa et similia), quale che sia poi la sede opportuna per la loro formulazione. La previsione nel codice penale dei principi portanti del sistema servirebbe a dare fondamento più certo e maggiore coerenza a soluzioni che, già oggi sostenibili e sostenute, sembrano dar corpo ad una sorta di diritto giurisprudenziale, insicuro nei fondamenti e non privo di aspetti controversi. I problemi fondamentali sono i seguenti: a) se mantenere, modificare o abbandonare il sistema che individua come posizione di garanzia fondamentale quella di soggetti ‘al vertice’ dell’organizzazione; b) se e come costruire un sistema di posizioni di garanzia a più livelli; c) quali debbano essere l’ambito e le condizioni di rilevanza della delega di funzioni. Su questi punti esiste una copiosa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, dalla quale è dato desumere un modello passabilmente accettabile ed unitario, anche se non privo di incertezze, e del quale non è indicato con chiarezza il fondamento normativo. A livello legislativo, il più significativo testo di riferimento è la disciplina introdotta dal d.lg. 626/94 e successive modificazioni relativamente alla sicurezza del lavoro. Criterio fondamentale per la determinazione delle posizioni di garanzia nelle organizzazioni complesse deve essere quello della corrispondenza fra poteri e doveri. La garanzia dei beni in gioco, là dove esiga la previsione di doveri di attivarsi, non può che essere affidata a soggetti i quali abbiano il potere (giuridico e fattuale) di assicurare l’adempimento. Ne derivano i seguenti corollari (relativamente all’ambito delle posizioni di garanzia, impregiudicata l’esigenza che la responsabilità penale sia ulteriormente delimitata in funzione della soggettiva colpevolezza): a) mantenimento del sistema che individua il garante primario nel soggetto al vertice dell’organizzazione, munito del potere (e del correlativo dovere) di organizzare le strutture e l’attività in modo adeguato alla salvaguardia degli interessi in gioco. b) determinazione del tipo di garanzia dovuta dal soggetto al vertice, mediante la selezione di un ristretto nucleo di adempimenti ‘non delegabili’ propri del ruolo di direzione complessiva dell’organizzazione. Il riferimento alla previa valutazione dei rischi ed alla programmazione generale della sicurezza, che sta alla base del sistema del d. lg. 626/94, è un modello che può essere opportunamente generalizzato per qualsiasi rischio al quale interessi penalmente protetti siano esposti in relazione all’esistenza ed all’attività dell’organizzazione; la garanzia dovuta dal soggetto al vertice, rispetto agli interessi penalmente protetti, sta nella organizzazione generale della sicurezza sulla base di una adeguata informazione. Per quanto concerne gli aspetti tecnici delle valutazioni e delle misure da programmare, resta ferma la possibilità di avvalersi di soggetti tecnicamente qualificati (la cui cooperazione alla valutazione dei rischi, nel sistema del d. lg. 626/94, è anzi obbligatoria). Il dovere ‘non delegabile’ del soggetto al vertice consiste nell’assicurare le condizioni di idoneo svolgimento del lavoro dei tecnici, nel verificarne l’effettuazione, e nell’adottare le misure organizzative conseguenti.
— 613 — c) identificazione dell’organizzazione cui riferire la posizione di garanzia, avendo riguardo non alla forma giuridica di per sé considerata (struttura societaria) ma alla effettiva articolazione organizzativa e di potere (rilevanza della ‘direzione unitaria’ di gruppi di società, nell’ambito e nella misura in cui sia esercitata; rilevanza delle diverse articolazioni dotate di sufficiente autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, come già oggi nel sistema del d.lg. 626/94). d) correlazione fra poteri e responsabilità ai diversi livelli della struttura: ai compiti (decisionali, operativi, di consulenza) assegnati a ciascun livello, dal cui esercizio dipende la salvaguardia di beni penalmente protetti, deve corrispondere una specifica posizione di garanzia, secondo il modello a più stadi oggi espressamente previsto in materia di sicurezza del lavoro. e) ammissibilità della delega indipendentemente dalle dimensioni dell’organizzazione. Ciò che interessa, in vista della tutela dei beni giuridici, non è la ‘necessità’ della delega, ma l’idoneità del sistema organizzativo adottato. In via di principio devono ritenersi ammissibili, in quanto possano essere ugualmente funzionali per la protezione degli interessi in gioco, modelli diversi di ripartizione di poteri: la scelta fra di essi compete a chi abbia la responsabilità complessiva dell’organizzazione. Ai diversi modelli organizzativi corrisponderà un diverso ambito e un diverso rapporto (che potrà essere di concorrenza o di reciproca esclusione) fra i doveri dei diversi soggetti del sistema. La questione interessa, in particolare, la ripartizione dei poteri di spesa: limitazioni di poteri di spesa non ostano alla valida attribuzione di altri poteri e dei correlativi doveri, e correlativamente ogni riserva di poteri di spesa definisce un ambito di residua (potenziale) responsabilità del delegante. L’esigenza che la delega sia espressa, affermata da una parte della giurisprudenza, appare superabile dove vi sia l’effettiva assunzione di dati compiti implicanti problemi di salvaguardia degli interessi penalmente protetti. Nello schema Pagliaro viene proposta (art. 11) una distinzione fra obblighi di garanzia e obblighi di sorveglianza. Per questi ultimi si prevede una rilevanza più limitata: la loro violazione non fonderebbe una responsabilità ‘per omesso impedimento’, ma verrebbe in rilievo ove ‘espressamente prevista come reato’ (omissivo proprio, sembra di capire). Tale distinzione, estranea al diritto vigente e vivente, eliminerebbe le attuali incertezze circa i contenuti dei doveri di vigilanza, e i conseguenti rischi di dilatazione della responsabilità secondo una logica di ‘responsabilità di posizione’; per altro verso, comporterebbe delimitazioni della responsabilità penale non facilmente giustificabili, alla luce della garanzia affidata a ruoli il cui esercizio sia caratterizzato in modo pregnante anche da doveri di vigilanza. Più razionale appare un sistema che continui a considerare il dovere di vigilanza, là dove previsto, come un aspetto essenziale della garanzia dovuta dai diversi ruoli, che assuma però contenuti ben delimitati in relazione ai compiti propri di ciascun garante. Per il soggetto al vertice, in particolare, il dovere di vigilanza dovrebbe rientrare nel nucleo indelegabile del dovere di buona organizzazione. V.
LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE.
La disciplina vigente delle cause di giustificazioni, in larga misura condivisibile, solleva alcuni problemi di migliore definizione e tipizzazione delle singole fattispecie esimenti. Lo schema di legge-delega Pagliaro, seguendo l’orientamento di una parte della dottrina, ha ritenuto di dovere distinguere la categoria delle esimenti nelle due sottospecie delle cause (oggettive) di giustificazione (art.16) e delle cause soggettive di esclusione della colpevolezza (art. 17). Questa differenziazione, che suscita problemi pratici soprattutto con riferimento all’istituto (sdoppiato) dello stato di necessità, è stata criticata da una parte della Commissione, che ha giudicato preferibile mantenere l’impianto unitario del codice in vigore. 1. L’esercizio del diritto, l’adempimento di un dovere, l’ordine illegittimo vincolante. — Le figure dell’esercizio di un diritto e dell’adempimento di un dovere non sollevano problemi di rilievo. La riforma dovrebbe di conseguenza confermare la disciplina vigente.
— 614 — Con riferimento all’ordine illegittimo vincolante occorrerebbe procedere ad una tipizzazione, ed eventuale ridimensionamento (all’interno dei tradizionali settori della gerarchia militare, dei corpi civili dello Stato organizzati militarmente e degli ausiliari della giustizia), delle ipotesi in cui opera il principio della insindacabilità dell’ordine. Per esigenze di chiarezza sarebbe d’altronde opportuno enunciare espressamente che la insindacabilità concerne soltanto la illegittimità sostanziale, e che la manifesta criminosità dell’ordine obbliga il subordinato a non eseguirlo, soggiungendo che la percezione di una criminosità comunque non manifesta obbliga (o in ogni caso autorizza) a rifiutare l’esecuzione dell’ordine. Quanto al tema dei limiti della dipendenza gerarchica dei dipendenti civili dello Stato disciplinata dagli artt. 16 e 17 D.P.R. 10 gennaio 1957 n.3, la Commissione si è domandata se sia opportuno mantenere il principio della necessaria esecutività dell’ordine palesemente illegittimo reiterato per iscritto. Tradizionalmente l’ordine privato viene escluso dal novero delle esimenti. Al riguardo si può comunque osservare che delle due l’una: o il contenuto dell’ordine è conforme alle leggi, ed allora deve (o può) essere eseguito, o non è conforme alle leggi, ed in caso di esecuzione comporta responsabilità, a seconda dei casi penale o civile, sia a carico di colui che lo ha impartito, sia a carico di colui che lo ha eseguito. Lo schema di legge delega Pagliaro, nel tentativo di dare rilievo alla situazione di disagio in cui si può venire a trovare l’impiegato privato che riceve un ordine, prevede sotto il profilo delle cause soggettive di esclusione della responsabilità « l’ordine di un privato rivestito di un’autorità specificamente riconosciuta dalla legge, quando l’ordine si riferisca ad attività inerenti al rapporto di dipendenza e l’agente confidi ragionevolmente nella sua liceità » (art. 17 n. 2). In realtà in tale caso non è tanto l’esistenza dell’ordine e della posizione di subordinazione a funzionare come causa di esclusione della riprovevolezza soggettiva, quanto « la ragionevole fiducia nella sua liceità », cioè, in ultima analisi, l’erronea opinione di liceità di un ordine invece illegittimo. Si tratta pertanto di una (opportuna) estensione dell’ambito dell’errore rilevante, che, se riconosciuta, non si vede tuttavia perché non dovrebbe diventare principio generale in materia di ordine dell’autorità. 2. Difesa legittima e stato di necessità. — La disciplina vigente della difesa legittima e dello stato di necessità, in larga misura esaustiva, esige alcune precisazioni in parte dirette a dare veste formale a quanto risulta comunque pacificamente sostenuto in sede interpretativa, in parte rivolte a risolvere problemi allo stato non risolti. Occorrerebbe in particolare: a) chiarire se le due esimenti operano oggettivamente sulla linea della disciplina generale attualmente tracciata dall’art. 59 comma 1 c.p., ovvero se la loro efficacia sia subordinata alla percezione della situazione di pericolo; b) definitivamente superato il concetto della c.d. ‘proporzione fra i mezzi’, chiarire che la proporzione fra i beni deve essere valutata diversamente nella difesa legittima e nello stato di necessità in considerazione della differente posizione in cui si trovano i titolari degli interessi contrapposti nelle due situazioni (tema affrontato dallo schema Pagliaro, che nell’art. 16 nn. 3 e 4 ha distinto il modo di valutare la proporzione nelle due cause di giustificazioni); c) chiarire in quale misura il requisito del ‘pericolo non altrimenti evitabile’ rilevi anche nella difesa legittima; d) nella difesa legittima prevedere che la scriminante non operi nel caso in cui l’aggressione sia stata suscitata ad arte allo scopo di potere colpire impunemente l’aggressore (in questo senso si è pronunciato lo schema di legge-delega Pagliaro); e) in tema di stato di necessità, a fronte dei dubbi interpretativi suscitati dalla espressione « danno grave alla persona », chiarire quali beni siano effettivamente « salvabili » (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra considerare rilevanti agli effetti della esimente tutti gli interessi personali propri o altrui, siano essi oggetto di pericolo di un danno grave o non grave, attengano alla integrità fisica o a quella morale della persona, compensando tuttavia
— 615 — questo ampliamento con una drastica delimitazione della scriminante sul terreno della proporzione); f) ove si intendesse continuare a circoscrivere agli interessi di natura personale l’ambito di applicazione dello stato di necessità, con riferimento agli interessi di natura patrimoniale sarebbe opportuno disciplinare espressamente la situazione di chi, per salvare un diritto patrimoniale altrui minacciato, danneggia un bene di valore minore della stessa persona: per escludere, come sembrerebbe naturale, la responsabilità del soccorritore oggi si può fare riferimento, in via interpretativa, agli istituti della negotiorum gestio o del consenso presunto, mentre sarebbe preferibile disporre di una norma che regolasse esplicitamente il caso (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra fare riferimento, nell’art. 16 n. 2, al consenso presunto); g) definire i rapporti fra l’istituto del soccorso di necessità disciplinato dall’art. 54 c.p. e quello del c.d. ‘dovere di soccorso’, che secondo una parte della dottrina sarebbe desumibile dall’art. 593 c.p.; eliminare alcune improprietà riscontrabili nella attuale dizione lessicale della disciplina del soccorso di necessità. h) in tema di inapplicabilità dello stato di necessità a chi ha un particolare dovere di esporsi al pericolo, attenuare la rigidezza della disciplina vigente precisando, sul solco della proposta Pagliaro, che la scriminante non è applicabile a chi « essendo tenuto ad esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse proprio la cui superiorità non sia di particolare rilevanza ». Nodo di fondo concernente la figura dello stato di necessità riguarda la opportunità del suo sdoppiamento nelle figure, previste dallo schema di legge-delega Pagliaro, della causa oggettiva di giustificazione e della causa soggettiva di esclusione della responsabilità (c.d. necessità cogente). Si è già rilevato come una parte della Commissione si è dichiarata contraria allo sdoppiamento, e più in generale alla configurazione di una categoria di cause soggettive di esclusione della responsabilità da affiancare a quella delle cause oggettive di giustificazione. Se questa dovesse essere la scelta in sede di stesura del nuovo codice, lo stato di necessità unitario (inteso come causa di giustificazione) dovrebbe essere comunque ancorato ad un concetto di proporzione che tenga conto della equivalenza degli interessi contrapposti, evitando il rigore eccessivo della proposta Pagliaro, che postula che l’interesse salvato abbia un valore ‘superiore’ a quello sacrificato. Più in generale, quanto allo schema complessivo delle cause soggettive di esclusione della responsabilità configurato dal progetto Pagliaro la Commissione osserva che due di esse, quella già considerata (retro n. 1) prevista nel n. 2 dell’art. 17, e quella prevista nel suo n. 4 (l’affidamento nel consenso altrui, qualora il fatto sia commesso nell’interesse privato proprio, ma l’agente ragionevolmente confidi che il titolare del bene disponibile avrebbe consentito), consistono nella sostanza in ipotesi di errore, e come tali sono ‘naturalmente’ destinate ad operare come cause incidenti sulla colpevolezza indipendentemente dalla loro inclusione in una specifica categoria nuova di cause soggettive di esclusione della responsabilità. 3. L’uso legittimo delle armi. — La Commissione fa proprie le istanze di una revisione di tale causa di giustificazione. L’alternativa è fra la abolizione della stessa, che ripristini la situazione vigente al tempo del codice Zanardelli, ovvero una riforma che inserisca nella sua struttura i requisiti della necessità e della proporzione (soluzione proposta dallo schema di legge-delega Pagliaro, art. 16 n. 6) od opti per soluzioni più sofisticate, ma sicuramente meno ‘facili’ da realizzare (es., sdoppiamento della esimente a seconda che la forza pubblica sia costretta ad affrontare situazioni di violenza o di resistenza attiva, ovvero situazioni di resistenza passiva, legittimando nei primi casi anche l’uso delle armi, consentendo nei secondi soltanto l’impiego di mezzi di coazione fisica meno aggressivi). 4. Consenso dell’avente diritto. — In tema di consenso dell’avente diritto è emersa qualche incertezza vuoi con riferimento alla delimitazione di taluni diritti indisponibili (fede
— 616 — pubblica, libertà personale, integrità fisica), vuoi, soprattutto, riguardo ad alcuni dei requisiti di validità del consenso (età). Lo schema di legge-delega Pagliaro si è fatto carico di questo secondo profilo. Nell’art. 16 n. 2 ha disposto che occorre prevedere « il consenso dell’avente diritto, rispetto ai reati aventi ad oggetto interessi disponibili, disciplinandone la validità con particolare riferimento alla capacità del titolare in relazione alla natura dell’atto ». Ha d’altronde opportunamente previsto che occorre « riconoscere, nei limiti suddetti, la rilevanza del consenso presumibile, stabilendone i presupposti e, fra questi, in particolare, la verosimile utilità obbiettiva, al momento del fatto, per il titolare dell’interesse e la mancanza di un suo dissenso ». In questo modo è andato incontro alla esigenza di disciplinare espressamente i casi in cui un soggetto danneggia un bene patrimoniale di una persona nell’intento di salvare un altro bene patrimoniale di valore maggiore della stessa. 5. Una nuova scriminante generale? — Lo schema di legge-delega Pagliaro è intervenuto in un settore delicato, fino ad oggi affidato ai principi non scritti delle scriminanti tacite e delle regole di perizia professionale: la attività terapeutica e gli interventi medico chirurgici. Nell’art. 16 n. 5 ha stabilito che occorre prevedere come causa di giustificazione « l’attività terapeutica, sempre che: a) vi sia il consenso dell’avente diritto o, in caso di impossibilità a consentire, il suo consenso presumibile e la urgente necessità del trattamento; b) il vantaggio alla salute sia verosimilmente superiore al rischio; c) siano osservate le regole della migliore scienza ed esperienza ». La Commissione esprime dubbi circa la opportunità di intervenire in questo settore, e soprattutto di intervenire con una norma strutturata nel modo indicato: a) intervenire, significa rischiare di irrigidire una disciplina che pare più opportuno riservare ai canoni ormai consolidati della prassi e della giurisprudenza. b) il tema del consenso presupposto di liceità dell’intervento medico esige a sua volta che si affronti quello delicatissimo della informazione corretta del malato: un tema sul quale sussiste tutt’ora incertezza in dottrina, e che lo schema di legge-delega si è ben guardato dall’affrontare. c) determinare quando il vantaggio alla salute sia superiore al rischio non è sempre agevole; di qui il pericolo di inserirlo quale requisito esplicito di una scriminante. d) il requisito indicato sotto la lettera c) del progetto Pagliaro più che alla struttura di una esimente sembra attenere al profilo della mancanza di colpa. e) non si affronta il problema che, invece, parrebbe più urgente affrontare: prendere posizione nei confronti dei più recenti orientamenti giurisprudenziali che in caso di consenso ritenuto non sufficientemente ‘informato’ hanno ritenuto la configurabilità a carico del medico di delitti dolosi o preterintenzionali contro la persona. VI.
TENTATIVO E DELITTI DI ATTENTATO.
Un inventario dei principali profili dell’istituto del tentativo suscettibili di riforma può essere redatto ordinandoli in tre grandi gruppi: profili attinenti a) al campo di applicazione del tentativo; b) alla struttura e al trattamento sanzionatorio del tentativo; c) alla disciplina degli istituti connessi o interferenti col tentativo (desistenza volontaria, recesso attivo, delitti di attentato). 1.
Il delitto tentato.
1.1. Per quanto riguarda il campo di applicazione del tentativo la Commissione, preso atto di soluzioni diverse presenti in alcuni paesi europei, si è domandata se sia opportuno mantenere la disciplina vigente o preferibile suggerire delimitazioni ulteriori dell’ambito di applicazione dell’istituto. La maggioranza della Commissione, esclusa sul terreno generalpreventivo la opportunità politico-criminale di una riduzione, ha sostenuto che si potrebbe tutt’al più pensare di escludere la applicazione dell’istituto nei confronti dei reati omissivi
— 617 — propri (contestata da una parte della dottrina), osservando che la modesta incidenza pratica della questione potrebbe comunque consigliare di continuare a rimettere la sua soluzione all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Alcuni commissari hanno invece sostenuto la opportunità di prendere in considerazione prospettive di limitazione anche marcata dell’area di applicazione del tentativo, circoscrivendo l’anticipazione dell’intervento penale a reati esplicitamente individuati, in linea di principio i delitti più gravi. 1.2. In materia di struttura e di trattamento sanzionatorio del tentativo, la disciplina vigente può essere annoverata tra quelle maggiormente ispirate ad un orientamento soggettivista. Quanto alla struttura, il codice penale italiano, sganciata la configurazione dell’istituto da qualsiasi riferimento diretto alla condotta costitutiva del corrispondente delitto consumato, costruisce il delitto tentato facendo riferimento agli incerti confini del concetto di « atti idonei » e « diretti in modo non equivoco » a commettere il delitto. Poiché il requisito della idoneità non è in grado di contribuire in modo decisivo alla tipizzazione della condotta di tentativo, e poiché il requisito della direzione non equivoca degli atti non aggiunge a sua volta profili sufficienti di tipicità, il giudice rimane sostanzialmente libero di determinare contenuto e limiti dell’istituto. Nella maggior parte dei sistemi di civil law europei la condotta del tentativo continua invece ad essere individuata attraverso il concetto dell’inizio di esecuzione della azione tipica. In alcuni casi si fa riferimento puro e semplice a tale concetto (codice francese, codice svizzero, avamprogetto dello stesso); in altri la formula dell’inizio di esecuzione è arricchita dall’ulteriore riferimento ai « fatti esteriori » (codice belga, codice spagnolo) o ci si impegna in una definizione analitica degli « atti di esecuzione (codice portoghese), senza che questa specificazione sia in grado di recare un reale contributo alla precisazione della condotta, essendo evidente che l’esigenza di una manifestazione esteriore della risoluzione criminosa discende già dal principio generale di materialità del reato, mentre il problema è quello dell’individuazione del grado di sviluppo della condotta punibile, alla cui soluzione intende provvedere il criterio dell’inizio di esecuzione. Mentre la formula degli atti idonei e diretti in modo non equivoco non consente una tipizzazione adeguata della condotta di tentativo, la formula dell’inizio di esecuzione ha il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del tentativo da quella della fattispecie di riferimento di parte speciale. Pur non costituendo una « formula magica » utilizzando la quale ogni problema di riduzione dei margini della discrezionalità giudiziale risultano risolti, è comunque formula più garantista, e quantomeno sul terreno dei ‘segnali lanciati’ indica la necessità di porre comunque una barriera ad una anticipazione indiscriminata degli atti qualificabili come penalmente rilevanti. Come è noto, il pregio rilevabile sul piano della maggiore delimitazione concettuale della condotta punibile viene in qualche modo controbilanciato dalla impossibilità di ricondurre all’inizio di esecuzione gli atti che, pur essendo totalmente atipici, sono però immediatamente antecedenti all’inizio di esecuzione, e con riferimento a molti dei quali si pone concretamente una esigenza di punibilità. Era stata d’altronde proprio la denuncia di questa esigenza (o di esigenze simili) a giustificare, nel 1930, la scelta di abbandonare da formula dell’inizio di esecuzione utilizzata dal codice penale Zanardelli sostituendola con quella della idoneità ed univocità degli atti. Il diritto comparato offre tuttavia esempi di soluzioni legislative che tendono a realizzare una conciliazione delle due contrapposte esigenze. Nel codice tedesco del 1975 ed in quello austriaco del 1974, ad esempio, il criterio di individuazione della condotta tipica continua ad essere costituito dal concetto di « esecuzione della fattispecie », ma la soglia di punibilità è anticipata attraverso il riferimento agli atti che precedono « direttamente », « immediatamente », gli atti esecutivi. Analogamente, il codice portoghese equipara agli atti esecutivi « quelli che, secondo la comune esperienza , sono di natura tale da far prevedere che ad essi seguano » gli atti esecutivi.
— 618 — Nella prospettiva di una maggiore delimitazione possibile della anticipazione della attività punibile e di un inserimento della disciplina italiana nel panorama delle legislazioni europee, la Commissione ritiene opportuno orientare la nuova disciplina del tentativo in una direzione oggettiva, centrata sul concetto della punibilità degli atti esecutivi della condotta tipica. Il ritorno alla formula dell’inizio di esecuzione della condotta tipica dovrebbe essere tuttavia accompagnata da correttivi, finalizzati da un lato ad evitare rigidezze eccessive del criterio adottato, dall’altro a superare obbiezioni di eccessiva restrizione dell’area di punibilità che potrebbero essere avanzate soprattutto con riferimento ai reati causalmente orientati. In questa prospettiva il criterio sussidiario della « immediatezza » sembra dotato, più di altri possibili, di efficacia espressiva e delimitativa, e sembrerebbe pertanto preferibile. Anche nei più recenti progetti di riforma italiani (schema di legge-delega Pagliaro e progetto Riz) si avverte la esigenza di « meglio fondare la materialità del fatto di tentativo, svincolandone la struttura, per quanto possibile, da riferimenti di carattere personale-soggettivo ». Tale scopo viene perseguito aggiungendo l’avverbio « oggettivamente » ai requisiti degli atti idonei diretti in modo non equivoco. Peraltro non pare che l’aggiunta di tale avverbio sia in grado di recare un contributo alla precisazione della condotta del tentativo, vuoi perché, come si è rilevato, il riferimento alla oggettività della condotta è già implicito nel principio generale di materialità del reato, vuoi perché, nel contesto specifico della definizione dello schema di legge-delega Pagliaro, l’indicazione della oggettività potrebbe semmai esprimere l’intento legislativo di privilegiare l’accezione oggettivistica del requisito della direzione non equivoca degli atti. Per quanto attiene al trattamento sanzionatorio, pur non mancando ordinamenti a noi geograficamente vicini che prevedono la parificazione del tentativo alla consumazione (Austria, per certi versi Inghilterra), oppure una attenuazione di pena per il tentativo soltanto facoltativa (Svizzera, Germania), la Commissione, in considerazione del diverso peso delle offese rispettivamente causate dal delitto tentato e dal delitto consumato, ritiene preferibile mantenere il regime di diminuzione previsto dal codice penale vigente. 1.3. Per quanto riguarda l’annosa questione del dolo del tentativo, e più precisamente della compatibilità tra tentativo e dolo eventuale, la maggioranza della Commissione ritiene che la soluzione migliore sia di prendere sostanzialmente atto dell’orientamento ormai maturato dalla giurisprudenza nel senso della esclusione. In questo senso vanno del resto sia il « progetto Pagliaro » sia il « progetto Riz ». Dei due testi, la formula più corretta risulta comunque quella del primo (« chi, con l’intenzione o la certezza di cagionare l’evento, compie atti ... ») in quanto mette in luce la compatibilità del tentativo anche con il c.d. dolo diretto oltre che con quello intenzionale, a differenza invece del « progetto Riz » (« compie atti [...], con l’intenzione di cagionare l’evento »). Alcuni componenti della Commissione hanno peraltro osservato che, una volta esplicitato che il dolo eventuale dovrebbe consistere in una rappresentazione della realizzazione del fatto in termini di alta probabilità (v. retro, parte III, n. 2.1), nulla osterebbe a rendere compatibile tentativo e dolo eventuale. Se questa dovesse essere la scelta in sede di riforma, non sarebbe tuttavia, forse, necessario formulare una norma ad hoc; esaurendosi la definizione del tentativo nella indicazione dei suoi requisiti oggettivi, potrebbe trovare automaticamente applicazione la disciplina generale. 2. Desistenza volontaria e recesso attivo. — In materia di desistenza volontaria e di recesso attivo lo schema di legge-delega Pagliaro ed il progetto Riz inclinano verso la conservazione dell’esistente, limitandosi (il secondo) alla mera previsione di un più consistente effetto attenuante del recesso attivo. Il panorama europeo è caratterizzato invece dalla tendenza a parificare gli effetti dei due istituti sul terreno della non punibilità dell’autore (codice tedesco, austriaco, spagnolo, portoghese, avamprogetto del codice svizzero). La Commissione, tenuto conto di questa realtà, e considerato che fra gli obbiettivi della riforma dovrebbe collocarsi anche l’incentiva-
— 619 — zione premiale per chi si sia attivato a tutela della vittima del reato (parte VIII, n. 13), è favorevole ad allineare la disciplina italiana a quella testé indicata, prevedendo la non punibilità anche in caso di recesso attivo. Per quanto concerne il ravvedimento del concorrente, il quadro europeo rivela una analoga accentuazione verso la rilevanza dell’istituto, non solo quando si sia determinato l’impedimento del reato, ma anche quando il concorrente si sia limitato ad attivarsi in modo serio per impedire il risultato senza riuscire nell’intento. Tenuto conto di questa realtà, e considerate le sopra menzionate spinte di politica criminale, la Commissione propone di dichiarare non punibile il concorrente che sia riuscito ad impedire la esecuzione del reato, non escludendo di trattare allo stesso modo il concorrente che si sia attivato in modo serio per impedire tale realizzazione senza riuscirvi. Un cenno merita infine l’ipotesi in cui, nonostante il ravvedimento dell’autore, il reato non sia venuto a consumazione per altre cause. Secondo la disciplina vigente è difficile giungere ad una conclusione diversa dall’irrilevanza del ravvedimento, nonostante che l’esigenza della repressione penale appaia modesta. Ed in effetti negli ordinamenti stranieri è diffusa la previsione espressa della non punibilità (codice penale tedesco, portoghese, avamprogetto svizzero). Anche qui la Commissione auspicherebbe un allineamento a tali posizioni. 3. I delitti di attentato. — Sia il progetto Pagliaro che il progetto Riz affrontano il problema equiparando i delitti di attentato al tentativo quanto ad elementi costitutivi e contenuto offensivo: « per la punibilità dei delitti di attentato e dei delitti in cui la condotta tipica sia descritta come volta alla produzione di un evento lesivo, devono sussistere i presupposti e i requisiti di punibilità del delitto tentato ». Si tratta di una modifica dagli intenti di fondo condivisibili, che non pare tuttavia adeguata ad un inserimento razionale e sufficientemente ‘garantito’ di tale categoria di delitti nell’ordinamento giuridico. Ad avviso della Commissione il problema della tipizzazione dei delitti di attentato non può essere risolto con un semplice richiamo alla struttura del delitto tentato. Tale richiamo può, ad esempio, svolgere un ruolo ‘correttivo’ nelle fattispecie nelle quali l’evento finale è costituito da un risultato naturalistico in cui si concentra il disvalore lesivo del reato, sul modello di omologhe fattispecie ‘comuni’ a condotta libera (es., attentato contro il Presidente della Repubblica, offesa alla sua libertà, attentato per finalità terroristiche o di eversione, ecc.). Non lo può, invece, quando l’evento finale dell’attentato è identificato in risultati di proporzioni macroscopiche (es., attentato contro la Costituzione dello Stato, devastazione saccheggio e strage, guerra civile), ovvero direttamente nella stessa offesa al bene protetto (es., attentati contro la integrità, la indipendenza o l’unità dello Stato). In questi casi l’innesto del tentativo, ed in particolare dell’idoneità, può forse assicurare un (apparente) grado di offensività, a totale scapito, però, della tipicità della fattispecie. Rispetto ai macro-eventi la differenza di scala è tale da rendere del tutto improbabile che il giudizio di idoneità possa saldare la sfasatura, consentendo di individuare condotte sufficientemente tipiche. Alla luce di queste considerazioni la Commissione ritiene che il nodo dei delitti di attentato debba essere risolto in modo del tutto diverso da quello pensato tradizionalmente. Non già facendo ricorso a criteri generali, ma risolvendo il problema caso per caso, o per gruppi di casi, tenendo conto delle specificità di ciascun gruppo. Questo approccio si salda alla soluzione che si è testé proposta in materia di delitto tentato. In materia di tentativo si è cercato di fornire una definizione la più tipizzante possibile, in grado di superare il coefficiente di discrezionalità che connota la vigente definizione di cui all’art. 56 c.p. In materia di delitti di attentato, la cui politicità di obbiettivi di tutela è fuori discussione costituendo la ragione stessa della loro previsione nel sistema giuridico, il livello di garanzia può essere abbassato tenendo conto delle ragioni peculiari che giustificano l’adozione del modello. La scelta del modello di tipizzazione più adeguato potrà essere tuttavia trovato, come appunto si diceva, sul terreno delle scelte di parte speciale. Come è noto, i delitti di attentato si ritrovano oggi soprattutto fra i delitti contro la in-
— 620 — columità pubblica e fra i delitti contro lo Stato. Nei primi la ragione della anticipazione di tutela è ravvisabile nel carattere ultra individuale del bene protetto, e soprattutto nella diffusività di certe manifestazioni aggressive, che induce ad intervenire prima che la condotta abbia prodotto tutta la sua carica offensiva. Nei secondi l’anticipazione trova la sua ragion d’essere talvolta nel carattere ‘supremo’ di taluni beni, talaltra nell’impossibilità di subordinare la tutela alla loro lesione senza compromettere radicalmente la stessa possibilità dell’intervento penale. In entrambi i casi c’è dunque una ragione ‘politica’ della previsione del modello. La disciplina dei primi fornisce già oggi un quadro di soluzioni ispirate a grande varietà di tecniche di tutela idonee a contemperare adeguatamente le esigenze di anticipazione della tutela con quelle della tipizzazione della condotta. Tecniche di tutela riassumibili nella previsione: a) di reati di pericolo concreto, caratterizzati peraltro da un grado molto differenziato di descrittività della fattispecie, che vanno da quelle a forma libera ove il risultato è costituito dallo stesso pericolo concreto per la pubblica incolumità, a quelle a condotta vincolata o comunque sufficientemente descritta, a quelle infine ove oltre alla condotta è indicato anche un evento naturalistico intermedio; b) di reati di pericolo astratto, ove la presunzione assume gradi di verosimiglianza prognostica anche in considerazione della differente portata descrittiva della fattispecie, che può essere di mera condotta, di evento, di evento particolarmente significativo; c) di reati consistenti in atti preparatori, che sembrano peraltro ridursi alla sola fattispecie di cui all’art. 435 c.p. La previsione dei secondi presenta invece la totale assenza di analoghi dettagli tipicizzanti di previsione normativa, ma secondo una scelta politico-legislativa tradizionale appare appiattita sulle formule di stile « chiunque compie atti diretti a... », chiunque « attenta ». In questo campo il lavoro di riforma dovrebbe essere pertanto particolarmente incisivo. Esso dovrebbe avvenire distinguendo nettamente due gruppi di fattispecie, a seconda che tutelino beni « personali-individuali », oppure beni « istituzionali » o comunque « macrooffensivi » (v. retro). Realizzando nel primo l’esigenza di tipizzazione tramite la utilizzazione del criterio del pericolo concreto (l’idoneità può apparire criterio generale inadeguato in materia di delitti comuni, ma può essere utilizzato senza grandi obiezioni in fattispecie dalla forte connotazione politica). Puntando nel secondo su tecniche di definizione specifica, e quindi potenzialmente variegata, dei requisiti della condotta o dell’evento (a questo scopo si potrebbe ad esempio trarre ispirazione dall’art. 283 c.p., ove è previsto che l’attentato contro la Costituzione avvenga « con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello Stato, e dove si potrebbe ulteriormente giocare sulle due tipologie fondamentali delle condotte violente e di quelle abusive delle funzioni pubbliche, rispondenti alle aggressioni provenienti rispettivamente dagli estranei o dagli intranei). Se specifiche esigenze di tutela giuridica dovessero indurre a ritenere opportuno punire attività meramente preparatorie, nulla impedirebbe di operare in tal senso, purché attraverso una adeguata descrizione della condotta preparatoria che si intende eccezionalmente punire. VII.
CONCORSO DI PERSONE NEL REATO E REATI ASSOCIATIVI.
1. La tipizzazione delle condotte di partecipazione. — Il concorso di persone (come il tentativo ed il reato omissivo improprio) concorre ad ampliare la tipicità dei singoli reati. Tale estensione, per quanto necessaria, rischia di indebolire la tassatività delle fattispecie, onde l’esigenza che si realizzi sulla base di criteri improntati al principio di determinatezza. A differenza del tentativo e del reato omissivo improprio, che pur non sufficientemente garantiti sul terreno della tipicità, fanno comunque riferimento a requisiti intrinseci od a contenuti precettivi, l’art. 110 c.p. è norma priva di contenuti positivi, limitandosi ad operare in (generica) funzione incriminatrice ex novo di condotte atipiche e di equiparazione della pena per i concorrenti. La scelta legislativa di appiattire sul terreno della pena tutti i concorrenti, indipendentemente dalla condotta in concreto esplicata, determina d’altronde un indebolimento di tassa-
— 621 — tività anche con riferimento alla sanzione, che non risulta adeguatamente modulata tenendo conto della specificità della condotta posta in essere. L’abbandono da parte del legislatore del 1930 di ogni descrizione delle condotte concorsuali trova fondamento per un verso nel fallimento dell’esperienza registrata sotto il codice penale del 1889, per altro verso nell’adozione di un criterio causale che sarebbe stato in grado, nell’idea dei suoi compilatori, di consentire l’individuazione di ogni forma di partecipazione punibile. La valutazione espressa nei confronti della disciplina del c.p. Zanardelli può essere condivisa. La combinazione della descrizione delle figure concorsuali con la previsione di un trattamento sanzionatorio differenziato si era infatti risolto in soluzioni compromissorie e in definizioni evanescenti, che avevano condotto ad arbitrio e, soprattutto, avevano innescato un meccanismo per cui il giudice, con una evidente inversione logica, qualificava la condotta alla luce della pena che intendeva infliggere. Il ripudio di tale disciplina non implicava però necessariamente l’accoglimento della soluzione causale nei termini generici espressi dall’art. 110. La problematica del concorso si scinde infatti in due profili, l’uno concernente la descrizione delle condotte punibili e l’altro il trattamento sanzionatorio. E il carattere insoddisfacente di una loro congiunta regolamentazione non escludeva una diversa disciplina intesa a mantenere la determinatezza delle forme di partecipazione e a ricercare per altra via una loro diversificazione sul piano della pena. Sul piano comparato, una soluzione differenziata è accolta ad esempio dal codice francese, che definisce il complice come « colui che consapevolmente, mediante aiuto o assistenza, ha agevolato la preparazione o la consumazione di un crimine o di un delitto. È egualmente complice colui che con doni, promesse, minacce, ordini, abuso di autorità o di potere, abbia provocato taluno all’illecito o dato istruzioni per commetterlo » (art. 121.7; similmente dispone l’art. 67 del codice belga; una elencazione delle condotte di concorso è invece contenuta nel § 25 ss. del codice tedesco, nel § 12 del codice austriaco e nell’art. 26 s. del codice portoghese). I vantaggi di tale soluzione possono cogliersi nella sua funzione orientativa nei confronti del giudice, e nell’onere di motivazione conseguente alla qualificazione del partecipe come complice morale o materiale; tali vantaggi acquistano poi ulteriore consistenza a fronte della situazione vigente in Italia, ove l’adozione di un modello indifferenziato ha esaltato il ruolo creativo della giurisprudenza e la figura del concorrente è divenuta l’archetipo di ogni affermazione di responsabilità ai sensi dell’art. 110 c.p. È significativo, d’altronde, il fatto che al momento di procedere nella parte speciale alla tipizzazione delle condotte di partecipazione al suicidio (art. 580), il legislatore non ha utilizzato l’ambigua formula « chiunque concorre », ma ha preferito prevedere, « accanto alla determinazione che si riferisce ad un’attività diretta a formare l’altrui proponimento, anche il rafforzamento di questo, e cioè qualsiasi attività diretta a rendere definitivo un proposito già formato » nonché « l’agevolazione, in qualsiasi forma prestata, alla esecuzione della volontà suicida ». Un chiaro segnale della opportunità di un’espressa previsione delle condotte concorsuali, dal quale è derivato un incentivo per la giurisprudenza a ricostruire la causalità delle condotte di partecipazione al suicidio con una profondità che non conosce confronti rispetto alle problematiche generali del concorso di persone nel reato. La opzione « causale » proposta dal legislatore del 1930 come soddisfacente criterio di tipizzazione delle condotte concorsuali ha dato invece, come era prevedibile, pessima prova di sé. Alla luce di un consolidato orientamento, la Cassazione ha affermato genericamente la punibilità di ogni « contributo di ordine materiale o psicologico idoneo, con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione dell’azione criminosa posta in essere da altri soggetti ». E con una sentenza che può essere considerata la sintesi delle opzioni teoriche e politico-criminali della Suprema Corte è stato deciso che « perché si configuri la fattispecie del concorso di persone non è necessario che il contributo di ciascuno si ponga come condizione, sul piano causale,
— 622 — dell’evento lesivo. Infatti la teoria causale del concorso contrasta con il dettato dell’art. 110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa sul concorso adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti che di per sé ne sarebbero privi quando abbiano in qualsiasi modo contribuito alla realizzazione collettiva; mentre, d’altro canto, lo stesso codice, con la previsione dell’attenuante della minima partecipazione al fatto, ammette la possibilità di condotte non condizionali, non potendosi considerare condizione indispensabile per la realizzazione di un reato un’attività di minima importanza. In quest’ottica, ai fini della sussistenza del concorso deve ritenersi sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e, in sostanza, che il partecipe, per effetto della sua condotta idonea a facilitarne l’esecuzione abbia aumentato le possibilità di produzione dell’evento, perché in forza del reato associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti » (Cass., 11-3-1991, in Riv. pen., 1992, 498). Questo criterio amplissimo, che dà rilievo a contributi anche non rigorosamente causali, fa rilevare sul terreno del concorso condotte che si sono limitate ad incrementare il rischio della produzione dell’evento, concede indiscriminata rilevanza ad ogni condotta agevolatrice o di rinforzo, deve essere superato in sede di riforma. Attraverso una norma che dia invece rilevanza soltanto a condotte sicuramente causali in ordine alla condotta di un altro concorrente o al comune evento criminoso attraverso una dettagliata descrizione delle condotte tipiche. In via esemplificativa, una formulazione possibile che tenga conto delle sopramenzionate esigenze di tipicizzazione degli apporti causali potrebbe essere la seguente: concorre nel reato chiunque abbia partecipato o istigato alla sua esecuzione ovvero rafforzato il proposito di altro concorrente o agevolato l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza. Essa concorrerebbe a delineare con una certa precisione i contorni del contributo di tipo materiale, individuato nella ‘partecipazione’ e in una ‘agevolazione’ qualificata dalla menzione delle condotte di aiuto o assistenza. E porrebbe le basi per affrontare entro confini anch’essi delineati il problema della rilevanza del concorso morale: dovrebbe trattarsi di istigazione alla esecuzione (cioè di condotta che influisce direttamente sull’esecuzione del fatto) o di rafforzamento del proposito di altro concorrente, una sottolineatura che dovrebbe marcare la necessità che sia effettivamente provato che la condotta dell’agente ha cagionato un rafforzamento del proposito dell’altro concorrente incidendo concretamente sulla realizzazione del fatto di reato (con conseguente esclusione di responsabilità penale ove questa prova non sia stata raggiunta, ove esista soltanto la prova della idoneità della condotta posta in essere a determinare il rafforzamento del proposito ma non quella del rafforzamento realizzato, ove vi sia stata mera adesione astratta o approvazione dell’altrui disegno delittuoso senza avere contribuito positivamente all’illecito, ove l’attività psichica sia risultata ininfluente perché rivolta ad un soggetto già pienamente determinato o perché l’esecutore ha agito sulla base di diverse motivazioni). L’esigenza di una riforma dell’istituto del concorso di persone nel reato nella duplice direzione di identificare le condotte di partecipazione secondo principi di maggiore determinatezza, e di ricondurre la responsabilità del compartecipe nell’ambito del principio di colpevolezza è stata riconosciuta dallo schema di legge-delega Pagliaro. La Commissione ritiene che la formulazione proposta: « prevedere che concorra nel reato chi, nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva, dà un contributo necessario, o quantomeno agevolatore, alla realizzazione dell’evento offensivo. Si concorre per agevolazione solo nei casi in cui la condotta ha reso più probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell’evento offensivo », come del resto riconoscono gli stessi estensori nella relazione introduttiva all’articolato, realizzi in una misura ancora insufficiente le esigenze di tipizzazione degli apporti causali idonei a rilevare come concorso nel reato. 2. Il trattamento sanzionatorio delle condotte di partecipazione. — La maggioranza dei sistemi penali europei prevede una riduzione di pena in favore del complice (codice tede-
— 623 — sco, svizzero, spagnolo, portoghese). Tale soluzione va approvata, giacché consente di articolare le cornici edittali di pena in considerazione del disvalore oggettivo delle condotte concorrenti, mentre la soluzione unitaria ex art. 110 trasferisce la valutazione dei diversi contributi sul piano della commisurazione della pena, realizzando una indebita assimilazione tra il fatto e la personalità dell’imputato, che vale a spiegare anche la desuetudine in cui è caduto l’art. 114 c.p. Tuttavia, l’esperienza comparata dimostra anche come la diminuzione della pena si leghi, più che alla qualificazione nominalistica della condotta, alla sua rilevanza nel quadro della realizzazione comune; onde appare opportuno prevedere altresì una circostanza attenuante legata alla oggettiva minore importanza del contributo. Nella prospettiva delineata si colloca l’art. 28.1. dello schema di legge-delega Pagliaro, il quale ipotizza di « prevedere responsabilità differenziate per i compartecipi, non in rapporto alla forma astratta di partecipazione, ma in dipendenza del contributo effettivo di ciascuno alla realizzazione criminosa. Prevedere come circostanza attenuante l’avere apportato un contributo soltanto agevolatore alla realizzazione del reato (...) ». Qualche perplessità suscita tuttavia il riferimento della circostanza attenuante alla specifica condotta dell’agevolatore, contrapposta nel sistema dello schema di legge-delega a quella del contributo necessario. Tale differenziazione, inconferente agli effetti della determinazione del carico sanzionatorio, ove rileva esclusivamente la oggettiva minore importanza della condotta in rapporto alla vicenda concursuale, rischia oltre tutto di diventare fonte di dispute interpretative (quando, ad esempio, la fornitura di un’arma integra un contributo necessario o un’agevolazione?). In questa prospettiva si propone la previsione di una circostanza attenuante, di applicazione obbligatoria, riferita alle condotte « di rilevanza modesta ». 3. La partecipazione omissiva nel reato commesso mediante azione. — Posto che il mancato impedimento di un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale alla sua causazione attiva (art. 40 cpv.), anche la consapevole inerzia da parte del titolare di una posizione di garanzia dà vita ad una condotta causalmente rilevante rispetto all’evento. Da ciò deriva la sicura possibilità di qualificare come concorrente chi, nell’ambito di un piano criminoso concordato con altri, si impegna ad astenersi dalla condotta per lui giuridicamente obbligatoria. Qualche difficoltà si pone quando l’omissione del garante avviene al di fuori di un previo accordo. In questa ipotesi l’affermazione di una responsabilità concorsuale esige, in capo all’omittente, il dolo di concorso, cioè la volontà di cooperare con altri alla realizzazione del fatto criminoso. Tuttavia, a causa della peculiarità dell’elemento psicologico negli illeciti omissivi, tale volontà finisce con il coincidere con quella di non impedire l’evento, da qualunque ragione essa dipenda e qualunque sia l’atteggiamento del soggetto rispetto alla verificazione dell’evento stesso; donde il rischio di una sfasatura tra il dolo dell’omittente e il titolo del reato di cui è chiamato a rispondere. Né appare decisiva l’osservazione che « per evitare certi rigorismi od oscillazioni giurisprudenziali, occorre un attento accertamento dei requisiti soggettivi, cioè del dolo di concorso (es.: se la madre abbia assistito, inerte, allo stupro della figlia infraquattordicenne per paura o per compiacimento, cioè rifiutando o volendo il fatto) », giacché il problema sorge ogni volta che, senza esservi costretto, il garante rimane inerte (si noti che in tali ipotesi il dolo viene spesso desunto dal comportamento successivo dell’omittente, es., la mancata denuncia del fatto, con l’ulteriore rischio di un ricorso al c.d. dolo susseguente). La questione non consente però alcuna via d’uscita sul terreno della partecipazione criminosa, apparendo eccessivamente restrittiva sia la tesi che vorrebbe circoscrivere il concorso mediante omissione ai reati causali puri, sia la tesi che vorrebbe escluderlo in presenza di un dolo indiretto o eventuale, sia l’idea di attribuirgli rilevanza esclusivamente nei casi di previo accordo. Premessa la esigenza di carattere generale di delimitare il problema a monte attraverso
— 624 — una consapevole individuazione degli obblighi giuridici di impedire l’evento, la Commissione ritiene comunque opportuno prevedere un’ulteriore circostanza attenuante (non obbligatoria ma facoltativa) per le condotte omissive, disponendo che la pena può essere diminuita per le condotte omissive concorrenti nel reato commissivo fuori dei casi di previo accordo. 4. Le circostanze ex artt. 111 e 112 c.p. — Con riferimento all’oggetto dell’art. 111 la Commissione riconosce l’opportunità di prevedere una norma specifica al fine di evitare incertezze applicative, sottolineando l’esigenza di raccordare la disciplina con quella cui si opterà rispetto agli attuali artt. 46, 48 e 54. Si conviene comunque sulla linea grosso modo tracciata dallo schema di legge-delega Pagliaro: le disposizioni sul concorso di persone si applicano anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non è punibile per cause personali; la pena è aumentata per colui che determina al reato la persona non imputabile o non punibile. Con riferimento alle circostanze aggravanti si propone la sostituzione della vigente ridondante previsione dell’art. 112 con una disciplina più semplice: la pena è aumentata a carico degli organizzatori e dirigenti dell’attività criminosa nonché di coloro che abbiano determinato al reato persone a loro soggette o di ridotta capacità. 5. Il concorso nei reati colposi. — La Commissione a) considerato che la previsione dell’istituto risulta confermata sia dal progetto Pagliaro sia da quello Riz, mentre in dottrina è da tempo aperto il dibattito relativo alla opportunità di una abrogazione della norma, b) ritenuto che le ragioni addotte a sostegno del mantenimento non appaiono decisive, in quanto riguardano una (presunta) funzione incriminatrice dell’art. 113 che risulta comunque adempiuta dalla previsione generale del concorso di persone nel reato e dei reati colposi, c) considerata altresì l’assoluta originalità della norma nel contesto europeo, si è orientata nel senso della abrogazione. A fronte delle univoche posizioni assunte sul punto dalla Cassazione, riterrebbe altresì inopportuno prevedere un concorso colposo nel fatto doloso altrui. 6. Istigazione e accordo non seguiti dalla commissione del reato. — La Commissione ritiene utile mantenere la formulazione relativa all’impunità dell’istigazione e dell’accordo non seguiti dalla esecuzione del reato, osservando che il tema dovrebbe essere affrontato, unitamente a quello del reato impossibile, nella prospettiva di una generale enunciazione del principio di necessaria offensività. 7. La responsabilità del partecipe per il reato da lui non voluto e il concorso nel reato proprio. — Si rinvia a quanto già esposto in materia nel capitolo dedicato alla eliminazione delle ipotesi di responsabilità oggettiva o anomala (parte III, n. 4.2). 8. La disciplina delle circostanze e delle cause di giustificazione. — Lo schema di legge-delega Pagliaro dispone all’art. 30: « prevedere che si comunichino ai concorrenti soltanto le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive che siano servite ad agevolare l’esecuzione del reato »; analoga statuizione si rinviene nel progetto Riz. Si tratta di una opzione che recepisce le critiche rivolte dalla dottrina all’art. 118 e gli esiti interpretativi cui è pervenuta la più recente giurisprudenza, e deve dunque essere condivisa attraverso la proposta di una norma — destinata a ricomprendere i vigenti artt. 118 e 119 — grosso modo formulata nei seguenti termini: le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive che sono servite ad agevolare la commissione del reato, hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato. 9. I reati associativi. — La Commissione è concorde nel rilevare l’esigenza di procedere ad una caratterizzazione del concetto di associazione attraverso la sua idoneità a perdurare nel tempo. In sede di sessione plenaria alcuni commissari hanno sostenuto, senza sollevare obbiezioni, che l’organizzazione criminosa oltreché dalla sua idoneità a perdurare nel tempo dovrebbe essere caratterizzata dalla sua idoneità a realizzare i reati scopo.
— 625 — Per contro, si sono delineati diversi orientamenti rispetto alla possibilità di restringere l’ambito applicativo della fattispecie di associazione per delinquere mediante una specificazione delle tipologie dei reati per la cui commissione è costituita l’associazione, ovvero attraverso un limite generale riferito al massimo di pena edittale prevista per il reato-scopo. Per quanto riguarda i rapporti intercorrenti tra il reato di associazione e la problematica del concorso esterno, dopo ampia discussione la maggioranza della Commissione ha ritenuto preferibile proporre una tipizzazione, conforme ai risultati della più recente elaborazione giurisprudenziale e alle posizioni di una parte della dottrina, delle nozioni di associato e di concorrente esterno. In questa prospettiva ha pensato a formulazioni grosso modo di questo tipo: è associato chi è inserito consapevolmente nella struttura organizzativa della associazione; fuori dei casi di partecipazione all’associazione, le pene stabilite sono applicabili a chi fornisce un rilevante contributo consapevole e volontario al conseguimento dei fini della associazione o alla sua conservazione e stabilità. Una parte della Commissione ha sostenuto invece che una formulazione di tipo generale del concorso esterno non evita il pericolo di applicazioni eccessivamente discrezionali da parte del giudice. Pur riconoscendo la serietà del problema concernente coloro (politici, professionisti, imprenditori, ecc.) che, pur non facendo parte della organizzazione criminale, favoriscono con il loro comportamento il perseguimento dei fini della stessa o contribuiscono alla sua conservazione e stabilità, ha affermato che esso deve essere affrontato sul terreno della parte speciale attraverso la previsione di un complesso di specifiche, e quindi più tassative, fattispecie di favoreggiamento. Salvo talune proposte di modifiche formali, la Commissione non ritiene si debba intervenire sulla vigente definizione dell’associazione di tipo mafioso, che costituisce il frutto di una consolidata tradizione giurisprudenziale, essendo comunque ovvio che a tale tipo di associazione dovranno applicarsi i criteri generali di specificazione delineati per il reato associativo. Dopo ampia discussione, nel corso della quale si sono delineati contrastanti orientamenti a favore della soppressione o del mantenimento del vigente art. 416-ter, è prevalsa quest’ultima soluzione, arricchita peraltro dall’inserimento della « promessa » e della « altra utilità », la cui assenza ha finora pregiudicato l’operatività della fattispecie (« fuori dei casi di cui all’art. 416-bis, la pena ivi stabilita si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal comma 1 del medesimo art. 416-bis in cambio della erogazione o promessa di denaro o altra utilità »). Per le fattispecie associative di tipo politico si rinvia alla trattazione dei profili di riforma dei delitti contro lo Stato (parte XII). VIII.
IL SISTEMA DELLE PENE.
1. Gli obbiettivi della riforma del sistema delle pene. — Con riferimento al sistema delle pene la Commissione è stata unanime nel ritenere la assoluta urgenza di una profonda revisione del sistema delle pene attualmente in vigore, caratterizzato da una insostenibile situazione di incertezza e di ‘imprevedibilità’ della sanzione concretamente scontata dal condannato; incertezza ed imprevedibilità dovuta all’eccessivo potere discrezionale concesso al giudice penale in sede di determinazione in concreto della pena, alla mancanza di criteriguida affidabili in ordine a tale determinazione, al sovrapporsi disordinato di interventi normativi di diritto penale sostanziale, penitenziario e processuale penale in materia di irrogazione ed esecuzione delle pene, al gioco spesso irrazionale e contraddittorio di istituti premiali, di facili perdonismi, di istituti di prevenzione speciale disciplinati con non sufficiente rigore nei presupposti della loro applicazione. Sulla base di questa prima considerazione si è concordato che fra gli obbiettivi primari di una riforma del sistema delle pene dovrebbero essere considerati: a) la configurazione di un quadro normativo organico che attui una semplificazione ed una razionalizzazione della legislazione vigente; b) la conseguente delineazione di un sistema di sanzioni penali caratte-
— 626 — rizzato da requisiti di certezza e prevedibilità dei risultati, e che circoscriva per quanto possibile gli scarti fra quanto avviene al momento della irrogazione della pena e ciò che si verifica al momento della sua esecuzione; c) quale presupposto primario per ottenere questo risultato, un forte ridimensionamento del potere discrezionale del giudice, che muova da una indicazione di carattere generale che imponga, nella revisione della parte speciale, l’adozione di cornici edittali assai più contenute di quelle attuali (in questo senso si era già pronunciato abbastanza chiaramente lo schema di legge-delega Pagliaro: v. art. 58), per arrivare a significative riduzione dei margini di discrezionalità giudiziale in istituti quali il concorso delle circostanze eterogenee, il concorso formale di reati e la continuazione nel reato. 2. Una nuova articolazione delle pene. — La Commissione è stata ugualmente unanime nel ritenere che il sistema vigente delle pene, oltre a non consentire certezza e prevedibilità della loro esecuzione, risulta caratterizzato dalla assenza di una reale efficacia preventiva. Nel suo complesso è sistema astrattamente punitivo, centrato su di un meccanismo che a livello di previsione e di applicazione giudiziale privilegia la pena detentiva e prevede pene detentive astrattamente molto pesanti, ma concretamente è poco temibile a causa di un complesso intrecciarsi di istituti di diritto penale sostanziale, penitenziario e processuale che vanificano la loro efficacia. Come si chiarirà meglio in seguito, il sistema delle pene pecuniarie è a sua volta in larga misura privo di effettività. Di qui la necessità di un radicale cambiamento di rotta. La Commissione a questo riguardo ritiene che la riforma dovrebbe orientarsi lungo alcune direzione fondamentali. Mantenere la centralità della pena detentiva quale risposta sanzionatoria per i reati di rilievo, misurata comunque secondo parametri di minore gravità rispetto ai livelli di previsione vigente. Prevedere a fianco della pena detentiva un articolato complesso di pene diverse dalla detenzione in carcere, intese quali pene principali che devono essere configurate in luogo (o in alternativa) a quella detentiva dalla singola norma penale incriminatrice per i reati con riferimento ai quali esigenze di politica criminale consentono, o addirittura consigliano la rinuncia, quantomeno in prima battuta, alla pena detentiva. Punto qualificante della riforma dovrebbe essere che queste pene dovranno essere applicate direttamente dal giudice di cognizione in sede di giudizio, e non invece in fase di esecuzione da giudici diversi quali alternative alla sanzione detentiva irrogata. Si ritiene infine importante evitare che le pene siano preda troppo agevole di istituti vanificatori applicati con automatismi e senza particolari condizioni (si pensi alla attuale disciplina della sospensione condizionale della pena). Nel suo complesso questa disciplina dovrebbe condurre: a) a ridurre, se non ad eliminare, lo scarto esistente fra temibilità astratta del sistema punitivo e sua scarsa efficacia concreta, attenuando la durezza teorica delle sanzioni, ma creando un sistema concretamente più temibile attraverso la applicazione di un complesso di sanzioni effettivamente applicate; b) a contribuire, attraverso una ampia previsione ed utilizzazione delle pene alternative, ad una forte decarcerizzazione del sistema punitivo; c) a rendere comunque, nel suo complesso, più efficace il sistema di prevenzione generale. La Commissione rileva che una proposta di questo tipo, che si discosta dagli atteggiamenti tradizionali assunti dai progetti Pagliaro e Riz, è coerente con le indicazioni, sia pure circoscritte, desumibili dalla legge sulla depenalizzazione approvata definitivamente il 16 giugno 1999 (art. 10) e dal disegno di legge in dirittura di arrivo sulla competenza penale dei giudici di pace (art. 16). Ritiene che sul terreno di una proposta di largo respiro, sganciata dalle contingenze degli accadimenti quotidiani, una scelta di mitigazione complessiva della pena detentiva e di ampio uso di pene diverse dal carcere, nel quadro di un sistema finalmente efficace sul terreno della esecuzione, realizzi in modo soddisfacente le esigenze di prevenzione generale inseguite inutilmente dalle numerose leggi che, nel passato più o meno recente, hanno ritenuto di fronteggiare i fenomeni criminali emergenti con aumenti indiscriminati delle pene detentive.
— 627 — Né ritiene che un ampio abbandono della previsione della pena carceraria significhi indebolimento del sistema punitivo. Per fare un esempio fra i tanti possibili, si consideri l’omicidio colposo, e ci si domandi se a realizzare le esigenze della prevenzione generale risulti più incisiva la applicazione di una pena detentiva non elevata coperta da sospensione condizionale (accompagnata di regola da una condanna ad un risarcimento dei danni coperta a sua volta dalla compagnia di assicurazione), ovvero quella di una pena diversa (sospensione o ritiro della patente in caso di reato commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale; sospensione dalla professione in caso di reato commesso con violazione delle norme di perizia professionale, ecc.) non (sempre) soggetta a sopensione condizionale e pertanto effettivamente applicata al condannato. 3. La reclusione. — La reclusione deve mantenere un ruolo di centralità nei reati di un certo rilievo, soprattutto in quelli gravi (es., i delitti dolosi contro la persona, contro lo Stato, dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, di criminalità organizzata, ecc). La Commissione non ritiene di assumere posizione sul problema relativo alla eliminazione della pena dell’ergastolo, che è all’attenzione del Parlamento, ma comunque sottolinea la piena compatibilità di tale eliminazione con il nuovo sistema penale. Evidenzia che, allo scopo di evitare una eccessiva attenuazione della risposta sanzionatoria nei confronti dei reati più gravi, in caso di sua abolizione occorrerà ripensare le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e l’istituto della imprescrittibilità dei reati, che sganciato dalla tipologia della pena dovrà necessariamente essere ancorato a criteri di sostanza. Ritiene che occorra comunque: a) una profonda revisione delle cornici edittali, in grado di eliminare l’eccessivo potere discrezionale del giudice nella determinazione concreta della pena; b) un ragionevole ridimensionamento dei massimi edittali di pena, in assoluto (in tale direzione lo schema Pagliaro ha previsto che la pena detentiva non potesse superare i ventiquattro anni), e con riferimento a ciascun reato, rendendo semmai più congrui i minimi. Nella determinazione dei minimi e dei massimi edittali individuabili nei confronti di ciascun reato si dovrebbero d’altronde introdurre criteri di razionalizzazione, quali la previsione di « classi » di reati con cornici edittali standardizzate (es., reclusione da due a quattro anni, da tre a cinque anni, da cinque ad otto anni, ecc.), ovvero indicazioni di massima in ordine al rapporto che deve intercorrere tra il minimo ed il massimo della pena (es., massimo non superiore al triplo del minimo e comunque scarto non superiore ad un determinato ammontare di anni o di mesi di pena detentiva). Ove l’ergastolo dovesse essere eliminato, la pena detentiva sostitutiva dovrebbe essere comunque superiore alla misura massima stabilita per la reclusione (es., trenta anni). Nel caso in cui venisse confermata la presenza delle contravvenzioni (sul problema v. parte II), dovrebbe essere comunque eliminata la pena dell’arresto, secondo le linee già realizzate dalla legge di depenalizzazione approvata recentemente. 4. Le pene diverse dalla reclusione. — Nei confronti dei reati di minore gravità, o con riferimento ai quali ragioni di politica criminale sconsigliano comunque la utilizzazione della sanzione carceraria, la Commissione propone la configurazione di un complesso articolato di pene principali diverse dal carcere previste direttamente dalle singole norme penali incriminatrici con riferimento a ciascun reato, ed applicate dal giudice di cognizione con la sentenza di condanna. Alcune di queste pene potrebbero assumere esclusivamente la veste di pena principale. Altre potrebbero essere configurate come pene principali, ma essere altresì utilizzate, in ipotesi di reati puniti con la pena detentiva, come pene accessorie. Pene esclusivamente principali dovrebbero essere: a) la reclusione (da sei mesi a ventiquattro anni), b) la detenzione domiciliare (da un mese a due anni), c) la multa (nonché l’ammenda ove si mantenga la distinzione fra delitti e contravvenzioni). Pene che potrebbero assumere la veste di pene principali o di pene accessorie potrebbero essere: a) l’interdizione da uno o più pubblici uffici, b) l’interdizione da una profes-
— 628 — sione, arte o attività, c) l’interdizione da uffici direttivi delle persone giuridiche o imprese, d) l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, e) la sospensione dall’amministrazione di determinati beni, f) la confisca, g) il ritiro o la sospensione della patente di guida, h) il divieto di espatrio o di allontanamento da un Comune o da una Provincia, i) il divieto di ingresso in locali pubblici o aperti al pubblico, l) il divieto di accesso a luoghi di svolgimento di manifestazioni sportive, m) la pubblicazione o trasmissione della notizia di condanna, n) la prestazione lavorativa non retribuita a favore della collettività o il lavoro sostitutivo o socialmente utile. La scelta di prevedere pene principali diverse dalla reclusione pone problemi comuni e problemi specifici relativi ad alcune delle sanzioni non detentive configurate. Comune è la individuazione della reazione dell’ordinamento alle violazioni degli obblighi connessi alla esecuzione delle pene non detentive o interdittive inflitte e non rispettate. Problema che la legge sulla depenalizzazione e il disegno di legge sulla competenza del giudice di pace hanno risolto prevedendo un autonomo delitto punito con pena detentiva nei casi di inosservanza grave o di violazione reiterata degli obblighi, ma che può essere affrontato anche in maniera diversa a seconda del tipo di sanzione di cui si tratta e del tipo di infrazione commessa. La Commissione ha approfondito specificamente il problema nei confronti della pena principale della detenzione domiciliare, che nel quadro del sistema sanzionatorio ipotizzato dovrebbe essere lo strumento più utilizzato di sostituzione della pena carceraria. La Commissione osserva incidentalmente che questo istituto: a) nella sua qualità di pena principale eviterebbe sia le obiezioni manifestate nei confronti delle pene detentive brevi, in quanto sanzione eseguibile all’esterno del circuito carcerario, sia quelle di modesta afflittività e di ridotta capacità di prevenzione di cui è stata accusata la libertà controllata; b) potrebbe assumere il contenuto della attuale misura alternativa alla pena detentiva breve (il condannato alla pena della detenzione domiciliare non può allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora o dal luogo pubblico di cura o di assistenza indicato dal giudice, salva la autorizzazione ad allontanarsi per comprovate esigenze di vita). In tema di reazione dell’ordinamento alla violazione degli obblighi connessi alla sua esecuzione la maggioranza della Commissione ha sostenuto che essa potrebbe essere individuata nella sostituzione automatica con la reclusione per un periodo pari alla durata della detenzione domiciliare ancora da espiare in caso di allontanamento duraturo dal luogo di espiazione stabilito. Nei casi di allontanamento non duraturo, o della violazione delle altre prescrizioni eventualmente impartite dal giudice, si potrebbe prevedere che la trasformazione sia subordinata all’esito di una valutazione in concreto della gravità della violazione, allo scopo di evitare una conversione automatica a fronte di microviolazioni non sufficientemente significative. Conversione automatica, o valutazione discrezionale, potrebbero essere affidate al magistrato di sorveglianza, come avviene oggi per le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Con riferimento alla inosservanza delle prescrizioni implicite nella inflizione delle pene interdittive (es., professionista sospeso che esercita la professione) occorrerebbe pensare a soluzioni analoghe, riferite alla specificità ed alla gravità di ciascuna infrazione, che potrebbero andare dalla previsione di un autonomo reato in caso di infrazione punito a sua volta con la reclusione o con una sanzione diversa (es., detenzione domiciliare), alla applicazione di sanzioni minori quali una pena pecuniaria in aggiunta alla esecuzione totale della pena interdittiva inflitta, o ad un incremento della durata della pena interdittiva stessa. Con riferimento alla pena della prestazione di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività o del lavoro sostitutivo o socialmente utile la Commissione ritiene di dovere richiamare innanzitutto la attenzione sulle condizioni cui dovrebbe essere comunque subordinata una proficua utilizzazione dell’istituto: la approvazione di una specifica normativa ad hoc la quale preveda la regolamentazione e/o la stipulazione di convenzioni con gli enti pubblici e privati che dovrebbero essere coinvolti nella utilizzazione dei condannati, la previsione di una copertura assicurativa per il caso di infortuni o danni cagionati a terzi o all’ente,
— 629 — indicazioni sulla natura del rapporto di lavoro, sulle responsabilità connesse, sugli obblighi di riferire alla autorità giudiziaria gli inadempimenti e le violazioni commesse dal condannato, e quant’altro appaia utile per evitare che la sanzione, pur prevista astrattamente, risulti di fatto impraticabile. Al riguardo non è inutile ricordare che sulla carta il lavoro sostitutivo è già previsto dalle norme sull’ordinamento penitenziario, ma è rimasto inattuato proprio a causa della mancanza delle condizioni per il suo funzionamento. Quanto al contenuto, taluno ha sostenuto che la prestazione dovrebbe essere misurata in ore-lavoro/attività, con possibilità di svolgimento continuativo o in un periodo ‘concentrato’ oppure diluito nel tempo libero e/o nel fine settimana, allo scopo di soddisfare le esigenze di vita del condannato. In caso di inosservanza, si potrebbe pensare alla sua conversione (dell’intero o del residuo) in detenzione domiciliare, o alla previsione di un delitto punito con analoga pena. Si può infine rilevare che l’istituto, oltre che essere previsto come pena, può entrare a fare parte delle misure cui subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena, o essere considerato strumento di conversione della pena pecuniaria non pagata. Nel concludere, la Commissione osserva che la scelta compiuta a livello generale di prevedere un ampio spettro di pene principali sostitutive della reclusione dovrà trovare modalità e confini di realizzazione nelle opzioni di parte speciale. Nell’impossibilità di affrontare in questa prima fase di lavoro i problemi connessi a queste scelte, si limita a prendere atto di quanto è stato elaborato dalla Sotto-commissione in via meramente esemplificativa, e senza nessuna pretesa di definitività. 5. La pena pecuniaria. — In tema di pena pecuniaria la Commissione rileva innanzitutto la sua attuale pressoché totale inefficacia. Quando essa è sospesa condizionalmente non esercita pressoché nessuna funzione preventiva (salva la perdita di una possibilità nella reiterazione della sospensione stessa). Fuori dai casi di oblazione, emerge che la multa e l’ammenda risultano in larghissima misura ineseguite: dalle indicazioni statistiche desumibili dall’annuario 1997 del servizio informativo del casellario giudiziale si ricava che a fronte di 2.257 miliardi di pene pecuniarie da riscuotere, in sette anni sono stati riscossi meno di 84 miliardi. Anche se questi dati sono condizionati dalla circostanza che comprendono anche la condanna a multe elevate congiunte alle pene detentive per reati con riferimento ai cui autori la riscossione è di regola impraticabile (si pensi alla materia degli stupefacenti), essi sono comunque stupefacenti, tanto più preoccupanti ove si consideri che a fronte dei costi affrontati dallo Stato per la riscossione quest’ultima si conclude verosimilmente in una perdita finanziaria per le casse pubbliche. Muovendo da queste considerazioni, la Commissione ritiene di potere procedere ad un primo gruppo di proposte di riforma: a) mantenere la pena pecuniaria, ma escludere, in via di principio, la applicazione congiunta con la pena detentiva, secondo uno schema già proposto dal progetto Pagliaro (con la precisazione che problema diverso concerne la, doverosa, ricerca e recupero dei proventi della attività criminosa, che deve esser perseguita con indagini patrimoniali e conseguente sequestro e confisca). b) assegnare alla pena pecuniaria minimi edittali non irrisori e soprattutto escluderla dalla sfera di azione della sospensione condizionale della pena. c) ammettere che la pena pecuniaria possa essere prevista in alternativa a quella detentiva, nella prospettiva di un allargamento della oblazione ai delitti puniti con pena pecuniaria alternativa. d) prevedere forme di pagamento tempestivo della pena pecuniaria definitivamente irrogata, con automatica trasformazione in sanzione diversa in caso di inadempimento. In questa prospettiva la Commissione ipotizza la possibilità che al condannato sia concesso un congruo termine (es., trenta giorni) per pagare, con possibilità di ottenere una rateizzazione ove dimostri di non essere in condizioni economiche che gli consentono di pagare in una unica soluzione; che trascorso tale periodo la pena pecuniaria sia automaticamente conver-
— 630 — tita in libertà controllata o in lavoro di utilità sociale (con eventuale possibilità di pagamento tardivo con l’aggravio di spese ed interessi). Nel corso della discussione era emersa anche l’ipotesi, superata, di prevedere un versamento anticipato da parte dell’imputato prima del giudizio, o dopo la sentenza di primo grado (pendente l’appello), di una somma a titolo cauzionale per garantire almeno in parte l’esecuzione della pena definitiva, con restituzione in caso di assoluzione. La Commissione ha ulteriormente discusso sulla opportunità di utilizzare il meccanismo dei tassi giornalieri previsto dal progetto Pagliaro. Alcuni commissari si sono dichiarati favorevoli alla introduzione di questo sistema, utilmente sperimentato in alcune legislazioni europee. La maggioranza della Commissione, pur ritenendo che in astratto si tratti di modello ineccepibile, ha espresso forti perplessità sulla opportunità di inserirlo nel contesto italiano, stante le peculiari caratteristiche del nostro sistema fiscale che non è in grado di assicurare certezza sui redditi. Si è infine convenuto sulla opportunità di prevedere criteri di determinazione in concreto della pena pecuniaria che tengano conto delle condizioni economiche del condannato (v. oltre n. 9). 6. La confisca. — In merito alla collocazione ed all’oggetto della confisca nel nuovo quadro sanzionatorio vi è stata ampia convergenza nel giudicare incongruo il suo inquadramento fra le misure di sicurezza, trattandosi di situazioni in cui più che di ‘pericolosità sociale del reo’ si dovrebbe parlare di ‘pericolosità’ della cosa. Nel contempo, pur riconoscendo alla confisca una funzione preventiva, alla maggioranza dei commissari non è sembrata accoglibile la proposta, avanzata da taluno, di una utilizzazione dell’istituto per la neutralizzazione delle risorse patrimoniali di ingiustificata provenienza: il trasferimento nel codice di una normativa riecheggiante l’art. 12-sexies L. 7 agosto 1992 n. 356 (modificato dalla L. 8 agosto 1994 n. 501) non è stato giudicato compatibile con le indicazioni della Corte costituzionale, e comunque ammissibile oltre la discutibile realtà delle misure di prevenzione. Questo precisato, la Commissione propone di considerare la confisca non più come una misura di sicurezza, ma come una pena, a seconda dei casi accessoria o principale, concernente singoli beni tassativamente indicati dalla legge. Quanto alle modalità di irrogazione la Commissione suggerisce l’abolizione degli attuali ambiti di discrezionalità giudiziale, prevedendo sempre la sua obbligatorietà, ed eliminando l’incongruità della differenza di disciplina fra confisca del prezzo del reato e confisca del prodotto, profitto e delle cose strumentali all’attività criminosa. Quanto all’oggetto, salva, di regola, l’esclusione dell’istituto in caso di appartenenza a persona estranea al reato, in ordine al ‘profitto’ la Commissione giudica proponibile un’estensione a tutti i reati produttivi di profitto della disciplina attualmente delineata dall’art. 644 u.c. c.p. in materia di usura: stabilendo cioè che in caso di irreperibilità del prodotto o del profitto vero e proprio del reato la confisca possa coinvolgere, per un importo pari al valore del profitto realizzato, somme di denaro, beni od utilità di cui il condannato abbia, anche per interposta persona, la disponibilità, salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento. 7. La sospensione condizionale della pena. — La maggioranza della Commissione ritiene, sul solco di quanto previsto dallo schema di legge-delega Pagliaro, che la sospensione condizionale della pena debba essere sottoposta a una o più condizioni, in modo che il condannato avverta concretamente di avere subito una condanna e di essere sottoposto ad una prova. In questa prospettiva da un lato si propone che quando vi sia una persona danneggiata, anche in assenza di costituzione di parte civile, la sospensione condizionale debba essere subordinata al pagamento di un risarcimento del danno, parziale e provvisorio, e che in caso di rifiuto da parte della persona danneggiata ad accettare tale pagamento il giudice stabilisca il versamento di una somma equivalente su di un istituendo fondo per le vittime dei reati. Dall’altro si sostiene che l’imposizione di altri obblighi potrebbe avvenire sulla fal-
— 631 — sariga di quanto stabilito in materia di affidamento in prova al servizio sociale (es., prestazione di attività socialmente utili). Alcuni commissari hanno obbiettato che una disciplina di questo tipo sarebbe eccessivamente rigorosa. In particolare, che la introduzione della problematica del risarcimento del danno in materia di sospensione condizionale susciterebbe problemi, specie nei casi in cui intervengano le compagnie di assicurazione; che la imposizione di condizioni non dovrebbe comunque mai essere prevista obbligatoriamente, ma essere valutata discrezionalmente dal giudice caso per caso; che, piuttosto, si potrebbe prevedere la revoca della sospensione condizionale in caso di grossolane ed ostinate violazioni delle prescrizioni eventualmente inflitte. La Commissione è orientata a negare la sospensione condizionale delle pene pecuniarie. Quanto al problema della sospendibilità delle pene accessorie, vi è consenso generale sul fatto che l’estensione automatica introdotta con la novella del 1990 è d’ostacolo ad una opportuna graduazione della risposta penale nei casi in cui l’effettiva applicazione di sole pene accessorie appaia sufficiente a realizzare i fini dell’ordinamento. In questa prospettiva una parte della Commissione suggerisce la introduzione di un sistema elastico, che consenta, occorrendo, di distinguere ai fini della sospensione tra pena principale ed accessoria; altra parte auspica invece il ritorno alla vecchia disciplina. Si è altresì convenuto sulla opportunità di prevedere limitazioni alla utilizzazione dell’istituto nei confronti della restante gamma di pene principali diverse dalla reclusione, tenendo conto delle situazioni specifiche in cui esse saranno chiamate ad operare. Per ciò che concerne l’ambito di applicazione, la Commissione rileva che i suoi limiti devono essere individuati facendo riferimento ad un massimo di pena coerente con la riduzione prevista dei limiti edittali. In materia di ripetibilità essa concorda sulla conferma del sistema vigente (ripetibilità una seconda volta, alle condizioni di cui all’art. 164 comma 1 e ultimo). Ove più sentenze di condanna a pena sospesa siano pronunciate per reati unificabili in un unico cumulo giuridico, la sospensione condizionale dovrebbe essere considerata concessa una sola volta. Si propone infine di attribuire rilevanza all’intervenuta riabilitazione, eliminando l’effetto ostativo previsto dall’art. 264 comma 2 c.p. 8. L’oblazione. — La Commissione rileva preliminarmente come l’istituto della oblazione non trovi riscontro nei codici penali tedesco, austriaco, spagnolo, portoghese e francese, il che dimostra il suo superamento da parte dei più recenti ordinamenti penali europei. Per contro lo schema di legge-delega Pagliaro pone l’oblazione tra le « cause di estinzione degli effetti penali », prevedendo « l’opportunità di prevedere l’oblazione, sia in forma automatica sia in forma discrezionale, non solo per le contravvenzioni ma anche per i delitti », mentre il progetto Riz si limita a considerare la oblazione automatica come causa di estinzione delle contravvenzioni. Entrando nel merito del problema la Commissione osserva che una causa estintiva automatica sul modello del vigente art. 162 c.p. presuppone la previsione di reati lievi, al punto che la loro definizione giudiziale possa essere rimessa alla volontà dispositiva dell’interessato. Nel quadro di un orientamento diretto a realizzare un diritto penale inteso quale extrema ratio di tutela, il sistema non dovrebbe annoverare fatti di entità minima, tali da giustificare la loro automatica estinzione in un ambito transattivo delle pretese economiche della amministrazione. Ciò significa che, se non vuole entrare in contraddizione con sé stessa, una riforma ispirata ai canoni di sussidiarietà (extrema ratio) non può prevedere fatti di reato suscettivi di essere sottoposti ad un regime di oblazione automatica, che deve essere pertanto eliminata. Al riguardo non è superfluo osservare che anche sul versante dell’illecito amministrativo si registra una tendenza alla riduzione del c.d. pagamento in misura ridotta (art. 16 L. n. 689/81): un recente esempio è offerto dagli artt. 188, 190 e 196 del D.Lgs. n. 58/98. Tali considerazioni non valgono per la vigente oblazione speciale regolata dall’art. 162bis c.p., il cui mantenimento futuro può trovare una giustificazione su piani diversi. La sopravvivenza di contravvenzioni sanzionate alternativamente con pene detentive
— 632 — (detenzione domiciliare) o interdittive e pecuniarie consentirebbe di conservare alla oblazione lo spazio operativo previsto dall’attuale art. 162-bis c.p. In ogni caso, la Commissione ritiene che siano maturi i tempi per proporre l’estensione dell’area di operatività dell’istituto ai delitti puniti con pena pecuniaria, eventualmente alternativa a pena detentiva o interdittiva, alla condizione che la pena pecuniaria sia astrattamente determinata in misura tale da svolgere la sua connaturata funzione preventiva anche in ipotesi di estinzione del reato mediante oblazione. Ipotizzato il mantenimento del modello disciplinato dall’art. 162-bis c.p., la Commissione ritiene opportuno confermare, nonostante le perplessità manifestate da una parte della dottrina in ordine al rispetto dei principi di legalità e certezza del diritto, il potere-dovere del giudice relativo al previo accertamento della inesistenza e della eliminazione di conseguenze dannose o pericolose del reato e della non particolare gravità oggettiva del fatto. Così ridefinita la portata della oblazione, è evidente che essa verrebbe a svolgere, al di là della sua oggettiva funzione deflattiva dei processi penale, una specifica funzione incentivante rispetto al soddisfacimento delle pretese risarcitorie della vittima ovvero alla restaurazione del bene offeso, ed in questa prospettiva potrebbe anche trovare una collocazione diversa da quella attuale. 9. La commisurazione della pena. — La Commissione rileva che la disciplina in vigore, caratterizzata da una opzione teorica apparentemente ispirata ad un modello di discrezionalità vincolata (artt. 132 e 133), ma da una situazione concreta contraddistinta da una discrezionalità incondizionata del giudice, elude le più elementari esigenze di legalità e di certezza del diritto. Le cause di questa situazione sono individuabili da un lato nella stessa legislazione penale, che: a) nell’art. 133 c.p. enuncia criteri di carattere onnicomprensivo, e pertanto già di per sé poco orientativi; b) non indica chiavi di lettura finalistiche degli stessi, consentendo quindi possibili utilizzazioni di segno diverso; c) prevede limiti edittali di pena troppo ampi, consentendo margini eccessivi di discrezionalità già con riferimento alla determinazione della pena in concreto per i singoli reati; d) con le riforme introdotte a partire dagli anni settanta (novella del 1974, riforma penitenziaria, legge 689/81) ha dilatato il potere discrezionale del giudice rendendolo in molti casi arbitro della pena in concreto. Dall’altro nell’instaurarsi di una prassi nella quale l’obbligo di motivazione, pur previsto, è largamente eluso, per cui i criteri seguiti concretamente dal giudice non sono di regola leggibili. Ulteriore elemento distorcente è ravvisabile nello squilibrio delle pene, rispetto alla cui severità l’intervento giudiziario si è posto spesso in chiave di (problematica, e soprattutto casuale) correzione equitativa. La Commissione ritiene che presupposto indispensabile di una disciplina accettabile sia la rimozione delle cause a monte della sopra menzionata discrezionalità non vincolata: la riduzione (nel quadro di una generalizzata diminuzione del carico sanzionatorio previsto per ciascun reato) dello scarto fra minimo e massimo edittale e la eliminazione degli istituti che hanno aumentato la discrezionalità giudiziale in materia di determinazione in concreto della pena (revisione della disciplina del concorso di circostanze eterogenee, del concorso di reati e della continuazione: v. oltre). Nel corso della discussione plenaria è anche emersa la opportunità di segnalare, anche se non si tratta di materia afferente alla disciplina del diritto penale sostanziale, le distorsioni che la determinazione in concreto della pena subisce nei casi di patteggiamento. Con riferimento ai criteri ai quali ancorare la utilizzazione del potere discrezionale entro i confini assai più circoscritti che dovrebbero scaturire dalle testé menzionate modificazioni legislative, la Commissione, pur concordando sulla necessità di superare la disciplina dell’art. 133 c.p. sia con riferimento alle indicazioni di cui al primo, sia soprattutto con riferimento a quelle di cui al secondo comma, nella discussione plenaria ha rivelato un certo scetticismo in ordine alla possibilità di suggerire criteri in grado di orientare con assoluta univocità il giudice. Ritiene comunque possibile proporre una formulazione che, recependo le in-
— 633 — dicazioni desumibili dalla più moderna dottrina penalistica e dalle scelte operate da alcuni recenti codici penali europei (tedesco, austriaco, portoghese, spagnolo, francese), per la determinazione in concreto della pena faccia perno sui seguenti elementi: a) primato del principio di colpevolezza per il fatto commesso, b) considerazione, agli effetti di una possibile attenuazione della responsabilità penale individuata tenendo conto della colpevolezza per il fatto, delle finalità di prevenzione speciale enunciate dall’art. 27 comma 3 Cost. Con l’ulteriore precisazione che deve essere esclusa la considerazione della prevenzione generale, che può sicuramente porsi come criterio fondamentale di configurazione delle fattispecie di reato e delle relative pene astratte, ma non come legittimo criterio di commisurazione della pena. Su questa base potrebbe essere suggerita una formula di questo tipo: il giudice determina la pena con riferimento alla colpevolezza per il fatto; essa può essere ulteriormente diminuita in considerazione delle esigenze di prevenzione speciale. È appena il caso di rilevare la diversità tra l’enunciazione proposta del criterio di colpevolezza come base della commisurazione della pena e la formulazione del progetto Riz (che ricalca la disciplina vigente) e dello stesso schema di legge-delega Pagliaro (art. 39.1), anche se la distanza fra la impostazione proposta e quella formulata da Pagliaro si stempera considerando che l’art. 39.2 ammette la operatività dei « fattori oggettivi di aggravamento della pena » (in quanto tali non ricollegabili alla colpevolezza « solo in quanto riflessi nella colpevolezza »). Un ulteriore criterio, previsto per ragioni non commisurative in senso stretto bensì perequative, deve essere individuato per la determinazione della pena pecuniaria, rispetto alla quale il giudice deve tenere conto delle condizioni economiche del reo, con facoltà di aumentarla fino al triplo, ovvero di diminuirla fino ad un terzo, al fine di renderla, rispettivamente, nei limiti del possibile efficace o non eccessivamente gravosa. 10. Le circostanze del reato. — Rilevata l’eccessiva discrezionalità giudiziale conseguente alla disciplina vigente del calcolo delle circostanze, la Commissione propone: a) una tendenziale diminuzione delle circostanze del reato previste nella parte speciale del codice penale, la rivalutazione delle circostanze ad effetto speciale (con particolare attenzione alle ricadute della loro previsione sulla prescrizione), l’eventuale eliminazione delle circostanze attenuanti generiche; b) il superamento del sistema vigente di calcolo delle circostanze eterogenee: conformemente alle indicazioni dello schema di legge-delega Pagliaro si ritiene che tutte le circostanze debbano essere valutate, e che si debba prevedere un’apposita disciplina per il computo delle circostanze che determinano effetti diversi sulla pena; c) la valorizzazione della recidiva, con la eliminazione della sua facoltatività, anche se accompagnata da un ridimensionamento dei suoi effetti e da una eventuale cancellazione della recidiva generica. 11. La disciplina sanzionatoria del concorso di reati. — Rilevata la eccessiva discrezionalità giudiziale conseguente alla disciplina vigente del cumulo giuridico delle pene in tema di concorso formale dei reati e di continuazione nel reato, che determina fra l’altro fenomeni di aumenti insignificanti per i reati ulteriori alla infrazione più grave, la maggioranza della Commissione ritiene che il regime vigente debba essere modificato fissando un limite minimo di aumento per ciascun reato in concorso (es., un quarto della pena edittale minima, o della pena da irrogare in concreto); fermi restando il limite massimo del triplo della pena per la violazione più grave, ed i limiti generali delle singole sanzioni. Con particolare riferimento alla materia della continuazione nel reato la maggioranza della Commissione suggerisce altresì di formalizzare i fatti interruttivi della medesimezza del disegno criminoso: ad esempio, considerando interruttiva l’emissione di un provvedimento del giudice (rinvio a giudizio, condanna di primo grado, ecc.), salva la possibilità che l’interessato dimostri che la mancata conoscenza non dipende da suo dolo o colpa. Considerando le incertezze giurisprudenziali emerse anche di recente, la maggioranza della Commissione ritiene infine opportuno che il legislatore chiarisca che il cumulo giuri-
— 634 — dico debba essere effettuato: a) individuando la violazione più grave in concreto, b) operando gli aumenti di pena in termini omogenei alla previsione del legislatore (se il reato più grave è punito con pena detentiva, l’aumento per il reato satellite deve essere effettuato con riferimento alla pena, es. pecuniaria, prevista per quest’ultimo). Secondo il parere di alcuni componenti della Commissione occorrerebbe invece superare l’attuale disciplina della continuazione generalizzando il cumulo giuridico secondo l’orientamento che vanifica il contenuto del requisito della medesimezza del disegno criminoso, e che, pur fra contraddizioni, sembra ormai saldamente radicato nella giurisprudenza. Occorrerebbe cioè tenere presente che la più elevata articolazione delle sanzioni penali spinge necessariamente verso sistemi di cumulo giuridico che rimettono a criteri normativi o alla valutazione del giudice la composizione complessiva della pluralità delle sanzioni da irrogare; e che si dovrebbe comunque prevedere — come avviene attualmente in sede di cumulo — l’aggiornamento della sanzione complessiva in considerazione dell’eventuale sopravvenire di nuove condanne, nonché prevedere un limite alla confluenza di nuove condanne nel cumulo precedentemente effettuato. 12. Cenni sulla revisione della disciplina delle misure alternative alla reclusione. — In breve: a) l’affidamento in prova al servizio sociale dovrebbe recuperare la sua funzione originaria, ed essere circoscritto a pene non superiori a tre anni (o alla minor pena coerente con l’abbassamento complessivo del livello sanzionatorio) inflitte con la sentenza di condanna, e non coinvolgere residui di pene più elevate (nei confronti delle quali opererebbe la liberazione condizionale); b) la liberazione condizionale (con contenuti arricchiti) dovrebbe risultare applicabile nei confronti di residui di pena non superiori ad un certo limite (attualmente individuato in cinque anni, ma che dovrebbe essere rapportato al nuovo livello sanzionatorio complessivo); c) la semilibertà dovrebbe costituire misura propedeutica alla liberazione condizionale o un’alternativa all’affidamento in prova; dovrebbe essere mantenuto il limite della espiazione di almeno della metà della pena, con un residuo non superiore a sette anni (o meno, a seconda delle scelte concretamente effettuate in tema di liberazione condizionale); d) la liberazione anticipata (che non costituisce una vera misura ‘alternativa’) dovrebbe continuare a svolgere il ruolo attuale, ma dovrebbe essere ridimensionata sul piano degli effetti (es., trenta giorni di riduzione per semestre). 13. Incentivazione di condotte di riparazione dell’offesa. — La Commissione ritiene che in un sistema in cui la reazione penale è strumento di tutela sostanziale dei beni giuridici, e non di astratta retribuzione, meriti di essere considerata la possibilità di modulare le risposte anche in funzione di comportamenti successivi al reato, in modo da stimolare con la previsione di un trattamento più favorevole la reintegrazione di interessi non ancora irrimediabilmente pregiudicati. Le tecniche utilizzabili per raggiungere questo scopo sono individuabili nella previsione di circostanze attenuanti ovvero di non punibilità, configurate in modo tale da assicurare comunque un equilibrio con le esigenze di prevenzione generale. Nell’ambito delle circostanze attenuanti il margine di manovra appare più ampio, poiché si può trovare spazio per un rilievo attenuante di condotte risarcitorie o riparatorie al di sopra della misura normale senza che la tenuta generalpreventiva del sistema risulti vanificata a causa dell’esito comunque sanzionatorio. Per quanto concerne la previsione di eventuali cause di non punibilità l’esclusione della pena potrebbe essere collegata, senza porre a rischio la tenuta generalpreventiva del sistema, a condotte di riparazione dell’offesa realizzate entro soglie temporali che assicurino una reintegrazione ‘utile’, perché tempestiva, dell’interesse offeso dal reato, e consentano di ravvisare nella condotta riparatoria un ritorno all’osservanza del precetto violato. Questa impostazione pone comunque un rilevante problema di raccordo con la disciplina del recesso attivo, che oggi, e nello schema di legge-delega Pagliaro, consente una mera diminuzione di pena. Come già rilevato (parte VII, n. 2), la Commissione non è tuttavia
— 635 — ostile ad ammettere la non punibilità in caso di recesso attivo, considerando che tale opzione, oltre ad avvicinare il nostro sistema a quelli europei, verrebbe a privare del loro carattere eccezionale le cause di non punibilità previste dal codice per condotte successive all’offesa del bene e in grado di consentire una piena neutralizzazione di essa (ritrattazione nella falsa testimonianza, impedimento della contraffazione, alterazione di monete, ecc., ritiro dalla radunata sediziosa). Accogliendo la soluzione della non punibilità del recesso attivo, diviene d’altronde possibile riflettere sulla praticabilità del modello adottato dal § 167 del codice austriaco, che sotto la denominazione di « ravvedimento operoso » esclude la punibilità di numerosi reati contro il patrimonio (furto, sottrazione di energie, infedeltà, appropriazione, truffa, usura, ecc.) se il reo, prima che l’autorità abbia avuto notizia del fatto, volontariamente risarcisce interamente il danno da lui cagionato o si obbliga contrattualmente a risarcirlo entro un determinato periodo di tempo. Per le condotte riparatorie ‘tardive’ (successive alla scoperta della responsabilità) la loro rilevanza può essere ammessa nei limiti di una attenuante qualificata o come premessa per l’applicazione di istituti che conducano alla non punizione con qualche ulteriore costo. Con riferimento a queste condizioni ulteriori un modello è offerto dal codice portoghese, il cui art. 74 stabilisce che per i reati meno gravi il giudice può dichiarare il reo colpevole, senza applicare la pena, se a) l’illiceità del fatto e la colpevolezza appaiono diminuite, b) il danno è stato risarcito, c) alla dispensa dalla pena non si oppongono ragioni di prevenzione. Nella medesima prospettiva si può utilizzare la estensione dei reati procedibili a querela (es., rendendo procedibili a querela tutti i furti eccettuati quelli realizzati con violenza o minaccia o in danno dello Stato o di un altro ente pubblico). 14. Astensione dalla pena. — La maggioranza della Commissione non ha giudicato opportuno introdurre istituti che consentano di astenersi dall’infliggere la pena in casi in cui le conseguenze del fatto commesso abbiano gravemente colpito lo stesso soggetto agente, a cagione dell’eccessivo scarto dai principi generali che un istituto siffatto comporterebbe. Alcuni componenti della Commissione hanno invece sostenuto la opportunità di verificare praticabilità e limiti di tale istituto, ritenendolo una utile valvola di sicurezza per situazioni-limite. Una soluzione di questo tipo, introdotta, al di sotto di una certa soglia di gravità, dal codice penale tedesco, è stata recepita ed ampliata dallo schema di legge-delega Pagliaro: possibilità di astenersi dall’infliggere la pena, nei reati colposi, quando il reo abbia subito gli effetti pregiudizievoli del reato in misura tale da far risultare sproporzionata (in rapporto alla colpevolezza e alle esigenze di prevenzione speciale) l’applicazione della pena (es., incidente causato a persona cara), e nei delitti dolosi quando gli effetti dannosi si siano verificati soltanto a carico del reo. 15. Cenni sulla prescrizione. — La durata della prescrizione dovrà essere commisurata al nuovo livello ed alla nuova tipologia delle sanzioni. Attenzione dovrà essere prestata al problema della individuazione dei reati imprescrittibili, problema sul quale in Commissione sono emerse posizioni diverse, rispettivamente estensive e restrittive dell’area della imprescrittibilità. 16. La funzione rieducativa della pena. — Si tratta di principio fondamentale, che deve connotare la intera disciplina della pena, nella fase della sua previsione generale astratta come in quella della sua commisurazione ed esecuzione. Uno dei commissari avvocati ha insistito, giustamente, perché si prestasse particolare attenzione alla realizzazione di questo principio. La Commissione, pur essendo concorde nel ritenere la sua fondamentale importanza, non giudica di dovere entrare nei dettagli della sua realizzazione in un documento riassuntivo delle linee di tendenza del nuovo codice penale, ritenendo implicito che il principio in questione dovrà trovare concretamente la più estesa applicazione. Tiene comunque a sottolineare che le proposte formulate sono ampiamente ispirate all’idea della preven-
— 636 — zione speciale: basti pensare alla ampia utilizzazione di pene (anche principali) diverse dalla reclusione, a quanto rilevato in materia di criteri di commisurazione in concreto della pena (dove il principio di rieducazione costituisce parametro fondamentale di mitigazione della pena determinata in ragione della colpevolezza per il fatto), al mantenimento (e potenziamento) di sanzioni alternative specificamente finalizzate alla esigenza della rieducazione. Nel concludere la parte relativa al sistema sanzionatorio si deve dare altresì atto che due magistrati componenti della Commissione hanno sostenuto che la limitazione della discrezionalità giudiziale che scaturisce dal complesso delle innovazioni proposte condurrebbe, a loro avviso, ad un eccessivo irrigidimento del sistema delle pene, e che alcuni commissari hanno manifestato qualche preoccupazione in ordine all’eccessiva durezza che scaturirebbe dalle eccezioni previste all’operare della sospensione condizionale della pena e dalla previsione di onerose condizioni per la applicazione di tale istituto. IX.
L’IMPUTABILITÀ.
1. Necessità di mantenere la distinzione fra soggetti imputabili e non. — Pur nella consapevolezza degli aspetti di crisi dell’istituto dell’imputabilità, il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili appare irrinunciabile per un diritto penale garantista. Definita (a livello formale) l’imputabilità come assoggettabilità a pena, i problemi di disciplina attengono, innanzi tutto, alla individuazione di categorie di soggetti nei cui confronti un rimprovero di colpevolezza non può essere mosso per le loro condizioni soggettive di incapacità, e nei cui confronti non ha senso l’inflizione di una pena commisurata alla colpevolezza. La rilevazione di situazioni soggettive di ‘incapacità di colpevolezza’ è una costante degli ordinamenti penali moderni, con soluzioni, peraltro, anche fortemente differenziate. Negli anni ’80 è stata avanzata la proposta di abolire la non imputabilità degli infermi di mente con l’intento di riconoscere la loro pari dignità nello spirito della riforma avviata dalla legge 180/78; anche tale proposta, peraltro, recupera momenti di rilevanza dell’infermità quale criterio di differenziazione nell’esecuzione della pena, che per l’infermo si vuole abbia un contenuto terapeutico. La idea di affermare in via generale l’imputabilità dell’infermo di mente si rivela in realtà una scelta ideologica: la previsione di una differenziazione di situazioni soggettive e di corrispondenti modelli differenziati di risposta non può essere eliminata. 2. Questioni di tecnica legislativa. — L’effetto delle condizioni inabilitanti, cui si ricollega la non imputabilità, è definito sia nel vigente codice che nelle proposte Pagliaro e Riz come ‘incapacità di intendere e di volere’. Resta nel vago l’oggetto dell’intendere e del volere, che invece è esplicitato da formulazioni più ‘mirata’ di altri codici. La formula del codice tedesco, ripresa da codici più recenti (spagnolo e portoghese) è incentrata sul nesso fra incapacità e fatto commesso: incapacità di comprendere il contenuto illecito del fatto, e di agire in conformità a tale rappresentazione. Pur trattandosi di soluzione raggiungibile in sede di interpretazione, appare opportuno esplicitarla nel testo del codice. Per quanto concerne l’individuazione delle condizioni produttive di incapacità, sul piano della tecnica legislativa si prospettano le possibilità di una disciplina fondata sulla clausola generale dell’incapacità e/o di una tipizzazione di specifiche fattispecie di esclusione dell’imputabilità. Il codice Rocco fa uso di entrambe. Per la scelta del tipo di disciplina, vengono in rilievo esigenze in qualche misura divergenti. Da un lato, le esigenze di certezza appaiono meglio soddisfatte da una disciplina che — presupposta in via normale l’imputabilità dell’adulto — indichi le condizioni nelle quali essa sia esclusa (il che impegna il legislatore ad una tipizzazione delle cause di esclusione dell’imputabilità, atta a vincolare l’interprete più di quanto non possano fare, di per sé sole, le clausole generali della capacità o incapacità). D’altra parte, le indicazioni legislative dovrebbero
— 637 — essere, per quanto possibile, esaustive rispetto all’esigenza di ricomprendere le diverse situazioni che, alla luce del sapere scientifico e di criteri di valutazione storicamente acquisiti, appaiono incompatibili con la possibilità d’un rimprovero di colpevolezza. A tal fine appare necessario utilizzare concetti ‘aperti’, che nel rispetto del principio di legalità definiscano in modo chiaro i parametri di riferimento, consentendo un adeguamento al mutare delle conoscenze scientifiche. 3. Infermità di mente ed altre anomalie. — Il primo e fondamentale campo problematico, per la disciplina della (non) imputabilità, è quello delle situazioni soggettive di ‘non normalità psichica’. È qui che in dottrina si è ravvisata una crisi dell’istituto dell’imputabilità, per il venire meno di antiche (illusorie) certezze (il paradigma medico-nosografico) nelle scienze che si occupano della psiche, dell’infermità e del disagio psichico. Mentre il legislatore credeva di poter trarre indicazioni univoche, le applicazioni del diritto riflettono invece le incertezze della scienza psichiatrica attorno alla malattia di mente, al punto che si è potuto rilevare che il concetto di infermità di mente, utilizzato dal codice, sarebbe divenuto privo di connotazione semantica, essendo diventato inconsistente il parametro esterno di riferimento. Quanto ai contenuti, la linea di tendenza nelle applicazioni giurisprudenziali è stata, non senza incertezze, verso un cauto allargamento delle condizioni rilevanti ai fini dell’esclusione (o riduzione) dell’imputabilità: soluzioni diverse da quelle ‘pensate’ dal legislatore decenni addietro, ma consentite dalla ‘apertura’ dei concetti di malattia o infermità. Allo stesso modo i codici penali più recenti (spagnolo, portoghese) hanno introdotto formule che allargano i presupposti della non imputabilità, elencando accanto alla infermità psichica altre condizioni ritenute idonee ad incidere sulla capacità di intendere e di volere. Le proposte di riforma del codice italiano, pur con modalità diverse, hanno imboccato la medesima strada. Lo schema Pagliaro aggiunge all’infermità il riferimento ad ‘altra anomalia’, e introduce la clausola di chiusura della ‘altra causa’. Il disegno Riz mantiene una elencazione tassativa di cause di esclusione, allargata alla ‘gravissima anomalia psichica’. Entrambi aboliscono la proclamata (art. 90) irrilevanza, ai fini dell’imputabilità, degli stati emotivi e passionali: è un’indicazione di apertura a soluzioni diverse, peraltro già prospettate nei casi in cui lo stato emotivo abnorme possa ritenersi radicato in una situazione patologica. Nei dibattiti sulle proposte di riforma è emerso un orientamento critico verso l’impostazione del progetto Pagliaro che, dopo una elencazione formalmente tassativa di cause di esclusione dell’imputabilità, la rende onnicomprensiva con la previsione di chiusura di ‘altra causa’ tale da escludere la capacità di intendere e di volere. Ad avviso della Commissione l’idea guida deve essere l’adeguamento al sapere scientifico, il che fa propendere per un approccio legislativo cauto, che non allarghi, ma nemmeno blocchi in modo troppo rigido le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell’imputabilità. Esclusa l’adozione di clausole generali o troppo generiche, il testo legislativo dovrebbe utilizzare concetti in grado di rendere controllabile l’adeguamento ai saperi scientifici di riferimento. Secondo alcuni studiosi potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula del codice vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale cui essa ha dato luogo. La Commissione ritiene tuttavia preferibile un chiarimento legislativo, mediante l’introduzione, accanto alla infermità, della formula della grave anomalia psichica: ciò renderebbe più sicura la strada per una possibile rilevanza quali cause di esclusione dell’imputabilità di situazioni oggi problematiche, come le nevrosi o psicopatie, o stati momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza. Alla preoccupazione che ciò possa indebolire la ‘tenuta’ generalpreventiva del sistema penale si può rispondere che nessuna patente di irresponsabilità si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato un controllo esigibile di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell’imputabilità sono situazioni riconoscibilmente abnormi. 4. Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti. — La disciplina vigente è caratterizzata dall’imputabilità del fatto commesso in stato di ubriachezza o intossicazione da stupefa-
— 638 — centi non accidentale, che abbia provocato una incapacità piena, e dalla rilevanza, come causa di esclusione dell’imputabilità, dell’intossicazione cronica. La disciplina dell’ubriachezza non accidentale è oggetto di critica da parte della dottrina, che vi ravvisa una finzione di imputabilità contrastante con il principio di colpevolezza, e dettata da preoccupazioni di prevenzione generale e speciale che si ritiene potrebbero essere altrimenti soddisfatte. Una diversa posizione era stata espressa nella lontana sentenza (n. 33 del 1970) con la quale la Corte Costituzionale ha respinto questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92 c.p., sollevate con rif. agli art. 3 e 27 Cost., ritenendo la norma in esame non irragionevole in relazione al fine. Secondo la Corte, « l’ubriaco, che abbia commesso un reato, risponde per una condotta antidoverosa, cioè per essersi posto volontariamente o colposamente in condizione di commetterlo »; il titolo della colpevolezza, peraltro, sarebbe da individuare, in conformità alla giurisprudenza corrente, « sulla base dell’atteggiamento psicologico assunto dall’ubriaco al momento nel quale commise il fatto ». Questa motivazione evidenzia i punti di frizione con il principio di colpevolezza: da un lato, viene asserita l’antidoverosità dell’ubriacarsi, nella cui natura volontaria o colposa sarebbe da ravvisare il fondamento della responsabilità; dall’altro, il coefficiente psicologico che sorregge il fatto commesso è assunto a ‘titolo della colpevolezza’, con conseguente possibilità di affermare un ‘titolo di colpevolezza’ più grave di quello ricollegabile al fatto dell’ubriacarsi. La struttura di una simile disciplina non è quella della colpevolezza per il fatto, ma quella del versari in re illicita. Concordemente condivisa la necessità di una riforma, le soluzioni proposte sono diverse. Lo schema Pagliaro suggerisce che il soggetto « risponda per dolo se, quando si è posto nello stato di incapacità, ha agito almeno con dolo eventuale rispetto al fatto di reato, oppure per colpa, se il fatto era da lui, in tale momento, concretamente prevedibile come conseguenza di tale stato ». Questa proposta, intesa a recuperare il rispetto del principio di colpevolezza, è stata anch’essa sottoposta a critica proprio con riferimento a tale principio: si tratterebbe, si è detto, di una variante del modello del versari in re illicita, che apre problemi probatori le cui soluzioni finirebbero per seguire schemi presuntivi. Una soluzione del tutto diversa è quella, adottata dal codice tedesco, della costruzione di una fattispecie di parte speciale che incrimini il mettersi in stato di incapacità, condizionatamente alla commissione di un reato e con pena di una certa consistenza, che però non superi quella prevista per il reato commesso. Tale modello propone uno schema formale che non corrisponde alla sostanza della disciplina. Solo nella forma la condotta incriminata è il mettersi in stato di incapacità, posto che la punizione è condizionata e commisurata al reato commesso. Ma questo elemento, decisivo nel fondare e delimitare la reazione penale, è configurato come condizione obiettiva di punibilità: una frode delle etichette, che rende solo apparente il rispetto del principio di colpevolezza. Chi proponga di introdurre disposizioni specifiche sui reati commessi in stato di ubriachezza ha l’onere di rispondere a due questioni: trattandosi di derogare a principi generali, si pongono questioni di legittimità delle eventuali deroghe e di loro necessità o (quanto meno) opportunità. Il problema reale resta in ogni caso quello che il codice del 1930 ha (bene o male) risolto in modo non ipocrita con le ‘finzioni’ di imputabilità: se, e a quali condizioni, prevedere una responsabilità penale per il fatto commesso in stato di incapacità, e perciò commisurata a quel fatto. Quanto ad eventuali soluzioni specifiche, prima di pensare a soluzioni che estendano la responsabilità penale, occorre saggiare la portata dei principi generali rispetto ai quali si pone la questione dell’eventuale deroga. Schematizzando, dai principi generali deriva la possibilità di affermare la responsabilità penale per il fatto commesso in stato di incapacità piena: a) quando l’incapacità sia stata preordinata (e il fatto sia poi stato commesso nel modo preordinato); b) quando l’essersi messo (non accidentalmente) in stato di incapacità possa essere considerato infrazione di una regola cautelare rispetto al fatto poi realizzato, e questo sia stato realizzato (volontariamente o con obbiettiva violazione di regole di buon comportamento) ‘a causa’ dello stato di procurata incapacità. In tali ipotesi, appare possibile
— 639 — considerare il mettersi in stato di incapacità come condotta causale e colpevole rispetto al fatto poi realizzato. Nell’incapacità preordinata il titolo della colpevolezza dovrà essere individuata nella dolosa preordinazione. Fuori di tale ipotesi l’imputazione dovrà avvenire per colpa, anche quando il fatto sia stato poi (nello stato di incapacità piena) commesso volontariamente: il titolo di colpevolezza dovendo ravvisarsi nell’inosservanza della regola cautelare del ‘non assumere alcool o droghe’ in quella data situazione ‘di pericolo’. Relativamente all’ipotesi colposa, si pongono le seguenti questioni: a) se il mettersi in stato di incapacità possa essere considerato dal legislatore, al livello del ‘pericolo astratto’, come inosservante in ogni caso di una regola cautelare; b) se la pena prevista per i reati colposi si possa ritenere adeguata nei casi in cui il fatto sia stato realizzato volontariamente, sia pure in condizioni di incapacità piena; c) se occorra prevedere estensione di responsabilità anche per delitti dei quali sia prevista solo la forma dolosa. Quanto al punto sub a), ravvisare sempre la violazione di una regola cautelare non è né ragionevole né supportato da indicazioni di politica criminale; vi sono, peraltro, situazioni in cui un rimprovero di colpa è possibile e plausibile: situazioni in cui taluno si sia messo in stato di incapacità in un contesto ‘pericoloso’ in relazione alla attività da svolgere (es., ubriacarsi prima di mettersi alla guida di veicoli). Quanto al punto sub b), rispetto a fatti aggressivi commessi volontariamente dall’incapace non accidentale (ma rimproverabili a titolo di colpa), appare giustificata la previsione di un aumento di pena commisurato alla pena edittale per il delitto colposo. Quanto al punto sub c) potrebbe essere introdotta una disciplina ad hoc, con la previsione di pene meno severe di quelle previste per la realizzazione propriamente dolosa. L’eliminazione delle finzioni di imputabilità fa venire meno i presupposti su cui poggia la vigente disciplina dell’ubriachezza o intossicazione abituale, e rende superflua una disposizione sull’intossicazione cronica (necessaria invece, per riaffermarne il rilievo di causa di esclusione dell’imputabilità, ove si mantenga per l’intossicazione occasionale una disciplina differenziata: così lo schema Pagliaro). Gli artt. 94 e 95 del codice Rocco, che dettano una disciplina differenziata dell’intossicazione abituale e di quella cronica, sono stati oggetto di una questione di legittimità costituzionale, centrata sulla ritenuta impossibilità di distinguere le due ipotesi, e sulla conseguente natura discriminatoria delle differenze di trattamento. La Corte Costituzionale, nel rigettare la questione (sent. n. 114/98), ha esplicitamente richiamato gli auspici di una profonda revisione della materia, e sottolineato come anche le proposte di riforma mantengano l’ipotesi della cronica intossicazione come causa di non imputabilità ulteriore e autonoma rispetto all’infermità. Al di là delle incertezze circa l’individuazione dei casi in cui l’intossicazione ha inciso sulla capacità del soggetto, l’eventuale incapacità per intossicazione cronica esclude comunque una responsabilità collegata alla capacità rilevata al momento dell’assunzione di alcool o stupefacenti. 5. Minorenni. — Le proposte di riforma Pagliaro e Riz mantengono lo schema attuale, che fissa la soglia minima dell’imputabilità ai 14 anni, e fra i 14 e i 18 anni impone un accertamento in concreto della capacità, al di fuori di presunzioni in un senso o nell’altro. Il disegno Riz specifica che la non imputabilità dell’infradiciottenne dipende da accertata immaturità. Sulla soglia minima dell’imputabilità, nei codici più recenti si registrano soluzioni diverse: 14 anni nel codice tedesco; 16 anni in quello portoghese; per il codice spagnolo, i minori di 18 anni non sono penalmente responsabili a norma del codice stesso, salvo quanto disponga la legge che disciplina la responsabilità dei minorenni. Il sistema del codice Rocco intende essere un contemperamento fra esigenze di certezza, meglio soddisfatte dalla fissazione di soglie di età, ed esigenze di adeguamento ai casi singoli, di cui si tiene conto nella fascia di età ritenuta più problematica. Pur nella consapevolezza di quanto di arbitrario v’è nella fissazione di soglie d’età, e della vaghezza dei criteri per il giudizio ‘in concreto’, non si ravvisano indicazioni a favore di soluzioni diverse.
— 640 — 6. Trattamento dei soggetti non imputabili. — Il riconoscimento di situazioni di non imputabilità lascia aperto il problema della applicazione di eventuali misure di natura non punitiva. La questione non è di etichette, ma di sostanza: misure per i ‘non imputabili’, comunque denominate, non possono legittimamente essere strutturate secondo criteri ‘retributivi’, né in vista di fini di prevenzione generale. Resta uno spazio legittimo per misure specialpreventive: e di questo tipo sono (pretendono di essere) le misure previste dal codice Rocco e da altri codici anche recenti. La denominazione in uso in Italia evidenzia la finalità ‘di sicurezza’; altre denominazioni aggiungono quella del ‘miglioramento’, peraltro implicita nel carattere riabilitativo che dovrebbe caratterizzare i contenuti delle misure anche nel sistema del codice Rocco. In questo sistema le misure di sicurezza erano pensate come risposta generale al fatto del non imputabile, affidata alle istituzioni di giustizia penale, su un presupposto (la pericolosità sociale) largamente presuntivo. Venute meno le presunzioni di pericolosità, ritenuta necessaria la eliminazione degli istituti connessi previsti dal codice Rocco, resta aperta la questione se e quale spazio sia opportuno lasciare ad istituti ‘di giustizia criminale’ nei confronti delle diverse situazioni tipiche di incapacità (minore età, infermità di mente, altre eventuali situazioni di handicap). L’indicazione di fondo è quella di una riduzione delle eventuali misure al minimo strettamente indispensabile: extrema ratio rispetto agli istituti orientati alla risocializzazione o alla terapia, che del resto caratterizzano la legislazione più recente (in ambito psichiatrico, la svolta avviata dalla legge 180/78; in ambito minorile, i nuovi istituti introdotti con la c.d. procedura penale minorile, DPR 448/88). La risposta al ‘bisogno di trattamento’ del non imputabile dovrebbe competere cioè in prima istanza ad istituzioni diverse da quelle della giustizia penale. Escluso il ricorso alla pena, la giustizia ‘penale’ dovrebbe occuparsi dei non imputabili eccezionalmente, quando si ritenga assolutamente necessario il ricorso a forme di coercizione personale. Appunto nella prospettiva di una restrizione dei presupposti delle misure di sicurezza si muove lo schema Pagliaro, sia nel proporre un criterio restrittivo di pericolosità sociale (art. 36, n.1), sia nella preferenza per la misura non detentiva. Senz’altro opportuna è la precisazione che il reato commesso può giustificare la misura a condizione che sia « manifestazione della causa di non imputabilità ». Lo stesso dovrebbe aggiungersi con riferimento ai delitti temuti: anch’essi temuti in quanto probabile manifestazione del protrarsi (o ripetersi) dello stato di incapacità. Quanto alla ‘particolare gravità’ dei fatti (così lo schema di delega), è un criterio che dovrà essere specificato dal codice con l’individuazione di una cerchia selezionata di delitti, a seguito dei quali e per la cui prevenzione appaia congrua la possibilità di disporre una misura di sicurezza. Con riferimento ai minori, il DPR 448/88 già contiene una specificazione dei delitti, in relazione ai quali sia consentito applicare una misura di sicurezza, in via definitiva (art. 36) o provvisoria (art. 37). Analoga specificazione dovrà essere introdotta anche nei confronti delle altre categorie di soggetti incapaci, avendo in particolare riguardo ai delitti ‘di aggressione’ contro la incolumità o la libertà personale e ai delitti contro il patrimonio di una certa gravità. È diffusa in dottrina l’istanza di sostituire al criterio della pericolosità (ritenuto di dubbio fondamento empirico) quello del ‘bisogno di trattamento’. Tale proposta merita accoglimento, sia sul piano terminologico (evitando così il messaggio stigmatizzante in termini di ‘pericolosità’), sia su quello sostanziale della determinazione dei presupposti e del contenuto delle misure: ciascuna costruita e da applicare come risposta ad un particolare e comprovato bisogno di trattamento (terapeutico, educativo, disintossicante, e simili). L’inserzione dell’orizzonte penalistico nella prospettiva del trattamento deve tenere comunque conto della nuova prospettiva conseguente, fra l’altro, alla ridefinizione dei presupposti di applicazione della ‘misura/riabilitazione’: nel senso che il trattamento potrebbero anche essere tendenzialmente affidato, in assenza di controindicazioni, ad istituti di riabilitazione non specificamente connotati in senso penalistico (in questo senso, ad esempio, la con-
— 641 — servazione di misure di sicurezza per infermi di mente non dovrebbe significare necessariamente il mantenimento dell’ospedale psichiatrico o di altri luoghi di trattamento separati da quelli della ‘normale’ assistenza psichiatrica). Per quanto concerne le regole ‘di garanzia’, modello idoneo appare quello dello schema Pagliaro: a) accertamento concreto del bisogno del trattamento al momento del fatto e al momento dell’applicazione della misura; il nesso con tipologie circoscritte di delitti dovrebbe dare al giudizio del bisogno del trattamento, il cui fondamento empirico è molto controverso, un ancoraggio meno aleatorio; b) riesame periodico di tale bisogno; piuttosto che prevedere un termine rigido, sembrerebbe preferibile prevedere che il termine sia fissato di volta in volta dal giudice entro un limite massimo, fermo in ogni caso il riesame anche prima della scadenza quando la ragione della misura appaia venuta meno; c) cessazione della misura quando sia accertata la cessazione del bisogno di trattamento; nel caso di infermità psichica o di intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, cessazione della misura quando sia cessato lo stato di incapacità del quale il delitto commesso sia stata manifestazione. Esigenze di proporzione potrebbero portare ad introdurre un termine massimo per le misure detentive e non detentive, che potrebbe essere parametrato ai limiti edittali di pena per il commesso delitto. Una misura più prolungata (indeterminata nel massimo?) potrebbe ritenersi non sproporzionata soltanto in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l’incolumità delle persone. 7. Mantenimento di fattispecie di capacità ridotta? — Le proposte di riforma del codice italiano mantengono ipotesi di ridotta capacità, individuandone i presupposti in situazioni vicine a quelle che danno luogo ad incapacità piena, e distinguendole poi in ragione della diversa incidenza sulla capacità d’intendere e di volere (esclusione totale o grande riduzione). La questione cruciale concernente i casi di c.d. capacità ridotta è se, entro la cerchia dei soggetti imputabili, vi siano categorie per le quali appaia più adeguato un trattamento differenziato, in relazione a determinati deficit di capacità. La risposta affermativa appare plausibile, con riferimento a situazioni soggettive abnormi non al punto da dare luogo a incapacità piena. E ragionevole appare la tipizzazione usuale di tali situazioni, con riferimento agli stessi criteri adottati per definire le situazioni di non imputabilità, ed all’effetto, che ne sia derivato, di sensibile riduzione della capacità di intendere e/o di volere. In tali ipotesi, alla capacità ridotta corrisponde una minore colpevolezza e/o un minore bisogno sociale di reazione, e/o l’esigenza di trattamenti differenziati, orientati in chiave specialpreventiva (terapeutica, riabilitativa, rieducativa). Escluso per gli imputabili il ‘doppio binario’ (pena più misura di sicurezza), occorre delineare un modello unitario di risposta che, per essere rivolto a soggetti imputabili, sarà formalmente incentrato sulla previsione di una pena, ma dovrà assumere su di sé le funzioni terapeutiche, riabilitative, rieducative, ed essere fondamentalmente strutturato in vista del migliore perseguimento degli obiettivi di prevenzione speciale. Per i semi-imputabili per infermità o altra anomalia, i tratti essenziali del sistema potrebbero essere i seguenti: a) previsione di una pena diminuita nel massimo e nel minimo edittale (ciò appare coerente con l’esigenza di proporzionare la pena alla minore colpevolezza conseguente allo stato di ridotta capacità); b) previsione di modalità di esecuzione della pena orientate alla riabilitazione del condannato (terapia, disintossicazione, e simili); possibilità, in caso di successo del trattamento, di disporre la semilibertà o la liberazione condizionale anche in un momento anticipato rispetto alla regola generale (il periodo minimo di pena espiata andrà stabilito in coerenza con il sistema complessivo); c) per pene brevi, fino a x anni (4 anni?), previsione di misure sostitutive di carattere terapeutico o riabilitativo, subordinatamente al consenso del condannato, sul modello di quanto attualmente previsto dal TU sugli stupefacenti, art. 90 s. (regole possibili: in caso di esito positivo del trattamento, estinzione del residuo di pena da espiare; ove possa essere concessa la sospensione condizionale della pena, e un trattamento terapeutico o riabilitativo appaia opportuno,
— 642 — subordinare il beneficio alla accettazione di un programma di trattamento in libertà; quando un trattamento terapeutico o riabilitativo sia stato disposto come misura sostitutiva della pena, prevedere la revoca della misura nel caso in cui il condannato si sottragga in modo non irrilevante agli impegni relativi al trattamento stesso); d) una parte della Commissione ha altresì suggerito la possibilità di pronunciare sentenza di condanna con rinuncia alla pena, qualora, per la modesta gravità del fatto commesso in stato di ridotta capacità e/o per essere venute meno le condizioni soggettive che lo hanno determinato, non sussistono esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del fatto. Nei confronti dei minori imputabili, si pongono esigenze analoghe, legate alla minore colpevolezza e alla priorità della prevenzione speciale. Senz’altro giustificata la previsione di una diminuzione di pena, la questione fondamentale è individuare le misure entro le quali il giudice può scegliere quella più adeguata, in una prospettiva che, pur presupponendo il rimprovero di colpevolezza, nella scelta delle risposte sia esclusivamente orientata all’obiettivo della ‘rieducazione’ (meglio, educazione) del minore. Sotto questo aspetto, la c.d. procedura penale minorile (DPR n. 448/98) ha introdotto significative novità di diritto sostanziale: l’istituto del non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, « quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne », e, soprattutto, la messa alla prova, che può essere disposta per qualsivoglia reato, anche il più grave, in presenza di idonee indicazioni. Si tratta di soluzioni molto ‘spinte’, che danno al vigente diritto penale minorile una caratterizzazione totalmente dominata dalla finalità rieducativa. In sede di riforma si potrebbero affrontare prospettive di razionalizzazione e di coordinamento fra i diversi istituti previsti dal codice penale e dal DPR 448, e di cauta espansione (con restrizioni atte a salvaguardare irrinunciabili esigenze generalpreventive) nei confronti di ‘giovani adulti’ dell’ambito di applicazione di istituti di diritto penale minorile. X.
LA RESPONSABILITÀ DELLE PERSONE GIURIDICHE.
1. Il 25 marzo 1999 è stato approvato dalla Camera in prima lettura il DDL governativo di ratifica della Convenzione sulla lotta contro la corruzione internazionale, che contiene (art. 6) una delega al Governo per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche, relativamente ai reati di cui alla legge di ratifica (concussione e corruzione). Il disegno è ora all’esame del Senato (n. 3915 S). Nel prendere atto della scelta allo stato prefigurata a favore di una responsabilità ‘non penale’, si deve rilevare che gli istituti dei quali si prospetta l’introduzione sono direttamente raccordati al presupposto penalistico della commissione di reati, ed hanno contenuti corrispondenti a sanzioni e misure del diritto penale classico, con il quale pongono problemi di raccordo. 2. L’introduzione di un sistema sanzionatorio (penale o non penale) per le persone giuridiche in un ambito più ampio di quello imposto dalla ratifica della convenzione sulla corruzione internazionale appare condizione necessaria per la razionalizzazione di diversi istituti del diritto penale d’impresa: a) Misura delle pene pecuniarie. Nel diritto penale d’impresa i limiti edittali della pena pecuniaria sono pensati in relazione a un patrimonio cospicuo, tale supponendosi quello dell’impresa. Emblematico l’art. 21 della c.d. l. Merli, novellata nel 1995: si arriva a massimi edittali di 150 e 250 milioni di lire, che rispetto alle persone fisiche dei dirigenti o dipendenti appaiono irrealistici. Di fatto è l’imprenditore (persona fisica o persona giuridica) che di regola si accolla il costo delle sanzioni pecuniarie penali, cui è comunque sussidiariamente obbligato ex art. 197 c.p. La previsione di una sanzione pecuniaria per la persona giuridica consentirebbe una opportuna revisione delle cornici edittali, aprendo la strada alla possibilità di risposte differenziate: la persona giuridica titolare dell’impresa potrà essere destinataria di sanzioni pecuniarie anche (ma non necessariamente) molto elevate, in proporzione alla
— 643 — gravità del fatto ed al patrimonio dell’ente, mentre le sanzioni pecuniarie (penali) per le persone fisiche dei funzionari dell’impresa andrebbero opportunamente dimensionate secondo criteri più realistici e più equi. b) Oblazione. L’attuale disciplina dell’oblazione ‘discrezionale’ (art. 162-bis c.p.) è inadeguata rispetto alle situazioni nelle quali è in gioco un’attività d’impresa. In esse l’eliminazione delle conseguenze del reato può essere deliberata e realizzata solo dalla persona giuridica che gestisce l’impresa: il contravventore, anche se tuttora alle dipendenze dell’ente, non è in grado di farlo (o almeno, non autonomamente da decisioni e investimenti dell’impresa). Anche il pagamento dell’oblazione (un costo, di regola, più pesante di quello di una sentenza di condanna), quando sia agganciato a massimi edittali elevati è possibile solo alla persona giuridica. E dovrà essere pagato tante volte quanti sono i dipendenti imputati. In breve: sia con riguardo al costo dell’oblazione, sia con riguardo alla condizione ‘riparatoria’, le chiavi del meccanismo delineato dal codice vigente stanno nelle mani della persona giuridica. e non del ‘contravventore’. Questa incongruenza, che incide negativamente sulla funzionalità dell’istituto, e può comportare effetti discriminatori, può essere sanata accollando alla persona giuridica il costo dell’oblazione, e condizionandone l’ammissione a condotte ‘riparatorie’ che la persona giuridica (e non il contravventore) abbia la possibilità di realizzare. Ovviamente, essendo l’oblazione una facoltà e non un obbligo, ciò presuppone la previsione d’una sanzione pecuniaria a carico della persona giuridica. Per gli imputati persone fisiche il meccanismo dell’oblazione potrà esssere opportunamente alleggerito, sia escludendo la condizione ‘riparatoria’, trasferita a carico dell’ente, sia con l’aggancio a massimi edittali meno severi. c) Patteggiamento. Nella prassi, l’accettazione del patteggiamento viene spesso condizionata a condotte riparatorie o risarcitorie. In presenza di danni, di regola ingenti, connessi ad illeciti ‘d’impresa’, tale collegamento fa dipendere la sorte degli imputati da comportamenti dell’ente. Come nel caso dell’oblazione, si determina un intreccio ambiguo fra giudizio penale nei confronti di persone fisiche e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprio nei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati. Questo intreccio, inaccettabile, potrà essere sciolto senza pregiudizio né per l’interesse dell’imputato al patteggiamento, né per gli interessi offesi dal reato, se il collegamento fra sanzione e riparazione potrà essere riferito direttamente alla posizione della persona giuridica. d) Confisca e misure interdittive. La possibilità di disporre la confisca a carico della persona giuridica consentirebbe di inseguire il profitto dell’illecito, quando beneficiaria ne è stata la persona giuridica, presso il soggetto che di fatto lo ha conseguito. In questa direzione si sono mossi anche ordinamenti ai quali la responsabilità penale delle persone giuridiche è estranea (codice austriaco). Del pari, la previsione di eventuali misure interdittive (comunque denominate) a carico della persona giuridica consentirebbe di incidere, se e in quanto opportuno, direttamente sul contesto di attività di cui l’illecito è espressione. 3. Le osservazioni suesposte evidenziano come l’introduzione di un sistema di sanzioni applicate direttamente alle persone giuridiche sia sollecitata da ragioni interne al sistema penale. Solo l’introduzione di una responsabilità (penale o amministrativa) di tali soggetti, di contenuto assimilabile a sanzioni penali, consente un riassetto razionale delle sanzioni e di altri istituti fondamentali del diritto penale dell’impresa. Già attualmente, le persone giuridiche sono coinvolte nel sistema penale come soggetti civilmente obbligati per il pagamento delle pene pecuniarie e per il risarcimento del danno. Nella prassi il coinvolgimento va oltre (ipotesi di oblazione ‘condizionata’ e di patteggiamento per reati d’impresa). I costi sono talora assurdamente moltiplicati, in proporzione del numero degli imputati. Una razionalizzazione del sistema, con l’introduzione di sanzioni dirette per la persona giuridica, consentirebbe il superamento di tali distorsioni. 4. Il ‘diritto sanzionatorio’ per le persone giuridiche dovrebbe coprire l’intera gamma di situazioni nelle quali l’applicazione di sanzioni in capo alla persona giuridica, in aggiunta
— 644 — alle sanzioni penali per le persone fisiche, appaia necessaria per il riequilibrio razionale degli istituti del sistema sanzionatorio. Fondamentalmente, vengono in rilievo le seguenti situazioni: a) reati commessi ‘a favore’, ‘nell’interesse’, ‘per conto’ della persona giuridica, da parte di soggetti competenti a impegnarla (sul modello di quanto previsto nel DDL di ratifica della convenzione sulla corruzione); b) reati costituenti inadempimento di una garanzia dovuta nell’interesse di terzi o della collettività da soggetti operanti per l’organizzazione. Al primo gruppo appartengono prevalentemente delitti dolosi con implicazioni di carattere patrimoniale. Il secondo gruppo comprende i settori fondamentali del diritto penale d’impresa: ambiente, sicurezza del lavoro e della collettività, tutela dei consumatori; e non solo le norme del diritto penale speciale, ma anche delitti già previsti (es., delitti contro l’incolumità delle persone) o che possano essere introdotti nel codice penale. Pare ragionevole considerare come soggetti competenti a impegnare la persona giuridica (ai fini della applicazione delle sanzioni) non solo coloro che abbiano la legale rappresentanza, ma tutti coloro che, in forza di poteri attribuiti nell’ambito dell’organizzazione, siano titolari di una posizione di garanzia penalmente rilevante, o titolati ad instaurare rapporti con terzi nell’interesse della persona giuridica. Per quanto concerne la qualificazione delle sanzioni per le persone giuridiche, non si ravvisano ostacoli né di legittimità né di opportunità alla formale inserzione nel sistema penale, che avrebbe anzi l’effetto di assicurare l’applicabilità di più rigorosi principi garantisti (principi di legalità, di offensività, di colpevolezza). È questa la soluzione adottata in recenti riforme di altri paesi europei (Francia, Norvegia). La questione appare peraltro secondaria rispetto alla determinazione dei contenuti della disciplina. Il legislatore potrebbe anche, volendo, adottare un’etichetta neutra, come quella di sanzioni accessorie: accessorie rispetto ad illeciti che potrebbero avere natura sia penale che amministrativa. Verrebbe in tal modo evidenziata la specificità di un diritto sanzionatorio delle persone giuridiche, quasi tertium genus fra il penale e l’amministrativo, e insieme additata la sua possibile connessione con l’uno e l’altro sistema. 5. La tipologia delle sanzioni non può che essere quella del DDL 3915S: sanzioni pecuniarie, confisca, misure interdittive in senso lato. Le questioni attengono alla loro misura e agli ambiti e presupposti della loro applicazione. Si tratta di questioni ‘di parte speciale’, da risolvere nel contesto delle scelte di incriminazione e sanzionatorie nei singoli settori di intervento. Come indirizzi di carattere generale possono prospettarsi i seguenti: a) prevedere limiti massimi edittali per le sanzioni pecuniarie maggiori di quelli previsti per le persone fisiche, evitando peraltro irrigidimenti eccessivi; b) prevedere la confisca (obbligatoria) dei profitti che alla persona giuridica siano derivati dal reato (e che non debbano essere altrimenti oggetto di risarcimento); c) disciplinare i presupposti e la durata delle eventuali misure interdittive, prevedendone l’applicazione come discrezionale, in funzione di concrete esigenze di prevenzione, e in modo da evitare effetti eccessivamente gravosi anche per interessi di terzi. Per ragioni di prevenzione generale e speciale, si segnala la opportunità di considerare come presupposto di forti riduzioni delle sanzioni pecuniarie l’adozione da parte della persona giuridica di modelli organizzativi ed operativi idonei a prevenire reati (sistema americano). Sotto l’aspetto processuale la stretta connessione fra il sistema delle sanzioni per le persone giuridiche (comunque qualificate) e il sistema penale suggerisce di ricondurre entro il processo penale anche l’accertamento dei presupposti della responsabilità della persona giuridica e l’applicazione delle conseguenti sanzioni. Ne guadagnerebbero non solo gli interessi legati all’efficienza del modello processuale, ma anche quelli legati al diritto di difesa della persona giuridica: questa, che già può essere parte del processo penale come responsabile civile, vi sarebbe parte fin dall’inizio ad ogni effetto, e potrebbe in quella sede espletare anche in condizioni più favorevoli ogni attività difensiva.
— 645 — XI.
STRUTTURA DEL CODICE ED INDICAZIONI DEI BENI GIURIDICI.
1. La centralità del codice. — Un programma di ricodificazione penale deve porsi il problema della c.d. ‘centralità del codice’. Pensare che il codice possa nei tempi attuali aspirare ad una totale onnicomprensività della materia significherebbe ignorare le complesse esigenze e dinamiche di produzione del diritto penale odierno. Rinunciare quantomeno a contenere il fenomeno erosivo della « decodificazione » significherebbe tuttavia pregiudicare in partenza i vantaggi che può recare lo strumento codicistico. Di questa esigenza è consapevole il progetto Pagliaro, che all’art. 2, dedicato ai ‘principi di codificazione’, stabilisce che il codice « deve porsi come testo centrale e punto di riferimento fondamentale dell’intero ordinamento penale, in modo da contrastare il pericolo di decodificazione ». Condiviso l’obbiettivo, occorre verificare quali siano gli strumenti adeguati allo scopo, tenendo conto che si sconta comunque una discrepanza tra l’evoluzione delle dinamiche di produzione giuridicopenale e i rimedi disponibili per assicurare la centralità del codice. I problemi suscitati dalla c.d. « centralità del codice » sono fondamentalmente due. Da un lato si tratta di verificare se e quali siano le materie la cui tutela penale conviene rimanga fuori dal codice; la decisione, implicante valutazioni ad alto tasso di politicità, deve tenere conto del fatto che quando si opta per una tutela extra codice è verosimile che la specialità della materia spinga verso la creazione di un « sottosistema » caratterizzato da un certo grado di scollamento rispetto ai principi generali di garanzia. Dall’altro occorre valutare se ed in quale misura è possibile contenere il fenomeno del profluvio delle leggi speciali che prevedono reati che, senza avere una reale giustificazione razionale, traggono origine da fattori casuali e producono l’effetto di sovrapporsi disordinatamente al codice ponendo numerosi problemi, dal concorso di norme alla tecnica di tipizzazione delle fattispecie, alla stessa conoscibilità delle disposizioni esistenti. Il primo fenomeno pone problemi di omogeneità dei principi ispiratori dell’intero sistema penale, con il corollario di possibili cadute delle garanzie fondamentali, il secondo problemi di razionalità, di certezza e legalità dell’ordinamento, e di violazione del principio di ‘essenzialità’ del diritto penale. Le soluzioni tecniche proposte per assicurare la centralità del codice, ed una tendenziale riduzione della legislazione penale speciale, sono, ad oggi, fondamentalmente tre: a) il progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla c.d. Commissione Bicamerale, ha previsto una « riserva di codice » e « di legge organica », disponendo che « nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono » (art. 129.4). Si tratta di una indicazione dalla efficacia fortissima, perché enunciata a livello costituzionale, e destinata ad operare verso il futuro vincolando il legislatore con riferimento alla collocazione delle norme penali; b) lo schema di legge-delega Pagliaro ha escogitato un interessante meccanismo, rivolto verso il passato, e diretto a razionalizzare e semplificare il sistema penale. L’art. 13 delle disposizioni di attuazione dispone che « nei casi in cui il fatto è preveduto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti », il legislatore delegato dovrà « stabilire la non applicabilità di queste, salvo che siano state confermate con leggi delegate, da emanare nel tempo indicato per l’entrata in vigore del codice medesimo ». La relazione al progetto chiarisce che tale proposta « superando il principio che una legge generale successiva non deroga alle leggi speciali preesistenti, viene a disporre che le disposizioni contenute nel codice penale escluderanno l’applicabilità delle leggi penali incriminatrici preesistenti, anche quando queste ultime siano, per contenuto, speciali rispetto ad esse. Unico requisito è che le disposizioni del codice e le disposizioni delle leggi incriminatrici preesistenti prevedano in qualche modo lo stesso fatto ». c) si pone infine la tradizionale soluzione predisposta dal vigente art. 16 c.p.: « le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti », che, sebbene caratterizzata dai limiti evidenziati dal processo di decodificazione sotto gli occhi di tutti, ha il pregio di tendere ad una « espansione contenutistica » della disciplina e dei principi codicisti.
— 646 — La Commissione, data per scontata la utilità di una disposizione quale quella enunciata nell’art. 13 disp. trans. dello schema di legge-delega Pagliaro, ritiene soprattutto utili, in prospettiva, criteri idonei ad indirizzare, per quanto possibile, il legislatore futuro verso scelte razionali di collocazione legislativa e di selezione degli illeciti penali, nonché indicazioni di natura contenutistica in grado di assicurare omogeneità di principi di garanzia e di tecnica delle incriminazioni all’intera disciplina penale. Pur ritenendola, data la sua natura, sicuramente efficace, esprime invece perplessità in ordine alla scelta di prevedere principi di questo tipo a livello costituzionale. La proposta della Commissione Bicamerale, ad esempio, potrebbe spingere il legislatore ordinario ad inserire comunque nel codice qualunque modifica penale, anche se sostanzialmente estranea alla trama codicistica, per mettersi al riparo da censure di incostituzionalità, ma rischiando così di trasformare il codice in un raccoglitore di norme eterogenee; mentre la difficoltà di individuare una nozione precisa di « legge organica » potrebbe determinare a sua volta un incremento del contenzioso costituzionale. Vi sono d’altronde, in determinati settori (specie amministrativi), esigenze di disciplina che si manifestano in modo frammentario e progressivo, che sarebbe difficile soddisfare con l’inserimento nel codice o in una inesistente legge organica. Pur rendendosi conto dei limiti necessariamente connessi alla scelta di operare con lo strumento della legge ordinaria, che potrebbe essere derogata agevolmente da qualsiasi legge speciale, la Commissione ritiene dunque preferibile operare con norme di tale livello, auspicando che enunciati generali esplicitati in maniera forte, pur non vincolanti, potrebbero costituire comunque utili criteri di indirizzo per il legislatore. Per rendere più cogenti possibile tali enunciati si potrebbe d’altronde pensare di emanare una sorta di ‘normativa-cornice’ di carattere generale della materia. Posto che il suo rango non potrebbe che essere quello della legge ordinaria, essa ben potrebbe essere derogata dal legislatore successivo. Tuttavia, se per un verso si può immaginare una maggiore cautela di quest’ultimo ad allontanarsi disinvoltamente da una normativa del tipo di quella suggerita, per altro verso la presenza di una serie di norme-guida potrebbe rendere più penetrante un eventuale sindacato della Corte costituzionale sotto il profilo della « ragionevolezza » e della uguaglianza di trattamento della (futura) norma in deroga. Quanto ai possibili contenuti da inserire nella normativa di carattere generale, la Commissione, senza alcuna pretesa di esaustività, ha pensato ad alcune specificazioni possibili. La prima potrebbe ispirarsi al modello utilizzato dall’art. 1 della l. n. 4 del 1929 in materia finanziaria: « le disposizioni del codice non possono essere abrogate o modificate da leggi posteriori se non per dichiarazione espressa del legislatore con specifico riferimento alle singole disposizioni abrogate o modificate ». Su piano formale una norma di questo tipo perseguirebbe un obbiettivo di certezza, e contribuirebbe alla conoscibilità del precetto penale; su piano sostanziale tenderebbe a contenere il fenomeno di un allontanamento non sufficientemente meditato dal tessuto dei principi codicistici. Il rango di norma ordinaria non assicurerebbe a tale disposizione la cogenza che meriterebbe; la chiara indicazione del principio potrebbe costituire tuttavia garanzia avverso una normazione disordinata, soprattutto ove si consideri che essa concretizza un’istanza direttamente riconducibile al complesso delle previsioni costituzionali in materia penale. La seconda potrebbe ripetere, rafforzandolo, il contenuto dell’attuale articolo 16 c.p.: « le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali ». Si tratterebbe di una disposizione destinata a marcare che anche nei confronti delle norme penali previste extra codice devono valere i principi fondamentali di garanzia enunciati dal codice: legalità, tassatività, offensività, colpevolezza, tipologia e carico sanzionatorio, ecc., e finalizzata pertanto ad operare nei confronti di tecniche di incriminazione, di selezione degli interessi tutelati, di modalità della loro protezione, ecc. Secondo una parte della Commissione, a queste due disposizioni generali se ne potrebbe aggiungere una terza avente lo stesso contenuto di quella suggerita dalla Commissione Bicamerale in tema di riserva di codice o di legge organica, norma che operando a livello di legislazione ordinaria eviterebbe i rischi di un incremento del contenzioso costituzionale. Tale
— 647 — norma avrebbe una indubbia funzione sul terreno della certezza del diritto penale, tendendo ad evitare per il futuro l’attuale proliferazione di norme penali disordinatamente previste dalla legislazione speciale. Pur condividendo gli obbiettivi positivi della innovazione, altra parte della Commissione ha manifestato la preoccupazione che essa anziché contrastare, potrebbe al limite incoraggiare la previsione di sottosistemi penali caratterizzati, data la loro natura, da una relativa autonomia di disciplina rispetto a quella generale codicistica, innescando di conseguenza possibili contraddizioni con la esigenza di omogeneità in ordine ai principi generali che si tenderebbe invece a realizzare con le indicazioni precedentemente menzionate. Quanto ad ulteriori contenuti, la ‘normativa cornice’ dovrebbe arricchirsi da un lato di norme destinate a risolvere operativamente i più ricorrenti problemi sollevati dalle leggi speciali (e talvolta anche da norme contenute nella parte speciale del codice penale), dall’altro di criteri di tecnica legislativa. Sotto il primo profilo si potrebbe pensare, a titolo puramente esemplificativo, a norme: a) destinate ad introdurre meccanismi di accertamento automatico della natura circostanziata delle fattispecie punite con pena diversa dalla fattispecie-base; b) che aiutassero ad individuare la natura permanente o meno di determinati reati, quali ad esempio gli omissivi puri; c) che consentissero di individuare la natura scriminante, scusante o di mera causa di non punibilità in senso stretto; d) che tipizzassero in forma generale le posizioni e gli obblighi di garanzia penalmente rilevanti; e) che individuassero classi prestabilite di pena quanto a gravità edittale, o introducessero altri sistemi diretti a rendere più agevole il rispetto del principio di proporzione da parte del legislatore. Sotto il secondo profilo si potrebbe riassumere la disposizione del progetto Pagliaro con la quale si dettano criteri per la configurazione delle contravvenzioni (ammesso che la categoria sia destinata a sopravvivere), prevedere le contravvenzioni in contiguità con i delitti rispetto ai quali costituiscono tutela avanzata, riprendere e perfezionare alcuni dei criteri di scelta sanzionatoria e di tecnica legislativa contenuti nelle due circolari della Presidenza del Consiglio di Ministri del 19 dicembre 1983 e del 5 febbraio 1986 , od utilizzati nelle più recenti leggi comunitarie. 2. La organizzazione della parte speciale del codice. Per quanto concerne la strutturazione della parte speciale sembra innanzitutto opportuno ribadire l’obbiettivo, enunciato dal Ministro nello stesso decreto di nomina della Commissione, di una più ampia possibile delimitazione dell’ambito dell’intervento penale. La recente legge di delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale tributario, approvata definitivamente il 16 giugno 1999, rappresenta una tappa importante nella direzione indicata. Per quanto concerne specificamente il contenuto del codice penale, scontato che una profonda opera di delimitazione e ristrutturazione debba essere compiuta nel settore dei delitti contro lo Stato (sul punto v. oltre, parte XII), e che altri settori esigono una opera di semplificazione e razionalizzazione (es., delitti contro il patrimonio, delitti contro la persona, delitti contro la fede pubblica, delitti contro la amministrazione della giustizia, ecc.), o di soluzione di nodi tuttora irrisolti (es., delitti contro la pubblica amministrazione), oggetto privilegiato di scelte incisive di depenalizzazione continuerà a rimanere la (attuale) materia contravvenzionale, soprattutto quella prevista nella legislazione speciale. Per quanto riguarda la strutturazione della parte speciale, la Commissione condivide l’orientamento espresso dallo schema di legge-delega Pagliaro, secondo il quale la classificazione dei reati deve imperniarsi sul bene giuridico tutelato, nonché l’idea di organizzare la « parte speciale » secondo una prospettiva nella quale il punto di riferimento è la persona umana e non lo Stato. Pure la ripartizione nelle quattro grandi aree: a) dei reati contro la persona (comprensiva dei reati contro il patrimonio individuale), b) contro i rapporti civili, politici ed economici, c) contro la comunità, d) contro la Repubblica, merita apprezzamento, anche in considerazione del fatto che essa consente il non trascurabile vantaggio di un’eventuale tecnica di ‘inserimento progressivo’ in ciascuna di tali aree di reati che, non in-
— 648 — seribili in un primo momento nel codice per ragioni specifiche, dovessero successivamente risultare maturi per tale inserimento, sul modello di quanto è accaduto ad esempio nella legislazione tedesca e francese. La Commissione ritiene, per altro verso, che non sia opportuno imboccare la strada di una immediata ‘onnicomprensività’ del codice, tenendo conto della inopportunità di coinvolgere sul terreno della legge penale fondamentale materie che presuppongono scelte politiche ancora fortemente conflittuali (es., reati in materia di bioetica), o reati con riferimento ai quali è in corso una attività di ridefinizione legislativa, e che sarebbe pertanto opportuno inserire eventualmente nel codice soltanto una volta verificati i risultati del lavoro parlamentare, e la loro compatibilità con una disciplina di tipo codicistico (è il caso, ad esempio, dei reati fiscali, con riferimento ai quali il Parlamento ha già deciso una forte depenalizzazione ed ha delegato il Governo a configurare un ristretto numero di delitti identificati per gravità di offesa e oggetti tassativamente indicati; dei reati societari, con riferimento ai quali è in corso di elaborazione una nuova strutturazione da parte di apposita commissione governativa; dei reati ambientali, con riferimento ai quali sono stati predisposti articolati progetti di riforma). Secondo una impostazione di doverosa prudenza, si ritiene pertanto opportuno iniziare dalla ridefinizione delle materie di radicata collocazione codicistica, prevedendo un impianto comunque idoneo ad essere progressivamente arricchito da nuove materie, nel quadro di una linea politica di fondo che dovrebbe comunque tendere ad assicurare al codice penale una posizione di reale centralità nella disciplina dei settori penalmente significativi. Una parte della Commissione ritiene che la creazione di ‘sottosistemi penali’ affidati alla disciplina della legislazione speciale non sia comunque del tutto eliminabile, e talvolta potrebbe addirittura apparire opportuna, osservando che vi sono settori che difficilmente potranno trovare collocazione nel codice penale: a) quando non sia possibile scindere in modo sufficientemente netto l’apparato sanzionatorio penale dalla disciplina extrapenale di riferimento, b) quando la natura « specialistica » della materia dovesse nettamente prevalere, c) quando si tratti di interventi penali ancora troppo legati alla contingenza dei tempi per potere essere formalizzati nel testo della legge penale fondamentale. La maggioranza della Commissione, pur concordando con queste riflessioni, ritiene di dovere ribadire che nelle materie regolate da leggi speciali dovrebbero comunque trovare applicazione i principi di garanzia elaborati nella parte generale del codice penale, ed essere utilizzate le tecniche di una corretta configurazione delle fattispecie penali, fino ad oggi troppo sovente neglette dal legislatore nella disordinata configurazione di reati di legislazione speciale. XII.
ESEMPLIFICAZIONE DI RIFORMA DELLA PARTE SPECIALE: UNA NUOVA TIPOLOGIA DEI DELITTI CONTRO LO STATO.
1. Tecnica di incriminazione e tipologia dei delitti contro lo Stato previsti dal codice penale Rocco devono essere profondamente cambiate. Esso utilizza infatti modelli di anticipazione non controllata dell’intervento penale, configura reati sganciati dalla prospettiva della offesa degli interessi, colpisce indiscriminatamente opinioni ed associazioni (dissenzienti) senza adeguati ancoraggi a comprovate necessità di difesa sociale. Pur rendendosi conto che la politicità della materia potrebbe giustificare deviazioni rispetto al rigoroso rispetto ai principi di tipicità e di necessaria offensività, vi sono limiti che una legislazione penale ispirata a criteri liberal-democratici non può comunque superare. In questa prospettiva si tratta di trovare il giusto contemperamento fra le esigenze contrapposte di tutela degli interessi fondamentali delle istituzioni democratiche e di rispetto delle garanzie individuali. 2. Passando al piano delle singole scelte di incriminazione, la Commissione conviene sulla opportunità di eliminare tutte le numerose fattispecie politiche di istigazione, di apolo-
— 649 — gia e di propaganda, e di mantenere nel codice la previsione di una sola fattispecie generale di istigazione a delinquere, contemplata fra i delitti contro l’ordine pubblico (o comunque si intenda ridenominare tale classe di reati), purché essa sia caratterizzata dalla pubblicità reale della condotta (con conseguente necessità di ridefinire l’attuale concetto di pubblicità rilevante agli effetti penali) e dall’ancoraggio alla pericolosità concreta in ordine alla realizzazione dei reati oggetto di istigazione. Per quanto concerne i delitti di attentato, la Commissione si riporta a quanto già rilevato nella parte dedicata alle ipotesi di anticipazione della attività punibile (parte VI, n. 3). Nella ipotesi in cui politicamente si optasse per il mantenimento della categoria, il che quantomeno in alcuni casi sarebbe assolutamente necessario, la esigenza di (maggiore) tipizzazione delle fattispecie dovrebbe essere realizzato facendo riferimento a modelli non necessariamente unitari, ma individuati nella parte speciale considerando le specifiche esigenze delle diverse categorie di attentati giudicati meritevoli di previsione legislativa (v. appunto parte VI, n. 3). Per quanto concerne i delitti di vilipendio, che il progetto Pagliaro ha sostanzialmente confermato sotto il profilo della « offesa al prestigio delle istituzioni », e con una riduzione degli oggetti della offesa penalmente rilevante, la Commissione ritiene che il problema se mantenere o cancellare questa categoria di illeciti sia squisitamente politico, trattandosi di valutare se lo Stato debba tutelarsi dalle offese che gli provengono dalle parole che gettano discredito sui suoi emblemi o sulle istituzioni più importanti, ovvero debba interessarsi esclusivamente delle offese ‘materiali’. Al riguardo si limita pertanto ad osservare: che la tutela contro le offese al prestigio delle istituzioni è prevista come reato da pressoché tutte le legislazioni penali europee; che se si dovesse optare per la soluzione conservativa, la tipologia proposta dalla Commissione Pagliaro potrebbe costituire una utile base di disciplina, con l’unica eccezione della esplicita previsione dello ‘scopo politico’ con il quale l’offesa pubblica al prestigio della istituzione dovrebbe essere commessa, essendo esso in re ipsa data la natura della condotta. Quanto ai reati associativi la Commissione ritiene che occorra abrogare la congerie di fattispecie associative politiche oggi configurate in modo disordinato e poco tassativo, e sostituirla con un sistema snello di fattispecie chiare. In questa prospettiva la semplificazione prevista dallo schema di legge-delega Pagliaro nell’art. 127 può costituire un utile punto di avvio. Sembra infatti giusto prevedere due fattispecie associative fondamentali: una prima consistente nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere una associazione volta a perseguire una delle finalità indicate nell’art. 122 n.1 o nell’art. 125 n.1, o una qualsiasi altra finalità politica, anche di carattere internazionale, mediante l’uso della violenza o della minaccia, o mediante una organizzazione di carattere militare; una seconda consistente nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere una associazione volta a perseguire, per una finalità politica, fuori dei casi di violenza, minaccia, o di utilizzazione di una organizzazione di carattere militare di cui alla fattispecie precedente, la commissione di un delitto contro lo Stato. Sembra anche giusto affiancare a queste due figure una fattispecie di associazione segreta, assumendo la segretezza come una connotazione criminale di valenza oggettivamente politica. Nei confronti di quest’ultima ipotesi si tratta tuttavia di affrontare il problema, squisitamente politico, se davvero sia opportuno circoscrivere (come ha fatto il progetto Pagliaro) la rilevanza penale alla circostanza che si tratti di associazione segreta « diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di rappresentanze diplomatiche, di organi giudiziari, di amministrazioni od enti pubblici, o sull’attività di pubblici servizi », ovvero sia necessario sanzionare penalmente di per sé la violazione della norma costituzionale (art. 18 Cost.), che stabilisce senza mezzi termini che « sono vietate le associazioni segrete ». 3. Per quanto riguarda l’impianto generale di un titolo di reati dedicato ai delitti contro lo Stato depurato dal gran numero di fattispecie obsolete e poco garantistiche delle quali si è fatto cenno sub 2), la Commissione osserva che l’analisi dei codici penali europei rivela
— 650 — una grande articolazione di soluzioni, tanto in materia di organizzazione dei reati, quanto in materia di loro numero e di loro specifico contenuto, sia pure con alcune costanti con riferimento ai temi della salvaguardia della sicurezza interna dello Stato, della pace, dei segreti di Stato e dei diritti elettorali. Il lavoro compiuto dalla Commissione Pagliaro può comunque costituire, anche qui, un utile punto di avvio. Sembra corretto prevedere una prima parte in cui si considerano i reati posti a tutela dell’ordinamento democratico della Repubblica e i reati contro gli organi costituzionali, fra i quali si considerano i tradizionali delitti posti a garanzia della Costituzione, della integrità e della indipendenza della Repubblica, del libero funzionamento degli organi costituzionali, del corretto funzionamento delle funzioni costituzionali e dei comandi militari, nonché gli attentati contro il Presidente della Repubblica e contro gli organi costituzionali ed i reati elettorali; ed una seconda parte in cui si considerano i reati contro la sicurezza della Repubblica e le relazioni internazionali, nella quale figurano a loro volta le tradizionali fattispecie della guerra alla repubblica, delle intelligenze con un stato estero, del conflitto armato, della violazione dei segreti di stato, delle attività spionistiche, delle infedeltà in affari di Stato e delle offese a Capi di Stato esteri, a organi costituzionali, ecc., corrispondenti alle previsioni degli attentati previsti nei confronti del Presidente della Repubblica e degli organi costituzionali italiani. Roma, 15 luglio 1999
LA DETENZIONE INGIUSTA IL PROCEDIMENTO RIPARATORIO
SOMMARIO: SEZIONE I: La memoria storica e l’attualità. — 1. Premessa. — 2. Gli artt. 314 e 315 c.p.p. 1988. — 3. Le fonti internazionali. — 4. Le radici storiche della nuova disciplina. — 5. L’oggetto del presente studio. — SEZIONE II: La natura giuridica della riparazione per l’ingiusta detenzione. — 6. La necessità della qualificazione dell’azione riparatoria. — 7. La natura giuridica dell’azione riparatoria. — 8. Effetti della conclusione raggiunta. — SEZIONE III: Il procedimento di primo grado. — 9. Procedimento e processo. — 10. La domanda di riparazione. — 11. Condizioni di ammissibilità e di fondatezza della domanda. — 12. L’introduzione dell’udienza camerale. L’oggetto della relazione e della discussione. — 13. L’onere probatorio. — SEZIONE IV: L’ordinanza riparatoria. — 14. I tipi di ordinanza riparatoria. — 15. Il contributo causale della vittima alla produzione dell’errore cautelare. — 16. L’esclusione dalla riparazione della parte di custodia computabile in forza di altro titolo. — 17. Riparazione del torto in caso di sentenza di non luogo a procedere, anche per errore di persona. La sentenza ‘‘patteggiata’’ e quella ‘‘cumulativa’’. — 18. Il quantum della riparazione pecuniaria: criteri ordinari. — 19. Segue: criteri eccezionali. — 20. Rivalutazione, interessi, spese legali. — 21. La provvisionale a titolo di alimenti, la rendita vitalizia ed il ricovero in istituto. — 22. Sulla legittimità costituzionale del maximum della riparazione pecuniaria. — SEZIONE IV: Il ricorso per cassazione. — 23. La legittimazione e l’interesse processuale a ricorrere per cassazione. — 24. I casi e l’oggetto del ricorso per cassazione. — 25. Il controricorso ed il ricorso incidentale. — 26. Il procedimento camerale. — 27. Il controllo sulla motivazione. — 28. Il giudizio di rinvio. — 29. L’esecuzione dell’ordinanza riparatoria. — 30. Conclusioni. 1. Premessa. — Oggi i rimedi, per così dire, ‘‘repressivi’’ dell’errore del giudice, che ci incamminiamo a presentare, col loro piccolo cabotaggio, finiscono col navigare per tratti più lunghi di quelli verso i quali veleggiano i rimedi preventivi dell’errore stesso. Soffermando l’attenzione sui rimedi per l’errore in custodiendo, errore che è diverso dall’errore in iudicando, non si può che constatare come abbia significato la segnalazione di quelle azioni individuali per la riparazione del torto, le quali sono molto di quel poco che l’esperienza assicura alle garanzie in materia di libertà personale. Ed ha peso specifico, allora, collegare tali azioni individuali, colte nel procedimento, che è la loro vita, che danno luogo alla responsabilità pecuniaria dello Stato con quelle che danno luogo alla responsabilità personale del magistrato, responsabilità che è civile nei confronti della vittima del processo e disciplinare nei riguardi dell’ordine giudiziario. Quest’ultima specie di responsabilità del magistrato, di più antica tradizione, si fonda sull’illecito contra ordinem, illecito che, solo per un’evenienza indiretta, cagiona il torto per l’ingiusta detenzione (patita dal privato, a favore del quale, però, l’illecito non fonda, per ciò solo, un titolo autonomo di risarcimento, mentre la responsabilità, direttamente, è integrata da una trasgressione disciplinare). A tale autotutela dell’ordine giudiziario, ed a tale autoconservazione dei valori del processo penale, si contrappone il recente istituto della responsabilità civile del magistrato, istituto che, in materia cautelare, è di ragione che il privato possa evocare nei confronti del magistrato versante in dolo o colpa grave, per la parte del danno da ingiusta detenzione non conseguita a carico dello Stato (art. 14, l. 13 aprile 1988, n. 117).
— 652 — Ora il collegamento tra questi sistemi di responsabilità, in senso lato, dello Stato-persona giuridica e del giudice-persona fisica, pur azionati, in parte (e, quindi, episodicamente) solo con l’azione individuale promossa dall’‘‘innocente in ceppi’’, finisce per creare una rete di controlli sul funzionamento degli istituti processuali e sui giudici-persone fisiche, che di tali istituti sono i soggetti. Tali controlli, certo, non hanno, di per sé, un carattere preventivo, se non per quanto derivi dalla prefigurazione della loro operatività; ma la rete dei rimedi repressivi che essi instaurano tende a convogliare le misure cautelari secondo il metro della loro inderogabile legalità (art. 273 c.p.p.). Se i rimedi preventivi hanno fallito (da noi sin dal codice del 1865) proprio nel loro compito istituzionale — nella loro generalità ed astrattezza con conseguente eguaglianza normativa di previsione ed ineguaglianza fattuale di trattamento — non è detto che, agendo dal basso, i metodi repressivi non abbiano ad aver successo, concretando il principio di eccezionalità delle misure cautelari e contrastando il passo al vizio di travisamento del fatto, risultante dal testo della motivazione del provvedimento cautelare (art. 606.1 lett. e) c.p.p.). Non più precetti inosservati, dunque, se questa rete di sanzioni (per l’episodicità del ricorso ai procedimenti disciplinari) potrà affiancarsi ai tradizionali rimedi preventivi, affondando il bisturi nelle cause dei tanti errori in materia cautelare. E, quindi, trasferendo dal processo, a mo’ di regole per l’ordinamento giudiziario, più moderni criteri di selezione culturale, tecnica ed attitudinale del magistrato, che quegli errori troppo di frequente compie. Mentre, se volesse guardarsene, al giudice basterebbe riflettere come l’osservanza della disciplina cautelare debba almeno tendenzialmente avvalersi delle stesse regole probatorie del giudizio (artt. 496-515 c.p.p.), con riferimento specifico alla distribuzione tra le parti dell’onere probatorio e, soprattutto, del quantum della prova (art. 192 c.p.p., il cui concetto di ‘‘prova’’, nonostante il contrario assunto di autorevole giurisprudenza, è fonte interpretativa dei ‘‘gravi indizi di colpevolezza’’, premessi dall’art. 273.1 c.p.p. all’applicabilità, in via generale, delle misure cautelari personali). Per la sottoposizione a misura cautelare, gli indizi di ‘‘colpevolezza’’ che oggi occorrono devono, invero, essere ‘‘gravi’’ (art. 273.1), mentre, ancora secondo l’art. 252 c.p.p. abr. (nel testo del 1930, poi sostituito con l’art. 12, l. 5 agosto 1988, n. 330) bastava che fossero di semplice ‘‘sufficienza’’ (per l’emissione del mandato o dell’ordine di cattura). 2. Gli artt. 314 e 315 c.p.p. 1988. — Il ricorso del legislatore all’azione riparatoria per l’ingiusta detenzione lo ha portato a costruire, con mano felicemente innovativa, la disciplina degli artt. 314-315 c.p.p., la quale chiaramente distingue il nuovo istituto dall’antica riparazione del ‘classico’ errore giudiziario, concretatosi nel giudicato di condanna in qualsiasi tempo revisionabile. La nuova disciplina tiene separati i piani del diritto soggettivo alla riparazione del torto da ingiusta detenzione, dalla disciplina del processo nel quale conseguirla. Tale processo (o, più esattamente, procedimento), a sua volta, autorizza la distinzione della sede del procedimento dalla natura del provvedimento: il primo destinato ad ammettere la domanda ed a consentirne il successivo esame (ed i successivi controlli interni); il secondo a concretare in un atto processuale la decisione, la quale è ricorribile per cassazione. Anche se avanzata davanti alla Corte d’appello in sede penale, l’azione riparatoria ha un esclusivo oggetto pecuniario e, secondo classificazioni tradizionali, è considerata azione d’indole civile, forse per via dell’impulso proveniente esclusivamente dalla parte danneggiata (l’imputato prosciolto o illegalmente detenuto), nonché in forza del criterio equitativo che guida la Corte d’appello in sede penale alla liquidazione del danno. Questo nuovo caso di riparazione (connotato dall’unicità del giudizio di merito), se coordinato con gli altri rimedi repressivi dell’errore del giudice, potrà non rimanere flatus vocis solo a condizione che tutti gli istituti in materia, anche preventivi, non costituiscano vasi tra loro privi di comunicazione. La ragione giuridica, sia della prevenzione che della repressione dell’errore del giudice, a dispetto delle mode, esige l’eguale trattamento processuale delle parti; con la conseguenza che l’errore, scoperto con lo svolgimento di uno dei vari rimedi, va riferito, sì, all’atto processuale, ma non può esaurirsi in esso.
— 653 — Dell’indole civile dell’azione riparatoria e di quella d’ordine pubblico dei rimedi a tutela della norma cautelare (e della norma processuale in generale) diversi dalle impugnazioni due possono essere i sentieri di indagini. Essi, tuttavia, come ci è stato insegnato (1), non possono non ricongiungersi, giacché la coerenza delle norme, degli istituti, dei sistemi e dei principi è nella natura delle cose. I principi giuridici — spesso la giurisprudenza lo dimentica, tesa al particolare, dov’è naturale che spinga il metodo casistico — a loro volta creano diritto, in forza del vincolo di necessità del ragionamento giuridico-pratico e della conseguente coesione storica delle strutture giuridico-sociali. Nonostante la difficoltà del compito che ci siamo proposti, lo scopo della nostra ricerca non potrà ignorare che quella selva di inarrestabili variazioni legislative e di prassi esegetiche (talvolta piuttosto distanti dai parametri internazionali e costituzionali), se non aspra e forte, è di certo fòlta. Occorre far leva, allora, sulla coincidenza tra interesse pubblico ed interesse privato, convenendo con quel buon legislatore per il quale interest rei publicae tanto che l’imputato (se non capace di inquinare la genuinità dei mezzi di prova nel procedimento in corso; ovvero, se non pericoloso per la probabile commissione di altri reati, anche non inerenti al procedimento od al processo attuali) sia libero nel corso del processo, quanto che il condannato espii la pena dopo il giudicato. Diviene, così, inevitabile che, per irrobustire l’attrezzatura del giudice (al quale, in definitiva, competono i provvedimenti concreti, sia la formazione della giurisprudenza e, quindi, la costruzione dei criteri interpretativi della norma giuridica), gli strumenti oggi esistenti di definizione delle specie e delle forme della sua responsabilità (penale, civile, disciplinare, contabile) siano coordinati con l’istituto della riparazione dello Stato per il torto che la misura cautelare, ingiusta od illegale, ha arrecato all’imputato (prosciolto nel primo caso; anche condannato, qualora la custodia in carcere sia stata illegale). Sarà così da separarsi l’ingiustizia della misura cautelare (rubrica del Capo VIII del Titolo I del Libro IV) dalla sua illegalità (artt. 314.2, 273 e 280 c.p.p.) ed entrambe saranno ricomprensibili nel genus dell’invalidità della custodia cautelare in carcere o nel regime degli arresti domiciliari, ad essa equiparato. 3. Le fonti internazionali. — Tre sono le garanzie sovranazionali che, con vario rango, affidano alla razionale coazione politico-giuridica dello ius gentium il compito di attribuire alla custodia cautelare il carattere di sacrificio eccezionale, a sostenere il quale la persona singola è coartata nel pubblico interesse. L’ingiustizia a carico del singolo, nel significato di discriminazione che segna, a suo sfavore, un’intollerabile sproporzione, se necessaria, deve essere la minima possibile: nell’instaurazione, nella durata, nelle modalità attuative. Ne segue che gli atti, i termini e le modalità esecutive debbono essere criticabili al solo, legittimo scopo di sostituire la discrezionalità del giudice con la coerenza e la sistematicità dell’ordinamento processuale. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite) premette, nel Preambolo ‘‘il riconoscimento della famiglia umana e dell’eguaglianza degli inalienabili diritti dei suoi membri’’, dando a tale riconoscimento il carattere di ‘‘fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo’’. Tali diritti sono stabiliti in un atto normativo, la Dichiarazione, ad efficacia generale, seppure ‘‘non giuridicamente obbligatori[a]..., ma di principio’’. (1) A. MALINVERNI, Principi di diritto penale tributario, Padova 1962, pp. 65, 117, 187 ss. Sulla « sistematicità » dell’istituto della detenzione ingiusta, v. P. FELICIONI, Condizioni ostative del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione ed esercizio del diritto di difesa: spunti problematici, in Cass. pen., 1996, p. 2165 s.: l’A. considera il contributo causale dell’indagato o dell’imputato all’errore cautelare un limite naturale alla riparazione e ricorda come la mala fede del giudice sia oggetto della l. 18 aprile 1998, n. 117, recante ‘‘Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità del magistrati’’.
— 654 — La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Roma, 4 novembre 1950, entrata in vigore nello Stato il 26 ottobre 1955) riconferma il divieto della tortura e della pena o del trattamento inumani o degradanti (art. 3); ed autorizza la privazione della libertà, prima del giudicato, nei soli casi previsti dal comma 1 lett. b), c), d), e) e f) dell’art. 5. Secondo tali prescrizioni, forme di ‘‘arresto’’ o di ‘‘detenzione’’ sono legittime se ‘‘regolari’’; ovvero, se presuppongono ‘‘ragioni plausibili’’ per sospettare che l’arrestato abbia commesso un reato; od, infine, se presuppongono ‘‘motivi fondati per ritenere necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso’’. Norme analoghe sono contenute, per la nostra materia, nell’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 16 dicembre 1966, entrato in vigore nello Stato il 15 dicembre 1978), il cui 1 comma stabilisce il principio di legalità cautelare nel diritto interno, mentre il comma 3 stabilisce il carattere derogatorio della custodia prima del giudicato, autorizzando che il rilascio sia subordinato a garanzie, per la salvaguardia della ‘‘comparizione dell’accusato, sia ai fini del giudizio, sia in ogni altra fase del processo, sia, eventualmente, ai fini dell’esecuzione della sentenza’’. Con forma concisa e tono solenne, il comma 5 dell’art. 9 riconosce a ‘‘chiunque sia stato vittima di un arresto o detenzione illegali [il] pieno diritto ad un indennizzo’’ (traduzione dei consueti sostantivi réparation e compensation). Il peso del recours effectif davant une instance nationale e del ricorso individuale alla Commissione europea, nella perdurante carenza di un procedimento riparatorio, è stato decisivo sul piano della prevenzione degli errori de libertate: il tribunale del riesame è stato istituito con l. 12 agosto 1982, n. 532; la frequenza del ricorso individuale in sede internazionale è via via aumentata, il proliferare dell’appello dei dinieghi di pronuncia coercitiva e delle richieste di riesame nel merito dei mandati di cattura (artt. 263-263-bis - quater c.p.p. abr.) hanno costituito le tappe di un cammino autorevolmente definito ‘‘lungo e laborioso’’. Tale cammino è approdato all’istituto della riparazione della detenzione ingiusta, applicabile, secondo noi, anche al fermo di polizia giudiziaria ed all’arresto in flagranza. 4. Le radici storiche della nuova disciplina. — Recenti ed approfonditi studi ci esonerano dal ricercare le origini della riparazione per l’ingiusta detenzione. La sua dimensione, appunto, istituzionale, permette solo di ricordare che a tale riparazione hanno prestato pensiero gli studi filosofici ed i programmi politici dell’illuminismo, in particolare di quello italiano (2). Sul piano legislativo, poi, proprio in Italia l’istituto si è imposto, con la Riforma Leopoldina, promulgata dal Granduca di Toscana il 30 novembre 1786 (§ XLVI), seguìta dall’art. 35 del Codice penale del Regno delle Due Sicilie, nel 1819. Ricorsi storici hanno poi fatto approdare l’istituto, dalle critiche di ineffettività del Carrara (3), all’esuberante vitalità del Codice del 1988, suscitando, da un lato, un certo qual sentimento di orgoglio, perché la libertà personale tornava, di nuovo, ad essere tutelata in Italia non foss’altro con la garanzia della riparazione pecuniaria per il torto subìto; e, dall’altro, l’interrogativo inquietante del perché, pur con questa garanzia, ben 773 domande di riparazione fossero pendenti nel marzo 1992 e, secondo notizie informali, tali domande siano (2) Sull’illuminismo italiano e le dottrine penali, cfr. le opere di L. BERLINGUER - F. CORRAO, Illuminismo e dottrine penali, Milano 1990; M.A. CATTANEO, La filosofia della pena nei secoli XVII e XVIII, Ferrara 1974; ID., Illuminismo e legislazione penale; F. VENTURI (a cura di), C. BECCARIA, Dei delitti e delle Pene (1764), Torino 1965 (con riproduzione integrale della Leopoldina, intitolata La riforma della legislazione criminale toscana del 30 novembre 1786, a cura di F. VENTURI). (3) Francesco Carrara ha segnalato che l’art. XLVI della Riforma Leopoldina e l’art. 35 del Codice penale del Regno delle Due Sicilie sono rimasti ‘‘un voto filantropico’’ (Foglio di lavoro per la commissione sulla riforma carceraria, in Opuscoli di diritto criminale, vol. IV, Lucca, p. 350, cit. da M.G. COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, Padova 1993, p. 11, nt. 23).
— 655 — in costante, progressivo aumento, salvo un leggero calo a partire dal 1997. Se, cioè, il nostro sistema processuale e l’ordinamento col quale i magistrati a tale sistema danno vita e vitalità (non solo sul piano dell’ordinamento giudiziario, ma anche su quello della cultura del processo, che ne è la ratio) producano errori, nell’adozione delle più gravi misure cautelari, in misura più elevata che negli altri sistemi europei (4). Il merito di aver posto la premessa teorica dell’autoemendazione del sistema penale appartiene al Filangieri, il quale, ne La scienza della legislazione (5) precorre di sei anni la Riforma della legislazione penale toscana del 30 novembre 1786, prospettando la riparazione del torto da ingiusta detenzione, mediante apposita Cassa di riparazione che impedisse il sorgere, o l’aggravarsi, di difficoltà di ordine finanziario. Pietro Leopodo di Lorena, nominato Granduca di Toscana, raggiunge Firenze nel 1765 e, sùbito postosi al lavoro, dà corpo alla Leopoldina; il primo ‘‘grande codice di procedura nel quale viene inserita una parte penale materiale in funzione e secondo prospettive di svolgimento del processo penale’’ (6). Con quel metodo moderno che valorizza le collaborazioni scientifiche, Pietro Leopoldo perviene al Testo definitivo attraverso quei lavori preparatori dei quali non si è mancato di segnalarne (7) il grande pregio, per la cura sistematica ed il senso pratico che li ispirano. È naturale che la Leopoldina sia ricordata, soprattutto, per l’abolizione della pena di morte, della tortura e della diffusa sproporzione delle pene (Preambolo e §§ LI-LIII), nonché della responsabilità oggettiva dei parenti del condannato (§ LVII). Ed ancor più per la sistematicità della triplice abolizione: infatti, furono questi i divieti, l’uno correlato all’altro, che, in tutto il Granducato in festa, fecero ‘‘arder li fuochi’’. Ma anche i limiti posti alla previsione ed alla durata della custodia cautelare portarono a correlare le numerose mitigazioni di essa (§ XXXI) con la riparazione di una detenzione che, ciò nonostante, rimanesse ingiusta. Regola ordinaria, la mitezza; extrema ratio, la custodia e, quindi, in caso di detenzione risultata a posteriori ingiusta, la riparazione pecuniaria del torto (§ XLVI). Per cogliere la ratio pratica della riparazione leopoldina, occorre far leva sul divieto di ‘confiscazione’, già imposto dal Preambolo. Il Granduca, invero, ‘‘disapprova... un sistema introdotto forse più per avidità d’impinguare il fisco che per vedute di bene pubblico’’; e ‘‘considera... ingiusta in qualunque circostanza e in qualunque delitto che dar si possa anche atrocissimo la confiscazione dei beni...’’ (§ XLV). Se l’esecuzione può cadere sui beni del condannato solo ‘‘per la refezione dei danni di ragione dovuti a chi gli ha sofferti, o per qualche multa pecuniaria nei casi nei quali non giunga l’afflittiva’’, la confisca colpisce, invece, la ‘‘famiglia, e gli eredi del delinquente come vera violenza e appropriazione illegittima, che fa il governo delle proprietà delle sostanze altrui’’(§ XLV). Lo scopo dell’ordinamento penale è, dunque, scopo di giustizia, da attuarsi mediante la legalità: non scopo di lucro. Ne segue, in negativo, il divieto di confisca, esteso ai beni dei prossimi congiunti del condannato; in positivo, il dovere del ‘‘governo’’ di indennizzare ‘‘i danneggiati dal delitto’’ e ‘‘quelli individui, i quali saranno trovati senza dolo o colpa di alcuno sottoposti ad essere processati criminalmente, e molte volte ritenuti in carcere... e saranno poi riconosciuti innocenti, e come tali assoluti...’’ (§ XLVI). Lo Stato non è più l’‘‘avido impinguator del fisco’’ ed esso esercita il duplice compito di (4) M.G. COPPETTA, La riparazione, cit., p. 4 ss. (5) G. FILANGIERI, La scienza della legislazione (vol. III, p. 45, dell’edizione fiorentina del 1821). Sull’attualità del pensiero del Filangieri, v. G. VASSALLI, Attualità di Gaetano Filangieri, in Nuova Antologia, 1992, p. 99 ss. (ora in Scritti giuridici, vol. IV, 1997, p. 683). (6) T. PADOVANI, Lettura della Leopoldina. Un’analisi strutturale, in L. BERLINGUER F. COLAO (a cura di), La ‘‘Leopoldina’’ nel diritto e nella giustizia in Toscana, Milano, 1989, p. 27. (7) M. DA PASSANO, Il diritto penale toscano dai Lorena ai Borbone, Milano 1988.
— 656 — indennizzare tanto ‘‘i danneggiati dal delitto, quanto gli imputati assolti, dopo ingiusta detenzione. La confisca non contribuisce più alla rifusione delle spese di giustizia anticipate dallo Stato, ma, a parte le pene pecuniarie (le quali non vengono abolite), ‘‘noi [abbiamo] già provveduto col patrimonio pubblico per supplire le spese di giustizia...’’. ‘‘... vogliamo che venga formata una cassa a parte sotto la direzione del Buon Governo nel Dominio Fiorentino, e nel Senese dell’auditor fiscale di Siena nella quale debbono colare tutte le multe e pene pecuniarie di tutti i rispettivi tribunali dello Stato, e della quale ne renderanno conto a noi di anno in anno. Da questa cassa per quanto si estenderanno suoi assegnamenti dovranno indennizzarsi tutti quelli che, danneggiati per delitti altrui, dal delinquente da cui il danno è loro derivato non possono ottenere il risarcimento per mancanza di patrimonio, o per fuga; e tutti quelli i quali senza dolo o colpa di alcuno (giacché in questo caso chi avrà commesso il dolo o la colpa sarà tenuto esso ad indennizzarli), ma solo per certe combinazioni fatali o disgraziate saranno stati processati, carcerati e poi trovati innocenti, e come tali assoluti...’’ (§ XLVI). A Pietro Leopoldo ben poco il Buon Governo e l’Auditor senese potranno rendere conto del bilancio della ‘‘cassa’’ e dell’ammontare degli indennizzi per due ragioni, giacché egli, il 20 febbraio 1790, sarà chiamato a succedere al fratello al trono del Sacro Romano Impero. Anche per la perdita, negli Stati italiani, dell’unico governante illuminista, nonché per le vicende del fuggevole approdo delle idee della Rivoluzione francese e dello stabilirsi di quelle di Napoleone, la ricostruzione del passaggio col quale si perviene al Codice penale del Regno delle Due Sicilie nel 1819 rimane lacunosa. Pure quell’art. 35 previde una ‘Cassa delle ammende’; ne destinò gli introiti, congiuntamente, ‘‘al ristoro dei danni ed interessi e delle spese sofferte principalmente dagli innocenti perseguitati per errore, o calunnia nei giudizi penali, e quindi ai danneggiati poveri’’; demandò l’istituzione della Cassa ad un ‘‘Real Decreto’’, che però, non fu mai promulgato (8). L’Autore della monumentale Riforma penale di Pietro Leopoldo (9), ricorda come, dopo la breve vita del Regno di Etruria, la nuova legge generale del 28 maggio 1807, chiamata anche Codice penale del Regno d’Etruria, ricalcò, ‘‘con alcuni aggiustamenti, la struttura della Riforma del 1786, integrata con i provvedimenti successivi e in particolare con la legge del 1795’’, ma che, con l’annessione della Toscana alla Francia e con l’introduzione dei codici penali francesi, ‘‘cambierà non solo il contenuto delle disposizioni penali, ma la stessa tecnica legislativa’’. Comunque, ‘‘la legislazione leopoldina sarebbe... rientrata nuovamente in vigore’’ quando, salito al trono di Toscana Ferdinando III, con il regolamento del luglio 1814 furono... aboliti i codici penali napoleonici e ripristinata... la legislazione del 1786’’, con alcune modificazioni, che non toccarono però il § XLVI e, quindi, la riparazione per la detenzione ingiusta. ‘‘La Riforma leopoldina, che ritornava in tal modo in vita, pur se modificata e integrata, rimarrà in vigore per ancora molti anni’’, ed esattamente fino alla pubblicazione del Codice penale toscano del 1853. 5. L’oggetto del presente studio. — Il § XLVI della Riforma Leopoldina e, a maggior ragione, l’art. 35 del Codice penale del Regno delle Due Sicilie, lasciano nel vago la procedura per ottenere l’indennizzo per la detenzione ingiusta. Seguendo inconsapevolmente questo schema, l’art. 315.3 c.p.p. 1988 si limita a disporre l’applicabilità, ‘‘in quanto compatibili [del]le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario’’ (artt. 644-647 c.p.p.). Pertanto, l’attuale procedimento riparatorio è stato lacunosamente disciplinato quanto al procedimento e lascia spazi di dibattito sul tema; spazi che è nostro compito cercare di riempire. Nel far ciò, diamo per pacifici, salvo alcuni indispensabili richiami, i presupposti della riparazione per l’ingiusta detenzione e le modalità della decisione (art. 314 c.p.p.), presup(8) S. ROBERTI, Corso completo di diritto penale del Regno delle due Sicilie, Napoli 1833, § 265 e, di recente, M.G. COPPETTA, La riparazione, cit., pp. 11-13, nt. 24-28. (9) D. ZULIANI, La riforma penale di Pietro Leopoldo, vol. II, pp. 465 s.
— 657 — posti e modalità che ormai sono ben conosciuti, aggiungendo che la Corte costituzionale ha già esteso la riparazione a chi ha subìto la detenzione ingiusta a seguito di ordine di esecuzione illegittimo (10) e che la giurisprudenza ha consacrato l’autonomia del procedimento di riparazione, escludendo l’incompatibilità del giudice che ha fatto parte del tribunale per la libertà (11). Peraltro la conoscenza la più compiuta possibile del procedimento riparatorio suppone la classificazione dell’azione individuale destinata a conseguire l’equa riparazione; ed è da essa che intendiamo partire. 6. La necessità della qualificazione dell’azione riparatoria.- Il comma 3 dell’art. 315 c.p.p. rinvia, per la disciplina del procedimento riparatorio, al[le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario], ‘‘in quanto compatibili’’. Il rinvio è agli artt. 644-647, perché l’art. 642 c.p.p., disciplinando la riparazione ‘‘morale’’ della persona ingiustamente condannata è, certamente, incompatibile con la riparazione in esame, che ha natura esclusivamente pecuniaria (art. 314.1 e 315.2 c.p.p.). La ricerca della compatibilità lascia aperto, in ogni caso, il campo all’interpretazione giurisprudenziale e tale interpretazione richiede che, prima del procedimento, si qualifichi l’azione riparatoria. Questo perché l’azione riparatoria ha tutte le caratteristiche di un’azione civile, ma si svolge in sede camerale penale (artt. 646.1 e 127 c.p.p.)) sicché la classificazione dell’azione è decisiva per le valutazioni in materia di onere della prova, poteri officiosi del giudice, portata dell’unico grado di giudizio di merito, poteri della Corte di cassazione investita del ricorso e della Corte di appello in sede di rinvio. 7. La natura giuridica dell’azione riparatoria. — L’azione civile è oggetto di infinite teoriche sulla sua natura, teoriche che qualcuno (12) ha definito, ‘‘come le notti della leggenda, ... mille e una, e tutte meravigliose’’. L’azione penale, invece, è stata studiata per i suoi caratteri di pubblicità, obbligatorietà, irretrattabilità, più che per la sua natura, pacificamente intesa come iniziativa o impulso del pubblico ministero, unico soggetto del processo abilitato ad avviare il procedimento penale. Il legislatore del nuovo Codice avrebbe potuto attribuire l’azione riparatoria allo stesso pubblico ministero, vincolandolo ad utilizzare il titolo invalido per instaurare il procedimento riparatorio. Così non ha fatto, come del resto non ha conferito alla vittima del processo il diritto di adire il giudice civile in sede propria. Per questo duplice ordine di ragioni, ormai la giurisprudenza è pacificamente assestata nel definire l’azione riparatoria come un’azione di indole civile (13), proposta davanti alla Corte di appello penale per ragioni di opportunità. L’impulso della persona ingiustamente detenuta, il principio del contraddittorio e la partecipazione del ministro del tesoro, passivamente legittimato alla datio in solutum, confermano come l’orientamento giurisprudenziale colga il segno. Non si può sostenere, certo, che la partecipazione del procuratore generale connota di caratteristiche penali un’azione che è diretta alla riparazione pecuniaria, entro il limite quantitativo dei cento milioni di lire, dovendo il giudice penale, per ragioni di ordinamento giudiziario, sempre sentire il pubblico ministero. Né può negarsi all’azione il carattere civile perché ad essa non è anteposto un potere dispositivo del diritto, sorgendo il diritto alla riparazione nel processo e non potendo la persona ingiustamente detenuta avviare una trattativa preprocessuale col ministro del tesoro, per la definizione del quantum in via transattiva. (10) Corte cost. 25 luglio 1996, n. 310, in Giur. cost., 1996, p. 2257. (11) Cass., Sez. IV, 31 gennaio 1994, Corrias, in Cass. pen., 1996, 266 [s.m.]. (12) P. CALAMANDREI, La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina, in Riv. dir. comm., 1942, I, ristampato in F. LOPEZ DE ONATE, La certezza del diritto, Milano 1968, p. 180. (13) La giurisprudenza è conforme nella classificazione dell’azione riparatoria come ‘‘azione d’indole civile’’.
— 658 — Tuttavia, la giurisprudenza, parlando di un’azione d’indole civile innestata in un procedimento penale, si è resa conto delle peculiarità dell’azione riparatoria. Si tratta di un’azione non sorretta da un diritto soggettivo certo nell’an e nel quantum; si tratta, poi, di un’azione che è compressa tra un unico grado di merito ed il giudizio di legittimità; si tratta, infine, di un’azione che si svolge in sede camerale, cioè in quella sede nella quale, per la segretezza e l’inquisitorietà tipiche di ogni procedimento camerale, più spinti sono i poteri inquisitori del giudice. È, invero, nella sede camerale che viene costituito il diritto alla riparazione, sicché l’ordinanza riparatoria, nella classificazione degli atti processuali, ha portata costitutiva, e non di mero accertamento. Azione civile, dunque, ma non azione civile pura e semplice, perché la sede procedimentale nella quale essa si svolge produce i suoi effetti. Si pensi che il diritto soggettivo che dovrebbe sorreggerla non è sottoposto a termini di prescrizione, ma che è l’azione stessa ad essere sottoposta al termine di decadenza dei diciotto mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di proscioglimento (o di condanna, nel caso di detenzione illegale) o di pronuncia del provvedimento di archiviazione (art. 315.1 c.p.p.). Il problema dei rapporti tra l’azione ed il procedimento in cui essa si instaura e si consuma non è nuovo, perché si è posto, soprattutto alla dottrina, per l’istituto della parte civile. Quel che possiamo in questa sede anticipare è che la struttura dell’azione è, senza dubbio, civile, perché l’oggetto è la riparazione pecuniaria; ma che la funzione dell’azione è condizionata dalla sede nella quale essa si svolge. 8. Effetti della conclusione raggiunta. — La conclusione raggiunta apre la strada all’interpretazione analogica. È stata sùbito notato che l’azione non riflette un diritto personalissimo e che, ‘‘morto l’avente diritto, sfilano sulla scena, come possibili attori, coniuge, ascendenti, fratelli, sorelle, affini in primo grado, adottante e adottato’’, aggiungendo che la soglia massima alla riparazione vede concorrervi morto l’interessato i congiunti, caso nel quale la somma accordata ‘‘viene equamente divisa tra i postulanti, secondo le conseguenze patite da ciascuno’’ (14). Pertanto, l’azione riparatoria è d’indole civile perché sorretta dal principio di disponibilità del processo, necessariamente correlato (15) al principio della domanda. Dunque, non solo le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario, in quanto compatibili, sono applicabili all’azione riparatoria, ma ad essa sono applicabili anche le norme del codice di procedura civile che disciplinano l’azione in generale, in quanto tale azione si avvia con la domanda della vittima del processo o, in caso di sua prematura morte, dei suoi prossimi congiunti. In particolare, in via di interpretazione analogica, il ricorso per cassazione risentirà, come anche meglio vedremo in seguito, della natura dell’azione riparatoria, aprendosi al ricorso incidentale del ministro del tesoro. Com’è noto, il processo penale prevede l’appello, ma non il ricorso incidentale. Tuttavia, l’art. 371 c.p.c. prevede, come regola generale, il ricorso incidentale della parte cui spetterebbe il controricorso. Ora, l’art. 646.3 c.p.p.. al quale rinvia l’art. 315.3 c.p.p., non prevede il ricorso incidentale, sicché la sua introduzione (la quale, come meglio vedremo, è ormai pacifica in giurisprudenza (16) non può che avvenire in via analogica. Pertanto, la classificazione dell’azione riparatoria non è un’esercitazione accademica, ma un passo necessario per completare la lacunosa disciplina del procedimento riparatorio. L’azione, invero, viene proposta in sede impropria (quella penale), per ragioni esclusivamente pratiche. È la Corte d’appello in sede penale il giudice dinanzi al quale proporre la domanda, perché è al giudice penale che risale il provvedimento che ha reso evidente l’inva(14) F. CORDERO, C.p.p. comm., Torino 1990, p. 363. (15) A. PROTO PISANI, Lezioni di dir. proc. civ., 2a ed., Napoli 1996, passim. (16) V, infra, § 25.
— 659 — lidità della detenzione cautelare (si ricordi, in proposito, che alla custodia in carcere è equiparato il periodo trascorso agli arresti domiciliari). Sicché, per la Corte di appello, nella quale normalmente sono definiti i processi, è più agevole acquisire il fascicolo processuale, fascicolo dal quale emerge non solo il titolo invalido, ma anche l’eventuale prova del contributo della vittima alla produzione dell’errore cautelare. Le ragioni pratiche che hanno suggerito al legislatore di conferire il procedimento riparatorio all’esclusiva competenza della Corte di appello in sede penale, se, da un lato, si riflettono sulla struttura privatistica dell’azione riparatoria, dall’altro consentono quell’interpretazione analogica che trae origine dalla funzione pubblicistica dell’istituto. Sappiamo già che interest rei publicae che non vi sia un ‘‘innocente in ceppi’’ e che, se per l’errore del giudice, l’indagato o l’imputato è stato vittima del processo, l’interesse pubblico alla riparazione pecuniaria coincide con l’interesse della vittima stessa. Per queste ragioni, prudentemente, la giurisprudenza non parla di azione civile tout court, ma di azione d’indole civile, così come, in altro settore, non parla di impugnazioni per il riesame e l’appello de libertate, ma di quasi-impugnazioni; definizione, questa, che consente l’applicazione, salvo deroga espressa, delle Disposizioni generali sulle impugnazioni del libro IX. 9. Procedimento e processo. — Il cammino dalla notizia di reato sino alla scoperta del fatto dal quale sorgono imputazione ed imputato, nella loro qualificazione giuridica ed attribuzione soggettiva, nonché dalla decisione di merito a quella di legittimità, oggi, stabilisce i limiti delle tre fasi (preparatoria, di cognizione, di controllo o critica) che precedono la fase esecutiva. Vigente il Codice del 1930, quanto meno fino alla novella del 1955 ed alla successiva disarticolazione di quel testo, viva era la discussione circa la differenza tra procedimento e processo, data l’unicità dell’ètimo. Tale dibattito non ha potuto raggiungere conclusioni definitive, poiché, a partire dalla novella, l’impianto del codice del 1930 si è fatto sempre meno indecifrabile. Adesso la distinzione tra procedimento e processo è legislativa (17). La fase preparatoria, dalla notizia di reato sino all’archiviazione o all’udienza del giudice per l’udienza preliminare, è procedimentale, nel senso che predispone le condizioni per la decisione sul merito dell’imputazione contestata all’accusato. Con il decreto che dispone il giudizio si avvia la fase di cognizione, aperta, quanto al merito, anche al giudizio di appello e, quanto alla legittimità, al giudizio di cassazione. Con tale decreto il procedimento si trasforma in processo, perché perde il carattere dell’incertezza dell’oggetto, carattere che è proprio della fase preparatoria; e, salve le contestazioni suppletive, acquista il carattere della certezza dell’oggetto. Per la sua natura, l’azione riparatoria avvia un procedimento, perché, dal punto di vista dommatico, il suo oggetto (la sussistenza della misura coercitiva invalida e l’inesistenza delle condizioni ostative, nonché il quantum della riparazione pecuniaria) sono incerti, mentre, dal punto di vista legislativo, l’art. 646.1 c.p.p., al quale rinvia l’art. 315.3, prescrive che ‘‘la Corte di appello decide in camera di consiglio osservando le forme previste dall’art. 127’’, la cui rubrica è intitolata, appunto, ‘‘Procedimento in camera di consiglio’’ (18). La scelta del procedimento in camera di consiglio era, per il legislatore, obbligata, giacché la prestazione pecuniaria che viene chiesta ha per titolo l’accertamento dell’invalidità della misura coercitiva più grave (la custodia), e cioè l’errore del giudice, non il supposto fatto di reato attribuito all’imputato. Di esso mai si discuterà, se non incidenter tantum, per quel tanto che possa valere a stabilire se la condotta, dell’imputato, abbia contribuito a cagionare l’errore cautelare, per il dolo o la colpa grave dell’indagato o dell’imputato stesso. Un ultimo argomento sulla natura procedimentale del giudizio riparatorio. Esso si con(17) G. CONSO, Dal codice del 1930 al codice del 1988, in G. CONSO - V. GREVI, Profili del nuovo Codice di procedura penale, Padova 1990, pp. IX-XIV. (18) Cfr. M. PISANI, in M. PISANI - A. MOLARI - V. PERCHINUNNO - P. CORSO, Manuale di procedura penale, Bologna 1994, pp. 171 ss.
— 660 — clude con un’ordinanza, anziché con una sentenza; il che esclude la presenza di un processo, pur se l’ordinanza ha natura costitutiva del diritto alla riparazione pecuniaria. Trattasi di un diritto soggettivo che, una volta accertato, ha natura pubblica, perché, come si è visto, interest rei publicae che la detenzione ingiusta sia riparata. La natura procedimentale del giudizio camerale non esclude che, al suo interno, si formino prove (19). Esse possono formarsi, pur tratte dagli atti del procedimento nel quale si verificò l’errore cautelare, per definire il contributo della vittima all’errore cautelare del giudice; nonché, sempre, per quantificare l’entità della riparazione. Si pone, quindi, come meglio vedremo, un problema di onere probatorio; onere che va collegato con la natura camerale del procedimento previsto dagli artt. 127-128. Si tratta di problemi che il legislatore delegante ma, ha lasciato alla disciplina del legislatore delegato, con una norma quasi in bianco (art. 2 n. 100 l.d.: ‘‘riparazione dell’ingiusta detenzione e dell’errore giudiziario’’), norma che il legislatore delegato ha sviluppato con ampiezza per la riparazione dell’errore giudiziario, limitandosi invece ad un generico rinvio ad essa quanto alla riparazione della detenzione ingiusta. La scelta del legislatore delegato di attribuire la competenza alla Corte d’appello in sede penale e di prescriverle l’adozione del procedimento camerale comporta che gli artt. 315.3, 646.1 e 127-128 c.p.p. compongano un’istituto speciale, connotato dalla perdita del doppio grado di giudizio e inoltre dal limite posto all’entità della riparazione pecuniaria, inderogabilmente fissata in quei cento milioni di lire che, dal 25 ottobre 1989, non hanno avuto rivalutazione. Tale limite differenzia questo istituto speciale dalla parallela riparazione dell’errore giudiziario, la quale può essere illimitata nel quantum. 10. La domanda di riparazione. — La domanda di riparazione per la detenzione ingiusta deve essere inoltrata alla Corte di appello in sede penale nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento (‘‘nel caso di sentenza emessa dalla Corte di cassazione, è competente la Corte di appello nel cui distretto è stato emesso il provvedimento impugnato’’ [art. 102 Att.]). Essa deve contenere il riferimento al titolo (il giudicato di proscioglimento, il giudicato di condanna che provi l’illegalità della detenzione o l’archiviazione) ed alle ragioni per le quali la Corte dovrà discostarsi dai criteri ordinari di liquidazione della riparazione pecuniaria, offrendo le prove dell’eccezionalità del sacrificio. La domanda è personale: essa può essere proposta soltanto dalla vittima del processo o, in caso di morte, dai prossimi congiunti, o dal terzo nominato procuratore speciale, ma non dal difensore munito di semplice procura ad litem. Peraltro, l’interessato deve essere assistito da difensore, la procura al quale è regolata, per il giudizio di merito, dall’art. 83 c.p.c. e, per il giudizio di legittimità, dall’art. 365 c.p.c. (19). La giurisprudenza indica tali norme per lo jus postulandi del difensore, osservando che ‘‘deve tenersi ben distinto il momento della proposizione della domanda, vale a dire dell’attivazione della procedura di equo indennizzo, da quelli successivi’’ (20). La giurisprudenza fa inoltre rilevare che l’inapplicabilità degli artt. 96, 100 e 122 discende dall’indole civile dell’azione esercitata, indole la quale rende adottabili, salvo deroghe espresse, le norme processualcivilistiche (21). La domanda è presentata alla cancelleria penale della Corte di appello, anche dal difensore ad litem o da un addetto allo studio espressamente delegato, distinguendosi, per l’appunto, tra atto processuale di richiesta ed atto materiale di presentazione (22). Le regole che precedono — personalità della domanda, infungibilità della procura ad litem con la procura speciale, autenticabilità della firma dell’interessato o del procuratore speciale da parte del di(19) Giurisprudenza pacifica. (20) Sono parole della Sez. IV, 21 aprile 1994, Marini, in Mass. Cass. Pen., (fasc. 9), p. 98. (21) V., retro, § 7. (22) Il presentatore deve essere delegato dal difensore.
— 661 — fensore ai sensi dell’art. 39 Att. (23) — sono profilate quali condizioni di ammissibilità della domanda, la quale va respinta se presentata a mezzo del servizio postale (24) e, a fortiori, a mezzo fax. Alla domanda sono allegati i documenti attinenti al titolo ed alla prova del quantum superante gli standard della determinazione per così dire ordinaria, quali, ad es. fotocopie di divulgazione di stampa dell’arresto in flagranza, della notizia della misura coercitiva adottata, delle fotografie dell’indagato pubblicate, del provvedimento di licenziamento conseguente alla misura e così via. La domanda deve essere proposta, sempre a pena di inammissibilità, entro diciotto mesi decorrenti dal giorno in cui ‘‘la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere è divenuta inoppugnabile o il provvedimento di archiviazione è stato pronunciato’’ (art. 315.1 c.p.p.). Si nota un distacco dal parallelismo con la riparazione per l’errore giudiziario, per la quale si è previsto che, sempre a pena di inammissibilità, la domanda sia presentata entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza di revisione. Si tratta di un distacco inesplicabile, se non alla luce del criterio di un contenimento dell’applicabilità della nuova disciplina. Non va dimostrato, tra l’altro che, in rapporto alla medesima non può applicarsi la sospensione dei termini nel periodo feriale, avendo qui il termine natura di decadenza (25). Entrato in vigore il nuovo codice, si pose un problema di applicabilità dell’istituto alle detenzioni ingiuste pregresse, problema che le Sezioni Unite risolsero nel senso della riparabilità della parte della detenzione ingiusta protrattasi dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina (26), interpretando alla lettera l’art. 245 coord. 11. Condizioni di ammissibilità e di fondatezza della domanda. — L’ammissibilità, della domanda, va tenuta distinta dalla fondatezza nel merito. Nel nostro campo, essa si articola solo sulle trasgressioni degli artt. 273 e 280 (27), giacché la riparazione per detenzione ingiusta non copre le trasgressioni degli artt. 274 e 275 c.p.p.. La differenza tra ammissibilità e fondatezza è chiaramente avvertibile nel giudizio di revisione, dove il ‘‘filtro’’, previsto dall’art. 634 c.p.p., sanziona l’inammissibilità con ordinanza, pur ricorribile per cassazione. Nel procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione, invece, manca un giudizio preventivo di ammissibilità, sicché la presentazione della domanda mette in moto il meccanismo camerale previsto dall’art. 127 c.p.p. e solo nella relativa udienza è possibile dichiarare l’inammissibilità della domanda di riparazione. Nella stessa udienza, la domanda può essere dichiarata infondata, ad es. perché l’indagato, con dolo o colpa grave, ha cagionato o concorso a cagionare l’errore cautelare. Non potendosi distinguere la cronologia procedimentale delle sanzioni di inammissibilità o infondatezza, la loro differenza non rileva ex ante: il presidente della Corte infatti, non può che fissare la data dell’udienza e farne dare avviso agli interessati (tra i quali l’avvocato dello Stato, in rappresentanza del ministro del tesoro), al procuratore generale ed al difensore. Tuttavia, la distinzione mantiene il suo valore nel giudizio di cassazione, perché le condizioni di ammissibilità sono oggetto pieno del giudizio di legittimità, mentre la fondatezza (23) Oltre che dal notaio, dal sindaco, da un suo funzionario delegato, dal segretario comunale, dal giudice conciliatore, dal presidente del consiglio dell’ordine o da un consigliere delegato. Ed ora, estensivamente, dal giudice di pace. (24) Per il divieto di presentazione della richiesta a mezzo del servizio postale, cfr. Cass., Sez. IV, 28 novembre 1995, Forlano, in Giust. pen., 1996, III, c. 663 [s.m.]. (25) Sez. IV, 31 gennaio 1994, Corrias, in Cass. pen., 1996, 266 [s.m.]. (26) La questione delle detenzioni pregresse, per la sua natura transitoria, è ormai superata: la giurisprudenza la risolse nel senso della riparabilità solo di quella parte della detenzione che si era attuata vigente il nuovo Codice. (27) Cass., Sez. I, Bozzetti ed altro, in Giust. pen., 1996, III, c. 306 [s.m.].
— 662 — della domanda, accertata dall’ordinanza riparatoria, si presta soltanto al giudizio di legalità, con insindacabilità della decisione, se immune da vizi logico-giuridici di motivazione. 12. L’introduzione dell’udienza camerale. L’oggetto della relazione e della discussione. — Dopo il deposito della domanda, presentata dal tutore se la vittima è interdetta, o dal curatore, se è inabilitata, o dai prossimi congiunti che, in caso di morte, agiscono iure proprio e non iure haereditatis, il presidente della Corte assegna la domanda stessa al presidente della sezione designata, il quale nomina il relatore, fissa la data dell’udienza e ne fa fare avviso agli interessati ed ai difensori e comunicazione al procuratore generale (art. 127.1 c.p.p.). Logicamente, è ammesso il gratuito patrocinio, secondo le regole consuete della l. 30 luglio 1990, n. 217 e del regolamento disposto dal d.m. 3 novembre 1990, n. 327. L’intervento del procuratore generale, dell’avvocato dello Stato e del richiedente, anche se non preceduti da memorie, come è sempre legittimo, è facoltativo. Tuttavia, se l’interessato è detenuto per altra causa fuori dal distretto, egli ‘‘dev’essere sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo’’ (art. 127.3). Trova pure applicazione il comma 4 dell’art. 127 c.p.p., come unica causa di rinvio dell’udienza. Se comparsa (ovviamente, qualora si trovi in libertà, giacché altrimenti deve trovare applicazione lo stesso comma 4 dell’art. 127 cit.), la vittima del processo ha diritto di parola dopo la relazione, nonché, a nostro avviso, può intervenire per ultimo. Il rito camerale è insanabilmente nullo (arg. ex art. 178.1 lett. c) c.p.p.) quando sono inosservate le disposizioni dei commi 1, 3 e 4 dell’art. 127, tutte dirette alla perfetta instaurazione del contraddittorio camerale (contraddittorio che, pure, è facoltativo). La discussione è preceduta dalla relazione del presidente o del consigliere delegato, relazione sempre obbligatoria, la quale si colloca, nell’ipotesi minore, come momento di oralità in un sistema di contraddittorio scritto e facoltativo. Dopo il relatore prendono la parola il procuratore generale, l’avvocato dello Stato ed il difensore. I documenti, rimasti in cancelleria nell’intervallo tra il deposito della domanda e l’udienza, sono già stati esaminabili, ma niente vieta che il difensore del richiedente possa produrre nuovi documenti, da sottoporre all’esame delle controparti e della Corte. In sintesi, il procedimento camerale è dotato di estrema semplicità e libertà di forme. Prodotti, se del caso, gli altri documenti, la discussione si conclude con la pronuncia immediata della Corte, ritiratasi in camera di consiglio, ovvero con la riserva di decisione, decisione che può essere anche interlocutoria (ad es., per l’acquisizione del fascicolo processuale), senza che occorra la rifissazione dell’udienza. Invero, il diritto di difesa è garantito dalla ricorribilità per cassazione dell’ordinanza di rigetto, anche se il rigetto fosse fondato sul concorso dell’imputato a cagionare l’errore cautelare, concorso non emerso durante la discussione per mancanza del fascicolo del procedimento nel quale si è consumata la detenzione ingiusta. Pertanto, non si conviene con chi ritiene che viga un divieto per il giudice di acquisire il fascicolo processuale: l’accertamento della condizione ostativa del concorso a cagionare l’errore cautelare non è altro che l’accertamento del presupposto dell’azione fatta valere e, come tutti i presupposti processuali, secondo un ben noto insegnamento (28), deve essere verificato anche d’ufficio. Ovviamente, il collegio che si è riservata la decisione, è immutabile. 13. L’onere probatorio. — Come si è visto, la giurisprudenza attribuisce all’azione riparatoria natura d’indole civile. Ne segue che, di regola, l’onere probatorio è quello ordinario, che disciplina il processo civile e tanto vale per il titolo (il provvedimento di custodia in(28) G. CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile (rist. anastatica), Napoli 1965, pp. 96 s.
— 663 — valido e la durata della detenzione ingiusta), quanto per il quantum della prestazione riparatoria (si ricordi che la prestazione riparatoria ha natura esclusivamente pecuniaria, sicché le riparazioni morali previste dall’art. 642 c.p.p. non sono adottabili nel nostro istituto, anche a garanzia della riservatezza della persona ingiustamente detenuta). Tuttavia, la distribuzione dell’onere probatorio avviene in sede impropria, e cioè nel rito camerale penale, rito del quale abbiamo ricordato lo stampo inquisitorio. Pertanto, le regole civilistiche vanno combinate, in modo equilibrato, con quelle processual-penalistiche, sì da disegnare un’udienza camerale dalla quale sia consentito uscire con una pronuncia di ‘‘certezza’’ sull’invalidità della misura e di ‘‘equità’’ sull’entità della correlativa prestazione pecuniaria (29). Tale combinazione è necessaria, a nostro avviso, soltanto in punto di condizione ostativa della riparazione. Il titolo è, invero, ‘‘sacrale’’, nel senso che esso è indiscutibile e che il giudice della riparazione non deve ripercorrere l’intero cammino che portò il giudice a quo (del cui errore cautelare è chiesta la riparazione stessa) all’instaurazione od al mantenimento della custodia invalida. L’eccezione, circa l’induzione dell’indagato o dell’imputato, all’errore cautelare deve essere, invece, rigorosamente provata, concorrendo alla prova anche i poteri d’ufficio della Corte di appello. A tale scopo, in primo luogo, deve essere acquisito il certificato penale al tempo della misura cautelare, perché, da un lato, la censuratezza può essere un elemento di quei ‘‘gravi indizi di colpevolezza’’ che hanno consigliato l’adozione della misura invalida; dall’altro, l’incensuratezza aggrava la sofferenza riparabile e rende ancor più ingiusto il carcere preventivo invalido. Ciò stante, e salva l’archiviazione, la condotta dell’indagato o dell’imputato, che ha indotto all’errore cautelare, non deve essere ricostruita sulla base del solo titolo, cioè della sentenza irrevocabile. Diversamente ragionando, potrebbe sfuggire l’accertamento sul contributo causale (doloso o colposo) della vittima alla produzione dell’errore cautelare, sicché occorre l’acquisizione del fascicolo processuale nel quale l’errore è avvertibile. Questa acquisizione, se non disposta dal presidente, può essere disposta, su richiesta del procuratore generale, dell’avvocato dello Stato o d’ufficio, nel corso od al termine dell’udienza camerale. In altri termini, la specialità dell’istituto rende inapplicabile, nel corso del giudizio di primo grado, il disposto dell’art. 606 lett. d) ed e) c.p.p., il quale vincola la sola Corte Suprema a fondarsi esclusivamente sul ‘‘testo del provvedimento impugnato’’. La riparazione non è un’impugnazione, ma un procedimento autonomo, diretto a verificare l’esistenza dell’errore cautelare e delle sue cause. Pertanto, domanda, memorie scritte ed argomentazioni orali non sono totalmente devolutive. Invero, la Corte di appello, sul fondamento dei documenti acquisiti e del fascicolo processuale, deve scoprire, nel significato di ‘‘accertare’’, l’impedimento (l’induzione all’errore del giudizio cautelare, cioè), indipendentemente dalla eccezione, ma controllandolo, come presupposto processuale, d’ufficio, mediante l’acquisizione del fascicolo processuale, esaminabile nella sua interezza a questo scopo. La combinazione tra onere probatorio di natura processual-civilistica e poteri inquisitori di natura camerale avviene anche per quanto riguarda l’entità della prestazione pecuniaria, perché la Corte non è vincolata dal maximum della richiesta dell’interessato, ma soltanto dalla soglia massima legale della riparazione. Richiamando in proposito la vincolante interpretazione delle Sezioni Unite in c. Castellani (30) è sufficiente, per la Corte di appello, il fumus del torto cautelare, come conseguenza personale o familiare dell’ingiusta soppressione del bene primario della libertà personale. Tale fumus potrà risultare, oltre che dalla incensuratezza (dato di fatto il quale, se unito (29) Cass. 17 dicembre 1991, Parente, in Cass. pen., 1993, 901. (30) Sez. Un., 13 gennaio 1995, Castellani, in Cass. pen., 1995, 2478 ed in ANPP, 1995, c. 413.
— 664 — all’età della persona indagata o imputata, avrebbe dovuto spingere il giudice cautelare al massimo della prudenza), da prove o argomenti informali. Prove o argomenti diretti a corroborare lo strepitus fori in relazione alla disistima ed al dispregio che la misura ha prodotto alla vittima del processo, in funzione della risonanza, nazionale e locale, della notizia dell’instaurata coercizione con custodia o del suo mantenimento. Valgono, a tale scopo, le registrazioni dell’informazioni mass-mediali, le fotocopie dei giornali, le lettere anonime. Come si vede, non si può parlare di un onere probatorio ‘‘puro’’ che faccia capo al richiedente e non si può escludere la potestà di ufficio della Corte di appello, anche se non attivata dalla procura generale o dall’avvocatura dello Stato. Acquisito il fascicolo processuale, la Corte d’appello ha tutti gli strumenti per la sua equa decisione, mediante ordinanza. Pertanto, dal procedimento si passa al provvedimento. 14. I tipi di ordinanza riparatoria. — L’ordinanza riparatoria ha tre modelli: l’inammissibilità, il rigetto, l’accoglimento, anche parziale. L’inammissibilità consegue alla proposizione della richiesta oltre il termine di decadenza dei diciotto mesi dal passaggio in giudicato del proscioglimento o della condanna, ovvero dalla pronuncia del decreto di archiviazione. L’inammissibilità consegue pure alla revoca della sentenza di non luogo a procedere, revoca la cui richiesta, se proposta durante l’udienza camerale, ne produce la sospensione (31). Il rigetto consegue alla validità del titolo od all’opponibilità del contributo causale della vittima del processo alla produzione dell’errore cautelare, ovvero al computo della parte della custodia ai fini della determinazione di una pena o ‘‘per il periodo in cui le limitazioni della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo’’ (art. 314.4 c.p.p.); nonché per il periodo di custodia all’estero dell’estradando in Italia, qualora essa sia stata applicata quando avrebbe dovuto essere sofferta nello stato per altro titolo (32). L’accoglimento anche parziale consegue al riconoscimento dell’ingiustizia della detenzione, accompagnato da una riparazione pecuniaria inferiore a quella richiesta. Tutti e tre questi modelli di ordinanza sono ricorribili per cassazione da tutte le parti, anche con ricorso incidentale ai sensi dell’art. 371 c.p.c. A proporre tale ricorso molto frequentemente è l’avvocatura dello Stato, in tema di entità della riparazione pecuniaria. In via principale, il ricorso è consentito dagli artt. 315.3 e 646.3 c.p.p.; in via incidentale, appunto, dall’art. 371 c.p.c., applicabile in via analogica, stante l’indole civile dell’azione riparatoria (33). La Corte Suprema non può sindacare l’entità della prestazione riparatoria se non per vizi di legittimità e con esclusione del giudizio di fatto, se la motivazione è logica, congrua e completa, conformemente ai principi di diritto (34). 15. Il contributo causale della vittima alla produzione dell’errore cautelare. — Nella nostra materia, la rilevanza ostativa della riparazione, accordata al contributo dell’‘‘interessato’’ all’errore cautelare, ha radici lontane: il principio ‘‘non indurre alcuno in errore’’ è, invero, di diritto materiale, come ricordato dal § XLVI della Leopoldina. Già l’art. 571, comma 2, n. 3 c.p.p. abr., nel testo originario, prevedeva l’inammissibilità della domanda, a titolo di soccorso, di riparazione dell’errore giudiziario, ‘‘se il ricorrente per dolo o colpa grave ha dato o è concorso a dare causa all’errore del giudice’’. L’art. 1, l. 23 maggio 1960, n. 504, sostituendo il citato art. 571, mantenne tale limite alla riparazione, alla quale la persona assolta in sede di revisione aveva diritto solo ‘‘se per dolo o colpa grave non ha dato (31) Se viene revocata la sentenza di non luogo a procedere e l’interessato è condannato, egli, per la condicio indebiti, è tenuto a restituire al ministero del tesoro quanto percepito a titolo di riparazione per ingiusta detenzione. (32) C.A. Firenze, Gelli, in Dif. pen., 1993 (38), p. 81. (33) V., retro, § 7. (34) Sez. IV, 31 gennaio 1994, Boccia, in Mass. Cass. Pen., 1994 (fasc. 9), p. 37.
— 665 — o concorso a dare causa all’errore giudiziario’’. L’attuale art. 643.1 c.p.p. ha riproposto questo limite alla riparazione dell’errore giudiziario. Più in generale, l’art. 1227, comma 1, c.c. esprime un principio di carattere generale (derivante dal carattere sinallagmatico del negozio giuridico a prestazioni corrispettive), quando afferma che il fatto colposo del creditore porta alla diminuzione del danno, ‘‘secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate’’. ‘‘Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza’’, aggiunge il comma 2, la cui portata è estesa alla determinazione dei danni da fatto illecito dall’art. 2056, comma 1, c.c. Il campo processuale convalida l’idea che l’agire umano debba sempre esser sorretto dalla responsabilità dell’agente, tanto vero che il temerario vede punita la propria ‘‘mala fede o colpa grave’’, nell’agire o nel resistere in giudizio. Il litigante temerario è tenuto, su istanza dell’altra parte, al risarcimento dei danni (art. 96, comma 1, c.p.c.). Tale risarcimento è del pari accordato a favore della controparte richiedente, se l’azione processuale ha portato, tra i vari casi, all’errata esecuzione di un provvedimento cautelare e se l’attore o il creditore procedente ha varcato i limiti della ‘‘normale prudenza’’ (art. 96, comma 2, c.p.c.). Proprio quest’idea della necessaria responsabilità umana — fondata sulla capacità di agire (artt. 2 e 1191 c.c.), tanto che gli artt. 1175 e 337 di quello stesso codice impongono che i rapporti tra debitore e creditore siano corretti e che pure le trattative, che presiedono alla formazione del contratto, siano condotte con correttezza e secondo buona fede — riversa dal sistema sostanziale al sistema processuale regole formative di portata generale. Pure l’art. 88 c.p.c. impone il ‘‘dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità’’ e niente autorizza ad escludere che la regola nemo tenetur contra se edere possa far perdonare la slealtà, ovvero la scorrettezza delle parti del processo penale e dei loro uffici. Pertanto, il limite posto dal fatto ostativo dell’art. 314.1 c.p.p. ha natura razionale e va condiviso, impedendo che la persona sottoposta a custodia, instaurata o mantenuta anche in forza del suo contributo all’errore cautelare, possa assicurarsi quella diversa riparazione che il legislatore volesse rifondare, de iure condendo, a titolo di soccorso. Un soccorso a favore di chi ha agito con dolo o colpa grave, invero, farebbe dell’errore cautelare il cavallo di Troia, tale da comportare un’ingiusta assoluzione o da assicurare l’immeritato soccorso. Si tratta di nozioni ben note, anche se la delimitazione della difesa (sostanziale o formale) rispetto al concorso nel cagionare l’errore cautelare pone, in materia processuale penale, problemi ben più difficili di quelli che si pongono nella materia processuale gemella. La pubblicità del processo penale, lo status di custodito dell’imputato, la precarietà della difesa di ufficio e l’insicurezza che in particolare gli stranieri incontrano nella conoscenza delle regole del procedimento e del processo penale rendono maggiore la difficoltà. Occorre muoversi sul piano causal-oggettivo per stabilire a quali condizioni l’errore cautelare sia riferibile alla condotta dell’indagato o dell’imputato; ovvero, se la condotta di induzione resti, pur sempre, innocua o parziale, sì da consentire pur sempre la riparazione, seppur in misura ridotta (se non, addirittura, sia dovuta ad una strategia del difensore non condivisa dall’imputato). Stabilito, in positivo, che l’errore cautelare è stato cagionato dall’indagato o dall’imputato, due sono le forme soggettive del suo contributo: il dolo o la colpa grave. Più facile la definizione del dolo, il quale consiste nel mendacio, nella dichiarazione palesemente inverosimile e, a fortiori, nell’alibi malizioso (35). Si tratta di condotte vòlte ‘‘alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali’’, ovvero consapevoli e volontarie, ‘‘i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da (35) C.A. Venezia, 26 settembre 1995, Garibaldi, in Cass. pen., 1996, 1312; Cass., Sez. IV, 12 aprile 1995, Moro, in Giust. pen., 1996, III, c. 280; Sez. IV, 30 novembre 1994, Martinelli, in Riv. pen., 1995, 353, con nota di ALIBRANDI.
— 666 — creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo’’ (36). Più casistica la definizione della colpa grave. La Corte Suprema l’ha ritenuta nella condotta, consapevole e volontaria, di chi, mantenendo i rapporti con le c.d. ‘‘Brigate rosse’’, si era prestata a fare da ‘‘messaggera’’ e si era altresì attivata per fornire notizie su procedimenti penali in corso a persone che vi erano coinvolti (37), approdando alla definizione concettuale di ‘‘macroscopica superficialità, imprudenza, inosservanza di leggi e norme disciplinari, sì da far riguardare come prevedibile, in base a regole di comune esperienza, l’adozione’’ della misura cautelare (38). Superficialità tale da dare luogo a ‘‘ragionevoli sospetti’’ (39), come nel caso di chi si rende falso intestatario di diverse utenze telefoniche, poi utilizzate da altri per traffico di stupefacenti (40). Il giudizio sulla condotta dolosa o colposa dell’indagato o dell’imputato deve essere compiuto al momento dell’adozione della misura cautelare (41), anche se il ritardo nella proposizione dell’alibi fondato non va a carico del richiedente (42). Tuttavia, tale giudizio può tenere in conto anche la condotta della presunta vittima anteriore all’adozione della misura cautelare (43). La giurisprudenza ha posto in rilievo pure la colpa ‘‘lieve’’, osservando che di essa deve tener conto la Corte di appello in punto di quantum, ai sensi degli artt. 1227 e 2056 c.c. (44). Quid iuris se l’indagato o l’imputato non allegano la causa estintiva della pena? In proposito, le cause di estinzione della pena, qui rilevanti ai sensi dell’art. 273.2, operano di diritto e, quindi, costituiscono in errore il giudice soltanto se il reato ne dispone l’operatività (ad es., in funzione del tempo e dello spazio di commissione del reato). In tal caso, però, l’imputato ha l’onere di allegare i fatti comprobanti quel minor reato che rende applicabile la causa di estinzione della pena (ovvero, di indicare una data di commissione del reato più remota di quella contestata e tale da rendere condonabile la pena ‘‘che si ritiene possa essere irrogata’’). Se, invece, il giudice trasgredisce la regola di correlazione tra pena edittale per il reato contestato e pena che legittima la misura coercitiva (art. 280 c.p.p.), o ha usato criteri errati per il solo calcolo aritmetico, l’eventuale induzione all’errore cautelare da parte dell’imputato resta innocua. Non altrettanto può dirsi qualora l’imputato si accolli gravi indizi di colpevolezza (art. 273.1 c.p.p.) in ordine a fatti che il pubblico ministero gli contesti per ottenere dal giudice l’ordinanza di custodia e questa sia correlata alla pena edittale per il reato contestato, ai sensi dell’art. 280 cit. La misura cautelare può, dunque, definirsi tout court invalida (e porsi quale titolo per la riparazione) quando l’errore risulta proprio del giudice competente. In positivo, quando intervengono il proscioglimento o l’archiviazione, ovvero la custodia in carcere è stata disposta in difetto dei presupposti (artt. 273 e 280 c.p.p.); od oltre i limiti strutturali, posti all’eccezionale potestà di comprimere la libertà personale nel processo (artt. 314.1 e 3 c.p.p.). In (36) S.U. 13 dicembre 1996, Sarnataro ed altro, in Cass. pen., 1996, p. 2165, con la citata nota di P. FELICIONI, nonché in Dir. pen. e proc., 1996, p. 741, con nota di M.G. COPPETTA. (37) Sez. IV, 5 marzo 1996, Calia, in ANPP 1996, c. 57. (38) Sez. IV, 12 aprile 1996, Simonetti, in ANPP, 1996, c. 582. (39) Sez. IV, 24 maggio 1996, Nofal, in Giur. merito, 1996, p. 958, con nota di CATARINELLA. (40) Sez. IV, 12 aprile 1995, Tagliarini, in Giust. pen., 1996, III, c. 278; Id. 12 aprile 1995, Moro, in ANPP, 1995, c. 885. (41) C.A. Venezia, 26 settembre 1995, Garibaldi, in Cass. pen., 1996, cit. (42) Sez. IV, 12 aprile 1995, Tagliarini, in Giust. pen., 1996, III, cit. (43) S.U. 13 dicembre 1995, Sarnataro e altro, in Cass. pen., 1996, 2146 ed in Dir. pen. e proc., 1996, con le citate note di P. FELICIONI e M.G. COPPETTA. (44) Sez. IV, 31 gennaio 1994, Marchetti, in Mass. Cass. Pen., 1994 (fasc. 9), p. 36.
— 667 — negativo, ‘‘qualora (l’imputato) non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave’’, con una induzione tanto omissiva quanto commissiva. In sintesi, l’oggetto dell’invalidità resta cautelare e tale qualificazione distingue la riparazione in esame da quella per l’errore giudiziario. La natura oggettiva dell’errore cautelare fonda, poi, la riparazione per l’ingiusta detenzione, distinguendola dalla responsabilità personale, per dolo o colpa grave, del magistrato (art. 2, l. 13 aprile 1988, n. 117). Di conseguenza, le due azioni spettano entrambe a chi ha patito il torto, in quanto fondate su titoli diversi; e sono esercitabili l’una in modo indipendente dall’altra (ma non congiuntamente, data la diversità della giurisdizione competente penale per la detenzione ingiusta, civile per la responsabilità civile del magistrato). 16. L’esclusione dalla riparazione della parte di custodia computabile in forza di altro titolo. — Il comma 4 dell’art. 314 c.p.p. esclude il diritto alla riparazione ‘‘per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena’’, ‘‘ovvero per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo’’. La ragione giustificatrice di questa esclusione (anche soltanto parziale) della riparazione del torto cautelare concorrente con l’esecuzione di una pena o la sottoposizione ad altra misura di custodia sono di tutta evidenza, ma il quomodo dell’esclusione non è stato affrontato dalla dottrina, sicché dovremo far capo alla sola giurisprudenza per la soluzione dei problemi che sono posti. In primo luogo, dalla sentenza 7 dicembre 1992 della Corte di appello di Firenze (45) si trae l’idea che la riparazione sia esclusa innanzitutto per la custodia cautelare subìta all’estero dall’estradando in Italia, qualora essa sia applicata quando avrebbe dovuto essere sofferta nello Stato per altro titolo. In secondo luogo, il c.d. scomputo dalla durata della custodia invalida può non verificarsi qualora la pena da espiare sia soltanto pecuniaria. In tal caso, infatti, il custodito e, al contempo, condannato a pena pecuniaria ha solo la facoltà di chiedere il ragguaglio (artt. 657.3 c.p.p. e 135 c.p.). ‘‘Ne consegue che, ove egli preferi[sca]... rimanere assoggettato al pagamento dell’intera pena pecuniaria... conserva il diritto alla riparazione previsto dall’art. 314’’ (46). Quanto precede conferma ciò che abbiamo scritto a proposito dell’onere probatorio e dei poteri di ufficio della Corte di appello, dal momento che l’esecuzione della pena o della misura di custodia per altro titolo può non risultare dagli atti. In tal caso, la Corte è tenuta a disporre l’acquisizione della documentazione relativa, ad es. del foglio matricolare, esercitando un potere che può non essere attivato dalle parti e riservando la decisione. 17. Riparazione del torto in caso di sentenza di non luogo a procedere, anche per errore di persona. La sentenza ‘‘patteggiata’’ e quella ‘‘cumulativa’’. — La previsione dell’art. 314.1 si estende, com’è naturale, alla sentenza irrevocabile di non luogo a procedere (art. 425 c.p.p.), pronunciata con le formule terminative: il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato. Tuttavia, sorge il problema della riparabilità della sentenza di non luogo a procedere per ‘‘causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve proseguita’’, causa che è indicata dallo stesso art. 425 cit. In dottrina ci si è convinti che il legislatore si sia orientato per negare la riparazione agli imputati prosciolti per estinzione del reato (47), fondando la sua scelta, sull’equivocità del(45) C.A. Firenze in c. Gelli cit. (46) Sez. IV, 30 novembre 1993, Patrich, in ANPP, 1994, c. 45. (47) Cfr. M.G. COPPETTA, La riparazione, cit., pp. 147-148; A. MONTALDI, Commento sub art. 314, in Commento al nuovo codice di procedura penale (coord. da M. CHIAVARIO, vol. III, p. 311 s.
— 668 — l’accertamento dell’estinzione del reato, equivocità dalla quale non può trarsi l’idea dell’innocenza dell’accusato e, quindi, dell’ingiustizia della detenzione. Diversa si prospetta la soluzione dei casi nei quali la custodia cautelare si è realizzata in procedimenti che non dovevano essere iniziati, né potevano essere proseguiti, per difetto originario, o sopravvenuto, di condizione dell’azione penale. La portata degli artt. 314.1 e 425.1 c.p.p. spinge, com’è ovvio, ad escludere l’equa riparazione quando la condizione dell’azione penale è venuta meno, ad es. per remissione di querela, istituto che non suppone l’errore del giudice. Nel caso opposto, il difetto originario della condizione dell’azione è, sì, oltre la portata della lettera dell’art. 314.1, ma non varca certo i confini della ratio dell’art. 314.2 c.p.p. Invero, l’emissione e il mantenimento della misura cautelare, in tal caso, è illegale per difetto di gravi indizi di colpevolezza (art. 273.1 c.p.p.), indizi i quali presuppongono la sussistenza, almeno in fatto, della condizione dell’azione, la quale rende procedibile il reato. Si tratta di un caso nel quale la vis dell’art. 529.2 c.p.p. porta al riconoscimento della riparazione, vis secondo la quale è doveroso il proscioglimento ‘‘quando la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria’’. Nonostante talune incertezze, si dicono cause di non punibilità ‘‘per altra ragione’’ (art. 530.1 e 425 c.p.p.) tanto le condizioni oggettive di non punibilità (art. 44 c.p.), quanto le cause di non punibilità in senso stretto (art. 59, commi 1 e 4 c.p., nel testo dell’art. 1, l. 7 febbraio 1990, n. 19). Entrambe le specie si differenziano dalle cause di giustificazione e dalle cause scusanti (operanti, le prime, sull’antigiuridicità; le seconde ‘‘sui fattori di rimproverabilità del fatto al suo autore, lasciando invece presente il contenuto di illiceità (oggettiva) del comportamento’’ e toccando la sola pena, ma non propriamente il reato (ad es., artt. 307 comma 3, 308 comma 2, 371 comma 2; 376, 418, 596, 649 c.p.) (48). L’art. 1, l. 7 febbraio 1990, n. 19, ha oggi modificato la disciplina dell’art. 59 c.p., richiedendo la valutazione delle cause di non punibilità sempre e comunque pro reo. Qual è, dunque, il significato delle formule terminative del proscioglimento per operatività di condizione obiettiva di non punibilità, ovvero di causa di non punibilità in senso stretto? L’ineffficacia del proscioglimento per causa di non punibilità in senso stretto, per quanto essa è atta a garantire la riparazione, è proposizione approssimata per eccesso, dovendo il giudice della riparazione valutare, caso per caso, se l’impunità dell’agente, custodito in carcere o sottoposto al regime degli arresti domiciliari, dipenda dal riconoscimento che si tratta di una causa di non punibilità « apparente o meno ». Escluso, mediante questa ricognizione, che il caso rientri nella previsione dell’art. 273.2 c.p.p. (e che, quindi, il titolo alla riparazione stia nell’illegalità della custodia cautelare), il giudice dovrà considerare che l’irreparabilità della custodia, seguìta al proscioglimento per causa di non punibilità in senso stretto, è legittima solo se tale causa l’imputato abbia allegato dopo l’emissione dell’ordinanza cautelare. Nel caso inverso, l’irreparabilità del torto conseguirebbe ad una considerazione moralistica del reato: non si vede ragione giuridica perché, presente una simile causa ed operante il principio ricavabile dall’art. 314.5 c.p.p., il giudice debba disporre la custodia di quell’imputato che, ex ante, si sa che non potrà essere punito. Abbiamo ancorato il principio all’art. 314.5 perché la sopravvenienza della causa di non punibilità in senso stretto opera alla pari dell’abrogazione della norma incriminatrice, la quale esclude la riparazione ‘‘per quella parte di custodia cautelare sofferta prima dell’abrogazione medesima’’. Vi è certo un principio di somiglianza tra i due casi (l’abolitio criminis e quello della causa di non punibilità in senso stretto, non espressamente regolato dall’art. 314 c.p.p.). Esso consiste nel difetto di errore del giudice, il quale, quando dispone la custodia cautelare (tanto in applicazione della norma incriminatrice che solo poi sarà abrogata, (48) 447.
M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano 1987, pp. 444-
— 669 — quanto nell’accertamento di un fatto del quale non sia allegata la presenza della condizione di non punibilità) non ha sbagliato nel disporre la misura coercitiva più grave. Sbaglia sovente il giudice in presenza di persone omonime. Affrontando il problema della riparabilità della detenzione avvenuta in procedimento concluso con la sentenza prevista dall’art. 129 c.p.p., si è data risposta positiva, osservando che, « già de iure condito, la sentenza che accerta l’errore di persona [è] una sottospecie della sentenza di proscioglimento « per non aver commesso il fatto »; sentenza che, dunque, costituisce ‘‘di per sé valido ed idoneo presupposto per la riparazione della custodia cautelare ingiusta, ex art. 314, comma 1’’ (49). La tesi appare fondata, perché rispondente alla ratio (di giustizia riparatrice e di equità) dell’istituto. Secondo la giurisprudenza, la sentenza ‘‘patteggiata’’ in caso di ridifenizione (‘‘allo stato degli atti’’) del fatto, fatto che avrebbe reso la misura cautelare illegale, non è titolo per la riparazione, anche se irrevocabile, perché ex lege, tale ‘‘sentenza è equiparata ad una pronuncia di condanna’’ (50). In caso di processo cumulativo, poi, la giurisprudenza precisa che, ‘‘se il provvedimento restrittivo della libertà è fondato su più contestazioni, il proscioglimento con formula non di merito anche da una sola di queste — sempreché autonomamente idonea a legittimare la compressione della libertà stessa — impedisce il sorgere del diritto alla riparazione, irrilevante risultando il pieno proscioglimento dalle altre imputazioni’’. La soluzione, risalente alla massima della Sez. IV, 9 febbraio 1996, in c. Zaccaria (51), ci pare richiedere alcuni chiarimenti. Nel processo cumulativo, invero, non solo l’accusa dalla quale è derivata l’ingiusta detenzione per effetto del proscioglimento non di merito è causa di illegalità della detenzione, ma anche le altre accuse, che abbiano comportano la compressione della libertà e per le quali sia intervenuto il proscioglimento, sono rilevanti. In definitiva, si tratterebbe di un processo cumulativo nel quale, per almeno parte dei fatti di reato contestati, la libertà personale è stata compromessa e, successivamente, è intervenuto il proscioglimento, di merito in alcuni casi, non di merito in altri. Pertanto, quel proscioglimento è segnale, in un caso, di detenzione ingiusta, negli altri di detenzione illegale: in tutti, di detenzione invalida. In definitiva, non si vede ragione perché nel processo cumulativo non sia possibile, agli effetti previsti dall’art. 314 c.p.p., frazionare la sentenza, distinguendo le imputazioni a seconda del loro esito ed escludendo dalla riparazione solo le pronunce di condanna o di patteggiamento. La soluzione che noi proponiamo, oltre che nella funzione del processo cumulativo, trova giustificazione nel principio del favor rei, perché l’eventuale contestazione della continuazione criminosa o del concorso formale eterogeneo (ovvero, del concorso materiale di reati), istituti tutti rientranti nella previsione dell’art. 81 c.p., non può non portare ad una valutazione frazionata dei fatti costitutivi del reato continuato (e, quindi, della riunione dei procedimenti, la quale ha dato vita al processo cumulativo). Non ci sono altri precedenti giurisprudenziali oltre alla citata sentenza in c. Zaccaria, sicché siamo legittimati a considerarla una opinione isolata, tale da non costituire un precedente. Condividiamo, invece, quell’orientamento secondo il quale, nel processo cumulativo con plurime imputazioni, ‘‘trattate nello stesso procedimento ma decise con provvedimenti distinti, il dies a quo per l’esercizio alla riparazione va fissato alla data in cui è divenuta irrevocabile l’ultima decisione; di conseguenza, l’istanza presentata anteriormente a tale data è inammissibile’’ (52). Tale soluzione ci conforta nell’assunto, da noi svolto (§ 13) secondo il quale l’onere probatorio di indole civile va contemperato coi poteri inquisitori del rito came(49) M. PISANI, Errore di persona e riparabilità della detenzione ingiusta, in Ind. pen., 1996, p. 578. (50) Sez. IV, 8 ottobre 1996, Tilgher, in Cass. pen., 1997, p. 3124 [s.m.]; Trib. Trento, 18 dicembre 1996, Scarperi, in Giust. pen., 1997, III, c. 184; C.A. Trento, 24 ottobre 1996, Nicolini, ivi, 1997, III, c. 181. (51) in Cass. pen., 1997, p. 3122 [s.m.]. (52) Sez. IV, 8 ottobre 1996, Goglia, in CED Cassazione, 1997 [s.m.].
— 670 — rale, consentendosi, così, alla Corte di appello di accertare d’ufficio la data di irrevocabilità dell’ultimo dei provvedimenti. Nel senso da noi prospettato si è, di recente, pronunciata la IV Sezione in c. Santarelli (53), secondo la quale, nel processo cumulativo, ‘‘non potrà essere negato l’equo indennizzo per il fatto che alcuni dei reati siano stati dichiarati estinti [e], a maggior ragione, quando per questi ultimi la custodia cautelare non fosse ipotizzabile in linea di principio’’. 18. Il quantum della riparazione pecuniaria: criteri ordinari. — È certo che il legislatore, richiamando l’equità come fonte di liquidazione del quantum debeatur a favore della vittima del processo, ha tenuto conto che il torto cautelare è diverso dal risarcimento del danno e che il primo, per la sua prevalente natura di ristoro pecuniario del bene-libertà leso, non può essere valutato (anche per il danno extra-patrimoniale) alla stregua del danno emergente e del lucro cessante. Nel raggiungere di slancio questa conclusione, anticipata dalla lettera della legge, la quale affida il compito della determinazione del quantum debeatur al saggio e prudente apprezzamento del giudice (art. 116 c.p.c.), lo stesso art. 314.1 c.p.p. ha insistito sull’‘‘equa riparazione’’, sicché la giurisprudenza ha escluso la transazione stragiudiziale sull’ammontare del danno ad opera delle parti ed ha, poi, definito il diritto della vittima del processo come diritto soggettivo pubblico, da esercitarsi, per ragioni di opportunità, nel processo penale. La giurisprudenza ha aggiunto che l’azione per conseguire tale diritto, pur inserita in uno speciale processo penale, è d’indole civile, con le conseguenti regole di distribuzione dell’onere della prova, temperate dalla sede del giudizio; ed ha concluso, come abbiam visto, che il rinvio dell’art. 315.3 c.p.p. alle ‘‘norme sulla riparazione dell’errore giudiziario’’ comporta non solo il vigore di quelle procedimentali (artt. 645-647 c.p.p.), ma anche di quelle sostanziali, pubblicazioni escluse. In un primo momento, ed in assenza di prove di una particolare incidenza del torto cautelare, la giurisprudenza ha notato che il primitivo significato dell’equità sta nell’eguaglianza di trattamento, sicché, partendo dal limite massimo dei cento milioni di lire, ha stabilito che il calcolo debba essere di tipo aritmetico, dividendosi quella somma per il periodo massimo di detenzione cautelare (quattro anni nel testo originario del Codice; sei anni secondo il testo modificato) al fine di trovare l’unità giornaliera (£ 45.000=), da moltiplicarsi per i giorni di detenzione ingiusta, sì da formare il quantum (54). Sono, questi, i criteri ordinari di stima del quantum spettante alla vittima del processo, in un contesto di rigorosa eguaglianza e di ostacolo a determinazioni ‘‘a caso’’. Tuttavia, l’insufficienza di questo criterio è di tutta evidenza, anche perché esso non tiene conto del testo dell’art. 643 c.p.p., secondo il quale la riparazione per l’errore giudiziario deve essere ‘‘commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna’’. Pertanto, il criterio in questione è la base, non derogabile, della successiva evoluzione della giurisprudenza, evoluzione che si è consacrata nella sentenza 13 gennaio 1995 delle Sezioni Unite in c. Castellani (55). 19. Segue: criteri eccezionali. — La fondamentale sentenza delle Sezioni Unite in c. Castellani ha stabilito i seguenti principi di diritto, parzialmente anticipati dalla Sezione IV in c. Maggiolaro (56), ed oramai impostisi. La riparazione per l’ingiusta detenzione è una specie del genere della correzione, a favore della vittima del processo, dell’errore del giudice ed il rinvio che l’art. 315.3 fa alle norme sull’errore giudiziario implica l’adozione anche dell’art. 643 c.p.p.. Il contenuto dell’istituto non è risarcitorio, tanto vero che vi è il tetto dei cento milioni che il risarcimento (53) In Cass. pen., 1996, p. 1930 [s.m.]. (54) Cass., Sez. IV, 21 aprile 1994, Ubaldini, in Mass. Cass. Pen., 1994, (fasc. 9), p. 101; Sez. IV, 31 gennaio 1994, Caneva, ivi, 1994 (fasc. 8), p. 48. (55) S.U. in c. Castellani cit. nt. 30. (56) In Mass. Cass. Pen., 1994 (fasc. 9), p. 96.
— 671 — delle conseguenze immediate e dirette del danno non tollererebbe. Ne derivano due conseguenze. La riparazione è composta dal ristoro della durata della custodia, nonché da quello per lo svilimento delle condizioni personali e familiari della vittima del processo. Le due voci sono aritmeticamente separabili ed il giudice del merito, non vincolato ad identità di riparazione per ciascuna persona, potrà anche tener conto di ulteriori e specifiche voci di danno, con una valutazione la quale, per la sua equità, non deve aver carattere rigido. Lo scopo dell’istituto è, dunque, la riappropriazione della vita sociale, lavorativa e familiare ingiustamente interrotta (57). A queste conclusioni le Sezioni Unite pervengono superando la precedente giurisprudenza senza negarla, in forza della differenza tra i parametri di riferimento, perché diverso è l’uomo e diversa la sua capacità lavorativa specifica; sicché l’apprezzamento deve essere ‘‘globale’’: s’intende, sino al tetto dei cento milioni di lire. La distribuzione della somma tra gli eredi che richiedono l’uso del criterio equitativo, posto dal richiamato art. 644 c.p.p., allorché agiscono iure proprio per conseguire la somma che sarebbe spettata al prosciolto, prova che ciò che si ripara è un ‘‘torto’’, cioè un quid alieni dal risarcimento tourt court (la cui esistenza e consistenza dovrebbero, invece, essere rigorosamente provate). La critica che potrebbe muoversi a quest’orientamento — quella, cioè, di discriminare il danno psico-fisico, la perdita di un lavoro o di un affare, la ‘‘particolare risonanza del fatto, dovuta anche alla qualità della persona, nell’ambiente di lavoro e in famiglia, un particolare disagio familiare; ecc.’’ — di sostituire all’identità della somma, derivante dal calcolo aritmetico (e, quindi, di rendere giustizia sempre eguale) non è fondata. Diversamente ragionando, la mancata considerazione dello ‘‘sviluppo della personalità’’, in presenza della lesione del bene primario della libertà, urta, scrivono le Sezioni Unite, contro gli artt. 2 e 3 Cost. Prospettando come misera la somma posta a base del calcolo aritmetico e quella dello stesso ‘‘tetto massimo’’ si è affermato, in sede di commento, che giustamente la Corte Suprema ha svincolato ‘‘il valore della libertà... [da una] misura uguale per tutti [e lo ha] diversificato in base alla situazione personale e familiare’’, fornendo così al giudice del merito quei criteri equitativi i cui vizi di motivazione sono controllabili mediante il ricorso per cassazione. Vi è un altro profilo col quale considerare la sentenza. Essa si inquadra entro l’ottica, secondo la quale ‘‘la legge, nel parlare di riparazione [dell’errore giudiziario, come sostituita al soccorso al prosciolto in sede di revisione, versante in stato di bisogno], supera il concetto di risarcimento del danno’’ (58). E si aggiungeva ‘‘Tale superamento non significa, però, che la riparazione abbia un àmbito più ristretto del risarcimento del danno. La riparazione, infatti, è commisurata alla durata dell’eventuale carcerazione (e questo criterio è inquadrabile nel risarcimento del danno) sia alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna; e qui l’orizzonte si slarga, perché nell’ampia nozione di ‘conseguenze’ rientrano sia i danni patrimoniali che i danni extrapatrimoniali. In definitiva — se ne concludeva — il concetto di riparazione è più ampio del concetto di risarcimento del danno’’, come acutamente prospettato, dal Guardasigilli pro tempore, l’on. Gonella (Atti Senato, seduta pom. 12 maggio 1960, p. 11642). Secondo il Guardasigilli, invero, nell’errore giudiziario ‘‘facciamo torto a colui che è stato condannato ingiustamente con sentenza ingiusta’’ (...) il danno maggiore... è di natura morale, ... proprio in ragione dell’afflittività della pena’’, afflittività la quale esclude qualsiasi valutazione aritmetica (59). Queste ultime considerazioni ci confermano come, nel genere della riparazione dell’errore del giudice, la specie della riparazione dalla detenzione ingiusta abbia una propria auto(57) Così E. SACCHETTINI, Estesa alla carcerazione preventiva la disciplina dell’errore giudiziario, in GaD, 1995 (24), pp. 104-105. (58) G. LEONE, Trattato di dir. proc. pen., vol. III, Napoli 1961, pp. 288 s. (59) G. LEONE, op. ult. cit., p. 288, nt. 53.
— 672 — nomia. Mentre, invero, la riparazione dell’errore giudiziario ‘‘classico’’ si attua mediante l’illimitato risarcimento del danno, quella per l’ingiusta detenzione non ha attuazione risarcitoria, perché incontra il ‘‘tetto’’ dei cento milioni di lire, entro il quale valutare le sofferenze ed il discredito sociale, alla stregua dell’art. 643. Scendendo dal terreno dei principi a quello delle concrete conseguenze della riparazione cautelare, riteniamo di dover escludere la riparabilità del suicidio del custodito o dei suoi familiari e delle aspettative di fatto, proprie o dei prossimi congiunti. Il suicidio, invero, è diverso dalla morte naturale del custodito, la quale è riparabile se, ad es., dipenda dalle condizioni ambientali di alcune nostre carceri, che abbiano prodotto o concorso a produrre la morte: il suicidio, invece, di per sé, esce dalla normalità della causalità giuridica (60). Pure secondo la pacifica giurisprudenza penale il suicidio, al di fuori del caso che sia l’esito di un’istigazione, fuoriesce dalla causalità giuridica per l’imprevedibilità oggettiva di tale singolare autolesionismo (61). Le aspettative di fatto (personali e, a fortiori, dei prossimi congiunti) non sono le ‘‘conseguenze’’ degli artt. 543 e 644 c.p.p. Invero, per conseguenze si devono intendere quelle giuridiche e non le aspettative di fatto (la prospettata assunzione in un’impresa privata, la partecipazione ad un pubblico concorso con l’aspettativa di vincerlo). Per contro, le aspettative di diritto (ad es., la chiamata all’impiego privato od a quello pubblico, a seguito di vittoria) non seguite dall’immissione in possesso, impedita dalla custodia, sono riparabili. È pure logico che sia riparabile il mancato espletamento delle prove orali di un concorso, mediante il loro espletamento anche quando la formazione della graduatoria è completata, ma non pubblicata. Resta da parlare del danno biologico sofferto dai prossimi congiunti. Seguendo gli ultimi sviluppi del tema, se è indubbia la riparabilità del danno biologico sofferto dal custodito (un tempo definito danno psico-fisico), sono oggi sicuramente riparabili la depressione o lo stress nei quali cadano, ad es., il coniuge od i figli. Pure riparabile (sempre entro il tetto dei cento milioni di lire) ci sentiamo di considerare il danno da impossibilità di convivenza coi vicini, impossibilità che abbia costretto il prosciolto ed i suoi familiari in senso stretto (prossimi congiunti esclusi) a cambiare abitazione o città di residenza. Per affinità di ragionamento, dobbiamo segnalare come lo strepitus fori possa oggi esser provato mediante articoli di cronaca o videoregistrazioni di trasmissioni televisive, che non sono solo a posteriori oltraggianti. Il principio di proporzione esclude, peraltro, che, qualora la riparazione dello strepitus fori sia accordata nel processo di riparazione, il custodito possa rivolgersi al giudice penale per chiedere l’intiero danno da calunnia o diffamazione a mezzo stampa. In tal caso, egli potrà chiedere alla Corte di appello solo il quid pluris della riparazione aritmeticamente accordatagli. Invero, l’art. 315.3 rinvia all’art. 647 c.p.p., secondo il quale lo Stato ha diritto di surrogazione per la dazione a titolo di strepitus fori, sicché il principio generale del ne bis in idem impedisce che il diffamante o il calunniatore debbano corrispondere l’identica somma allo Stato surrogatosi ed al custodito, costituitosi parte civile nel processo per diffamazione o calunnia. In conclusione, il principio stabilito dalle Sezioni Unite in c. Castellani (61) è ormai penetrato nella giurisprudenza, tanto di legittimità, quanto di merito, tanto da essere seguito anche dalla Corte d’appello di Catania (62). 20. Rivalutazione, interessi, spese legali. — La somma assegnata con l’ordinanza riparatoria non è soggetta a rivalutazione. L’assunto, pacifico in giurisprudenza (63), è tratto (60) P. PIOVANI, Oggettivazione etica ed assenzialismo, a cura di F. TESSITORE, Napoli 1981, passim. (61) Giurisprudenza pacifica. (62) 3 aprile 1996, Marino, in Giur. merito, 1996, p. 958, con nota di CATARINELLA, v., anche, la nota di MACRÌ, in Resp. civ. e prev., 1995, 712, in calce alla sentenza delle Sezioni Unite in c. Castellani del 13 gennaio 1995. (63) Sez. IV, 31 gennaio 1994, Vitelli, in Mass. Cass. Pen., 1994 (fasc. 9), p. 34;
— 673 — dall’idea che l’errore cautelare (il quale sia considerato oggettivamente, e dunque come, non inficiato da dolo o colpa grave del giudice), non sia un illecito. Approfondendo l’esame del principio, si può ritenere che, se il giudice cautelare adotta i parametri fissati dagli artt. 273 e 280 c.p.p., l’errore risulta ex post. In altri termini, l’atto processuale di custodia è atto illegittimo, fonte di responsabilità se interviene il proscioglimento o l’archiviazione. Il tema è studiato nel diritto amministrativo, dove a fianco della responsabilità per atti illegittimi, si conosce (si pensi all’espropriazione per pubblica utilità) la responsabilità per atti legittimi lesivi di diritti soggettivi. Si tratta di una responsabilità ‘‘indennitaria’’, perché l’affievolimento del diritto di libertà trova la sua fonte negli artt. 13 Cost. e 273 e 280 c.p.p. Ovvio che, se il diritto si riespande perché interviene il proscioglimento o l’archiviazione, vi sia la riparazione, senza, tuttavia, che l’atto processuale risultato ex post invalido sia illecito. La dottrina amministrativistica inquadra la responsabilità per atti legittimi nel principio di legalità e giustizia dell’azione amministrativa, azione che si distingue dall’ambito della responsabilità di diritto privato, ‘‘basata esclusivamente sulla illiceità del danno’’ (64). Pertanto, la non-illiceità della responsabilità dello Stato-giudice esclude la rivalutazione del credito, anche se tale rivalutazione fosse ricompresa nella soglia massima della riparazione. La stessa giurisprudenza esclude che il credito accertato, o, meglio, costituito dall’ordinanza riparatoria, possa produrre interessi, osservando che si tratta di credito indeterminato, incerto ed illiquido. Tuttavia vedremo come, in sede di esecuzione, il ritardo nella corresponsione della somma assegnata dall’ordinanza, quando essa è divenuta irrevocabile e la vittima del processo ne ha chiesto la corresponsione, sia produttivo di interessi legali, perché in tal caso il credito è certo, liquido, esigibile. Più aperta è la giurisprudenza in tema di spese legali. Partendo dall’idea che l’azione riparatoria sia di indole civile, la giurisprudenza applica l’art. 92 c.p.c., ovviamente qualora il legale della vittima presenti la notula delle spese del procedimento (65). 21. La provvisionale a titolo di alimenti, la rendita vitalizia ed il ricovero in istituto. — Sentenza dopo sentenza, la Corte Suprema, salvo il tetto della riparazione e la personalità della richiesta, ha esteso le norme dell’errore giudiziario ‘classico’ alla riparazione per detenzione ingiusta. Vediamo se a tale riparazione siano applicabili la provvisionale a titolo di alimenti, la rendita vitalizia ed il ricovero in istituto, provvedimenti sui quali la Corte Suprema non ha avuto occasione di pronunciarsi. Tenuto conto che, sul piano sostanziale, l’ingiusta detenzione può aver cagionato danni irreparabili, e che tra l’ordinanza riparatoria e l’esecuzione corre un tempo non breve, è del tutto legittimo pensare che la stessa ordinanza possa contenere una provvisionale a titolo di alimenti, come tale immediatamente eseguibile. Altrettanto non può dirsi per la rendita vitalizia ed il ricovero in istituto, perché tali previsioni superano, di sicuro, il tetto della riparazione pecuniaria. Pertanto, è della legittimità costituzionale di tale tetto che dobbiamo, ora occuparci. Va detto, comunque, che della rendita vitalizia dovrebbe far richiesta la stessa vittima del processo. Secondo tale istituto di diritto privato (artt. 1872-1873 c.c.), la rendita deve essere costituita a titolo oneroso, mediante conversione della somma assegnata in rendita per la durata in vita della vittima dell’errore cautelare: basta questa considerazione a confermare come la rendita vitalizia, in ogni caso, sarebbe un epilogo destinato ad una frequenza statistica rarissima. Pertanto, per completezza, andrà tenuto conto (anche a voler prescindere T.A.R. Lombardia, Sez. II, 28 marzo 1996, Cerni c. Com. Albizzate, in Foro amm., 1996, p. 2739. (64) G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. I, Milano 1958, p. 347; G. LANDI - G. POTENZA, Manuale di diritto amministrativo, 3a ed., Milano 1967, p. 205, i quali ultimi vedono nella responsabilità per atto legittimo ‘‘l’oggetto di un rapporto obbligatorio, la cui causa ... consiste nel dovere di ricostituire, a favore del soggetto colpito dall’atto traslativo del diritto, l’equilibrio patrimoniale turbato in vista di un interesse generale’’. (65) Giurisprudenza e prassi pacifiche.
— 674 — dalla natura legittima o aquiliana del torto cautelare) dell’art. 2057 c.c., secondo il quale il giudice di merito deve stabilire la rendita ‘‘tenuto conto delle condizioni delle parti e della natura del danno’’, disponendo ‘‘le opportune cautele’’. Il ricovero in istituto è, invece, un provvedimento più semplice, caratterizzato dall’innesto nella riparazione di spunti di solidarietà sociale ed assistenziale, simili all’antico ‘‘soccorso’’, un tempo disposto a favore del prosciolto in revisione versante in stato di bisogno; e sempre disponibile esclusivamente su richiesta della vittima del processo. Anch’esso ci pare destinato ad una frequenza statistica rarissima. 22. Sulla legittimità costituzionale del maximum della riparazione pecuniaria. — Riassumendo le conclusioni raggiunte, è chiaro che la detenzione ingiusta offre riparazione pecuniaria ad un torto che ha per oggetto il bene primario della libertà personale. È per la sua primarietà che esso deve essere riparato, anche se esigenze statali di bilancio determinano un tetto alla riparazione, attualmente stabilito in cento milioni di lire (art. 315.2). In forza del rinvio che l’art. 315.3 fa a tutto il corpus delle norme regolanti la riparazione dell’errore giudiziario, istituto che è la fonte ed il genere della riparazione del torto da detenzione ingiusta, quest’ultima riparazione deve tener conto sia, in via di regola, della durata della custodia, sia, in via di eccezione, delle conseguenze personali e familiari che, a séguito della custodia, la vittima del processo ha subìto. A differenza dal risarcimento del danno (che può essere anche in forma specifica), la riparazione per l’ingiusta detenzione ha natura esclusivamente pecuniaria, tale riscontrandosi anche nella provvisionale a titolo di alimenti. La prestazione pecuniaria spetta pure ai prossimi congiunti del custodito, se egli è morto di morte naturale anche durante la custodia, qualora l’azione possa essere intrapresa entro diciotto mesi dal giudicato. In tal caso, sempre secondo i criteri della durata della custodia ingiusta e delle condizioni personali e familiari che connotano il danno-patrimoniale, quello extrapatrimoniale e la sofferenza che ne sono derivate, il giudice di merito ripartisce tra i prossimi congiunti (i quali, sempre, agiscono iure proprio) la prestazione pecuniaria, in misura complessiva non superiore a quella che sarebbe spettata al prosciolto defunto. La ripartizione è compiuta ‘‘in ragione delle conseguenze derivate dall’errore a ciascuna persona’’ (art. 644.2 c.p.p.). La predisposizione di un tetto alla riparazione pecuniaria in considerazione delle esigenze del bilancio statale è costituzionalmente legittima, perché sia la libertà personale che il bilancio dello Stato sono beni costituzionalmente protetti e debbono essere coordinati. Non è, però, legittimo che il tetto rimanga statico; che, cioè, non sia adeguabile alla svalutazione. In proposito, il legislatore delegante non ha previsto alcun meccanismo di adeguamento automatico, ed il legislatore delegato, a partire dall’entrata in vigore del Codice, si è ben guardato dall’aumentare il tetto massimo, forse perché spaventato dal numero sempre crescente di ordinanze riparatorie e, quindi, dal livello complessivo della sua spesa. Sotto il profilo del mancato adeguamento del tetto massimo la questione di legittimità costituzionale si impone, perché, con la svalutazione dell’entità della riparazione pecuniaria, si ha una parallela svalutazione del bene primario della libertà nel processo; un bene che è garantito dall’art. 24 comma 4 Cost., contenente una norma che, adesso, niente vieta di ritenere configurata a presidio anche della detenzione ingiusta. Sotto tale profilo, pertanto, il tetto posto alla riparazione pecuniaria già oggi è costituzionalmente illegittimo, perché esso è rimasto sottovalente rispetto al parametro delle esigenze del bilancio statale. Non resta altro se non aspettare che, dinanzi ad un caso particolarmente significativo una Corte di appello proponga incidente di legittimità costituzionale per omesso adeguamento del tetto massimo, perché la Corte costituzionale possa pronunciarsi, determinando un intervento del legislatore, diretto ad un adeguamento automatico del tetto. Magari biennale, con semplice decreto ministeriale. 23. La legittimazione e l’interesse processuale a ricorrere per cassazione. — Occorre premettere che a cura della cancelleria la decisione della Corte di appello è comunicata al procuratore generale e notificata a tutti gli interessati (art. 646.3 c.p.p.) e adde, sicché la co-
— 675 — noscenza dell’atto processuale è assicurata e, con essa, la decorrenza del termine per il ricorso per cassazione, termine che segue le regole ordinarie. La legittimazione discende dal contenuto dell’ordinanza riparatoria. Se di inammissibilità, di rigetto o di accoglimento parziale, sarà sicuramente legittimata la vittima del processo; se di accoglimento, saranno legittimati il procuratore generale ed il ministro del tesoro, potendo attuarsi il ricorso incidentale previsto dall’art. 371 c.p.c. in riferimento agli artt. 333 e 334 c.p.c. L’imputato può ricorrere personalmente od a mezzo di procuratore speciale, inteso come rappresentante sostanziale della parte e in deroga dalla rappresentanza da parte del difensore; il privato che ricorra deve essere assistito da un difensore iscritto nell’albo speciale delle giurisdizioni superiori come previsto dagli artt. 365 e 82 comma 3, c.p.c., munito di procura alle liti (art. 83 c.p.c.). Questa soluzione, ferma in giurisprudenza (66), deriva dall’impostazione data all’azione riparatoria, definita azione d’indole civile, inserita nel giudizio penale per ragioni di ‘‘opportunità’’. La personalità del ricorso è stata affermata dalle Sezioni Unite (67), con riferimento ad una deroga rispetto alla regola della rappresentanza processuale del difensore, deroga giustificata dalla distinzione tra il soggetto legittimato a formulare il ricorso ed il soggetto legittimato a curarne il deposito in cancelleria. In giurisprudenza si è esclusa la legittimazione del procuratore generale a ricorrere per cassazione in ordine al quantum dell’ordinanza riparatoria (68). La conclusione sembra però piuttosto affrettata, perché l’azione riparatoria è di indole civile, sicché il procuratore generale è pur sempre titolare del ricorso nell’interesse della legge (art. 363, comma 1, c.p.c.). Tale ricorso può essere esteso oltre la lettera della norma or ora citata, perché il procuratore generale, ai sensi dell’art. 73 ord. giudiz. ‘‘veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, ai diritti dello Stato’’. Orbene, è diritto oggettivo dello Stato anche la salvaguardia del suo bilancio, compromesso da una ordinanza riparatoria che assegni una somma sproporzionata. Il ministro del tesoro è legittimato, tramite l’avvocatura dello Stato, a ricorrere per cassazione contro tutte le ordinanze di accoglimento anche parziale e, come vedremo in seguito (§ 25), è titolare del diritto al ricorso incidentale, qualora non abbia proposto il ricorso ordinario. La legittimazione suppone l’interesse processuale, il quale è dato dalla tipologia dell’ordinanza, già da noi esaminata nel § 14. L’interesse, ovviamente, deve essere attuale e concreto e tale si presenta, per ciascuna delle parti legittimate, a seconda del tipo di pronuncia adottata dalla Corte di merito. In altri termini, legittimazione ed interesse coincidono, potendosi, peraltro, osservare che i controinteressati, nel caso di accoglimento anche solo parziale, sono due: il procuratore generale ed il ministro del tesoro. 24. I casi e l’oggetto del ricorso per cassazione. — La dottrina non manca di rilevare come una delle diversità tra ricorso per cassazione ed appello sta nel fatto che il primo è attivabile per un ‘‘numero chiuso’’ di motivi (69). Il numero chiuso risulta dall’art. 606 c.p.p., del quale sono rilevanti, quanto all’oggetto di questo studio, i casi di inosservanza o erronea applicazione della legge penale (ad es., per aver la Corte di appello ritenuto legittimo il mendacio o l’alibi pretestuoso della presunta vit(66) Sez. IV, 31 gennaio 1994, Cannone, in Giust. pen., 1994, III, c. 499. (67) S.U. 14 dicembre 1994, Ministero del tesoro in proc. Scacchia, in Giur. it.,}1995, II, con nota di T. DELLA MARRA, Un punto fermo sulle modalità di presentazione della domanda di riparazione per ingiusta detenzione; S.U. 13 gennaio 1998 n. 14, ric. Ministero del tesoro, in GaD, 1998 (13), p. 81, con nota di R. BRICHETTI, La Cassazione sancisce la piena compatibilità con l’iter previsto per gli errori giudiziari, ivi, p. 87. (68) Cass., Sez. IV, 9 marzo 1993, Mereu, in Giust. pen., 1995, III, c. 86. (69) M. PISANI, in M. PISANI - A. MOLARI - V. PERCHINUNNO - P. CORSO, Manuale, cit., p. 569.
— 676 — tima del processo); di inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inammissibilità o di decadenza (ad es., per avere la Corte di appello violato le norme previste dall’art. 127, ovvero ritenuto applicabile la sospensione dei termini feriali e proponibile la richiesta di ordinanza oltre il termine di decadenza dei diciotto mesi); di mancata assunzione di prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta (o, nel nostro caso, quando essa era ammissibile di ufficio: ad es., mancata acquisizione del fascicolo processuale contenente la prova del dolo o della colpa grave della persona detenuta ingiustamente); di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato. I casi fissano l’oggetto del giudizio di cassazione e la maggior frequenza statistica è data dal vizio di manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato (art. 606, lett. e): ad es., ingiustizia della detenzione ritenuta per la trasgressione dell’art. 274 c.p.p., quando sappiamo che l’ingiustizia fa riferimento solo alla trasgressione degli artt. 273 e 280 c.p.p. Per gli altri vizi, invero, possiamo rimandare alla disciplina dell’art. 606 e degli artt. 620-624 c.p.p., la cui portata generale fonda i poteri di cognizione della Corte di cassazione per questo come per ogni altro ricorso. Va tenuto presente, però, che il giudizio di merito si svolge in unico grado e, per questa ragione, la Corte Suprema (70) ha preso atto che la mancanza o l’illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, ed ha aggiunto che essa non può esaminare gli atti. Tuttavia, con tale decisione la Corte Suprema ha dettato delle regole alle corti territoriali: è ‘‘necessario che il giudice di merito indichi con puntualità, chiarezza e completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali fonda la propria decisione, per consentire all’interessato di formulare le sue censure e alla Corte di cassazione di esercitare il controllo che le è proprio’’; necessità pungente anche nel caso nel quale ‘‘la carenza o la illogicità della motivazione fossero palesi dal raffronto tra i motivi di [ricorso] ed il testo della decisione di II grado’’. Questo, appunto, perché manca ‘‘il filtro dell’appello che consentirebbe alla Corte [in caso di vizio di motivazione occultato dal testo della sentenza] di annullare il provvedimento impugnato anche nel caso in cui la carenza o l’illogicità della motivazione fossero palesi dal raffronto tra i motivi di appello ed il testo della decisione di II grado’’. Quasi sembra di dire che la Corte Suprema, privata del giudizio di appello, non si periti dall’affermare di poter ricevere, in allegazione, documenti dell’interessato, o di controllare ex officio i documenti processuali. È una decisione che ci sentiamo di condividere, perché sovente le ordinanze riparatorie sono troppo succintamente motivate, tanto che la stessa Corte, con altre sentenze (71) ha parlato di ‘‘arbitrarietà della liquidazione’’, quasi che la somma fosse assegnata dalle corti territoriali ‘‘a caso’’. In proposito, la Corte Suprema ha riaffermato che il giudizio rimesso alla Corte di appello è ‘‘di fatto’’, ma che tale Corte ‘‘ha l’obbligo di fornire logica, congrua e completa motivazione conforme ai principi di diritto’’ (72). Pertanto, la Cassazione si è mantenuta nei limiti dei suoi poteri di cognizione, aprendola ad un controllo più accurato perché manca il giudizio di secondo grado e pretendendo che la Corte d’appello indichi le singole voci che compongono la riparazione. Anche se la giurisprudenza ha esplicitamente escluso che il ricorso per cassazione si trasformi in un terzo grado di giudizio, esteso al fatto, vedremo (§ 27) quanto sia penetrante il controllo sulla motivazione della Corte di appello. 25. Il controricorso ed il ricorso incidentale. — L’indole civile dell’azione riparatoria porta a ritenere che la parte controinteressata, oltre al controricorso, possa proporre ricorso (70) Sez. IV, 24 giugno 1994, Antonini, in Giust. pen., 1995, III, c. 587. (71) Sez. IV, 30 novembre 1993, Potrich, in Mass. Cass. Pen., 1994, fasc. 4, p. 113. (72) Sez. IV, 28 gennaio 1993, Ginetti, in Mass. Cass. Pen., 1993 (fasc. 6), p. 120.
— 677 — incidentale. Com’è noto, il ricorso incidentale non è previsto nel giudizio penale di cassazione, ma, in questo caso, esso deve essere ammesso, perché la natura civile dell’azione rende applicabile, per analogia, gli artt. 371, 333 e 334 c.p.c. Pertanto, con l’atto contenente il controricorso (equivalente della memoria che il controinteressato può sempre depositare nel processo penale, ai sensi dell’art. 121 c.p.p.), il controinteressato può aggiungere il ricorso incidentale. Ora, mentre il controricorso ha carattere semplicemente difensivo, il ricorso incidentale è diretto all’accoglimento di quanto non si era proposto col ricorso principale. Se, ad es., il ministro del tesoro non ha proposto ricorso principale, mentre la vittima del processo lo ha proposto per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza riparatoria illogicamente motivata in ordine al quantum, il ministro del tesoro può aggiungere al controricorso il proprio ricorso incidentale, diretto ad ottenere, ad es., l’annullamento dell’ordinanza riparatoria perché la Corte di appello non aveva tenuto conto della colpa grave dell’interessato nel cagionare il torto cautelare. Secondo la dottrina processual-civilistica più moderna (73), l’accoglimento del ricorso incidentale suppone l’accoglimento del ricorso principale: così, nel caso concreto, la Corte Suprema potrebbe annullare l’ordinanza riparatoria sia perché illogicamente motivata in ordine al quantum, sia perché non ha tenuto in debito conto la colpa grave dell’interessato. In sostanza, l’acquiescenza del controinteressato cessa quando l’interessato propone ricorso principale, a condizione che il ricorso incidentale dipenda (come nell’esempio proposto dipende) dall’annullamento del ricorso principale. Il ricorso incidentale, in altri termini, fa rivivere eccezioni non riproposte dopo il termine decorrente dalla notificazione dell’ordinanza riparatoria, giacché il ricorso principale deve essere notificato ai sensi dell’art. 369, comma 1, c.p.c. a cura della cancelleria, come si è visto. Dopodiché, ricorso principale, controricorso e ricorso incidentale sono trasmessi nella cancelleria della Corte di cassazione, il cui presidente compie l’assegnazione ad una delle Sezioni penali od alle Sezioni Unite. 26. Il procedimento camerale. — Il ricorso per cassazione contro l’ordinanza con la quale la Corte d’appello, con il rito previsto dall’art. 127, ha provveduto sulla richiesta di assegnazione di equa riparazione per ingiusta detenzione, va deciso in camera in consiglio, come ha stabilito la Sez. IV (74). Sul punto non sorgono questioni perché il rito camerale si estende dal primo grado al controllo di legittimità (art. 128 in riferimento all’art. 646.1, richiamato dall’art. 315.3 c.p.p.). 27. Il controllo sulla motivazione. — Il controllo di legittimità affidato alla Cassazione può concernere i requisiti di validità del procedimento di riparazione e di ammissibilità della richiesta ovvero la motivazione dei criteri relativi al quantum accordato con l’ordinanza riparatoria. Dal primo punto di vista, la Corte ritiene invalido il procedimento se non sono osservate le regole previste dai commi 1, 3 e 4 dell’art. 127 (art. 127.5), e cioè se il contraddittorio camerale non si è perfezionato nell’unico giudizio di merito. In secondo luogo, la Corte ritiene inammissibile la richiesta se il termine di decadenza non è stato rispettato. Ne seguirà il rigetto del ricorso o l’annullamento con rinvio. Dal secondo punto di vista, il controllo della Corte è penetrante per evitare, da un lato, che i requisiti ostativi siano trascurati; dall’altro, per accertare che le voci che compongono il quantum, secondo il criterio ordinario al quale può accedere quello eccezionale, siano state oggetto di adeguato esame da parte della Corte territoriale. La giurisprudenza sul dolo o la colpa grave dell’interessato, da noi già esaminata, sta a dimostrare come tale requisito negativo debba essere oggetto di un controllo anche di ufficio (73) A. PROTO PISANI, Lezioni, cit., p. 582. (74) Sez. IV, 17 maggio 1994, D’Alessandro, in Cass. pen., 1995, 3039.
— 678 — da parte della Corte di appello, con la costruzione di definizioni varie di dolo e colpa grave, le quali corrispondono, al di là delle varie formulazioni linguistiche, ai concetti previsti dall’art. 43 c.p. In particolare, mentre si conferma che l’imputato nel processo ha il diritto di tacere o di mentire, nel procedimento di riparazione si conclude che il mendacio e l’alibi pretestuoso concorrono a cagionare l’errore cautelare, il quale, dunque, non è riparabile. Pertanto, il principio nemo tenetur se detegere vale nel processo penale, ma non nel procedimento di riparazione. Puntualmente la Corte di appello di Venezia in c. Garibaldi (75) dà una chiara definizione dell’ostatività del nemo tenetur se detegere al conseguimento della riparazione: ‘‘tra il diritto di tacere o di mentire, nel qual si risolve il diritto di difesa, e il diritto all’equa riparazione... non sussiste alcun rapporto’’, perché ‘‘strumenti di difesa non sono sempre strumenti di pretesa’’. Si tratta di un argomento condiviso dalla Sez. IV in c. Moro (76), la quale esclude dalla riparazione l’autodifesa mediante dichiarazioni ‘‘chiaramente false’’. Già la Sez. IV in c. Tagliarini (77) aveva a chiare lettere escluso la riparabilità della detenzione alla quale l’imputato avesse dato luogo con il ‘‘mendacio’’. Più complesso è l’esame della colpa grave, potendosi ritenere che essa, soprattutto se lieve ma non innocua, concorra a ridurre il quantum della riparazione, ma non lo escluda. Di solito, la colpa viene definita come specifica o generica, in questo secondo caso coincidendo con la superficialità, con la nimia negligentia, come sovente si afferma in giurisprudenza (78), con l’eccezione di qualche pronuncia la quale richiede che la colpa grave sia equiparabile al dolo (79). Si tratta di definizioni che sono tratte dal parallelo istituto della riparazione dell’errore giudiziario, così come esso si evolse nel 1960 quando abbandonò il carattere di soccorso all’innocente che versasse in stato di bisogno, con la precisazione che la colpa grave ‘‘può essere ravvisata anche con riguardo a comportamenti anteriori all’instaurarsi del procedimento penale o alla conoscenza di esso da parte dell’interessato, sempre che..., oltre ad aver determinato incidenza causale nell’adozione della misura cautelare, siano anche connotati da macroscopica negligenza, superficialità, imprudenza, inosservanza di leggi e norme disciplinari, sì da far riguardare come prevedibile, in base a regole di comune esperienza, l’adozione [della] misura [cautelare]’’ (80). Peraltro, va segnalato un diverso indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale la colpa grave ‘‘anteriore’’ all’instaurazione del procedimento penale a carico (o alla conoscenza di tale instaurazione), non esclude la riparazione. Ma si tratta di un orientamento minoritario, come risulta dal caso di specie: si è ritenuto irrilevante la colpa grave anteriore all’instaurarsi del processo penale, salvo che l’agente fosse sottoposto a misura di prevenzione. Com’è noto, chi è sottoposto a misura di prevenzione ha l’obbligo di non dare ragione a ‘‘sospetti’’, come impostogli dall’art. 5, comma 3, l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (e succ. modif.). In tal senso si è espressa la Sez. IV in c. Nofal (81). Piuttosto, anziché guardare all’anteriorità o contestualità con l’instaurazione del procedimento della colpa grave (e, a fortiori, del dolo), la Corte di appello di Catania opportunamente segnala che l’ostacolo alla riparazione deve essere ‘‘interno alla condotta oggetto dell’incriminazione, cui deve attenere o essere legato da un qualche nesso di causalità, e non soltanto contiguo o, comunque, occasionalmente collegato’’ (82). Ovviamente, ‘‘il giudizio sulla condotta (colposa o dolosa) dell’imputato... deve essere compiuto tenendo presente la (75) C.A. Venezia, 26 settembre 1995, Garibaldi, in Cass. pen., 1996, cit. (76) In Giust. pen., 1996, III, c. 280. (77) 12 aprile 1995, in ANPP, 1995, c. 885. (78) Sez. IV, 24 gennaio 1997, n. 129, Caronna, in CED Cassazione, 1997 [s.m.]; Id., 22 febbraio 1996, Ercole, in Cass. pen., 1997, p. 3121, con nota di L. GRAMIGNI. (79) Sez. IV, 28 febbraio 1996, Renzi, in ANPP 1996, c. 597. (80) Sez. IV, 12 aprile 1996, Simonetti, in ANPP, 1996, c. 92. (81) In ANPP, 1996, c. 582. (82) C.A. Catania, 3 aprile 1996, Marino cit., con nota di CATARINELLA, cit.
— 679 — situazione esistente al momento dell’adozione del provvedimento restrittivo..., valutata alla luce delle successive conoscenze in ordine ai fatti del processo’’ (83) e la condotta è da ritenersi colposa quando da essa era prevedibile l’adozione della misura cautelare, prevedibilità da esaminarsi col rigore dovuto al rispetto delle ‘‘strategie difensive’’ (84). Ancora più penetrante è il controllo di legittimità sull’argomentazione del giudice del merito in ordine alla quantificazione della somma accordata per riparare la detenzione ingiusta. Innanzitutto, è pretesa l’analisi: non ci si deve accontentare di una valutazione globale, ‘‘a caso’’, ma si deve indicare il criterio (si fa riferimento a quello ordinario) per la stima del danno da detenzione per quanto essa si è ingiustamente protratta. Il criterio ordinario è egualitario, nel senso che esso è presidiato dall’art. 3 Cost. perché, dal punto di vista afflittivo, non vi è disparità di trattamento, ma la custodia cautelare affievolisce il diritto di libertà in modo eguale per tutti coloro che le sono sottoposti ai sensi degli artt. 273 e 280 c.p.p. La Corte Suprema ha, invero, ribadito che la violazione, da parte del giudice cautelare, degli artt. 274 e 275 c.p.p. non fonda la riparazione della detenzione ingiusta, ricollegabile soltanto alle trasgressioni degli artt. 273 e 280 c.p.p. (85). In secondo luogo, l’adozione del criterio eccezionale suppone una valutazione ponderata del caso concreto. La persona ingiustamente detenuta deve essere incensurata, può essere maggiore degli anni settanta; può esservi una sproporzione tra il fatto attribuitole e la misura adottata nella caratteristica più rigida, la custodia in carcere o nel domicilio. Inoltre, rigorosa deve essere la valutazione della perdita della capacità specifica di lavoro, con le ulteriori conseguenze (perdita del posto di lavoro; fallimento; strepitus fori; patimenti ulteriori inferti, come l’uso delle manette in presenza dei familiari). Pertanto, il quantum risulta composto dalla somma, eguale per tutti, dovuta al calcolo aritmetico del valore della privazione della libertà personale (si ripete: cento milioni diviso per i sei anni di custodia cautelare massima; il risultato diviso trecentosessantacinque giorni, con l’unità di misura pari a quarantacinquemilasessentadue lire al giorno), somma alla quale si deve aggiungere quanto la Corte di appello stima riparabile seguendo il criterio eccezionale della personalità del detenuto ingiustamente. Da notare come il calcolo aritmetico porti a riconoscere un’unità ordinaria di misura inferiore a quella di lire settantacinquemila, fissata per il ragguaglio tra pena pecuniarie e pene detentive (artt. 135 c.p. come modificato dall’art. 1, l. 5 ottobre 1993, n. 402): si tratta di una dissonanza che dovrebbe essere rimossa, con l’adeguamento del tetto massimo e l’adozione, anche per la riparazione da detenzione ingiusta, dell’art. 135 c.p. nella sua formulazione attuale. Con la seconda stima, la Corte del merito deve dar conto delle singole voci che la compongono, con una valutazione che è, sì, equitativa, ma anche analitica. La Corte Suprema si riserva il potere di conoscere della logicità e della congruità della motivazione in materia, respingendo il ricorso, ovvero rettificando la motivazione o annullando con rinvio. 28. Il giudizio di rinvio. — Il giudizio di rinvio segue le regole ordinarie. Pertanto, esso deve essere assegnato a sezione diversa della Corte di appello, la quale dovrà uniformarsi al principio di diritto prescrittole dalla Cassazione. Se ciò non farà, la nuova ordinanza sarà impugnabile ai sensi dell’art. 628.2 c.p.p. soltanto ‘‘per motivi riguardanti i punti già decisi dalla Corte di cassazione ovvero per inosservanza della disposizione dell’art. 627, comma 3’’. Spetterà al procuratore generale ed alla parte soccombente il nuovo ricorso, che potrà essere controbilanciato dal controricorso e dal ricorso incidentale. Investita del nuovo ricorso, la Corte Suprema deciderà definitivamente, per evitare quello che se si verificasse, sarebbe una sorta di moto perpetuo. L’ordinanza di accogli(83) C.A. Venezia, 26 settembre 1995, Garibaldi, cit. (84) S.U. 13 dicembre 1995 cit., con le citate annotazioni di P. FELICIONI e M.G. COPPETTA; Sez. IV, 15 marzo 1995, Sorrentino, in Giust. pen., 1996, III, c. 359. (85) Sez. I, 6 luglio 1995, Bozzetti e altro, in Giust. pen., 1996, III, c. 306 [s.m.].
— 680 — mento, anche parziale, diverrà, quindi, irrevocabile, aprendo la fase dell’esecuzione in danno del ministro del tesoro. 29. L’esecuzione dell’ordinanza riparatoria. — Nel silenzio della legge, l’esecuzione dell’ordinanza di accoglimento si è modulata di ufficio secondo la prassi formatasi, giusta la quale il ministro del tesoro, venuto a conoscenza dell’irrevocabilità dell’ordinanza tramite l’Avvocatura di Stato, dispone l’esecuzione, emettendo mandato di pagamento. Se ciò non avvenisse, o se si manifestasse un ritardo burocratico, la vittima del processo potrà richiedere alla competente cancelleria di porsi in contatto con il Ministero del tesoro (Divisione 3), salvo eseguire in sede civile l’ordinanza, notificando atto di precetto e richiedendo all’ufficiale giudiziario il pignoramento e poi, al giudice dell’esecuzione mobiliare, la vendita del bene pignorato, tanto nel territorio distrettuale quanto in Roma. In caso di ritardo, secondo la giurisprudenza di legittimità, debbono essere corrisposti gli interessi legali a far tempo dall’irrevocabilità dell’ordinanza. Non dobbiamo però dimenticare che abbiamo esaminato solo il caso della riparazione del torto oggettivo, sicché nel caso nel quale il provvedimento cautelare ingiusto sia stato pronunciato da giudice versante in dolo o colpa grave (o, addirittura, autore di reato), si apre il problema della riparabilità del danno (non della corresponsione dell’indennità) eccedente la riparazione nei confronti del giudice. Si tratta di far applicazione della recente legge sulla responsabilità del magistrato, tenendo presente che, nel nuovo Codice, è sempre un giudice, e mai un pubblico ministero, che instaura e mantiene la misura cautelare più rigida, cioè la custodia in carcere o nel domicilio. Con una formula, il torto oggettivo va contrapposto al torto soggettivo del giudice versante in dolo o colpa grave. 30. Conclusioni. — Come s’è visto, il procedimento riparatorio — che costituisce il cuore dell’istituto della detenzione ingiusta, perché è in esso che il diritto alla riparazione è costituito e si fa certo, liquido ed esigibile — è ispirato a criteri di semplicità. Opportunamente il legislatore ha scelto la sede penale, ha conferito la competenza alla Corte d’appello nel cui distretto si è instaurata la custodia ingiusta, ha adottato il procedimento camerale previsto dall’art. 127 c.p.p., così semplificando l’azione della vittima del torto cautelare. La giurisprudenza intervenuta sui criteri di quantificazione, ispirandosi alla riparazione dell’errore giudiziario ‘‘classico’’, la dimostrata grande apertura e la riparazione della detenzione ingiusta (salvo il non adeguamento della soglia massima dei cento milioni di lire) giustamente può costituire motivo di compiacimento per il nostro Paese, dopo tanti anni di attesa. Ed opportunamente la giurisprudenza di nomofilachia ha affrontato il nuovo istituto con spirito moderno, tanto che, di recente, le Sezioni Unite (86) hanno reso perfettamente compatibili col procedimento riparatorio l’iter disciplinato per gli errori giudiziari. Vi è di più. Il calo dei procedimenti, avvertibile dal 1997, dimostra che l’istituto, ha un effetto, per così dire, preventivo, incentivando il giudice per le indagini preliminari ed il tribunale per la libertà ad un maggior rispetto per la libertà personale dell’imputato nel processo: il che, in un sistema il quale infelicemente non conosce la cauzione, costituisce un apprezzabile presidio. Ridotto, ed anche perfettibile, quanto si vuole, ma certamente più efficace dell’istituto della responsabilità civile del magistrato, che, pur introdotto nel 1988, è già desueto, perché le azioni intraprese contro i magistrati non superano, di regola, il ‘‘filtro’’ del giudizio di ammissibilità. Ci sembra, infine, preziosa la prassi instaurata per l’esecuzione dell’ordinanza riparatoria, perché le notizie che circolano nella curia e nel fòro dimostrano che tale esecuzione è curata sollecitamente dal ministro del tesoro. dott. ROBERTO VANNI (86) S.U. 26 novembre 1997 - 13 gennaio 1998, n. 14, in GaD, 1988 (13), pp. 81-87, con la citata nota di R. BRICHETTI, La Cassazione sancisce la piena compatibilità con l’iter previsto per gli errori giudiziari.
NOTIZIE
IL CONVEGNO DI BELFAST SUL RUOLO DEL GIUDICE NEL PROCESSO PENALE
1. Il 17 ed il 18 aprile 1998 si è svolto a Belfast un importante convegno internazionale sul ruolo del giudice nel processo penale, organizzato da John Jackson e Sean Doran, professori presso la School of Law della Queen’s University di Belfast. Il convegno, come ha sottolineato Sean Doran in apertura dei lavori, si è giovato dei contributi, oltre che di insigni studiosi del processo penale, anche di qualificati operatori giudiziari — judges, prosecutors and lawyers — di livello internazionale ed ha proposto, quale ambizioso oggetto di disamina, il mutamento ed il rafforzamento del ruolo attribuito al giudice nei sistemi di common e di civil law e la risposta data dalla magistratura giudicante all’estendersi delle proprie funzioni. La varietà di prospettive da cui tale vasto tema poteva essere affrontato si è manifestata con tutta evidenza nella struttura del convegno, articolato in tre plenary sessions, all’interno delle quali ciascun relatore ha sviluppato una peculiare problematica, con ulteriori approfondimenti dei più variegati argomenti in appositi e paralleli workshops. Di qui un’inevitabile eterogeneità delle problematiche emerse nel dibattito congressuale e delle quali si darà conto di seguito, pur senza pretesa di completezza. 2. Nella first plenary session relativa al judicial role in the criminal process, il presidente del convegno Ron Allen, Wigmore professor presso la Northwestern University di Chicago, ha dedicato un doveroso ricordo alla pace tra Northern Ireland and Republic of Ireland, siglata pochi giorni prima dell’inizio dei lavori del convegno, salutandola quale grande segno di civiltà e di abbandono delle lotte fratricide. Quindi, con singolare associazione di idee e con specifico riferimento al sistema processuale penale statunitense, il prof. Allen ha sottolineato come anziché un ‘‘judicial role’’, ivi si delinei una fratricida lotta di potere tra i giudici e gli altri soggetti del processo. Il legislatore tenta di arginare tale lotta di potere, apportando ad esempio continue modifiche alle exclusionary rules, giacché da ogni mutamento su quel terreno consegue un mutamento delle confinanti aree di potere di ciascun soggetto processuale. Così facendo però il legislatore si sostituisce al giudice ed apre un fronte di lotta tra potere legislativo e potere giudiziario. Il docente americano ha inoltre osservato come si possa avvertire un desiderio di riforma degli istituti processuali di quasi tutti gli Stati rappresentati alla conferenza, il che a suo avviso non deve destare stupore poiché ‘‘the criminal process’’ è anzitutto ‘‘a human process’’ e tutto ciò che viene pensato e costruito dall’uomo è sempre fallibile e perfettibile. Il prof. Allen ha a tal fine auspicato che dal dibattito congressuale potessero trarre origine riforme processuali, avvertendo però della necessità di procedere ad una comparazione tra i diversi ordinamenti non incentrata meramente sui principi generali propri dei singoli sistemi, ma calata nelle realtà culturali, sociali, politiche di ciascuna nazione. Egli ha terminato con un’ulteriore similitudine tra i ricercatori in campo medico, che mediante incessanti tentativi empirici hanno infranto impensabili barriere scientifiche e i giuristi che sviluppando ‘‘idee’’ possono parimenti portare ‘‘il diritto’’ a notevoli traguardi. Più mirato l’intervento di Jack Weinsten, Senior United States District Judge del distretto orientale di New York, che ha esaminato la normativa statunitense per la lotta al nar-
— 682 — cotraffico, mettendo in luce le incongruenze del sistema. In particolare egli ha lamentato la grave limitazione posta alla discrezionalità del giudice dalle sentencing guidelines del 1987, le quali — nell’ambito della legislazione antidroga — hanno fondato la meccanica determinazione della pena sui precedenti penali dell’imputato e sulla quantità di droga posseduta; nessuno spazio operativo è invece stato lasciato a valutazioni di carattere psicologico o sociale, né alla possibilità di differenziare tra la maggiore o minore nocività della sostanza stupefacente, né a sanzioni alternative al carcere, anzi è stato reintrodotto il federal statutory mandatory minimus, vale a dire la pena detentiva obbligatoria, pur se applicata al minimo edittale. Ciò ha naturalmente condotto ad un incremento della popolazione carceraria (le carceri americane operano, secondo una statistica del 1997, al 125% della loro capacità). Secondo Weinsten le strade percorribili dalla magistratura giudicante di fronte a questo irrigidimento dei poteri valutativi e decisionali sono costituite dalla possibilità di muoversi negli spazi non esplicitamente proibiti dalle guidelines, anche correndo il rischio di subire eventuali reversals, nonché dall’esternazione delle proprie contrarietà in numerose dissenting opinions ed in generale dall’esercizio di pressioni sulle istituzioni, ai fini di una riforma dell’attuale assetto legislativo in tema di stupefacenti. Di tutt’altra natura il contenuto della relazione della prof. Christine Boyle dell’Università di British Columbia di Vancouver, che ha affrontato le due tematiche del woman-judge e del judging a woman, non senza suscitare qualche dissenso. Con riguardo al primo aspetto ha rilevato come attualmente nei sistemi di common law sia molto ostacolato l’accesso delle donne alla legal profession e come ancor più raro sia il loro ingresso nella magistratura (oggi infatti esse sono presenti nella categoria in percentuale inferiore al 20%). La professoressa ha invece enfatizzato la particolare attitudine femminile sia all’impartiality, sia alla valutazione del social context dell’imputato, aspetto fondamentale in società multietniche come sono da sempre i paesi di common law. In relazione poi al profilo concernente il judging a woman, la prof. Boyle ha severamente censurato le generalizzazioni ed i luoghi comuni che talora influenzano il processo inferenziale dell’organo giudicante. La studiosa canadese ha rilevato come questi fenomeni possano rivelarsi fuorvianti soprattutto nei processi relativi a reati di violenza sessuale, ove si tende sempre ad indagare sulla sexual history della donna e ad accertare se il sex-assault sia avvenuto tra lovers o tra strangers e, qualora si verta nel primo caso, si mira a dare rilievo a precedenti consensi della donna ai rapporti sessuali. Le sottese discriminatorie generalizzazioni, non inerendo al fatto specifico — in cui la donna ha pur sempre opposto rifiuto al suo aggressore — non dovrebbero essere, ad avviso della Boyle, neppure indirettamente oggetto di valutazione. Il prof. Hans Nijboer dell’Università di Leida ha concluso la prima sessione di lavori affrontando una prospettiva squisitamente comparatistica. Sottolineando la necessità di esaminare sempre il ruolo del giudice nei vari sistemi con un analitical approach ai four levels costituiti da pretrial, trial, sentencing ed appeal stages, il giurista olandese ha evidenziato che a fronte di macroscopiche differenze tra common e civil law — individuabili ad esempio nel coinvolgimento del giudice nelle indagini preliminari o nella presenza di un secondo grado di merito, propri degli inquisitorial systems — in ciascuno dei due sistemi esiste comunque una varietà di minori peculiari differenziazioni in ordine alla posizione del giudice. Del resto notevoli diversità emergono anche limitando la prospettiva unicamente a quattro sistemi europei di affine matrice storico-culturale quali Francia, Germania, Belgio ed Olanda. La particolarità del sistema francese è stata ravvisata, ad esempio, nella possibilità di passare facilmente dal ruolo di pubblico ministero a quello di giudice all’interno della magistratura. Il prof. Nijboer ha sostenuto che una radicata tradizione giuridica impedisce ai francesi di comprendere che ‘‘differenti doveri e poteri di giudici e pubblici ministeri’’ possono venire inficiati nel facile passaggio da un ruolo all’altro. Questo rilievo assume particolare interesse alla luce degli attuali dibattiti sul medesimo tema nel nostro Paese. Il giurista olandese ha comunque auspicato, pur senza nasconderne la difficoltà e l’are-
— 683 — namento di simile iniziativa negli anni ottanta, la formazione di un european judge, quanto meno attraverso comuni principi di riforma. 3. Il prof. John Jackson della Queen’s University di Belfast ha aperto la seconda plenary session sul tema della decisione giurisdizionale delle questioni di fatto e di diritto, asserendo che la divisione accolta dai sistemi di common law tra matter of fact, di cui si dovrebbe occupare la giuria, e matter of law, su cui dovrebbe pronunciarsi il giudice, può dirsi quantomeno artificiosa. Ad avviso del relatore questa cesura si incrina ad esempio già quando il giudice incide sugli orientamenti decisori della giuria mediante le sue instructions o nei casi di processi demandati al giudice monocratico. Il presidente della Corte costituzionale sudafricana, Hon A Sachs, con un intervento intitolato ‘‘Reason and passion in human rights’’ ha soprattutto testimoniato il dramma della guerra civile ed il desiderio di giustizia di chi ha vissuto quella tragica esperienza. Poiché tale desiderio è rimasto finora inappagato a causa del fallimento di precedenti commissioni d’inchiesta, il giudice Sachs ha auspicato il buon esito dell’attuale Commissione sui diritti umani. Egli ha quindi delineato quelle che dovrebbero essere le principali direttive dei giudici della Commissione. Anzitutto li ha esortati ad ascoltare le vittime, perché è un loro diritto e perché le loro sofferenze possano essere d’insegnamento. Ha poi esaminato il profilo della concessione di ‘‘monetary remedies’’, pur negando decisamente che questi siano mai sufficienti a riparare i torti subiti e rilevando peraltro la difficoltà di reperire adeguati parametri di proporzionalità. Ha infine ammesso che non minori difficoltà si presentano nel fornire ai giudici della Commissione idoneo supporto probatorio, ricadendo in ultima analisi su costoro il gravoso compito di circoscrivere i rischi di impunità dei colpevoli. Premesso che il fair trial è veramente tale non solo se a tutte le parti è dato ugualmente modo di esporre senza restrizioni le loro ragioni, ma anche se è assicurato che la decisione sia fondata su prove dotate di oggettività, I’intervento di Marilyn MacCrimmon, docente dell’Università di British Columbia a Vancouver in Canada, ha preso in esame il rapporto tra comune patrimonio di conoscenze (common stock of knowledge) di giudici e di componenti delle giurie e decisione sulle questioni di fatto (fact determination). In particolare, nello stock of knowledge di chi è chiamato a giudicare occorre enucleare quanto più possibile le massime d’esperienza (generalizations) ed ammettere l’uso solo di quelle che risultano legittime. A tale fine la studiosa canadese ha proposto alcuni standards per identificare le massime d’esperienza ammissibili, delle quali ha suggerito la ricezione a livello normativo. Le generalizations fondate su razza, sesso ed età, in quanto generatrici di possibili effetti fuorvianti, non dovrebbero essere mai utilizzate se non fondate su dati certi. In secondo luogo, onde aderire alla tesi dominante della doctrine of the judicial notice (fatto notorio) si può accogliere come sicuro non solo il fatto indisputable (ad es. c’è stato l’Olocausto), ma anche ciò che sia ‘‘notice’’ per un ‘‘right-minded member of the community’’ (ad es. le ferite alla testa possono comportare un indebolimento); in quest’ultimo caso però si dovrebbe dar ingresso ad una expert-opinion, che spieghi a quali condizioni una determinata massima d’esperienza può essere accolta. Infine, secondo la giurista, sarebbe auspicabile prestare maggiore attenzione alle ‘‘social science researches on human behaviour’’, da taluni invece ritenute superflue sulla scorta dell’argomento che la prova tratta dall’osservazione sociologica è puramente materia di comune buon senso. 4. La terza plenary session è stata dedicata alla fase c.d. di sentencing (determinazione della pena) ed ai correlativi doveri del giudice. In quest’ambito la prospettiva comparatistica è stata affidata a Hans-Jorg Albrecht, professore nell’Università di Freiburg in Germania e direttore dell’lstituto di diritto penale straniero ed internazionale. Egli ha preliminarmente rilevato come nei sistemi di stampo inquisitorio le funzioni del giudice di raccolta ed elaborazione delle prove, da un canto, e di determinazione della pena, dall’altro, non siano nettamente differenziate, laddove nei sistemi ad-
— 684 — versary non si tollera alcuna commistione tra il ruolo del giudice quale arbitro neutrale nell’elaborazione probatoria e quello di rappresentante del pubblico interesse nella determinazione della pena (bifurcated systems). Il prof. Albrecht ha comunque dovuto constatare, anche relativamente agli ordinamenti continentali, la notevole discrezionalità giudiziaria nella fase relativa alle pene. Ciò tanto nel front end del sentencing, vale a dire nella determinazione della tipologia e dell’entità della pena, quanto nel back end, ossia nel momento di decisione circa l’eventuale espiazione della pena in forma alternativa alla pena detentiva. Con riguardo al front end, per diminuire il ruolo giudiziario nella determinazione della pena, lo studioso tedesco pensa al rafforzamento del potere del prosecutor to dismiss the case. Quanto al back end si è lamentato invece l’eccesso di misure alternative alla detenzione, introdotte in via legislativa, senza un’adeguata ‘‘education’’ dei giudici ad orientarsi in tale moltitudine di ipotizzabili provvedimenti. Il prof. Albrecht ha pertanto auspicato un intervento coordinatore e riformatore e ha caldeggiato l’introduzione di misure volte anche a prevenire l’ingresso in carcere, non solo a diminuire i livelli di popolazione penitenziaria. Il docente di Freiburg ha poi esaminato alcuni generali criteri utilizzati nei sistemi adversary per ridurre la discrezionalità del giudice nel sentencing, di cui si potrebbe studiare l’utilizzazione anche nei continental systems, quali guidelines, introduzioni di più rigorosi obblighi motivazionali in ordine alla scelta di una misura piuttosto che di un’altra ed un maggiore sviluppo del ‘‘monetary approach’’ alternativo all’imprisonment. Accenti critici verso gli orientamenti dei giudici inglesi e gallesi sono emersi dalla relazione di Andrew Ashworth, Vinerian professor of Law nell’Università di Oxford. In particolare egli ha stigmatizzato la pressocché sistematica ed aprioristica opposizione dei giudici all’opera del legislatore in materia di giustizia, sempre interpretata come il tentativo di sottrazione di potere alla categoria: interpretazione tanto più grave in quanto infondata, perché il legislatore si vuole invece dichiaratamente avvalere del contributo giudiziario, ma quando è loro fornita l’occasione per tale collaborazione i giudici non sanno di converso offrire valido supporto. Emblematica a riguardo, ad avviso di Ashworth, la vicenda relativa al Criminal Justice Act on Sentencing del 1991, grande riforma di razionalizzazione del sistema punitivo nell’ottica di una maggiore proporzionalità tra offesa e punizione. Il Parlamento aveva chiaramente voluto fissare solo le linee generali del nuovo sistema, lasciando alla Court of Appeal l’elaborazione della specifica articolazione. Il prof. Ashworth ha in particolare citato tre previsioni del Criminal Justice Act (section 2.2a, section 1.2a in tema di reati minorili, section 2.2b relativa ai reati di violenza sessuale), in cui il legislatore aveva statuito che la reclusione fosse da commisurare alla gravità dell’offesa, demandando all’autorità giudiziaria di stabilire i criteri della gravità. Dal fronte giudiziario è stato sostanzialmente eluso l’impegno alla tipizzazione, in base al rilievo della superfluità di simile lavoro, poiché ‘‘le Courts sanno capire quando il crimine è grave’’. Il prof. Ashworth ha quindi amaramente ipotizzato che debba attendersi simile improduttiva ‘‘judicial resistence’’ anche in relazione al Crime Sentence Act del 1997 ed al Crime and Disorder Bill for a Sentencing Advisory Panel del 1998. Sempre in ambito di analisi dei poteri del giudice nel sentencing, Robert Moesteller, professore alla Duke Law School di Durham, North Carolina (USA), ha concordato con quanto all’inizio affermato dal giudice Weinstein circa la progressiva limitazione ad opera del legislatore statunitense della discrezionalità giudiziaria, a far data dagli anni 70. Tuttavia nel suo intervento il giurista, anziché leggerla in chiave di contrapposizione tra potere legislativo e giudiziario, ha difeso la bontà di questa scelta di politica giudiziaria, ponendo l’accento sulla volontà di razionalizzazione del sistema del sentencing, che negli Stati Uniti sconta peraltro anche la circostanza di operare sul duplice piano statale e federale. In particolare egli ha cennato alle principali linee di riforma. Sul front end: si sono rigorosamente determinati minimi e massimi edittali e si è inibito ai giudici, per quanto possibile, di valicarne i limiti, riducendo peraltro anche lo spazio per valutazioni troppo individualizzanti; in tema di misure alternative (back end) sono state tipizzate espressamente e ridotte quantitativamente le ipotesi di probation and parole.
— 685 — Singolare, in questa sezione dedicata al ruolo del giudice nella decisone è stata la relazione della prof. Joanna Shapland, dell’Università di Sheffield, tesa a denunciare la scarsa attenzione riconosciuta alle esigenze ed ai diritti delle vittime nei processo penale accusatorio; ciò deriverebbe, secondo la relatrice, dall’eccessiva attenzione prestata invece agli aspetti del judiciary decision-making. Con riferimento alla posizione delle vittime la studiosa inglese ha in primo luogo sostenuto che i benefici derivanti alle vittime dal Criminal Injuries Compensation Board, vale a dire da un’istituzione esterna al processo, non sono sufficienti e che parimenti insoddisfacente, a livello endoprocessuale, si rivela il potere del giudice di emettere compensation orders. Quest’istituto ha conosciuto tra l’altro un’applicazione concreta assai meno estesa di quanto auspicato dal legislatore. Alle vittime sono peraltro garantiti i seguenti diritti: notifica dell’avviso concernente l’avvio e l’esito dei processi; iniziale informazione sulle prospettive del processo (un miglioramento al riguardo deriva dal Criminal Justice Act 1996); consultazione circa le loro preferenze sugli ulteriori sviluppi del procedimento; adeguata protezione ove le persone offese dal reato rivestano anche il ruolo di witness. Sul piano concretamente propositivo la prof. Shapland, rilevando che il disagio delle vittime deriva dal non poter mai di fatto avere notizie sullo svolgimento del procedimento che le riguarda a causa della migrazione del fascicolo da un ufficio all’altro, ha suggerito che ciascun ufficio al quale venga affidato il fascicolo per gli adempimenti volta a volta richiesti dalla legge, abbia l’obbligo di informare la vittima degli sviluppi del caso che la riguarda. Anche il ruolo delle courts nei rapporti con le vittime deve essere modificato ed inteso quale servizio pubblico, dovendosi tra l’altro favorire appositi incontri tra giudici e persone offese dal reato, anche al fine di un esatto inquadramento dello specifico caso umano, da tenere in considerazione al momento della decisione. VIRGINIA BONSIGNORE Dottoranda di ricerca in Diritto processuale penale comparato Università degli Studi di Milano
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
MANNA A., Imputabilità ed i nuovi modelli di sanzione. Dalle ‘‘funzioni giuridiche’’ alla ‘‘terapia sociale’’, Torino, Giappichelli, 1997, pp. IX-281. Il libro di Manna rappresenta un importante contributo al dibattito che negli ultimi anni si è andato accentuando sul problema dell’imputabilità. L’opera divisa in tre parti prende le mosse da una acuta ricostruzione dommatica dell’istituto dell’imputabilità così come delineato dal ‘‘codice Rocco’’ nel tentativo, peraltro riuscito, di evidenziarne le incongruenze ed i contrasti con il ‘‘restaurato’’ principio di colpevolezza riportato prepotentemente al centro della teoria del reato dalla storica sentenza n. 364/88 della Corte Costituzionale. Il modello codicistico dell’imputabilità, fortemente influenzato dall’allora dominante concezione psicologica della colpevolezza, con conseguente ‘‘riduzione’’ della non imputabilità a mera causa di esclusione della pena, evidenzia tutti i suoi limiti di fronte alla oramai imperante concezione della colpevolezza in senso normativo (concezione quest’ultima che ha trovato importante suggello nella sentenza succitata). Non avrebbe più significato ‘‘continuare a qualificare l’imputabilità in modo del tutto indipendente rispetto alla colpevolezza e come avente esclusivamente effetto sulla pena, quando, per altro verso, la richiesta anche della conoscibilità della norma penale rischierebbe di non avere senso nel caso dei non imputabili’’. L’imputabilità, quindi, logicamente ‘‘non può non essere attratta nell’orbita della colpevolezza’’ come presupposto o elemento di questa. Appare allora evidente, per l’Autore, che tutte quelle disposizioni ove il legislatore ordinario sia ricorso al sistema delle fictiones iuris per ritenere il soggetto imputabile quando naturalisticamente non lo è (come, ad es., in tema di ubriachezza, stupefacenti e stati emotivi e passionali), nascondendo nient’altro che ipotesi di responsabilità oggettiva, non possono non ritenersi costituzionalmente illegittime, perché in contrasto con il principio di colpevolezza, costituzionalizzato nell’art. 27, comma 1, Cost. Ma l’attuazione piena di tale principio non si presenta agevole giacché deve trovare un giusto equilibrio con le esigenze legate alla prevenzione generale. La riforma del 1975 del codice penale tedesco, particolarmente importante per l’influenza che questa ha avuto nei sistemi penali occidentali, con i §§ 20 e 21 ha portato all’aggiunta, ‘‘fra le cause che possono escludere, o diminuire l’imputabilità, oltre al disturbo mentale di carattere patologico, [...] un’altra grave devianza psichica, con il cui termine il legislatore intendeva riferirsi alle nevrosi, psicopatie, e, in genere, a tutti quei disturbi psichici privi di una (accertata) base organica. Sembrerebbe così attuato in modo esauriente il principio di colpevolezza, ‘‘giacché a tutte le ipotesi in cui naturalisticamente il soggetto è privo della Einsichfaehigkeit, oppure della Haendelnfaehigkeit, corrisponde normativamente la possibilità di esclusione della colpevolezza’’. L’esistenza del § 323a che incrimina il fatto (doloso o colposo) dell’ubriacarsi se viene commesso un reato e l’elaborazione, da parte della giurisprudenza, del concetto di pre-colpevolezza per i reati commessi sotto l’influenza di uno stato affettivo-emotivo (con la distinzione dello stato emotivo passionale colpevole da quello incolpevole) muta in parte, per Manna, tale quadro ‘‘idilliaco’’, anche se questi ‘‘aggiustamenti’’ devono considerarsi come ‘‘il prezzo da pagare sull’altare delle esigenze general-preventive’’. Secondo l’autore, però, il modello tedesco originario del ’75 non avrebbe avuto probabilmente necessità di tale ultimo correttivo giurisprudenziale. La riforma, infatti, prevedeva (§ 65), accanto alla pena ed alle misure di sicurezza tradizionali anche i c.d. istituti di tera-
— 687 — pia sociale che avrebbero dovuto consistere in misure di sicurezza ‘‘per determinate categorie di delinquenti, quali autori di gravi reati di sangue, delinquenti sessuali, nonché soggetti con gravi disturbi della personalità’’, adatti pertanto ‘‘a comprendere anche i casi più problematici di tensione fra colpevolezza e prevenzione’’. Purtroppo il § 65 entrò in vigore solo a metà degli anni ottanta e con una ben diversa configurazione. Gli istituti di terapia sociale diventarono infatti semplici modalità alternative di esecuzione della pena, usufruibili potenzialmente da ogni autore del reato che lo richieda, ‘‘svuotando così in larga misura lo spirito e soprattutto la tenuta del sistema complessivo’’. Per Manna la vicenda del sistema tedesco insegna comunque come sia del tutto insufficiente analizzare i problemi connessi alla Schuldfaehigkeit, senza, al contempo, collegarli con la relativa disciplina sanzionatoria. Lo studio dell’imputabilità, infatti, non può che portarsi dietro anche quello di istituti ad esso intimamente connessi, quali le misure di sicurezza ed il presupposto per la loro applicazione, ovverosia la pericolosità criminale. ‘‘Solo così, infatti, è possibile attribuire il giusto ruolo sia alle esigenze legate alla colpevolezza, che a quelle di carattere sia general-, che special-preventivo’’. L’abrogazione nel nostro ordinamento di ogni forma di presunzione di pericolosità ha portato alla luce, in tutta la sua gravità, il problema legato alla sostanziale indeterminatezza del giudizio di pericolosità criminale con evidenti preoccupazioni di ordine costituzionale, ‘‘per un possibile contrasto tra la normativa codicistica in tema di pericolosità e l’art. 25 Cost., che giustamente estende il principio di legalità anche alle misure di sicurezza’’. A ciò va aggiunto il fallimento registrato nella prassi delle misure di sicurezza detentive. L’Autore, unitamente ad autorevole dottrina, ne propone quindi l’abolizione, se aggiunte alla pena, in quanto ‘‘meri doppioni di quest’ultima’’, sottolineando che le misure di sicurezza dovrebbero essere applicate soltanto ai non-imputabili ed ai semi-imputabili. In tale prospettiva urge anche una conseguenziale riforma dei giudizi prognostici, che si adegui agli auspicati mutamenti strutturali di tale tipo di misura. Il dato empirico ha dimostrato una sostanziale impossibilità della predizione del comportamento delinquenziale se non a brevissimo termine. Se a questo dato uniamo l’esigenza sempre più sentita di proporzione, o adeguatezza della misura al grado di disvalore del fatto compiuto, appare evidente, per l’Autore, la necessita di arrivare ad un superamento della stesso concetto di pericolosità, con l’adozione, ad esempio, di un ‘‘criterio quale quello basato sul c.d. bisogno di cura, cioè sul bisogno reale di trattamento, che non solo troverebbe una ben più adeguata base empirica, ma si adatterebbe anche in modo più consono alla mutata natura delle stesse misure di sicurezza’’, oltre alla previsione di un limite massimo di durata. Per approfondire tale discorso l’Autore analizza, nella seconda parte, funditus il sistema sanzionatorio di riferimento, ovverosia le misure di sicurezza, con particolare riguardo a quelle previste per i non-imputabili. Il quadro che ne emerge non è certamente positivo. Dopo un’articolata e decisa critica del sistema del c.d. doppio binario per la sua sostanziale illiberalità e la intrinseca contraddizione rappresentando ‘‘nient’altro che un duplicato di inutile repressione, ove, per di più la misura di sicurezza rischia di perdere anche i suoi originali connotati preventivi’’, l’Autore auspica l’adozione del c.d. sistema vicariale, in base al quale le misure di sicurezza non si aggiungono alle pene, bensì si applicherebbero, in luogo delle prime, ai soggetti bisognosi principalmente di cura, ovverossia i non-imputabili, e, auspicabilmente, in tale moderna prospettiva, anche ai semi-imputabili. Al di là dell’adozione di questo o di quel sistema teorico l’Autore ritiene però imprescindibile valutare la concreta applicazione e funzione delle singole misure di sicurezza. L’esame dell’ospedale psichiatrico giudiziario conduce a conclusioni indubbiamente sconfortanti risultando chiaramente in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e di rieducatività della pena e con il diritto alla salute. Risultato ancor più negativo si ha con la casa di cura e di custodia rivolta ai soggetti semi-infermi: le numerose perplessità di ordine costituzionale ‘‘nonché le risultanze, davvero sconcertanti, emerse dalla prassi, non possono non condurre ad un’unica conclusione: il totale fallimento di tale misura e, quindi, della disciplina predisposta per il trattamento del semi-infermo’’. Manna ricorda che anche in Italia,
— 688 — sull’onda dell’‘‘euforia’’ rieducativa, vennero cercati strumenti alternativi alle misure di sicurezza con esperimenti di terapia sociale, esperimenti però quasi subito abbandonati. Negli altri Paesi, invece, questi tentativi hanno avuto maggior fortuna. Appare allora evidente la necessità di un esame comparatistico per verificare se la sperimentazione di questi istituti di terapia sociale, con più spiccate tendenze risocializzanti, abbiano o meno sortito effetti positivi. L’Autore conduce una dettagliata ed approfondita analisi dei tentativi condotti in Danimarca, Olanda (negli Istituti: Van-der-Hoeven-Klinik; Dr. S. van Mesdag-Klinik; Pompe-Klinik; Groot-Batelaar e Hoeve Boschoord), Svizzera, Austria, Inghilterra, USA, Portogallo e soprattutto in Germania Federale (negli lstituti: Hoenasperg; Hamburg-Bergedorf; Dueren; Berlin-Tegel; Erlangen; Ludwigshafen; Gandersheim; Gelsenkirchen; Luebeck; Kassel e Hamburg-Altengamme), il Paese quest’ultimo ove l’esperienza degli Istituti di terapia sociale è indubbiamente più ricca e diffusa. Dalla disamina delle varie esperienze registrate negli istituti di terapia sociale, sorti prima nella prassi nei Paesi del nord Europa, e poi anche legislativamente regolati (com’è avvenuto nel codice penale tedesco), si può concludere per un, sia pur contenuto, successo di tali esperienze segnalandosi una diminuzione del tasso di recidiva di circa il 15%. L’Autore, peraltro, sottolinea che gli esiti positivi si riscontrano soprattutto nei primi anni susseguenti al trattamento e qualora la terapia venga eseguita anche dopo il periodo di cura in qualche modo obbligatoria. In ogni caso, per Manna, da questi risultati ne consegue che gli istituti di terapia sociale, pur con i problemi anche giuridici che sollevano, non possono, nell’ottica della corresponsione biunivoca effettività-legittimità, non acquistare sensibilmente anche in termini di legittimità. Nella parte terza ed ultima del libro, l’Autore trae le conclusioni ed avanza, de iure condendo, soluzioni che possano conciliare il rispetto del principio di colpevolezza con quello della prevenzione generale. Tale strada andrebbe percorsa tenendo presente che ‘‘la prevenzione può essere consentita, con i mezzi offerti dal diritto penale, non solo attraverso la pena, ma anche mediante le misure di sicurezza’’. Solo lo stretto collegamento esistente fra i profili attinenti all’imputabilità e quelli attinenti le misure di sicurezza consentirebbe di evitare che ad un’apertura in senso maggiormente conforme al principio di colpevolezza, non segua una corrispondente risposta a livello sanzionatorio. Secondo Manna i buoni esiti delle esperienze estere degli istituti di terapia sociale comportano l’apertura di nuove prospettive e non possono non incidere sulla stessa disciplina dell’imputabilità con ‘‘un ampliamento, innanzitutto, dell’interpretazione del concetto di infermità mentale, sino a ricomprendervi i disturbi della personalità’’ e cioè anche le nevrosi, le psicopatie, gli stati emotivi e passionali (sempre che abbiano valore di malattia) e, in genere, quelle che sino ad oggi la giurisprudenza ha solo classificato come anormalità di carattere. Si andrebbe, così, incontro anche ‘‘all’evoluzione delle c.d. scienze empiriche, in quanto, già alla fine dell’ottocento, con i famosi studi di Freud sull’isteria, si sono scoperte patologie senza base organica’’, con conseguente crisi della concezione tradizionale della malattia mentale, retaggio ancora di una psichiatria di stampo puramente organicista. Ammesso ciò, rimane aperto il problema dello stabilire in concreto quando tali ‘‘disturbi della personalità’’ possano incidere sull’imputabilità. Abbandonato il criterio della ‘‘gravità’’ rappresentando una ‘‘clausola vuota’’, la soluzione viene rinvenuta dall’Autore nel richiedere un rapporto di causalità fra patologia e singolo reato commesso, criterio questo che si presenta idoneo a stabilire ‘‘con sufficiente sicurezza se il soggetto, al momento del fatto, sia, o no, imputabile. Tale rapporto di causalità — ben diverso e più ricco del tradizionale criterio temporale ‘al momento del fatto’ — pur se non decisivo è importante non solo per i disturbi della personalità senza base organica, ma anche per le psicosi almeno nella misura in cui non si giudichino più tali soggetti ‘sempre’ non imputabili, ma si riconoscano loro importanti quote di responsabilità’’. È questa la strada migliore ‘‘per coniugare al meglio colpevolezza e prevenzione’’. Altro ambito in cui si scontrano da sempre esigenze legate alla colpevolezza ed alla prevenzione generale è senza dubbio quello relativo alla disciplina codicistica sull’assunzione di
— 689 — alcool e di stupefacenti. Ritenute non soddisfacenti le varie e diverse soluzioni adottate dai modelli italiano, tedesco ed anglosassone in quanto queste presentano una chiara scissione tra fatto e colpevolezza che porta per necessità di cose ‘‘all’utilizzazione o di fictiones iuris, o, comunque di meccanismi presuntivi, che non possono non contrastare con un’integrale applicazione del principio di colpevolezza’’, Manna conclude per una necessaria diversificazione delle tecniche di intervento. Per l’abituale e la cronica intossicazione dovrebbe parlarsi di tossicodipendenza e prevedere il ricovero in istituti di disintossicazione quale misura di sicurezza. Per gli assuntori occasionali che in tale stato abbiano commesso un reato non potendo ‘‘penalisticamente fondarsi un giudizio di colpevolezza in quanto hanno agito in stato di incapacità, è giocoforza — come autorevole dottrina insegna — ‘rassegnarsi’ ad utilizzare rimedi sanzionatori di carattere extrapenale, quali, essenzialmente, quelli di carattere risarcitorio ex art. 2043 ss. c.c.’’. I rarissimi casi di preordinazione, riguardando sostanzialmente soggetti immaturi o psichicamente disturbati, dovrebbero essere esaminati nell’ambito dell’infermità di mente nell’accezione comprensiva anche dei gravi disturbi della personalità senza base organica. Tutto ciò non può non avere incidenza sul concetto di pericolosità sociale e quindi sulle misure di sicurezza, delle quali l’Autore non auspica una abolizione totale, bensì ‘‘una loro trasformazione, da sanzioni in cui sinora è decisamente prevalso l’aspetto legato alla difesa sociale, a misura in cui dovrebbe emergere il profilo attinente alla terapia. Conseguentemente appare evidente che il concetto di pericolosità criminale non andrebbe più utilizzato per essere sostituito con un concetto più in armonia con il nuovo volto e cioè con quello del ‘‘bisogno di terapia’’, ponendo così in risalto i profili di carattere terapeutico su quelli sanzionatori. Ciò, però, non deve condurre a sanzioni indeterminate, in quanto legate al permanere di esigenze terapeutiche, rimanendo fermo il criterio della proporzionalità, ‘‘nel senso che la durata della singola misura non dovrebbe comunque mai superare, nel caso concreto, il massimo previsto per il tipo di reato commesso’’. Nel caso in cui, nonostante siano maturati i termini massimi della misura, il soggetto necessiti ancora di trattamento dovrebbero essere previste strutture di accoglienza post-detentive ed extrapenali. In tale ottica risulta chiaro che fra le misure di sicurezza adottabili non vi è più spazio per gli ospedali psichiatrici giudiziari in cui ‘‘prevalgono decisamente gli aspetti custodiali su quelli terapeutici’’. Questi dovrebbero essere sostituiti da una pluralità di misure in modo da corrispondere al meglio alle diverse tipologie dell’infermità — vale ricordare che anche la Corte Costituzionale con sentenza 14-24 luglio 1998, n. 324 ha auspicato, quantomeno per i minori, una sostituzione dell’ospedale giudiziario con presidi e servizi psichiatrici extraospedalieri —. Per gli psicotici l’Autore propone un sistema di misure di sicurezza articolato principalmente ‘‘in c.d. strutture intermedie quali case-alloggio, comunità terapeutiche e così via, per accogliere sin dall’inizio, eccezionalmente anche in via cautelare, i soggetti prosciolti a causa di tale tipo di infermità. Tali misure, con il progredire del trattamento, dovrebbero poter poi essere sostituite, dal giudice di sorveglianza, con il trattamento ambulatoriale, con la libertà sorvegliata, sino a misure esclusivamente di controllo, come l’obbligo di firma, o similari. Per i soggetti affetti da disturbi della personalità (cioè i nevrotici ed i psicopatici) viene proposta l’adozione degli istituti di terapia sociale accompagnata dalla previsione di misure non detentive ed extrapenali, di assistenza volontaria, ‘‘la cui istituzione sarebbe oltremodo opportuna, anche per non disperdere gli effetti, in termini di diminuzione del tasso di recidiva, già ottenuti con la terapia sociale’’. Per gli alcolisti ed i tossicodipendenti Manna ritiene che una soluzione adeguata del problema possa essere trovata con l’introduzione di due nuove misure di sicurezza, l’istituto di disintossicazione e, per l’aspetto di carattere più squisitamente psicologico, le comunità terapeutiche, accompagnate, anche qui, da ‘‘ulteriori misure, questa volta non detentive, che possano rendere più flessibile la risposta sanzionatoria’’. L’Autore precisa, peraltro, che la decisa richiesta di una ‘‘rivoluzione’’ nella teoria generale delle misure di sicurezza non vuol significare affermare che la rieducazione costituisca
— 690 — un fine esclusivo della pena, né, tantomeno, ‘‘giungere a preferire, all’odierno sistema binario, un sistema unitario di misure, in cui, dissolto il principio di colpevolezza, vi sia soltanto il posto per un improbabile Massnahmenrecht’’. Vuol rappresentare, invece, solo un avvicinamento a quell’impegno solidaristico che ci viene imposto quale dovere costituzionale dall’art. 3, comma 2 ed, in campo penale, soprattutto dall’art. 27, comma 3, Cost. (Marco Angelini)
NOBILI M., Scenari e trasformazioni del processo penale, Milano, CEDAM, 1998, pp. XII310. Il volume contiene il testo riveduto e coordinato di quattordici conferenze in materia processuale penale svolte dall’Autore tra l’ottobre del 1988 e il settembre del 1996. Seguono il testo del Progetto per un codice processuale sanmarinese elaborato dallo stesso Autore (in appendice, 209-298) e un prezioso doppio indice strutturato per argomenti (305-309) e per riferimenti normativi (301-303). Le numerose tematiche affrontate — dalla concezione ‘‘relativistica’’ della prova (10 ss., 45 s.) alle garanzie della fase investigativa (20 ss., 34 ss.); dalle indagini del difensore (81 ss., 132 ss.) al ruolo processuale e istituzionale del pubblico ministero (31, 52, 71, 86, 93, 112, 120, 122, 154 ss.); dal principio dispositivo in tema di prova (50 ss.) agli abusi della custodia cautelare (106 ss.); dalla motivazione della sentenza (168 ss.) ai rapporti tra processo e principio di legalità (181 ss.) — gravitano in una stessa orbita concettuale: il fallimento del modello processuale elaborato dai codificatori del 1988, imperniato su una fase investigativa concepita come esclusivamente ‘‘preparatoria’’ e ‘‘priva di effetti’’ — come una fase, cioè, destinata a ‘‘non contare e non pesare’’ (34) nell’economia complessiva del giudizio, in quanto deputata a supportare le sole ‘‘determinazioni del pubblico ministero inerenti all’esercizio dell’azione penale’’ —, e divenuta invece, nella realtà giudiziaria, l’autentico baricentro del processo. Le ragioni di un simile fallimento vanno ricercate, a giudizio dell’Autore, in ragioni ‘‘interne’’ ed ‘‘esterne’’ all’assetto normativo scaturito dalla riforma del 1988. Sul primo versante hanno pesato le numerose incongruenze annidate nell’originario impianto codicistico, impietosamente messe a nudo dalla giurisprudenza costituzionale del 1992 (77 s., 98). Due su tutte: a) avere concepito le indagini preliminari non già nei termini di un’autentica ‘‘inchiesta di parte’’ ma come ‘‘indagini con fascicolo’’ del pubblico ministero (85), consentendo agli elementi di prova raccolti dall’organo dell’accusa (solo formalmente estranei alla dimensione dogmatica della ‘‘prova’’: 34 s., 39, 46) di ‘‘pesare’’ in maniera determinante non soltanto ‘‘sulle varie decisioni che pur sempre si adottano nel corso della procedura preliminare, e sui diritti della persona’’ (26, 38, 74), ma anche sui ‘‘processi senza dibattimento’’ (26, 38) e sulla stessa fase del giudizio (essendo stato costruito il principio di irrilevanza probatoria degli atti di indagine su basi normative intrinsecamente fragili, destinate a franare nell’impatto con la realtà applicativa: 16, 25, 68 s., 83 ss.); b) avere concepito il pubblico ministero come l’autentico dominus della fase investigativa, contrapponendo — a un organo dell’accusa munito di ‘‘poteri e funzioni inusitate di politica criminale’’ (ricerca della notizia di reato, discrezionalità occulta nell’esercizio dell’azione penale ecc.: 27, 36, 41, 86 s., 110) e chiamato a tutelare anche l’interesse dell’inquisito (secondo i vecchi schemi del pubblico ministero-organo di giustizia, ‘‘un po’ giudice’’ e ‘‘un po’ supplente del difensore’’, 87) — un organo giurisdizionale privo di reali poteri di cognizione e decisione, ‘‘senza occhi’’ e ‘‘senza braccia’’, come il giudice per le indagini preliminari (29 ss., 104, 128) e un difensore-istruttore chiamato a svolgere funzioni investigative solo apparentemente speculari a quelle del pubblico ministero, perché strutturate secondo il ‘‘vecchio’’ modello dell’inchiesta di parte (85 s.); con il risultato di trasformare l’ideale accusatorio dichiaratamente perseguito dai riformatori del 1988 in una sorta di ‘‘accusatorio — non
— 691 — garantito — del pubblico ministero » (20 ss., 156 s.) complessivamente meno rassicurante del vecchio garantismo inquisitorio (20 ss.). Sul secondo versante, il primato della fase investigativa è stato invece favorito dal perpetuarsi di una tendenza non nuova (198) del potere giudiziario: la tendenza — cresciuta, negli ultimi anni, in un’inquietante simbiosi con le mutate dinamiche dell’informazione giornalistica (160, 174 ss., 188, 199) — ‘‘a impiegare gli atti iniziali del procedimento (quale ne sia la natura e la configurazione normativa), come altrettanti strumenti di controllo sociale autonomo e di intervento anticipato rispetto alla sentenza’’ (24, 38, 101, 121, 130 s., 170, 189, 195); la tendenza, cioè, ‘‘a usare gli istituti della procedura rispetto alla sentenza’’ (24, 38, 101, 121, 130 s., 170, 189, 195); la tendenza, cioè, ‘‘a usare gli istituti della procedura penale per scopi che dovrebbero essere solo della pena’’ (195), ossia come ‘‘misure di contrasto’’, come ‘‘risposta giudiziaria’’, immediata ed esemplare, alla criminalità (189). Il quadro che ne scaturisce è quello — allarmante — di un sistema processuale penale nel cui àmbito prova e sanzione si vanno sempre più allontanando dalle loro sedi naturali (dibattimento e sentenza) per trasferirsi nel perimetro delle indagini preliminari (e dunque nel ‘‘regno’’ del pubblico ministero, 199), se non, addirittura, fuori del processo, nei circuiti dell’informazione (il ‘‘processo parallelo dei media’’, 188); un sistema processuale penale non più ‘‘concepito e giustificato sul primato della legge’’, ma ‘‘affidato, piuttosto, ai poteri del magistrato’’ (100, 189), propenso a ricercare la propria fonte di legittimazione più nel consenso popolare veicolato ed elaborato dai mass-media che nelle norme giuridiche (156 ss.); un sistema processuale penale, in definitiva, nel quale al primato delle ‘‘forme’’ (id est, della legalità processuale, 3 ss., 181 ss.) si va sostituendo il primato dei ‘‘valori’’ (id est, delle scelte politiche, 4); nel quale, peggio ancora, allignano ‘‘atti politici insinuati, per il pubblico, nella funzione del processo giudiziario’’ (6), e in tal modo sottratti, in nome di una legalità ‘‘di facciata’’, al controllo democratico (si pensi alle scelte del pubblico ministero in materia di azione penale, ma non solo: 28, 172, 185). Questo, e molto ancora, nel volume in commento. Tutt’altro che ‘‘pagine incomplete’’, che ‘‘presentano piuttosto interrogativi e qualche diagnosi’’, senza offrire ‘‘soluzioni’’ (205). Eccone una tra le più notevoli (103 ss., 135 s., 166); operare ‘‘una revisione non superficiale e settoriale dell’intera fase preliminare e delle competenze del ‘gip’, da mantenere come organo destinato a intervenire solo a domanda di parte, ma capace di ‘rispondere’ a tali domande, senza assurdi limiti di poteri o di cognizione degli atti’’ (135); un organo che dovrebbe ‘‘risultare — e non soltanto nell’ambito delle norme di procedura — davvero ben differenziato dal pubblico ministero, proprio per evitare il noto ‘vizio pendolare di un giudice (il ‘gip’) che divenga il ‘giudice-pubblico ministero’ ’’ (135). (FRANCESCO CAPRIOLI).
GIURISPRUDENZA
b) Giudizi di Cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. III — 6 novembre 1998 (dep. 10 febbraio 1999) Pres. Tridico — Rel. Rizzo P.M. Di Zenzo (concl. diff.) — Ric. Cristiano Reati contro la moralità pubblica e il buon costume — Delitti contro la libertà sessuale — Violenza carnale — Valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in assenza di riscontri oggettivi della condotta costrittiva — Inattendibilità di esse. Ai fini della responsabilità per il reato di violenza carnale le dichiarazioni accusatorie della vittima del reato vanno sottoposte a una rigorosa analisi in ordine alla loro attendibilità, soprattutto quando ben si conciliano con la versione dei fatti rappresentata dall’imputato le circostanze di fatto, costituite ad esempio dall’assenza di segni di una colluttazione o comunque di una vigorosa resistenza della vittima al suo aggressore ovvero il fatto che i jeans che la vittima indossava fossero, anche se in parte, sfilati, operazione questa che richiede la fattiva collaborazione della persona che li porta (1). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — In data 12 luglio 1992 (A), allora diciottenne, denunciava alla Questura di Potenza che il giorno precedente, verso le 12,30, era stata vittima di una violenza carnale consumata in suo danno da (B), suo istruttore di guida. Costui, come aveva fatto altre volte, l’aveva prelevata presso la sua abitazione, per effettuare la lezione di guida pratica. Senonché, con la scusa di dover prelevare altra ragazza pure interessata alle lezioni di guida, l’aveva condotta fuori dal centro abitato e, fermata l’autovettura in una stradella interpoderale, l’aveva gettata a terra e, dopo averle sfilato da una gamba i jeans che indossava, l’aveva violentata. Consumato l’amplesso, l’aveva condotta a casa imponendole con minacce di non rivelare ad altri l’accaduto. I genitori, vedendola turbata, le avevano chiesto spiegazioni, ma aveva preferito non raccontare quanto le era accaduto. Lo stesso giorno, dopo il suo rientro a casa dalla lezione di teoria presso l’autoscuola, aveva informato i genitori della violenza subita. Il (B), sottoposto a fermo lo stesso giorno della denuncia, dava una diversa versione dei fatti.
— 693 — Ammetteva di avere avuto il rapporto sessuale con la (A), nelle circostanze di tempo e di luogo da questa riferite, ma precisava che la ragazza era stata consenziente. Iniziatosi processo penale a carico del (B) per i reati di violenza carnale, violenza privata, ratto a fine di libidine, lesioni personali, atti osceni in luogo pubblico e violenza privata, il tribunale di Potenza, con sentenza del 29 febbraio 1996 condannava l’imputato per il reato di atti osceni in luogo pubblico, mentre lo proscioglieva dai rimanenti reati. A seguito di appello del Pm e dell’imputato, la Corte di Appello di Potenza, con sentenza del 19 marzo 1998, dichiarava il (B) responsabile di tutti i reati a lui contestati e lo condannava alla pena di anni 2 e mesi 10 di reclusione. Contro tale sentenza il (B) ha proposto ricorso per cassazione ed ha dedotto il vizio di motivazione sostenendo che la Corte di Appello aveva affermato la di lui responsabilità con argomentazioni non coerenti con le risultanze processuali. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Ritiene la Corte che la sentenza impugnata merita l’annullamento perché carente di adeguato e convincente apparato argomentativo. È certo che a carico dell’imputato sussistono le reiterate accuse formulate dalla (A). Ma, considerate le proteste di innocenza dell’imputato, il quale ha sostenuto che la ragazza era stata consenziente al rapporto sessuale, la Corte di merito avrebbe dovuto procedere a una rigorosa analisi in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni accustorie rese dalla (A), mentre invece ha affermato la colpevolezza dell’imputato valorizzando circostanze di fatto che ben si conciliavano con la versione dei fatti rappresentata dal (B) e minimizzando o omettendo di valutare altre circostanze che mal si conciliano con la denunciata violenza carnale. La sentenza afferma che le dichiarazioni rese dalla (A) sono da ritenere attendibili poiché costei non aveva motivo alcuno per muovere contro il (B) una accusa caluniosa. Una tale considerazione non può condividersi sol che si consideri che la ragazza potrebbe avere accusato falsamente il (B) di averla violentata, per giustificare con i genitori l’amplesso carnale avuto con una persona molto più grande di lei per età e per di più sposata, amplesso che non si sentiva di tener celato perché preoccupata delle possibili conseguenze del rapporto carnale. Peraltro una tale ipotesi non appare inverosimile alla luce del comportamento tenuto dalla (A) dopo i fatti. Costei raccontò ai genitori quanto le era accaduto non già appena tornò a casa, sebbene i predetti le chiesero cosa le era successo in quanto era visibilmente turbata, ma soltanto la sera, dopo aver assistito presso l’autoscuola alla lezione di teoria. La Corte di Appello giustifica un tale ritardo sostenendo che la (A) presumibilmente provava vergogna o si sentiva in colpa. Ma una tale argomentazione non è convincente. Non si vede infatti quale vergogna o senso di colpa la (A) potesse avvertire, se effettivamente vittima di una violenza carnale, data la gravità di un tale fatto, per altro commesso dal suo istruttore di guida, sulla cui autovettura si era trovata per effettuare la programmata esercitazione di guida. Parimenti censurabile è la sentenza allorché afferma che la (A) fu realmente
— 694 — vittima della denunciata violenza carnale dato che è certo che durante l’amplesso aveva i jeans tolti soltanto in parte, mentre se fosse stata consenziente al rapporto carnale avrebbe tolto del tutto i pantaloni che indossava. Un tale rilievo non può condividersi perché sarebbe stato assai singolare che in pieno giorno (il fatto avvenne verso le ore 12-12,30), in una zona che seppur isolata non era preclusa al transito di persone, la (A) si denudasse del tutto, sol perché era consenziente all’amplesso. Deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa. Anche su altri punti la sentenza risulta carente di convincente motivazione. Sul corpo della (A) e del (B) non sono stati riscontrati segni di una colluttazione tra i due o comunque di una vigorosa resistenza della ragazza al suo aggressore. La Corte di Appello al riguardo si limita ad affermare che per la sussistenza del reato di violenza carnale non è necessario che l’autore del fatto sottoponga la persona offesa ad atti di violenza e che comunque, nel caso in esame, la (A) non aveva opposto resistenza temendo di subire gravi offese alla sua incolumità fisica. Ma al riguardo è da osservare che è istintivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla e che è illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro, che è una grave violenza alla persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica. La sentenza impugnata, infine, non chiarisce come si concilia con l’asserita violenza carnale la circostanza che la (A) non tentò di fuggire appena il (B) fermò l’autovettura e manifestò i suoi propositi, così come non dà una plausibile spiegazione del comportamento della ragazza che, dopo la consumazione del rapporto carnale, si mise alla guida della autovettura. In sentenza viene precisato che la (A) aveva interesse a tornare subito a casa. Ma la Corte di Appello ha omesso di considerare che è assai singolare che una ragazza, dopo aver subito una violenza carnale, si trovi nelle condizioni d’animo che le consentano di porsi alla guida di una autovettura con accanto il suo stupratore, soprattutto se, come nel caso in esame, essendo inesperta di guida, deve pilotare l’autovettura seguendo i consigli e le istruzioni di chi momenti prima l’ha violentata. Ne consegue che la sentenza impugnata risulta affetta da motivazione carente ed illogica e pertanto merita l’annullamento con rinvio alla Corte di Appello di Napoli. P.Q.M. — Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli.
——————— (1)
Libertà sessuale e blue-jeans.
SOMMARIO: 1. Alcune considerazioni preliminari in tema di bene giuridico tutelato. — 2. I modelli stranieri. — 3. Le argomentazioni della Corte. — 4. Le ricerche empiriche. — 5. Sul concetto di vio-
— 695 — lenza: a) la nuova prassi giurisprudenziale italiana; b) le recenti esperienze normative europee. — 6. Diritto sostanziale e processo.
1. Alcune considerazioni preliminari in tema di bene giuridico tutelato. — La sentenza che qui si annota ha suscitato particolare attenzione nella comunicazione di massa per l’affermazione secondo la quale i jeans non potrebbero essere sfilati senza il consenso della vittima. Se questo aspetto può avere colpito la comune fantasia e sensibilità, ben più significativi sono altri passaggi della motivazione attinenti alle modalità costrittive della condotta tipica e alla prova di esse. Poiché la materia è stata oggetto — come è noto — di una recente riforma, prima di affrontare questi aspetti della sentenza, appare indispensabile premettere alcune considerazioni circa il bene giuridico tutelato dalle nuove disposizioni. I reati c.d. sessuali, benché fino al 1996 disciplinati nel titolo IX, Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, nel capo I, Dei delitti contro la libertà sessuale, avevano acquisito strada facendo quale scopo primario di tutela la persona nella sfera della sessualità sia nella teoria che nella prassi. Con la legge del 15 febbraio 1996, n. 66 questo incremento di significato è diventato anche realtà legislativa. I reati di cui al capo I, titolo IX sono trasmigrati, con importanti novità, nel titolo XII, relativo ai reati contro la persona, nel capo II, Dei delitti contro la libertà individuale, nella sezione II, Dei delitti contro la libertà personale. Il passaggio al bene giuridico della persona ha rappresentato certo un’importante novità sul piano dei valori legislativi espressamente enunciati, ma il nuovo inquadramento sistematico, come si è detto, in realtà non ha fatto che codificare un orientamento già ben presente e consolidato a livello non solo dottrinale ma anche giurisprudenziale (1). Se così è, dobbiamo allora chiederci se rispetto alla riorganizzazione dei reati sessuali fra quelli contro la persona ci si possa limitare alla presa d’atto di un’esigenza oramai diffusa e condivisa da tutti, ovvero se a tale riorganizzazione sul piano normativo non si debba accompagnare una nuova sensibilità interpretativa teleologicamente e più consapevolmente orientata alla tutela della libertà sessuale in quanto bene della persona. Una prima considerazione a tale proposito occorre svolgere. Sicuramente il messaggio promozionale del legislatore della riforma a favore della tutela della persona anche nella sfera sessuale non è stato un messaggio incondizionato. Inascoltata è rimasta infatti la sollecitazione ai riformatori di una parte della dottrina di rinunciare, già a livello di tipicizzazione del reato di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis, ai requisiti della violenza e della minaccia (2). Le argomentazioni a sostegno di tale rinuncia possono essere così sintetizzate. Nella prassi della vecchia disciplina si era andato già affermando l’orientamento verso un concetto ‘‘dematerializzato’’, ‘‘spiritualizzato’’ di violenza, tale cioè da ricomprendere qualsiasi tipo di comportamento costrittivo anche se privo di un’autentica violenza. Questo modo di intendere il requisito della violenza ha portato ad incentrare la fattispecie e quindi il suo significato di disvalore non sulla violenza ma sul dissenso. Tale indirizzo rappresentava un segnale forte circa il fatto che le esigenze di tutela della persona nella sfera della sessualità possono essere soddisfatte solo imperniando la fattispecie di violenza sul requisito della costrizione, indipendentemente dalle modalità di aggressione, violente o minacciose, del bene libertà sessuale. In altre pa(1) A tale proposito osserva, da ultimo, MANTOVANI, Diritto penale, pt. s., I, app., p. 2: « Riforma soprattutto di valore genericamente culturale e simbolico è la riqualificazione dei delitti sessuali come ‘‘delitti contro la persona’’ ... ». (2) Cfr. PADOVANI, Violenza carnale e tutela della libertà sessuale, in questa Rivisita, 1989, p. 1301 ss.; BERTOLINO, Libertà sessuale e tutela penale, Milano, 1993, p. 75 ss.; dopo la riforma, da ultimo MANTOVANI, op. cit., p. 4.
— 696 — role, significava prendere atto che la lesione al bene giuridico protetto consegue alla condotta sessuale non in quanto violenta o minacciosa, ma in quanto imposta, realizzata cioè contro la volontà della vittima. La violenza e la minaccia rappresentano in tale prospettiva per così dire degli ‘‘optional’’, che possono e devono rilevare non ai fini dell’an della responsabilità ma del quantum di essa. Così non è stato. La legge del 1996 non solo si è mantenuta fedele alla tradizione quanto ai requisiti della violenza e della minaccia, ma anche là dove si è rivelata innovativa, come in materia di bene giuridico tutelato, ha rinunciato a sistemare i reati sessuali in una tutela apertamente intitolata alla libertà sessuale, quale bene meritevole di autonomo riconoscimento rispetto alle altre forme di libertà protette dal titolo XII. I reati in questione sono stati infatti inseriti in coda ai reati contro la libertà personale. Simile collocazione non tiene conto del fatto che la libertà sessuale non è solo libertà negativa, libertà da ogni coercizione ma è anche e soprattutto libertà positiva, libertà di autodeterminazione sessuale, e in tale dimensione è libertà morale (3). E quest’ultima è tutelata nella sezione successiva, la terza, che si apre con il delitto di violenza privata del quale la violenza sessuale costituisce una figura specifica o speciale. Il legislatore del ’96 non solo non è stato dunque in grado di rompere completamente con il passato dal punto di vista della strutturazione della fattispecie di violenza sessuale, ma ha mancato l’obbiettivo anche dal punto di vista della collocazione sistematica della fattispecie. Da quest’ultimo punto di vista, non solo non è stata percorsa fino in fondo l’unica strada percorribile, e che sembrava obbligata e naturale, di sistematizzazione dei reati sessuali fra i reati contro la persona in una disciplina autonoma intitolata alla libertà sessuale, ma, anzi, l’inquadramento categoriale nel titolo dei reati contro la persona è stato svilito da una sistematizzazione dei delitti sessuali all’interno dei reati contro la libertà personale, subito dopo un reato del tutto secondario e estraneo agli illeciti contro la libertà sessuale, quale quello delle perquisizioni e ispezioni personali arbitrarie (art. 609) (4). Tale scelta è stata da ultimo definita giustamente « fuori da ogni ordine logico-sistematico: né quello della ‘‘progressione discendente’’ (dall’incriminazione più grave a quella meno grave, come nell’originario assetto della Sezione II), né quello della ‘‘dislocazione logico-consequenziale’’ (dall’incriminazione generale a quella speciale, dall’incriminazione principale a quella sussidiaria) » (5). Non solo dunque una sistematizzazione riduttiva ma anche sicuramente meno significativa della collocazione alternativa di inserimento fra i delitti contro la libertà morale, per la quale il legislatore della riforma avrebbe fatto meglio a optare. 2. I modelli stranieri. — D’altra parte a quest’ultimo non mancavano certo corretti modelli di inquadramento a cui ispirarsi. In altri ordinamenti la riorganizzazione dei reati sessuali secondo il bene generale della persona era già avvenuta proprio attraverso la creazione di titoli, di capi, di sezioni, utilizzando là dove necessario espressioni diverse dalla libertà sessuale, ma affini quanto a significato linguistico e concettuale. Così nella Repubblica Federale di Germania, la riforma del 1973 ha definito i reati sessuali, fino a quel momento ricompresi nel titolo dei delitti contro la moralità pubblica, come delitti contro ‘‘La libertà di determinazione nella sfera sessua(3) Evidenzia questi aspetti MANTOVANI, op. cit., p. 5 ss. Sul concetto di libertà personale, v. ancora MANTOVANI, op. cit., vol. I, p. 351 ss. (4) Cfr. in proposito PADOVANI, in CADOPPI (a cura di), Commentario delle ‘‘Norme contro la violenza sessuale’’, Padova2, 1999, sub art. 2, p. 19 ss., il quale ricorda come probabilmente l’espressione libertà sessuale sia stata abbandonata perché ormai compromessa dal lungo rapporto funzionale con la moralità pubblica e il buon costume. (5) MANTOVANI, op. cit., p. 3, nota n. 3.
— 697 — le’’ (6). Più di recente in Francia, dove il nuovo codice penale disciplina i reati in questione in una sezione autonoma, intitolata alle ‘‘Aggressioni sessuali’’, sezione a sua volta inserita nel capo relativo agli ‘‘Attentati all’integrità fisica o psichica della persona’’, a sua volta ricompreso nel titolo II dedicato agli ‘‘Attentati alla persona umana’’. Ma non è solo della Germania e della Francia l’orientamento a favore di una riqualificazione dei reati sessuali. Anche il recentissimo codice penale spagnolo del 1995 inserisce i reati sessuali in un titolo autonomo dedicato ai ‘‘Delitti contro la libertà sessuale’’ (7). E pure il Codice penale portoghese del 1995 sposta i delitti sessuali dal capo relativo ai ‘‘Delitti contro il fondamento etico-sociale della vita sociale’’, compreso nel titolo dedicato ai ‘‘Crimini contro i valori e gli interessi della vita sociale’’, al titolo dedicato ai ‘‘Delitti contro la persona’’, in un capo autonomo intitolato ai ‘‘Delitti contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale’’. Possiamo infine ricordare anche il nuovo Codice penale sloveno, entrato in vigore nello stesso 1995, che colloca i delitti sessuali nel capo diciannovesimo, espressamente intitolato ai ‘‘Reati contro l’inviolabilità sessuale’’, nonché il recentissimo Codice penale polacco del 1997. Quest’ultimo definisce i reati sessuali nel capitolo XXV come ‘‘Delitti contro l’autodeterminazione sessuale e la moralità’’, dove peraltro la moralità va intesa secondo la nuova prospettiva della protezione della libertà sessuale del singolo. Contro la morale sono infatti da ritenere quei (6) La riforma delle singole fattispecie, in particolare di violenza carnale, par. 177 e di violenza carnale nei confronti di persona incapace, par. 179, dopo un lungo e acceso dibattito (v. BERTOLINO, Garantismo e scopi di tutela nella nuova disciplina dei reati di violenza sessuale, in Jus, 1997, p. 58 ss.), è stata realizzata in tempi recentissimi con la legge di riforma dell’1 luglio 1997 (33. StrÄndG) e completata con la legge dell’1 aprile 1998 (6. StrRG). Tra le modifiche più significative ricordiamo l’unificazione in una fattispecie del reato di Vergewaltigung di cui al par. 177 con quello di Sexuelle Nötigung di cui al par. 178. Come avvenuto in Italia con la riforma del 1996, anche nell’ordinamento penale tedesco, in seguito alla riforma, i due reati sono unificati nella fattispecie di cui al nuovo par. 177, che punisce gli atti sessuali commessi con violenza o minaccia di un pericolo attuale per l’incolumità fisica o la vita ovvero approfittando di una situazione in cui la vittima è indifesa alla mercé del soggetto attivo (3. unter Ausnutzung einer Lage, in der das Opfer der Einwirkung des Täter schutzlos ausgeliefert ist). È quest’ultima un’importante novità della riforma, in quanto il legislatore del 1997 ha per la prima volta previsto questa terza modalità di realizzazione della condotta tipica di costrizione che prescinde dall’uso della violenza o minaccia (in proposito v. meglio postea, par. 5). Altra importante novità è la punibilità anche della violenza sessuale fra coniugi, in quanto è stato finalmente eliminato il requisito della ‘‘illegittimità’’ del rapporto sessuale, così come da tempo richiesto dalla dottrina. Sulla riforma v. OTTO, Die Neufassung der parr. 177-179 StGB, in Jura, 1998, p. 210; DESSECKER, Veränderungen im Sexualstrafrecht, in NStZ, 1998, p. 1 ss.; LENCKNER, Das 33. Strafrechtsänderungsgesetz - Das Ende einer lengen Geschichte, in NJW 1997, p. 2801 ss., il quale dubita che l’unificazione in una fattispecie unitaria dei reati di violenza carnale e di costringimento sessuale possa essere considerata un progresso, anzi al contrario, visto che simile unificazione era già presente nel codice penale prussiano del 1851. (7) Nel vecchio codice questi reati erano collocati fra i ‘‘delitti contro l’onore sessuale’’ ed è solo con la Legge Organica del 21 giugno 1989, n. 3 che vengono definiti ‘‘Delitti contro la libertà sessuale’’. Per un commento alle nuove norme, v. MORALES PRATS, GARCIA ALBERO, in QUINTERO OLIVARES, VALLE MUÑIZ, Comentarios al nuevo código penal, Pamplona 1996, sub artt. 178-194, p. 871 ss, i quali rilevano come « nella nuova disciplina dei reati sessuali siano presenti, come d’altra parte già nella precedente riforma del 1989, elementi normativo-culturali, che rischiano di minare l’equilibrio del nuovo ‘‘diritto penale sessuale’’ a scapito della tutela della libertà sessuale in termini razionali, praticabili ed effettivi. In definitiva, sussisterebbe il pericolo di aver barattato un diritto penale simbolico per un altro che non lo è di meno, ciò in aperto contrasto con i principi di legalità e tassatività della fattispecie penale » (p. 874). Emblematico a tale proposito sembra essere il concetto generico di aggressione sessuale di cui all’art. 178. Tale articolo definisce la condotta tipica di aggressione esclusivamente nell’ottica del bene giuridico tutelato della libertà sessuale, e cioè come qualsiasi attentato a tale bene realizzato con violenza o intimidazione. L’assenza di qualsiasi descrizione normativa del substrato empirico fattuale di una tale condotta ha già esposto tale concetto alla rimprovero di indeterminatezza, cfr. MORALES PRATS, GARCIA ALBERO, op. cit., p. 875, i quali peraltro osservano come in questa materia la realizzazione di una precisa descrizione normativa della condotta tipica si riveli un compito quasi impossibile, data la natura del bene giuridico da proteggere.
— 698 — comportamenti di natura sessuale che non rispettano la libertà di determinazione sessuale dell’altro (8). 3. Le argomentazioni della Corte. — Un reale adeguamento della disciplina dei delitti sessuali alle rinnovate esigenze di tutela della persona avrebbe dunque orientato meglio la giurisprudenza all’attuazione delle moderne istanze di protezione che hanno portato alla riforma. Esse tuttavia non sono sfuggite a quella giurisprudenza che da ultimo a chiare lettere ha affermato che con la nuova disciplina « l’illiceità dei comportamenti deve essere valutata alla stregua del rispetto dovuto alla persona umana e della loro attitudine ad offendere la libertà di determinazione della sfera sessuale. Questa è pertanto disancorata dall’indagine sul loro impatto nel contesto sociale e culturale in cui avvengono, in quanto punto focale è la disponibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è titolare » (9). E ancora: « L’illiceità del comportamento, rientrando il reato di violenza sessuale fra quelli contro la libertà personale e non più tra quelli contro la moralità pubblica, deve essere valutato alla stregua del rispetto dovuto alla persona umana e sulla sua attitudine ad offendere la libertà di determinazione nella sfera sessuale » (10). Ne consegue che « la nuova espressione ‘‘atti sessuali’’ contenuta nell’art. 609-bis c.p. include tutti quegli atti che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo ed ad entrare nella sua sfera sessuale » (11). Ma la sentenza che si annota sembra ignorare queste istanze, lontana come appare dalla prospettiva fatta propria dall’orientamento appena illustrato. Dichiarata infatti la decisione di secondo grado di condanna dell’imputato « carente di adeguato e convincente apparato argomentativo » (12), i giudici della Corte di Cassazione propongono spiegazioni alternative delle risultanze processuali a dir poco sorprendenti. Essi infatti esprimono valutazioni di merito, tra l’altro non di (8) Cfr. WEIGEND, Das neue polnische Strafgesetzbuch von 1997, in ZStW 1998, p. 140 s. (9) Cass. 5 giugno 1998, n. 210974. Tuttavia, proprio con riferimento al concetto di atti sessuali, la giurisprudenza ha accolto alcune perplessità manifestate in dottrina circa la conformità di tale concetto al principio di determinatezza o precisione della fattispecie e il Tribunale di Crema con ordinanza del 21 ottobre 1998 (in Riv. pen. 1998, p. 153) ha dichiarato « non manifestamente infondata, con riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 609 bis c.p. nella parte in cui omette di fornire una definizione o descrizione alla locuzione ‘‘atti sessuali’’..... evidentemente rinviando ad una ritenuta comune condivisione del significato della locuzione ‘‘atto sessuale’’ ». Una riprova della imprecisione del termine atti sessuali viene d’altra parte dal confronto fra i diversi orientamenti affermatisi in giurisprudenza sul contenuto da riconoscere a tale termine. Una parte della giurisprudenza sembra infatti seguire l’indirizzo c.d. oggettivo, che restringe la portata dell’espressione atti sessuali ad « ogni comportamento che, nell’ambito di un rapporto fisico interpersonale, sia manifestazione dell’intento di dare soddisfacimento all’istinto, collegato con i caratteri anatomico genitali dell’individuo. Ne deriva che la condotta deve consistere, quanto meno, in toccamenti di quelle parti del corpo altrui, suscettibili d’essere — nella normalità dei casi — oggetto di prodromi, diretti al conseguimento della piena eccitazione o dell’orgasmo » (Cass. 11 novembre 1996, in Cass. pen., 1997, p. 2092; in dottrina per un’interpretazione ristretta degli atti sessuali, che tenga conto della « oggettiva ‘‘natura sessuale’’ dell’atto in sé considerato », cfr. CADOPPI, in CADOPPI (a cura di), op. cit., sub art. 3, p. 35 ss., spec. p. 48). Sembra invece orientarsi verso una nozione allargata di atti sessuali altra parte della giurisprudenza, allorché ai fini dell’art. 609 bis sostiene la natura di atto sessuale di « qualsiasi atto che, anche se non è esplicato attraverso il contatto fisico diretto con il soggetto passivo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo il bene primario della libertà dell’individuo attraverso l’eccitazione o il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente » (Cass. 15 novembre 1996, in Riv. pen. 1997, p. 147). Per una sintesi dei diversi orientamenti sia in dottrina che in giurisprudenza, v. BERTOLINO, IN CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario al codice penale, Padova 1999, sub art. 609 bis). (10) Cass. 4 dicembre 1997, n. 209391. (11) Cass. 5 giugno 1998, n. 210975; nello stesso senso Cass. 15 novembre 1996, cit. (12) Alla Corte d’Appello di Potenza si rimprovera in particolare di aver valorizzato ai fini della condanna « circostanze di fatto che (invece) ben si conciliano con la versione dei fatti rappresentata dall’imputato » e di aver « minimizzato od omesso di valutare altre circostanze che mal si conciliano con la denunciata violenza carnale »; da qui la censura di apoditticità, illogicità e carenza di motivazione della sentenza di secondo grado.
— 699 — competenza della Corte di legittimità in quanto volte alla ricostruzione del fatto, basate su parametri di giudizio del tutto inaffidabili. Tali valutazioni, poi, richiamano un concetto ristretto di violenza di tipo fisico, ormai superato, come vedremo, dalla prevalente giurisprudenza. Quanto al primo profilo, la Corte giunge alla conclusione che le dichiarazioni della vittima non sarebbero attendibili attraverso i seguenti passaggi argomentativi: a) « è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa »; b) « la ragazza potrebbe aver accusato falsamente... per giustificare con i genitori l’amplesso carnale... che non si sentiva di tener celato perché preoccupata delle possibili conseguenze del rapporto carnale. Peraltro una tale ipotesi non appare verosimile alla luce del comportamento tenuto dalla vittima dopo i fatti »; c) « è istintivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla e... è illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro, che è una grave violenza alla persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica »; d) « è assai singolare che una ragazza dopo aver subito una violenza carnale, si trovi nelle condizioni d’animo che le consentano di porsi alla guida di una autovettura con accanto il suo stupratore... ». Comune esperienza, inverosimiglianza, istintività, illogicità, singolarità, questi sono stati i parametri di giudizio della Corte. Ma simili criteri, qualora mai fossero indiscutibili in sé, avrebbero dovuto essere utilizzati con maggior cautela dai giudici di Cassazione, ove si deve argomentare in diritto e non in fatto. La Corte invece utilizza i riferiti criteri per ricostruire il fatto così come prospettato dall’imputato, ma non ricerca alcun valido riscontro probatorio a tale ricostruzione. D’altra parte una verifica probatoria di pure valutazioni non fondate su elementi concreti, oltre a non essere consentita in Cassazione, non è in sé neppure possibile. I punti di vista della Corte si limitano a manifestare la rappresentazione sociale, tradizionale dello stupro. Questa rappresentazione dovrebbe caratterizzare il solo sapere comune della c.d. cultura giuridica esterna (i non esperti) e non tanto il sapere della cultura giuridica interna (quella professionale degli avvocati e magistrati), che, in quanto sapere scientifico-giuridico, dovrebbe essere quello che guida l’attività di amministrazione della giustizia, per la necessità di coerenza e di controllabilità del discorso che deve caratterizzarlo in funzione di garanzia dall’arbitrio. Purtroppo tale necessità non sempre viene rispettata. La psicologia sociale, che in tempi recenti ha indagato le rappresentazioni sociali della giustizia da parte dei gruppi più direttamente coinvolti, i magistrati e gli avvocati, ha evidenziato come anche la cultura giuridica interna sia caratterizzata da un sapere comune che troppo spesso si sostituisce a quello scientifico, giuridico (13). La sentenza che si annota appare appunto significativa di una cultura professionale che sviluppa una giustizia del sapere comune, diversa dalla giustizia del sapere scientifico che entra a far parte del patrimonio di magistrati e avvocati al punto da influire sull’attività propria di questo gruppo. Tutto ciò spiega la resistenza a cambiare l’atteggiamento tradizionale verso lo stupro, la bassa disponibilità ad agire per mutare il modello professionale, a favore di uno nuovo, in sintonia con il passaggio dalla tutela della moralità pubblica a quella della persona. Questa decisione della Corte di Cassazione sembra deporre nel senso che non tutta la cultura professionale si sia adeguata alle nuove prospettive di tutela; al contrario del sapere comune di una parte considerevole della cultura giuridica esterna, che proprio in tema di violenza (13)
Cfr. da ultimo, BERTI e altri, Avvocati, magistrati e processo penale, Roma 1998, passim.
— 700 — sessuale sembra aver ormai raggiunto un alto grado di sensibilità alle istanze di tutela dell’individuo, come è emerso dalle aspre reazioni critiche alla sentenza in commento, espresse dal ‘‘comune sentire dell’opinione pubblica’’. Eppure non mancano esempi di aperture anche all’interno della cultura professionale. Esse provengono da quella giurisprudenza che in tema di valutazione dell’elemento della costrizione ha ad esempio affermato che non serve valutare la condotta del soggetto passivo secondo parametri comportamentali prevedibili e dettati dall’esperienza, in specie quando la violenza avvenga in condizioni di luogo e di tempo di abituale affidabilità, ovvero in situazioni sulle quali incidono fattori sociali e ambientali (14). Si tratta di orientamenti che, pur affermatisi prima della riforma del 1996, la anticipano, in quanto rispondono in termini adeguati e coerenti all’esigenza di offrire la massima tutela alla vittima di reati sessuali, obiettivo primario della legge di riforma. Anche da questo punto di vista la decisione all’esame è da criticare. Nonostante la prassi giudiziaria avesse messo in guardia contro superficiali valutazioni del consenso, in quanto basate su parametri valutativi tratti dal sapere comune, ovvero su non verificate rappresentazioni stereotipate dello stupro (15) ovvero infine su prognosi di comportamento alla luce di presunte massime di comune esperienza, la sentenza annotata utilizza proprio questi criteri per decretare la inattendibilità delle dichiarazioni della vittima. Ma alcune conclusioni alle quali giungono i giudici contraddicono addirittura le stesse massime di esperienza alle quali essi si appellano. Di particolare peso è l’affermazione secondo cui sarebbe illogico pensare che una donna non opponga resistenza al suo aggressore per paura di subire « altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità ». Ma, quanto al giudizio di assoluta gravità della violenza sessuale, occorre precisare che l’offesa del bene libertà sessuale è certamente grave, tuttavia in una ipotetica scala gerarchica di gravità delle offese, essa si pone certamente su un gradino inferiore rispetto a quello occupato dalle offese alla vita e alla incolumità personale nelle forme più gravi. A conferma di ciò si richiamano le valutazioni operate dal legislatore sul significato di disvalore astratto della fattispecie di violenza sessuale. Esse emergono dal confronto con la fattispecie di omicidio volontario, per la quale l’art. 575 c.p. commina la pena della reclusione non inferiore a 21 anni e con quella di lesioni personali gravissime, per le quali è prevista la reclusione da sei a dodici anni (art. 582 c.p.). Per la violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis, è stata comminata la pena della reclusione da cinque a dieci anni. Che queste valutazioni rispecchino anche il sentire comune e incontrino un diffuso consenso sociale (16), è confermato dalle ricerche in materia di percezione sociale dei reati, in particolare da quelle relative alla misurazione di gravità dei reati, realizzate attraverso questionari sottoposti a semplici cittadini, a magistrati, ad avvocati nonché a parlamentari. I giudizi espressi dai vari gruppi sono risultati omogenei nel ritenere l’omicidio il reato più grave, in particolare anche rispetto alla violenza carnale. Mentre il reato giudicato in assoluto il più grave è la violenza carnale seguita dall’omicidio della vittima (17). (14) Cass. 19 novembre 1991, Cass. pen. 1993, p. 577. (15) Sui miti, sui luoghi comuni, sugli stereotipi in materia di violenza sessuale, v. BERTOLINO, Libertà sessuale, cit., p. 62 ss. (16) « Il senso comune accoglie le interpretazioni degli esperti quanto più esse sono in linea con le sue aspettative » (STORAI, Analisi della letteratura scientifica sullo stupro, in Riv. sessuologia 1993, p. 65. Sul ruolo del consenso sociale ai fini dell’effettività del sistema sociale, cfr., in particolare, PALIERO, Consenso sociale e sistema penale, in questa Rivista 1992, p. 849 ss. (17) Per questi dati, v. DELOGU, GIANNINI, L’indice di criminalità di Sellin e Wolfang nella teoria generale della misurazione di gravità dei reati, Milano 1982, passim; v. anche MERZAGORA, Relativismo
— 701 — Quanto poi alla conclusione alla quale perviene la Corte, secondo la quale sarebbe al di fuori di qualsiasi logica pensare che una giovane donna non oppone resistenza al suo violentatore, tale conclusione ripropone purtroppo l’idea, elevata a principio del ragionare, che non vi possa essere dissenso senza resistenza e che quest’ultima non possa mancare per paura di « presunte e non certo più gravi offese ». Ma è proprio il richiamo alla logica della comune esperienza a far dubitare della correttezza di simili affermazioni. Anzi, è proprio la logica del comune sentire a dirci che molto spesso è la resistenza della vittima a scatenare nell’aggressore sessuale una reazione violenta al punto da mettere a volte in pericolo non solo l’incolumità ma la vita stessa della persona aggredita. 4. Le ricerche empiriche. — Studi empirico-sperimentali relativi all’uso della violenza e della minaccia nei reati sessuali confermano questa deduzione. Vale la pena dunque richiamare, seppure sinteticamente (18), i risultati più interessanti ai nostri fini. È emerso che la violenza carnale si realizza con maggior frequenza quando il luogo prescelto è comunque un luogo chiuso e, quanto al rapporto vittima-aggressore, quando la vittima è conosciuta; che più facilmente quest’ultima viene ferita se conosce il suo violentatore; che quando la vittima tenta di difendersi, adottando una qualsiasi strategia difensiva, più facilmente viene ferita, rispetto ai casi in cui non attua alcuna manovra difensiva (19); che è più probabile che la violenza carnale non si realizzi quando la vittima ha come scopo principale quello di evitare di essere violentata, mentre più frequentemente si consuma il reato quando l’aggredito teme per prima cosa di essere ferito o ucciso e quindi quando ha come scopo primario, di fronte all’aggressore, di evitare tali gravi conseguenze alla propria persona. Inoltre, è emerso che con più facilità sembra verificarsi il reato quando viene minacciato l’uso della violenza; e che la reazione difensiva di lotta, che penalizza le vittime più deboli, è per lo più inefficace. E, infine, che la reazione fisica quale strategia difensiva della vittima di un’aggressione sessuale appare inefficace, in particolare al confronto con strategie difensive di tipo verbale, come il gridare o lo strillare (20). L’impostazione assunta dalla Corte di Cassazione non trova dunque un riscontro empirico-fattuale secondo gli studi in materia e contraddice anzi la logica alla quale la stessa Corte si richiama. Non si tiene conto del fatto che spesso, in una situazione di aggressione sessuale, la vittima non oppone alcuna resistenza, nemmeno di tipo verbale, per l’effetto paralizzante che su di essa esercitano alcune caratteristiche dell’aggressione, in particolare quella relativa al luogo dell’aggressione, interno e isolato e al fatto che lo scopo primario della vittima sia quello di evitare di essere uccisa o ferita (21). Da queste osservazioni discende un’imporculturale e percezione sociale in materia di comportamenti sessuali devianti, in CADOPPI (a cura di), Commentario delle ‘‘Norme contro la violenza sessuale’’, Padova, 1996, p. 363 ss. In generale i rapporti imposti sono stati considerati particolarmente gravi. Questi dati troverebbero ulteriore conferma dai dati relativi ai rapporti sessuali con e tra minori, rispetto ai quali il rapporto sessuale imposto è considerato di gravità doppia rispetto al rapporto sessuale con una minore consenziente (così MERZAGORA, op. cit., p. 366). (18) Per un approfondimento, v. BERTOLINO, op. ult. cit., p. 66 ss. (19) Studi recenti, ma isolati, tuttavia giungono alla conclusione che contrariamente alle aspettative la reazione difensiva della vittima è più spesso associata a una bassa probabilità di offese alla propria integrità fisica. Ma, ove pure tali risultati fossero attendibili, le incertezze che in ogni caso li caratterizza dovrebbe far propendere per la decisione in grado di evitare la violenza fisica. (20) Queste ultime strategie sembrano realizzare la migliore difesa, dato che esse sono risultate altamente correlate a reati di violenza sessuale solo tentati e soprattutto scarsamente associate a una controreazione violenta dell’aggressore tale da provocare pericolo per l’integrità fisica della vittima, cfr. in proposito BERTOLINO,op. ult. cit., p. 72, anche per la bibliografia ivi richiamata. (21) Altra caratteristica con effetto paralizzante è che l’aggressore sia armato, cfr. sul punto BERTOLINO, op. ult. cit., p. 73.
— 702 — tante conclusione: il consenso della vittima al rapporto sessuale non può mai essere dedotto dal fatto che la vittima non si è difesa. In sintonia con questa conclusione è d’altra parte la giurisprudenza, che, ancor prima della riforma del ’96, ha affermato che ai fini della sussistenza del reato di violenza carnale « non occorre... che da parte dell’offeso venga opposta una viva, costante resistenza fino allo stremo delle sue forze fisiche, con conseguenti inevitabili segni esteriori... Agli effetti dell’art. 519 c.p. per violenza deve intendersi anche quella che, a seconda delle circostanze, pone il soggetto passivo in condizione di non poter opporre tutta la resistenza che avrebbe voluto e la costrizione di cui si tratta può aversi anche se la vittima non ha invocato aiuto, dato l’allarme, riportato lacerazione di indumenti e lesioni sul corpo ecc.’’ (22). Di tutt’altro avviso sembra invece l’orientamento della sentenza in commento. Constatato infatti che ‘‘non sono stati riscontrati segni di una colluttazione tra i due o comunque di una vigorosa resistenza da parte della ragazza al suo aggressore », la Corte ha visto in ciò un ulteriore riscontro della carenza di convincente motivazione della sentenza della Corte d’Appello. 5. Sul concetto di violenza: a) la nuova prassi giurisprudenziale italiana; b) le recenti esperienze normative europee. — a) Quello della mancata resistenza è un profilo del concetto di violenza accolto dalla Corte di legittimità, che lo fa coincidere con la nozione ristretta, cioè con la violenza in senso materiale, fisico (23); nozione che — come si è già anticipato — è però superata dalla prevalente giurisprudenza (24), della quale sono emblematiche alcune affermazioni. Così si ritiene che « non esiste valido consenso alla congiunzione carnale se il soggetto passivo abbia ceduto alle voglie dell’aggressore solo per porre fine a una situazione divenuta angosciosa ed insopportabile a causa del comportamento dell’agente stesso. Ne deriva che sussistono gli estremi del reato in questione anche quando il rapporto sessuale sia stato consumato approfittando della situazione di difficoltà e dello stato di diminuita resistenza in cui la vittima si trovava » (25). « Il delitto — perciò — sussiste non solo quando vi sia stata una lotta strenua capace di lasciare segni sulla vittima, ma anche quando questa si sia concessa solo per porre fine ad una situazione per lei angosciosa e insopportabile, poiché tale tipo di consenso non è libero consenso, bensì consenso coatto, che ricade sotto la nozione di violenza di cui all’art. 519 c.p. » (26). Ed è sempre la Corte di legittimità ad affermare che ai « fini della configurabilità del delitto di violenza carnale, è irrilevante che il rapporto sessuale non sia stato preceduto da percosse o minacce poiché la violenza è ravvisabile anche al di fuori dell’esistenza della vis atrox nel comportamento dell’agente ». (Nella specie i giudici di merito avevano accertato la sussistenza della coartazione, desumendola dal complesso delle circostanze del fatto) (27). Conseguentemente, ancora secondo la Cassazione, non occorre che la violenza consista « necessariamente nell’esplicazione di una vis fisica... ma può concretarsi anche nella repentinità e nell’insidiosità dell’azione, che sorprenda e superi la contraria volontà del soggetto » (28). (22) Cass. 20 gennaio 1986, in Cass. pen. 1987, p. 753. (23) Sul concetto ristretto e allargato di violenza, v. analiticamente BERTOLINO, op. ult. cit., p. 95 ss. (24) V. CADOPPI, in CADOPPI (a cura di), Commentario2, sub art. 3, p. 52. (25) Cass. 25 febbraio 1994, in Cass. pen. 1995, p. 2916; nello stesso senso, Cass. 10 dicembre 1990, ivi 1992, 1244. (26) Cass. 16 novembre 1988, n. 179752. (27) Cass. 28 ottobre 1987, in Cass. pen. 1989, p. 79. (28) Cass. 26 febbraio 1980, in Cass. pen. 1981, p. 1241; cfr. anche Cass. 2 marzo 1986, ivi 1987, p. 715.
— 703 — La sentenza in commento nel rimanere ferma al concetto ristretto di violenza, oltre a ignorare le indicazioni a favore di un’interpretazione estensiva di tale concetto, appare non conforme allo scopo di tutela della libertà sessuale come interesse primario della persona. L’interpretazione ristretta significa infatti condizionare la tutela a modalità di estrinsecazione della condotta costrittiva non solo pericolose per la vittima ma in contrasto con il principio che la lesione del bene libertà sessuale si compie già con la costrizione all’atto sessuale, cioè con la semplice mancanza di consenso allo stesso. Purtroppo questo messaggio non è stato trasmesso dal legislatore del 1996 in termini sufficientemente chiari e rigorosi, dal momento che esso ha preferito condizionare ancora la punibilità della violenza sessuale a modalità di estrinsecazione della condotta costrittiva, rappresentate dalla violenza e dalla minaccia. Nonostante ciò, la difficoltà può essere superata riorientando il senso di questi due requisiti in una direzione che risulti coerente con la logica che si irradia dal nuovo bene giuridico tutelato. b) La logica del nuovo bene giuridico tutelato sembra invece aver guidato in maniera più sicura le scelte recenti di alcuni legislatori europei in tema di tipicizzazione della condotta tipica di violenza sessuale. Esse meritano di essere, seppure brevemente, richiamate. Dopo un lungo e contrastato dibattito, nel 1997 (33. StrÄndG) e successivamente nel 1998 (6. StrRG) è stata finalmente riformata in Germania la disciplina dei reati contro la libertà di determinazione sessuale (29). In particolare, ai fini che qui interessano, il legislatore del 1997 ha introdotto, accanto alla violenza e alla minaccia, una terza modalità di esplicazione della condotta tipica di violenza sessuale, costituita dal fatto che l’agente ‘‘approfitta di una situazione in cui la vittima indifesa è in balia del suo aggressore’’ (par. 177, (1), 3: ‘‘Ausnutzung einer Lage, in der das Opfer der Einwirkung des Täter schutzlos ausgeliefert ist’’). Questa innovazione dovrebbe attenuare i contrasti interpretativi sul concetto di violenza presenti anche nella teoria e nella prassi tedesche (30), favorendone un’interpretazione esente dagli adattamenti che invece abbiamo visto sono ancora necessari per la violenza di cui al nostro art. 609-bis. Infatti scopo primario della legge tedesca, attraverso l’introduzione di quella terza modalità, è stato di assicurare la giusta tutela del bene libertà sessuale anche in quei casi in cui non solo non risulta provata la presenza di una violenza fisica, ma nemmeno è ravvisabile altro tipo di violenza o minaccia. In particolare il legislatore della riforma intendeva definitivamente recuperare alla disciplina del par. 177 le ipotesi, peraltro frequenti, nelle quali sia mancata la resistenza della vittima, perché, ad esempio, quest’ultima è stata terrorizzata dalla paura di una violenta reazione del suo aggressore ovvero in quanto, condotta in un luogo isolato, non ha potuto invocare alcun aiuto. In simili circostanze la vittima non reagisce in quanto qualsiasi reazione difensiva le appare inutile se non pericolosa (31). La previsione da ultimo introdotta non è peraltro nuova per l’ordinamento tedesco, in quanto disposizione analoga era rintracciabile nel vecchio come nel (29) V. retro sub nota n. 6. (30) In proposito, v. BERTOLINO, Libertà, cit., p. 115 ss. (31) In dottrina rimane il dubbio se la terza modalità di estrinsecazione della condotta tipica sia in grado di risolvere tutte le problematiche legate al concetto di violenza e si osserva che comunque il caso della vittima incapace di reagire perché paralizzata dalla paura, facilmente avrebbe potuto essere risolto attraverso l’eleborazione dottrinale della minaccia concludente. Tanto più esisterebbe ragione di pensare ciò, se si considera che la previsione di una nuova modalità di costrizione di cui al par. 177 potrebbe lasciare spazi alla non punibilità con riferimento ai parr. 240 (Nötigung) e 249 (Raub), in quanto le condotte costrittive analoghe a quella contemplata dal par. 177 non vengono prese espressamente in considerazione dalle due norme, così LENCKNER, op. cit., p. 2802; v. anche HELMKEN, Vergewaltigungsreform und kein Ende, in ZRP 1995, p. 304.
— 704 — nuovo par. 179, relativo alla violenza sessuale su persona incapace (32) ed era presente nel par. 237, assorbito nel nuovo par. 177, che puniva colui che rapiva una donna al fine di compiere atti sessuali illegittimi, approfittando della situazione di mancanza di aiuto in cui veniva a trovarsi la vittima. Ma la dottrina ha già evidenziato come la nuova disposizione del par. 177 vada interpretata in senso più ampio di quello elaborato dalla giurisprudenza dei parr. 179 e 237 (33). Infatti la ratio della nuova incriminazione, così come il suo tenore letterale nonché infine, ma non di minore importanza, la sua collocazione sistematica imporrebbero comunque un’interpretazione allargata del concetto di situazione in cui la vittima indifesa è in potere dell’agente (34), con la conseguenza, ad esempio, di rendere superflua addirittura la prova della sussistenza di una violenza psichica (35). Con la nuova disposizione del par. 177 già a livello normativo si sono ampliate le ipotesi sussumibili nella fattispecie di violenza sessuale, risultando così la punibilità apertamente ancorata alla mancanza di consenso al rapporto sessuale, e (32) Il quale prevedeva e prevede che il soggetto attivo approfitti della ‘‘condizione di incapacità a resistere’’ della vitttima a causa del suo stato di menomazione fisica o psichica. (33) Sulla difficoltà di definire l’esatto ambito di operatività del nuovo par. 179 rispetto al nuovo par. 177 ai fini dell’applicazione della terza e nuova modalità di realizzazione della condotta tipica, v. DESSECKER, op. cit., p. 2. Le stesse difficoltà sembra incontrare con riferimento all’art. 609 bis la giurisprudenza italiana, allorché ha da ultimo inquadrato il fatto di violenza sessuale nei confronti di una donna in stato avanzato di gravidanza, non consenziente all’atto sessuale in quanto costrettavi con la violenza fisica, nella fattispecie di violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica di cui all’art. 609 bis, 2o co., n. 1, anziché più correttamente nella fattispecie di costrizione violenta o minacciosa di cui al 1o co, stesso articolo: così Cass. 9 aprile 1999, in Guida dir. 1999, p. 16. La Cassazione, così operando, ha dimostrato di non aver compreso nella sua completezza l’ideologia personalistica alla base della riforma del 1996 anche in tema di violenza sessuale su persona incapace. Obiettivo primario della riforma di tale disciplina era infatti assicurare la giusta protezione a soggetti in stato di inferiorità fisica o psichica, senza però che ciò significasse, come nella vecchia normativa, negare loro il diritto alla sessualità. Occorreva dunque superare la presunzione di violenza carnale nei confronti delle persone incapaci, sulla quale si imperniava la disciplina del 1930, all’art. 519, 2o co., n. 3. Tale disciplina a priori non riconosceva a queste persone la capacità di consentire in materia sessuale e conseguentemente negava loro il diritto all’esperienza sessuale. La nuova norma, dunque, trova spazio applicativo solo nei casi in cui il soggetto attivo abusa delle condizioni di inferiorità della vittima, ma non per perpetrare la violenza su una persona che non è consenziente, ma piuttosto per ottenere il consenso da una persona che a causa delle sue condizioni non è in grado di consapevolmente consentire. Il consenso dunque c’è, ma è viziato. La condizione di inferiorità fisica o psichica della vittima rileva quindi, secondo la nuova ottica, solo nei casi in cui incide negativamente sulla capacità di consenso all’atto sessuale da parte della stessa vittima e non più, come nella vecchia disciplina, sulla capacità della persona offesa di resistere al suo aggressore. In questo senso, v., fra le altre, Cass. 3 dicembre 1996, in Riv. pen. 1997, p. 383: « Alla luce della nuova disciplina..... alle persone in condizioni di inferiorità — tra le quali devono annoverarsi i malati di mente — è stata assicurata una sfera di estrinsecazione della loro individualità, purché manifestata in clima di assoluta libertà nella quale il rapporto interpersonale di carattere sessuale deve interamente svolgersi. La nuova previsione, infatti elimina la ...... presunzione di violenza e punisce soltanto le condotte consistenti nell’induzione all’atto sessuale, tramite abuso della ricordata condizione d’inferiorità. L’induzione si realizza quando con un’opera di persuasione, spesso sottile o subdola, l’agente spinge o convince il partner a sottostare ad atti, che diversamente non avrebbe compiuto. L’abuso si verifica quando le condizioni di menomazione siano strumentalizzate, per accedere alla sfera intima della persona, che, versando in situazione di difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui ». E possiamo sicuramente escludere che una donna in avanzato stato di gravidanza possa essere annoverata fra le persone in condizioni di inferiorità fisica o psichica di cui all’art. 609 bis, cioè fra le persone il cui stato possa menomare o addirittura escludere la capacità di consentire all’atto sessuale. Nel caso, poi, della sentenza del 1999 la donna era stata costretta a subire il rapporto sessuale con la violenza fisica, come emerge dalla ricostruzione del fatto operata dai giudici stessi, onde l’eventuale situazione di incapacità sarebbe stata in ogni caso irrilevante. (34) Così DESSECKER, op. cit., p. 1 s, il quale precisa che dal punto di vista del dolo l’agente dovrà rappresentersi il fatto che la persona offesa è costretta agli atti sessuali in quanto si trova in quella particolare situazione. (35) Così BGH 8 settembre 1998, in NStZ 1999, p. 30. Il Supremo collegio, alla luce della giurisprudenza relativa al concetto di ‘‘hilflosen Lage’’ di cui ai parr. 221, 234 e 237, ha ritenuto che tale situazione sussiste ai fini del reato di violenza sessuale, non solo quando obbiettivamente non vi sono per la vittima possibilità di difesa o di sottrarsi in qualche modo all’aggressione, ma anche quando queste possibilità sono diminuite in misura tale che la vittima di fatto è in balia dell’azione incontrollata dell’agente.
— 705 — ciò in armonia con il bene categoriale della libertà di determinazione nella sfera sessuale (36). D’altra parte, gli effetti in tal senso della nuova fattispecie già si sono fatti sentire sulla giurisprudenza, che da ultimo ha ravvisato gli estremi del reato di cui al par. 177, pur in assenza di qualsiasi resistenza della vittima, in una condotta di costrizione sessuale non riconducibile, secondo le parole della stessa sentenza, al vecchio par. 177, in quanto tale condotta mancava del requisito della violenza (37). Anche il legislatore del nuovo codice penale spagnolo del 1995 (38) ha avuto ben presenti i problemi relativi alla nozione di violenza e la necessità di una disciplina che per una completa tutela del bene libertà sessuale tenesse conto anche delle ipotesi in cui era difficile ravvisarne gli estremi in senso tradizionale. A tal fine la nuova normativa introduce due tipologie di fattispecie delittuose, quella di aggressione sessuale caratterizzata dall’impiego della violenza o intimidazione e quella di abuso sessuale perpetrata senza il consenso della vittima. Il criterio fondamentale per distinguere le diverse condotte delittuose e per graduare la risposta punitiva diventa quindi nella riforma del 1995, tutta orientata alla protezione della libertà sessuale, quello della diversa natura del mezzo costrittivo e quindi del diverso grado di incidenza della condotta del soggetto attivo sulla volontà della vittima per costringerla all’atto sessuale. Più analiticamente, il legislatore della riforma al capitolo I del titolo VIII, intitolato ai ‘‘Delitti contro la libertà sessuale’’ descrive i reati di aggressione sessuale come reati la cui condotta tipica è caratterizzata dalle modalità costrittive della violenza o intimidazione e all’interno del genere aggressioni identifica le due specie: quella descritta dall’art. 178, che consiste « nell’attentare alla libertà sessuale di un’altra persona », c.d. figura base, e quella dell’art. 179, che consiste « nell’accesso carnale, nell’introduzione di oggetti o penetrazione orale o anale », c.d. figura qualificata. Il nuovo codice, inoltre, al termine « forza », che nella vecchia normativa rappresentava la modalità alternativa alla intimidazione (artt. 429, 430), sostituisce quello di violenza, al fine di risolvere la polemica intorno alla na(36) Durante i lavori di riforma, tale ottica aveva in particolare guidato la proposta dei Verdi di rinunciare alla elencazione normativa dei mezzi costrittivi e di prevedere invece quale unica caratteristica della condotta costrittiva quella di essere « contro la volontà » della vittima. A tale proposito la dottrina aveva evidenziato come l’uso di tale espressione non avrebbe certo risolto i problemi probatori dei reati contro la libertà sessuale, ma anzi avrebbe reso più difficile il compito del giudice, dato che con l’introduzione di tale formula, tutte le pensabili condotte di costrizione sessuale avrebbero potuto essere ricondotte nella fattispecie di violenza sessuale. Tuttavia era sempre la stessa dottrina a concludere che la consapevolezza di ciò non avrebbe comunque potuto essere considerata una ragione sufficiente per opporsi alla proposta di un ampliamento della fattispecie sotto il profilo della condotta tipica. Infatti, la conquista di una maggiore tutela della vittima di reati sessuali, che da tale ampliamento sarebbe derivata, rappresentava in ogni caso un valore tale da giustificare una riforma in tal senso. Mentre la soluzione dei problemi, anche probatori, avrebbe dovuto essere cercata altrove, e cioè sul piano della maggiore preparazione e specializzazione del persone che si occupano di questi reati, così HELMKEN, op. cit., p. 305. (37) BGH 9 settembre 1997, in NStZ 1998, p. 132. La vittima credeva erroneamente che il suo aggressore avesse chiuso a chiave la porta della stanza in cui l’aveva costretta a entrare e per questo, spaventata, non aveva opposto alcuna resistenza. I giudici riconoscono che simile fattispecie non avrebbe potuto rientrare nel vecchio par. 177, in quanto in tale situazione non erano rinvenibili gli estremi della violenza. A tale proposito il BGH (1 agosto 1996, in NStZ 1997, p. 178), vigente ancora il vecchio par. 177, aveva d’altra parte precisato che il fatto di avere un rapporto sessuale solamente contro la volontà della donna, approfittando di un suo stato di paura, non costituiva ancora violenza carnale ai sensi di tale norma. (38) La riforma del codice penale del 1995 sembra segnare la conclusione del processo di trasformazione e modernizzazione del diritto penale sessuale spagnolo, il cui scopo ultimo era proprio quello di creare una disciplina che costituisse un efficace strumento di tutela della libertà sessuale come parte importante della libertà dell’individuo secondo i valori sanciti nella Costituzione del 1978, così DEL ROSAL BLASCO, Los delictos contra la libertad sexual, in DEL ROSAL BLASCO, (a cura di), Estudios sobre el nuevo Código Penal, Valencia 1997, p. 161.
— 706 — tura della forza costrittiva (39), intendendola come vis fisica che si esercita sul corpo della vittima. Tuttavia tale conclusione non significa che il codice spagnolo non riconosca idonea tutela al bene della libertà sessuale qualora la condotta costrittiva manchi del requisito della violenza fisica. Tale ipotesi viene infatti espressamente contemplata nei successivi artt. 181 e 182, il cui contenuto sembra confermare tra l’altro l’interpretazione della nozione di violenza degli artt. 178 e 179 quale vis fisica. In termini decisamente innovativi (40), anche rispetto ai precedenti progetti di riforma, il legislatore del 1995, accanto ai reati di aggressione sessuale, di cui al capitolo I, prevede al capitolo II, agli artt. 181 e 182, quelli di « abuso sessuale », secondo una disciplina simmetrica a quella del capitolo precedente, e cioè nella specie dell’attentato alla libertà sessuale senza violenza o intimidazione e senza il consenso della vittima (art. 181, 1o) (41), figura base, e nella specie dell’accesso carnale, dell’introduzione di oggetti o penetrazione orale o anale senza il consenso della vittima o con abuso della condizione di superiorità (42), figura qualificata. In quanto queste rappresenterebbero ipotesi meno gravi rispetto all’offesa al bene della libertà sessuale mancando la violenza o l’intimidazione, è previsto un trattamento sanzionatorio è meno severo. Il codice penale francese del 1994, infine, contempla, in un’unica fattispecie, accanto alla violenza, la minaccia e la sorpresa come modalità tipiche di esplicazione della condotta di aggressione sessuale (artt. 222-22, 222-27 ss.) ovvero di violenza sessuale (artt. 222-23 ss.) anche la semplice costrizione all’atto sessuale. In tale contesto la violenza continua a essere intesa come violenza fisica, diretta e esercitata contro la vittima; ma questa visione ristretta della violenza, chiaramente, si giustifica per il fatto che essa non costituisce più se non una delle modalità di realizzazione della condotta tipica. 6. Diritto sostanziale e processo. — Diversamente in Italia, dove, in realtà malcelate e forse malintese esigenze di soluzione di problemi probatori hanno svolto il loro effetto già a livello di descrizione normativa della fattispecie di violenza sessuale, condizionando il legislatore della riforma ai requisiti della violenza e della minaccia, onde conformare in funzione probatoria la fattispecie di reato (43). Ma in primo luogo, come è stato giustamente osservato, i rischi derivanti da una difficoltà probatoria della condotta di costrizione e quindi del dissenso della vittima non possono essere considerati quando si tratta di formulazione della fattispecie, segnandone la struttura. Essi devono essere risolti sul terreno probatorio-processuale « dell’effettiva sussistenza di un ‘‘dissenso reale’’ o anche di un ‘‘consenso putativo’’, attraverso l’attenta analisi della sequenza inter(39) Cfr. MORALES PRATS, GARCIA ALBERO, op. cit., p. 877. Cfr. anche ORTS BERENGUER, in VIVES ANTÓS (a cura di), Comentarios al Código Penal de 1995, Valencia 1996, sub artt. 178 ss., p. 915 s. (40) Parla di « auténtica revolucion » CUÉLLAR GARCIA, in CONDE-PUMPIDO FERREIRO (a cura di) Código penal, Madrid, 1997, p. 2162. (41) In realtà questa figura criminosa finirebbe per svolgere un ruolo residuale, in funzione cioè di disciplina di tutte quelle ipotesi non riconducibili alle altre fattispecie di reato, in particolare quella in cui l’atto sessuale avviene di sorpresa, così DEL ROSAL BLASCO,, op. cit., p. 171. Nello stesso senso CARMONA SALGADO, in COBO del ROSAL (a cura di), Curso de derecho penal español, pt. sp., I, Madrid, 1997, p. 320; v. anche ORTS BERENGUER, op. cit., p. 938, il quale precisa che la fattispecie di attentato sessuale senza il consenso della vittima ricorrerà in tutte le ipotesi in cui la vittima ha espresso la sua volontà contraria all’atto sessuale e quando comunque non le è stata data l’opportunità di pronunciarsi. (42) In senso critico sulla riforma del 1995, in quanto la nuova disciplina dei reati sessuali risulterebbe confusa e eterogenea, v. CARMONA SALGADO, op. cit., p. 300 s. (43) Per una ricostruzione storica della fattispecie di violenza carnale, con particolare riferimento ai requisiti della violenza e della minaccia, v. PADOVANI, Violenza carnale, cit. p. 1301 ss, spec. p. 1307: « In realtà, i moduli originari sopravvivono con una tenacia degna forse di miglior causa e contrassegnano le strutture del tessuto normativo molto più di quanto l’ottimistica fiducia nella capacità riformatrice dei princìpi non indurrebbe a credere ».
— 707 — personale nel suo complesso ». E in mancanza di univoci elementi probatori rimangono validi « i comuni principi dell’in dubio pro reo e dell’art. 59, co. 4 » (44). Assumere tale posizione non significa negare i rischi derivanti da una norma chiamata a disciplinare la complessa dinamica interpersonale che caratterizza i rapporti sessuali, ma piuttosto chiedersi se tali rischi siano sufficienti per legittimare una sudditanza della fattispecie penale alle esigenze processual-probatorie, al punto da influenzare la descrizione normativa già sul piano della tipicità. E conseguentemente significa chiedersi se la previsione della violenza e della minaccia quali requisiti di tipicità della condotta costrittiva sia effettivamente in grado di risolvere i delicati problemi probatori che caratterizzano i reati sessuali. Quanto al primo interrogativo, che attiene al problema più generale della praticabilità processuale delle teorie e dei concetti penali, la risposta non può che essere negativa. Infatti — come già da tempo ha chiarito la dottrina: è « esatto che non si possano costruire teorie penali che, seppure astrattamente impeccabili, si rivelino, poi, insuscettibili di una concreta verifica, senonché non è esatto parimenti che una teoria o un concetto siano costruibili esclusivamente in funzione del loro accertamento » (45). E la prassi giurisprudenziale a favore del concetto allargato di violenza richiamata in precedenza conferma la fondatezza di tali affermazioni. Se la ricostruzione del concetto di violenza dovesse infatti ubbidire a pure esigenze di natura processuale legate all’accertamento del dissenso, probabilmente l’unico contenuto di tale nozione in grado di soddisfarle pienamente sarebbe quello ristretto, coincidente con la violenza fisica, materiale. Essa sola potrebbe garantire un superamento delle difficoltà probatorie inerenti all’accertamento del dissenso della vittima rispetto agli atti sessuali. Ma siffatta interpretazione rappresenterebbe una torsione conservatrice e involutiva talmente contraria alle ormai consolidate istanze di tutela della persona anche nelle sfera sessuale, da risultare del tutto inaccettabile. E ciò a maggior ragione alla luce delle riforma del 1996, che ha classificato anche i delitti sessuali secondo il bene categoriale e generale della persona, in armonia d’altra parte con le indicazioni provenienti dalla Costituzione. La necessaria praticabilità processuale della disciplina sostanziale non deve dunque essere ricercata in termini assoluti. Così come nell’alternativa tra possibili discipline dotate di praticabilità, la scelta andrebbe a favore di quella più conforme alla Costituzione. E, viceversa, fra più discipline conformi alla Costituzione, la decisione dovrebbe cadere su quella maggiormente caratterizzata dalla praticabilità giudiziale (46). Onde consentire tali scelte, è necessario che il legislatore eviti di inserire nella fattispecie non solo concetti non praticabili, ma anche concetti che nella loro dimensione di maggior praticabilità processuale siano considerati incompatibili con le esigenze di tutela. È appunto questo il caso della nozione di violenza, l’atteggiamento verso la quale da parte della prassi processuale è significativo del prevalere delle esigenze di tutela su quelle di verificabilità processuale. Ebbene, in proposito occorre osservare che all’affermarsi delle istanze del primo tipo la prevalente giu(44) MANTOVANI, op. cit., app., p. 5, nota n. 4. Secondo HILLENKAMP, Beweisnot und materielles Recht, in Festschrift Wassermann, Heidelberg 1985, p. 870 ss, proprio con riferimento ad alcune fattispecie contro l’autodeterminazione sessuale si possono cogliere le conseguenze del mancato superamento delle difficoltà probatorie di alcuni elementi del reato in particolare di natura psichica, quale ad esempio la mancanza di consenso all’atto sessuale. Di fronte a queste difficoltà, allorché permane il penetrante sospetto che un delitto sessuale sia stato comunque commesso, la prassi tedesca, anziché risolverle secondo le regole processuali, quale quella dell’in dubio pro reo, ha condannato l’imputato per il diverso e meno grave reato di ingiuria o di sottrazione di minorenne, quando la vittima era un minore di anni diciotto. (45) BRICOLA, La verifica delle teorie penali alla luce del processo e della prassi: problemi e prospettive, in Scritti di diritto penale, vol. I, Milano 1997, p. 1262. (46) Cfr. BRICOLA, op. cit., p. 1263, il quale auspica che la praticabilità processuale della disciplina sostanziale sia « da ascrivere fra i vincoli operanti nei confronti del legislatore ».
— 708 — risprudenza ha risposto rinunciando al concetto ristretto di violenza, nonostante questo fosse più conforme alle esigenze probatorie. A fronte di questo processo di spiritualizzazione, di dematerializzazione della violenza fino al coincidere di essa con la costrizione, ragioni di praticabilità processuale hanno però spinto la stessa prassi ad affinare i criteri di accertamento della costrizione. La giurisprudenza ha così tentato una ricostruzione della nozione di violenza operando una conversione da una prospettiva esclusivamente oggettiva, incentrata sulla natura violenta in senso fisico della condotta costrittiva, ad una anche soggettiva di tipo interpersonale, attenta cioè alla situazione psichica di costrizione della vittima in relazione alla condotta del suo aggressore e al contesto in cui questa condotta si realizza (47). Ma come quasi tutti i fenomeni psichici (48), anche quello dello stato di costrizione facilmente può sottrarsi a una sicura verifica processuale e perciò esporsi al rimprovero di carenza del requisito di determinatezza (49), pur quando la norma risulti intelligibile. Con il principio di determinatezza la dottrina, con la Corte costituzionale, ha segnalato l’esigenza che le norme penali descrivano fatti, situazioni, che, non solo siano corrispondenti alla realtà, ma siano anche suscettibili di essere accertati e provati nel processo attraverso i criteri della scienza e dell’esperienza (50). A questi criteri si è rifatta la giurisprudenza anche in tema di violenza sessuale, dimostrando che anche là dove la costrizione non ha assunto i connotati della violenza materiale, attraverso parametri quale ad esempio quello della vittima media contemperato, come abbiamo visto, dalle particolarità del caso concreto, sia possibile arrivare a un accertamento dello stato di dissenso al rapporto sessuale da parte della persona offesa (51). Dunque non sono certo ragioni di determinatezza della fattispecie a imporre la fedeltà ai requisiti della violenza e della minaccia della condotta tipica, ma pure esigenze processuali che, come si è (47) Sottolinea da ultimo come appaia « più aderente alla logica dell’apprezzamento penalistico un approccio di tipo sintetico, cioè volto a desumere il significato della violenza sessuale.....da una ‘‘complessiva valutazione di tutta la vicenda’’ sottoposta a giudizio », FIANDACA, La rilevanza penale del « bacio » tra anatomia e cultura, in nota a Cass. 27 aprile 1998 e Cass. 9 ottobre 1997, in Foro. it. 1998, p. 509. (48) Si pensi ai problemi di accertamento del dolo, della colpa e in generale della colpevolezza come possibilità di agire altrimenti. (49) È proprio alla verificabilità processuale di certi elementi di fattispecie, quale requisito fondamentale di sopravvivenza della fattispecie stessa ex art. 25, 2o co. Cost., ha fatto riferimento la Corte Costituzionale (Corte Cost. 8 giugno 1981, in Giur. cost. 1981, p. 806 ss.) per dichiarare la illegittimità costituzionale del reato di plagio. La Corte in quell’occasione ha sottolineato il doppio contenuto del principio di legalità a livello dell’interpretazione: come principio di precisione e come principio di determinatezza. Essa ha affermato che « nella dizione dell’art. 25 che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà ». La norma sul plagio è risultata carente proprio sotto il profilo della determinatezza: « Non si conoscono né sono accertabili i modi con i quali si può effettuare l’azione psichica del plagio né come è raggiungibile il totale stato di soggezione che qualifica questo reato, né se per l’esistenza di questo stato sia necessaria la continuità dell’azione del plagiante nel senso che, se la volontà del plagiante non si dirige più verso il plagiato, cessi lo stato di totale soggezione di questo. Non è dato pertanto conoscere se l’effetto dell’azione plagiante sia permanente e duraturo o se può venir meno in qualunque momento per volontà del plagiante o anche perché non persiste l’attività di questo o per altre cause. Nemmeno si conosce se il risorgere della facoltà di determinismo del plagiato possa essere la conseguenza di un mutamento di determinismo del plagiante o di una diversa direzione data al determinismo di questo... ». Ebbene tutto questo non vale con riferimento al fenomeno psichico della costrizione, rispetto al quale ben si conoscono, e la giurisprudenza li ha evidenziati, i modi con i quali si può esercitare l’azione psichica della costrizione. (50) V. per tutti, da ultimo, MARINUCCI, DOLCINI, Diritto penale, Milano 1999, p. 99 ss. (51) V. anche Cass. 6 febbraio 1997, n. 207298, la quale ha precisato che l’antigiuridicità della condotta di violenza sessuale « resta connotata ... da un requisito soggettivo ... che si innesta sul requisito oggettivo della concreta e normale idoneità del comportamento a compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale.... ».
— 709 — dimostrato, almeno in questo caso non spetta alla fattispecie sostanziale di adempiere. A questo punto però occorre passare al secondo interrogativo, che ci porta sul terreno generale dei rapporti fra i princìpi del diritto penale sostanziale e la legislazione processuale. Esso attiene alla questione se l’ancoraggio della fattispecie di violenza sessuale ai requisiti della violenza e della minaccia sia effettivamente in grado di risolvere i problemi probatori di una fattispecie il cui disvalore è incentrato sul fatto di imporre alla vittima atti sessuali altrimenti leciti e non sulla modalità di realizzazione della condotta, la quale allora in quest’ottica deve reputarsi a forma libera. Anche se qui il diritto penale è chiamato a disciplinare la complessa materia delle relazioni interpersonali di tipo sessuale, carica di significati ambigui e di fraintendimenti veri o presunti che rendono difficile l’accertamento del fatto in sede processuale, la risposta al quesito non può che essere negativa. In tal senso basta ricordare quanto illustrato nelle pagine precedenti a proposito del concetto di violenza. Solo quello ristretto sarebbe in grado di offrire un sicuro parametro valutativo del dissenso e di assicurare una soluzione certa ai problemi probatori. Ma una ricostruzione interpretativa di tal genere risulta sicuramente contraria agli scopi di tutela della norma, che — come abbiamo visto — esclude ormai che a integrare la violenza o minaccia della fattispecie dell’art. 609-bis necessiti la violenza intesa come costrizione fisica. A questo punto i requisiti di fattispecie della violenza e della minaccia non risultano più in grado di adempiere alle esigenze probatorie in funzione delle quali erano stati introdotti. Istanze fondamentali di tutela ne hanno plasmato il contenuto al punto di renderli non più funzionali al soddisfacimento di quelle istanze probatorie e quindi inutili. L’unica possibilità di conciliare le istanze sostanziali di protezione della persona con quelle processuali di prova sta in una fattispecie nella quale la tipicità della condotta si fondi sulla pura natura costrittiva di essa. Anche nel nuovo processo penale possono cogliersi ulteriori indicazioni a favore di una diversa tecnica di configurazione della condotta tipica di violenza sessuale. I principi dell’oralità e del contraddittorio della prova, nel rispetto della dignità della vittima (52), dovrebbero offrire sufficienti garanzie probatorie della contraria volontà della persona offesa, pur in una materia così delicata. A ricordarlo è la stessa Corte di Cassazione, la quale ha di recente ribadito che ai fini dell’accertamento del reato di violenza carnale le « dichiarazioni rese dalla vittima del reato, cui la legge conferisce la capacità di testimoniare, possono essere assunte quali fonti di convincimento al pari di ogni altra prova senza necessità di riscontri esterni ». Tuttavia, precisa giustamente la Corte, « il giudice non è esentato dal compiere un esame sull’attendibilità intrinseca del dichiarante, che deve essere particolarmente rigoroso quando siano carenti dati obiettivi emergenti dagli atti a conforto dell’assunto della persona offesa » (53). (52) V. le disposizioni processuali a tutela della vittima di reati sessuali introdotte dalla legge del 15 febbraio 1996, n. 66, all’ art. 15; v. anche l’art. 12, che prevede la nuova contravvenzione di divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale. (53) Cass. 22 gennaio 1997, n. 207642. Simile impostazione sembrerebbe trovare significativa conferma in recenti ricerche empiriche svolte in alcuni paesi di common law, le quali hanno indagato sulle caratteristiche peculiari dei processi per il reato di stupro rispetto ai processi per altri reati, in specie per quello di ‘‘assault’’. Ebbene, questi studi sembrano non confermare l’opinione prevalente secondo la quale il processo per stupro si differenzierebbe da qualsiasi altro processo, in particolare con riferimento al modo di trattare e considerare la persona offesa, ad esempio, sottoponendola a domande che raramente verrebbero poste e accolte in altro genere di processo. Da queste ricerche sono emerse numerose similitudini fra processi per stupro e processi per ‘‘assault’’, in particolare nel modo di svolgere la cross-examination ai fini della ricostruzione del fatto. Così come nei processi per stupro, anche in quelli per il reato di ‘‘assault’’ viene messa in dubbio la personalità, il carattere e la credibilità della vittima, si indaga sulle sue abitudini, in particolare verso l’alcool, sulla sua stabilità mentale e emotiva. In breve, molte delle tattiche
— 710 — La nuova simbiosi tra diritto e processo appare dunque in grado di sventare orientamenti interpretativi che si rivelino non conformi alla ratio della fattispecie di violenza sessuale. La vitalità e sopravvivenza di questi ultimi è testimoniata non solo dalla sentenza annotata ma anche da quelle sentenze in tema di violenza privata, nelle quali riemerge l’idea che per « integrare il delitto... ex art. 610 cod. pen. non è sufficiente una condotta che abbia determinato una situazione di ‘‘costrizione’’ essendo necessario che tale condotta sia stata posta in essere con violenza o minaccia » (54). Ma anche in materia di violenza privata la dottrina sembrava aver definitivamente chiarito che la violenza non dove più essere intesa nei termini di una necessaria costrizione fisica. L’ampliamento del concetto di violenza conseguito così in generale costituisce un ulteriore elemento a conforto dell’idea nuova di violenza sessuale che la coscienza sociale, di cui la riforma del 1996 ha inteso essere espressione, ha voluto introdurre nel nostro ordinamento. MARTA BERTOLINO Straordinario di Diritto penale Università degli Studi di Milano - Bicocca
difensive sembrano essere ‘‘strumenti di lavoro’’ standard piuttosto che tipici dei processi per ‘‘rape’’. Non solo, ma nonostante le differenze emerse circa le concrete modalità di realizzazione del fatto (la violenza sessuale avviene per lo più su una donna conosciuta, viene consumata in una casa privata o in una macchina e senza testimoni, la principale linea difensiva è che la vittima era consenziente; mentre l’ ‘‘assault’’ ha per lo più come vittima un uomo ed è probabile che la vittima e l’aggressore non si siano in precedenza mai incontrati, l’aggressione si svolge in un luogo pubblico alla presenza di testimoni con incontestabili danni fisici alla persona offesa, l’imputato sostiene la legittima difesa), non è stato possibile concludere che nei processi di stupro la difesa ha un compito più facile. Infatti la percentuale delle assoluzioni per il reato di ‘‘assault’’ sarebbe superiore a quella per il reato di ‘‘rape’’, così, da ultimo, BRERETON, How Different are Rape Trials, in Brit. J. Criminol. 1997, p. 242 ss. (54) Cass. 30 settembre 1998, n. 211927, fattispecie relativa al blocco di un’autovettura da parte di un trattore parcheggiato intenzionalmente in modo tale che la parte lesa non poteva in alcun modo spostare la macchina, e in cui la Corte non ha ravvisato gli estremi della violenza. D’altra parte, la previsione nel par. 177 StGB come terza modalità costrittiva, accanto alla violenza e alla minaccia, costituita dall’approfittamento di una situazione in cui la vittima subisce passivamente la violenza sessuale in quanto incapace di reagire per la paura o perché valuta inutile o pericolosa qualsiasi reazione difensiva, sembra trovare giustificazione anche nello scopo di evitare che potesse prevalere anche nella prassi in tema di violenza sessuale l’orientamento più restrittivo del concetto di violenza, affermatosi nella giurisprudenza, in particolare costituzionale, in tema di violenza privata (in proposito v., da ultimo, HERZBERG, Die nötigende Gewalt (par. 240 StGB) - Probleme der begrifflichen Ein - und Abgrenzung -, in GA 1997, p. 251 ss; ID, Die Sitzblockade als Drohung mit einem empfindlichen Übel, ivi 1998, p. 211; HOYER, Die sitzblockedebeschluss des BVerfG und seine Konsequenzen für den Begriff der Drohung, ivi 1997, p. 453, con particolare riferimento al comportamento dei lavoratori in sciopero che, con una condotta c.d. di bloccaggio, impediscono agli altri lavoratori di recarsi sul posto di lavoro; cfr. anche BERTOLINO, Libertà sessuale, cit., p. 113 ss). Il legislatore tedesco della riforma anche sotto questo profilo ha voluto rendere esplicito il proprio intendimento a favore di un concetto ampio di condotta costrittiva all’atto sessuale, cfr. BT-DRucks. 13/7324, p. 6; cfr. in proposito OTTO, op. cit., p. 212 ss.
— 711 — c) Giudizi di merito
CORTE DI APPELLO DI TORINO — Sez. III — Ud. 18 ottobre 1996 (dep. 27 giugno 1997) Pres. Aragona — Est. Grasso — Imp. Rigollet e altri Reato in genere — Responsabilità colposa — Accertamento — Giudizio di prevedibilità — Descrizione dell’evento — Possibilità di prefigurare, da parte dell’agente modello, il decorso causale verificatosi — Necessità (C.p. art. 43). Nell’accertamento della responsabilità colposa il giudizio di prevedibilità non ha ad oggetto l’evento come appartenente ad un genus o un mero evento di danno, ma deve fare riferimento allo specifico decorso causale sfociato nell’evento terminale (1). FATTO. — In data 17 febbraio 1991, domenica, alle ore 11,55 circa, dodici sciatori, i cui nominativi sono stati indicati in epigrafe, venivano travolti e uccisi da una valanga di grandi dimensioni mentre percorrevano detta pista del Pavillon. Circa la dinamica di tale evento valanghivo (sulla causa diretta del distacco si tornerà estesamente in seguito) può dirsi in questa sede che una volta avvenuto il distacco, poco al di sotto del Colle del Gigante, a quota m. 3320 circa, la massa in movimento percorse il ghiacciaio pensile della tranfluenza del ghiacciaio del Gigante, per poi cadere sul sottostante ghiacciaio del Frety; proseguì la propria corsa da circa quota m. 2800 fino a quota 1990 m. circa, fino a pervenire nel sottostante vallone di Praz du Moulin; a quota 1735 m. circa raggiunse la pista del Pavillon, nel punto ove questa sbocca dal vallone dei camosci, percorrendola fino a fondovalle, arrestandosi a circa 100 metri dalla strada comunale della val Ferret e invadendo completamente il tratto a valle del ‘‘canalone dei camosci’’. Sotto la massa, di neve e di ghiaccio, nei giorni successivi, durante febbrili attività di soccorso, vennero ritrovati e portati alla luce i cadaveri dei dodici sciatori, di cui sopra, mentre altri rimasero feriti. La pista del Pavillon era rimasta chiusa dall’8 febbraio 1991 per pericolo di valanghe; da rilevare che nei quattro giorni tra il 7 febbraio e domenica 10 febbraio 1991, al traforo del Monte Bianco, e cioè a poche centinaia di metri dalla stazione di fondovalle della funivia, corrispondente al termine della pista suddetta, erano caduti 165 cm. di neve. La mattina del 17 febbraio 1991 era iniziata la battitura della pista, verso le ore 8,15, come disposto dal capo servizio e attuale appellante Rigollet Giancarlo; verso le ore 11 successive, i battipista Jorioz e Allegri comunicarono al Rigollet di aver ultimato la battitura; in luogo dei cartelli ‘‘pista chiusa’’, in italiano e in francese, collocati fino ad allora alle stazioni di partenza e di arrivo al Pavillon, furono esposti i cartelli ‘‘pista aperta e controllata’’. (Omissis). Alle ore 11,55 circa, come detto, si verificava il descritto fenomeno valanghivo. L’ultimo bollettino nivometeorologico della Regione V. d’Aosta (su cui si tor-
— 712 — nerà in seguito) di sabato 15 febbraio 1991 ore 11,30, segnalava ‘‘moderato rischio di distacco naturale di valanghe; codice 5’’; un rischio di distacco provocato ‘‘da moderato a forte’’; una tendenza del rischio costante. Il bollettino nivometeorologico di Chamonix (F) di sabato 16 febbraio 1991 segnalava a sua volta un rischio di distacco naturale ‘‘forte’’, precisando che la ragione del rischio risiedeva nell’avvenuta formazione di strati di neve senza coesione, compresi tra gli altri due, uno preesistente, di neve consolidata, un altro di neve recente; che, secondo una valutazione di tale emittente, avrebbe costituito ‘‘una miscela esplosiva’’; erano stati indicati anche venti tempestosi (kmh 80) in quota, nella notte tra il 16 e il 17 febbraio 1991, con direzione NW; ‘‘l’attuale fragilità del manto nevoso’’ era paragonata a quella ‘‘di un castello di carta’’. (Omissis). La sentenza impugnata (Omissis). Nel successivo cap. 4 (pp. 71-83) il Tribunale premette: che la pista de qua era notoriamente soggetta a un grave rischio di caduta di valanghe, tanto da essere iscritta (prima del 1991) nel catasto delle valanghe, frequenti (in atti vi è documentazione risalente al 1902). Secondo il Tribunale (p. 73) ‘‘questo stato di cose avrebbe dovuto obbligare il gestore della pista a speciale diligenza, munendosi dei migliori dispositivi tecnici (su cui si rinvia al successivo cap. V)...’’; ‘‘vi era quindi una generale, riconoscibile e riconosciuta situazione di pericolo incombente sulla pista del Pavillon, salvo condizioni di manto nevoso ben stabilizzato, di moderato spessore’’. Ritiene poi il Tribunale, riferendosi alla perizia svizzera, ‘‘cui il Tribunale principalmente si riporta’’, ‘‘appalesarsi incontrovertibile che il giorno del distacco della valanga, e cioè il 17 febbraio 1991, vi era una obiettiva situazione di pericolo, determinata: dal pericolo che un seracco proveniente dal ghiacciaio pensile sovrastante potesse cadere su un manto nevoso non del tutto stabilizzato, trascinandolo sulla pista da sci; dal pericolo, determinato dalle attuali condizioni meteonivologiche, che una valanga a lastroni potesse prodursi, indipendentemente dal pericolo costituito dal seracco’’ (p. 77). Tale ultimo pericolo, secondo il Tribunale, era ben evidenziato dai bollettini delle valanghe francese e italiano; né può sostenersi, secondo il Tribunale, che ‘‘la modesta slavina caduta il giorno precedente avesse eliminato la situazione di pericolo; a contrario essa rappresenta la riprova dell’instabilità del manto nevoso; la neve ancora caduta nel pomeriggio del 16 febbraio e i 25 cm. caduti nella notte tra il 16 e il 17 febbraio (su cui riferisce Tassotti), uniti alle condizioni ventose, non possono che avere ulteriormente aggravato il pericolo’’. Nell’ulteriore seguito il Tribunale confuta la tesi della Difesa degli imputati (fondata sulla ct Valla) secondo cui ‘‘il fatto non sarebbe riconducibile alle condizioni di pericolo sussistenti in quanto la valanga caduta sarebbe costituita prevalentemente da ghiaccio e determinata da una enorme, improvvisa e del tutto imprevedibile frattura nella fronte del ghiacciaio del Gigante’’. Secondo il Tribunale ‘‘tali considerazioni’’ sono ‘‘destituite di fondamento’’. Si premette che, come evidenziato dalla perizia Foehn e Schweizer, ‘‘e come lo stesso senso comune insegna’’, ‘‘è del tutto prevedibile che i seracchi cadano verso valle, ciò avviene in estate come in inverno anche se, ovviamente, il momento del distacco di un seracco non è direttamente prevedibile: è la stessa legge di gravità che produce il fenomeno, sicché, per il Tribunale, ‘‘essendo esso frutto di una
— 713 — legge scientifica che nessuno ignora, non si vede come questo possa essere definito e ricondotto nella categoria del fortuito’’. Nel seguito, il Tribunale, confuta ‘‘sulla base dell’esame degli atti (testi e perizia), la tesi della Difesa e del ct François Valla, assumendone la erroneità e non incidenza nel caso di specie, e concludendo (p. 83) che, ‘‘il seracco, che non era affatto enorme, era suscettibile di cadere in qualsiasi momento, ma, come evidenziato sia nella perizia d’ufficio sia nei chiarimenti orali forniti dal prof. Foehn alle pp. 77-78 del vol. V di trascrizione, se non ci fosse stata ‘tanta neve’, la caduta di seracchi non sarebbe stata in grado di innestare una valanga di dimensioni tali da poter raggiungere la pista’’. Di qui, per il Tribunale, la seguente conclusione: ‘‘va riconosciuto, quindi, con certezza, che gli eventi non hanno affatto carattere di eccezionalità e non rappresentano un mero fortuito, sì da escludere il nesso causale; essi, al contrario, sono la conseguenza naturale e prevedibile della situazione di grave pericolo in essere al momento dei fatti’’. Nel successivo cap. V (pp. 83-94) il Tribunale affronta il tema dell’elemento soggettivo, rilevando che ‘‘da quanto in precedenza evidenziato, emergono con chiarezza numerosi e gravi profili di colpa per imprudenza, negligenza e imperizia’’. In primo luogo il Tribunale accolla ai vertici della Monte Bianco s.p.a. (Gilberti e Lupi) ‘‘pressapochismo e superficialità’’ nel trattare il problema della sicurezza degli sciatori: non vi erano direttive specifiche, deleghe scritte di precise funzioni, controlli di quanto il personale andava facendo. Gilberti e Lupi non si erano nemmeno curati di scegliere, o far scegliere, personale adeguatamente preparato sotto il profilo tecnico-scientifico, cosa ancor più doverosa, dovendosi gestire una pista da sci sita in luoghi esposti a pericoli oggettivi (Rigollet, per il Tribunale, infatti non risultava avere alcuna conoscenza a livello scientifico ma solo l’esperienza del buon uomo di montagna, ‘‘ciò che è utile ma non sufficiente’’). Sempre la dirigenza non aveva messo a disposizione dei dipendenti alcun mezzo tecnico, al fine di poter valutare le condizioni del manto nevoso: non si provvedeva alla stratigrafia per individuarne le caratteristiche; non vi erano centraline ‘‘per il serio rilevamento dei dati meteorologici sul luogo del distacco e nemmeno un’asta conficcata nel ghiacciaio al fine di valutare più adeguatamente lo spessore del manto nella zona di distacco’’. Al riguardo (p. 86) il Tribunale assume: ‘‘Tali addebiti possono senz’altro essere rivolti agli imputati (in particolare alla dirigenza) in quanto ricompresi nella generale contestazione di negligenza, imprudenza e imperizia, formulata nel capo di imputazione, rispetto alla quale le successive specificazioni hanno carattere esemplificativo’’. ‘‘Diversi altri profili di colpa’’, secondo il Tribunale, sono poi individuabili ‘‘in relazione alla decisione di aprire la pista’’. Rigollet ha totalmente omesso di esaminare il bollettino di Chamonix; non avendo egli a disposizione strumentazione e non praticando egli quelle tecniche che conosceva (avendo frequentato un corso nel 1989) essere utili, avrebbe quantomeno potuto avvalersi di strumenti facilmente acquisibili e la dirigenza della società avrebbe potuto e dovuto dare precise disposizioni in tal senso. Ma, secondo il Tribunale (p. 89), ‘‘anche solo sulla base del bollettino della neve e delle valanghe della V. d’Aosta, conosciuto dal Rigollet, che, per questo, è il solo responsabile, ‘‘la pista avrebbe dovuto essere chiusa, tanto più che i rischi
— 714 — cui era esposta avrebbero dovuto consigliare una condotta prudenziale al massimo’’. Infine, come rilevato dalla perizia svizzera, tra sabato 16 e domenica 17, le condizioni non erano affatto mutate: anzi, era ulteriormente nevicato ed aveva spirato un forte vento in quota, con conseguenti accumuli. Rileva allora il Tribunale (p. 90) che ‘‘non si comprende in alcun modo come mai sabato 16 Rigollet abbia dato ordine di battere prati della parte bassa della pista, quale evidente preludio alla sua apertura; men che meno perché la pista era stata aperta la mattina dopo, nonostante durante la notte fossero caduti altri 25 cm. di neve, dato questo a conoscenza di Rigollet, salvo che non si voglia pensare che fattori esterni, estranei alle valutazioni di sicurezza, indicati da alcune parti civili, abbiano influenzato la decisione’’, atteso che il 17 febbraio cadeva di domenica. Il Tribunale rileva infine ‘‘per completezza’’ e in relazione a quanto già detto in precedenza, che Gilberti, Lupi, Rigollet e Tassotti ‘‘versano tutti in ‘‘colpa per assunzione’’ (si cita Cass., Sez. IV, 6 dicembre 1990), atteso che essi non erano all’altezza del compito assunto, di gestire quella pista da sci, e anche per ciò solo i predetti versano in colpa. Secondo il Tribunale cioè ‘‘chi gestisce una pista da sci traendo, tra l’altro, reddito dalla propria attività di impresa, deve assicurare la sicurezza di chi la percorre, non sulla base di criteri empirici e superficiali, ma di dati e strumentazioni tecniche specialistiche, che devono essere ancor più sofisticate se la pista è esposta a pericolo di valanghe’’. — (Omissis). A questo punto, vanno affrontate le complesse questioni relative ai meccanismi di produzione della valanga, che assumono rilievo sul terreno della colpa. La problematica circa la prevedibilità dell’‘‘evento’’. — Per cogliere al meglio l’ulteriore seguito motivazionale, occorre partire dalla sentenza impugnata, e, precisamente, da quella parte della motivazione della stessa in cui il Tribunale di Aosta confuta la tesi della Difesa degli imputati (p. 78 e ss.) secondo cui ‘‘anche se si dovesse riconoscere la sussistenza di obiettive condizioni di pericolo, il fatto in concreto realizzatosi non vi sarebbe riconducibile, in quanto la valanga caduta sarebbe costituita prevalentemente di ghiaccio e determinata da una enorme, improvvisa, inopinata, del tutto imprevedibile frattura nella fronte del ghiacciaio del Gigante’’. Il Tribunale ritiene che ‘‘tali considerazioni siano destituite di fondamento’’. Assume, supportandosi alla perizia Foehn-Schweizer, che ‘‘è del tutto prevedibile e normale che seracchi cadano verso valle’’ e che la Difesa e il ct Valla avrebbero ‘‘grandemente esagerato’’ circa le dimensioni del seracco caduto; assume essere certo che ‘‘nella valanga vi era una anomala quantità di ghiaccio’’ (cita sul punto il testo Ollier); ritiene che non si possa accedere alle valutazioni del ct Valla circa la quantità di ghiaccio crollata; e conclude (p. 82) che ‘‘è del tutto ininfluente, come esattamente indicato dai periti di Davos nella loro relazione, accertare se la caduta del seracco abbia causato la valanga di neve attraverso vibrazioni così prodottesi o se la valanga di neve, nel discendere, abbia trascinato con sé un seracco in equilibrio precario’’, assumendo che ‘‘sta di fatto che il seracco, nemmeno enorme, era suscettibile di cadere in qualsiasi momento come normale produzione di un fronte glaciale e che se non ci fosse stata tanta neve la caduta di seracchi non sarebbe stata in grado di innestare una valanga di proporzioni tali da poter raggiungere la pista’’.
— 715 — A rafforzamento ulteriore di tale conclusione, il Tribunale (p. 83) assume: ‘‘Va quindi riconosciuto con certezza che gli eventi in contestazione non hanno affatto carattere di eccezionalità’’. Ancora prima di andare a confutare e valutare il vastissimo materiale peritale e di consulenza tecnica, caratterizzante questo processo, questa Corte constata (constatazione che implica di per sé una prima valutazione critica) che il tessuto motivazionale del Tribunale rivela una sua apparente perentorietà di assunto e di conclusione che mal si adatta comunque alle risultanze acquisite, non fosse altro perché queste andavano analizzate con maggiore larghezza e profondità di spettro, mentre la motivazione del Tribunale al riguardo, di fronte alla vastità del materiale peritale e di ct, se non altro (ma non solo, perché accanto alla prova tecnica vi era la prova testimoniale, svalutata dal Tribunale) appare non poco e ingiustificatamente speditiva. Nonché palesemente contraddittoria, in sé. Occorre, dunque, come primo dato di constatazione, di fronte alla semplice lettura della sentenza impugnata, posta in raffronto con i risultati della prova tecnica e della prova testimoniale, porsi da un angolo visuale di ben maggiore sforzo di approfondimento e di valutazione, non cercando cioè scorciatoie che, in definitiva, non sono consentite, in un processo penale che ha e deve avere come obiettivo la ricerca della verità. Tanto doverosamente premesso, allora, non può dubitarsi che il maggior sforzo di analisi e di valutazione non può che partire dalle ipotesi formulate dai periti e ct. al fine di rispondere al quesito fondamentale del presente processo: l’individuazione o meglio la ricerca di individuazione dei meccanismi di produzione di questa valanga. Connesso e di altrattanta delicatezza e complessità è il problema della ‘‘prevedibilità’’, atteso che nell’ambito della teoria del delitto colposo, la matrice delle regole precauzionali di condotta va individuata nel criterio della prevedibilità dell’‘‘evento’’, per cui la colpa consiste nella mancata previsione di un evento prevedibile, il quale, proprio in quanto tale, sarebbe imputabile al soggetto. La Difesa degli imputati nelle note d’udienza e nella illustrazione in aula (cfr. p. 18 e ss.) ha posto, con grande rigore logico, il problema seguente, con rilievo, qui, per la posizione del Rigollet: se qui ci si chiede quale sia l’oggetto del giudizio di prevedibilità, ci si trova di fronte a un problema ineludibile: ‘‘evento’’ prevedibile qui è quello descritto come ‘‘evento di danno’’ oppure come ‘‘morte di dodici sciatori, investiti da una valanga, alle ore 11,55 del 17 febbraio 1991, mentre sciavano sulla pista del Pavillon’’ oppure come ‘‘morte di dodici siatori alle 11,55 del 17 febbraio 1991, mentre sciavano sulla pista del Pavillon, per effetto di una valanga staccatasi spontaneamente’’ oppure come ‘‘morte di dodici sciatori alle 11,55 del 17 febbraio 1991, mentre sciavano sulla pista del Pavillon, per effetto della caduta di una parte consistente del fronte del ghiacciaio pensile del Colle del Gigante, che ha innescato la valanga’’? La Difesa censura il Tribunale di Aosta per aver sostanzialmente eluso il problema, operando una commistione di piani, tra causalità e colpa, trattando nell’analisi del rapporto causale argomenti che andavano trattati sul terreno della ‘‘prevedibilità’’. Questa Corte risponde alla Difesa innanzitutto cominciando l’analisi delle risultanze peritali e di ct. — (Omissis). Soprattutto, già alla luce di quanto fin qui esposto, si evidenziava e si eviden-
— 716 — zia la ineludibilità di un quesito sul quale il collegio di Davos (CH) non ha risposto, quantomeno non ha risposto compiutamente: non si poteva infatti e non si può, nel presente processo, ritenere ‘ininfluente’ (come ha ritenuto il Tribunale) la domanda seguente: se ad innescare la valanga sia stato non un normale seracco ma una massa molto consistente di ghiaccio, staccatasi dal ghiacciaio pensile del Colle del Gigante, e se proprio la caduta del fronte glaciale fosse prevedibile ex ante. Il quesito cruciale in questione è infatti fondamentale per individuare il meccanismo di produzione di questa valanga. Al contempo, al di fuori di ogni professione di ‘‘certezza’’ (perché, in una materia e in un caso come questo, non esistono, infatti, altro che ipotesi), la domanda da porsi è quale sia la ipotesi esplicativa di questa valanga che, alla stregua del sapere scientifico, si prospetti provvista del maggior grado di conferme. — (Omissis). Sul terreno dell’osservazione oculare, in effetti, dal processo è emerso e emerge un quadro testimoniale, imponente e univoco, che il Tribunale ha svalutato ma che, se attentamente vagliato, porta a considerazioni opposte a quelle fatte proprie dal Tribunale. — (Omissis). L’osservazione dei fatti, descritta attraverso il racconto dei testi suddetti, non smentita aliunde, sarebbe già sufficiente ad accreditare, in termini di osservazione e presa d’atto diretta, l’ipotesi della caduta improvvisa e imprevedibile del fronte glaciale o, comunque, di una parte molto consistente dello stesso, con conseguente caduta di una massa di ghiaccio, qualificata dai più come ‘‘enorme’’. La Difesa, al riguardo, e in risposta al Tribunale, ha fatto notare l’osservazione compiuta dal ct. prof. Giorcelli, recatosi sul posto dopo l’evento, alcuni mesi dopo, il quale ha riferito di essere stato colpito dalle dimensioni della cicatrice della fronte del ghiacciaio, quantificando la massa tra i 25 e i 40 mila m.c. A p. 103 del verbale di trascrizione, dell’udienza in data 8 febbraio 1995, il ct Giorcelli ha riferito di una massa ‘‘dell’ordine di qualche decina di migliaia di metri cubi, sui 25-30...’’, specificando peraltro: ‘‘Adesso precisarlo è praticamente impossibile in quanto non conosciamo un dato e cioè lo spessore della fetta che si è tagliata...’’; ‘‘certamente era una massa molto grossa, piuttosto anomala, rispetto a una normale caduta di seracchi’’. Il dato consente di inquadrare correttamente anche la stima operata dal perito d’ufficio, prof. Foehn, il quale ha parlato che ‘‘poteva essere 10-20.000 forse, ma non credo tanto di più...’’ (cfr. verbale di trascrizione dell’udienza dell’8 febbraio 1995, f. 171). A questo punto, i ct Valla e Giorcelli (nella sostanziale concordia del primo collegio peritale d’ufficio) hanno assunto che la caduta della massa di ghiaccio abbia funzionato come fattore di innesco della valanga. L’esperimento sul modello (di cui questa Corte ha visionato la videocassetta in aula, in sede di rinnovazione parziale del dibattimento) ha confermato, ovviamente sempre nei limiti di ipotesi scientifiche oggetto di esperimento, l’ipotesi di una caduta di gran parte del ghiacciaio, prima del distacco della valanga. Tanto premesso, ci si deve chiedere se la caduta di gran parte del fronte glaciale, con conseguente distacco della valanga, fosse o non fosse un evento prevedibile. Le risultanze fin qui evidenziate, sia attraverso la prova tecnica sia attraverso testimoni, fanno propendere per la ‘‘imprevedibilità’’, ex ante. La Difesa, nel corso del giudizio di appello, ha, tra l’altro, estesamente illu-
— 717 — strato passi di una importante sentenza della S.C., già citata in precedenza, che ebbe a giudicare in una vicenda relativa alla morte di nove turisti, in escursione sull’Etna, vicenda che, anche ad avviso di questa Corte, presenta indubbi risvolti e sorprendenti analogie di problematiche, con la presente luttuosa vicenda. Si tratta della sentenza della S.C., Sez. IV, n. 1382/86. Questa Corte, nel solco delle problematiche affrontate dal Supremo Collegio in quel contesto, e sulla base delle argomentazioni difensive, ha sottoposto tale sentenza ad attento studio, onde cercare di ricavarne indirizzi di interpretazione e di valutazione per la presente vicenda. Vi è, in tale corposo insegnamento della S.C., di grande chiarezza e profondità, un dato, tra gli altri, che si impone e va applicato qui: mentre la spiegazione del decorso causale (che nella specie può essere così delineato: caduta di gran parte del fronte glaciale del Colle del Gigante; innesco della valanga di neve, sua precipitazione e morte di dodici sciatori sulla pista del Pavillon, nel vallone di Praz Moulin, alle ore 11,55 del 17 febbraio 1991) è una spiegazione ex post, il giudizio di prevedibilità (dal quale, secondo Cass. n. 1382/86, non si può mai prescindere) è un giudizio ex ante. Per maggiore chiarezza, è bene riportare un passo della sentenza della S.C. di cui sopra, conferente nella specie. Insegna la S.C.: ‘‘L’essenza del problema, umano e giuridico, sta nel riconoscere il limiti della prevedibilità, sia quelli interni che quelli esterni; per i primi occorre fare riferimento alle conoscenze possedute dall’agente e in particolare a quelle che era legittimo presumere in lui, per il suo livello culturale e per l’attività svolta; per i secondi, occorre fare riferimento all’evento hic et inde verificatosi e alle sue conoscibilità da parte del soggetto agente...’’. Per la colpa, siamo dunque su un piano diverso rispetto alla spiegazione del decorso causale; e cioè: il decorso causale, ricostruito ex post, per la colpa rileva per escludere la prevedibilità ex ante, se si accerta e si verifica che il rischio del suo avverarsi hic et nunc non era prevedibile, al momento della condotta, dal punto di vista del c.d. agente modello. Ancora: ai fini del giudizio di prevedibilità, è necessaria una percezione della situazione concreta che consenta di avvertire, come possibili antecedenti di eventi dannosi, alla luce di leggi scientifiche e/o regole di esperienza, le circostanze di fatto in cui l’agente si trova; vi è poi un secondo fattore della riconoscibilità, nel senso che occorre anche ravvisare, nella situazione concreta, elementi idonei a fungere da monito per l’agente. Applicando queste indicazioni al caso di specie e tenendo presente l’insegnamento della S.C. n. 1382/86, nella vicenda della eruzione dell’Etna, dove la S.C. fa proprio l’esempio, differenziandolo rispetto all’‘‘eruzione’’, dell’‘‘eventuale crollo della sommità vulcanica’’ o ‘‘dello sfaldamento improvviso di una intera parete dell’Etna’’ (esempi, si badi, che ‘‘scolpiscono’’ in modo sorprendentemente ravvicinato sequenze paragonabili qui alla caduta di gran parte del fronte del ghiacciaio del Colle del Gigante, del caso si specie) pare risultare confermato che nella specie, e sulla base degli antecedenti, circoscritti ai fattori meteonivologici, che, per le ragioni di cui sopra, si sarebbe dovuto e potuto meglio ‘‘dominare’’, non era tuttavia possibile parlare di prevedibilità ex ante rispetto al gestore della pista (e al Rigollet, in particolare) con riguardo a una caduta di gran parte del fronte glaciale del Colle del Gigante, che questa Corte propende a ritenere verifi-
— 718 — catosi, alle ore 11,55 del 17 febbraio 1991, in luogo di una ‘‘normale’’ valanga di neve, evento questo ripetibile e già ripetutosi varie volte, in quel vallone. Sempre dalla sentenza n. 1382/86 della S.C., secondo questa Corte, si trae nella presente vicenda l’effetto seguente: dal punto di vista del c.d. agente modello all’apertura e chiusura della pista, sulla base dei risultati della prova tecnica e della prova testimoniale, acquisite al processo, deve propendersi a ritenere che non fosse prevedibile che l’evento di danno si verificasse per effetto della violazione della regola precauzionale (apertura della pista, verso le ore 11,15 circa di quel 17 febbraio 1991). Tanto premesso, la Difesa degli imputati ha sollevato una ulteriore problematica che può essere così sintetizzata: a quale evento occorra fare capo per costruire la regola di condotta la cui violazione dà vita alla colpa (cfr. note d’udienza, p. 34 e ss.), lamentando che sul punto la giurisprudenza deve forse ancora fare qualche passo avanti, poiché al quesito devono essere date risposte il più possibile precise. Questa Corte constata che negli ultimi anni la giurisprudenza in materia è meritoriamente evoluta, andando sempre più in sintonia con la dottrina penalistica più accreditata (basti pensare alla sentenza, più volte citata anche dalla sentenza impugnata, sul disastro di Stava: Cass. 6 dicembre 1990, Bonetti e altri). In passato, la S.C. a volte escludeva addirittura che a fini della configurazione della colpa penale, rilevasse la prevedibilità dell’evento dannoso (cfr. ad esempio Cass., Sez. V, 10 dicembre 1982, Trezzi), nel solco di un orientamento dottrinario, non recente, secondo il quale per la sussistenza della colpa penale sarebbero stati sufficienti un comportamento antidoveroso e un nesso causale tra comportamento stesso ed evento. Non sono mancate in seguito risposte caratterizzate da una certa ambiguità, come quando si è detto ad esempio che ‘‘in tema di accertamento della colpa è da escludersi che il giudizio di prevedibilità debba essere rapportato all’evento, così come storicamente si è verificato; ciò che deve essere accertato è se un evento del genere di quello prodottosi fosse prevedibile’’ (App. Milano, 28 gennaio 1980, Orefice). Nel caso di specie, se si identificasse l’‘‘evento’’ per sua appartenenza a un genus, occorrerebbe far capo al genus ‘‘valanghe’’ e non già all’‘‘evento’’, individuato nel suo modo d’essere concreto e cioè: ‘‘morte di dodici sciatori, nel vallone di Praz Moulin della pista del Pavillon, per effetto della caduta di una valanga, innescata dalla caduta di gran parte del ghiacciaio del Colle del Gigante’’. La Difesa degli imputati, risponde qui che il giudizio di prevedibilità deve far riferimento allo specifico decorso causale sfociato nell’evento terminale; poiché qui l’evento che rileva non è la ‘‘morte di dodici sciatori investiti da una valanga’’ ma l’evento ‘‘complesso’’, come insegna la S.C. nella su citata sentenza n. 1382/86, come sopra descritto, la Difesa stessa assume che un decorso causale così individuato appariva ex ante quantomeno estremamente raro e improbabile, con conseguente conclusione che l’evento, ex ante, non era prevedibile per il gestore e per Rigollet in particolare. La Corte richiama a questo punto il valore sintomatico, in particolare di alcune delle testimonianze di quei testi, sopra riprodotte, e riscontrate nelle fotografie, sopra richiamate; per lo più vecchi alpinisti e uomini di montagna, del luogo, che al riguardo hanno evocato, come spettatori della scena osservata nell’immediatezza, la memoria storica di chi assisteva per la prima volta allo ‘‘spettacolo’’ di
— 719 — una così imponente cicatrice e, quindi, a ragion veduta, la natura di imprevedibilità di un crollo del ghiacciaio come quello da loro osservato. Alle testimonianze sopra richiamate, può aggiungersi, per la sua autorevolezza, anche quella del teste alpinista Valter Bonatti, sentito all’udienza dibattimentale del 20 febbraio 1995 (cfr. verb. trascritto). Al risultato sopra indicato, sembra a questa Corte pervenirsi vieppiù utilizzando il criterio della realizzazione del rischio, fondato sulla conformità alla definizione di ‘‘delitto colposo’’ di cui all’art. 43 c.p., soprattutto in una fattispecie come la presente, fondata su un addebito di colpa ‘‘generica’’ e in una prospettiva che intenda opporsi a un utilizzo ‘‘dilatato’’ del principio dell’in re illecita versari. Questa Corte propende a ritenere che la definizione legislativa di cui all’art. 43 c.p., di ‘‘delitto colposo’’, rappresenti una presa di posizione del legislatore non eludibile, e ciò a fortiori in un contesto come quello di specie, in relazione cioè a un agente che, per le ragioni già indicate, ben avrebbe potuto e dovuto meglio e diversamente attivarsi rispetto alla decisione di riapertura della pista, alla luce dei fattori meteonivometrici, è allora presenti e conoscibili, ma da ‘‘dominare’’ nella prospettiva di un rischio-valanga di neve e non già di un crollo di gran parte del ghiacciaio del Colle del Gigante, che ha innescato la valanga, crollo del ghiacciaio da ritenersi non prevedibile, ex ante. Allo stato delle risultanze, quantomeno, non vi è prova certa (ma anzi il contrario) che fosse prevedibile ex ante un evento siffatto né può pretendersi che Rigollet si potesse dare in qualche modo preventivo carico rispetto a un simile sbocco e che su di esso affinasse e allertasse la sua attenzione, al momento di decidere la riapertura della pista del Pavillon. Si deve controllare ciò che si deve temere possa accadere e non ciò che non si può prevedere possa accadere, ex ante (il crollo di gran parte del fronte glaciale del Colle del Gigante, che ha innescato la valanga). Tanto premesso, allora, e quantomeno a’ sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p., pare alla Corte che si debba escludere la prova della penale responsabilità del Rigollet per il reato sub A), con conseguente formula assolutoria ‘‘perché il fatto non costituisce reato’’. — (Omissis).
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Descrizione dell’evento e prevedibilità del decorso causale: ‘‘passi avanti’’ della giurisprudenza sul terreno dell’imputazione colposa.
SOMMARIO: 1. Premessa: la scarsa comunicabilità fra dottrina e giurisprudenza in tema di responsabilità colposa. — 2. Il precedente: il caso dell’esplosione sull’Etna. — 3. La rilevanza del meccanismo di produzione dell’evento ai fini dell’accertamento della colpa. — 4. Regola di diligenza e concretizzazione del rischio: il necessario riferimento al decorso causale come antidoto al versari in re illicita.
1. Premessa: la scarsa comunicabilità fra dottrina e giurisprudenza in tema di responsabilità colposa. — La sentenza che si annota presenta molteplici profili di interesse, sviluppando un tema — quello dei rapporti e delle intersezioni fra spiegazione causale e imputazione dell’evento per colpa — tanto decisivo quanto, viceversa, troppo spesso sottovalutato, se non frainteso, dalla giurisprudenza. Vale la pena di abbozzare rapidamente la questione su cui i giudici della Corte d’Appello torinese erano chiamati a deliberare: si trattava della morte di dodici turisti sorpresi da una valanga di neve mentre sciavano lungo una pista sottostante al Monte Bianco (denominata Pavillon) che, dopo nove giorni di chiusura a
— 720 — causa delle abbondanti nevicate, era stata riaperta pochissime ore prima della tragedia. Questo, nonostante che bollettini nivometeorologici avessero ripetutamente segnalato come probabili eventi valanghivi, oltretutto in una zona notoriamente esposta a pericoli di tal genere. In un contesto siffatto, era del tutto scontato che venissero tratti a giudizio per omicidio colposo plurimo sia i responsabili della società che gestiva la pista, sia il capo servizio ‘‘addetto’’ alla pista stessa, nelle cui mansioni rientrava quella di tenerla aperta o di chiuderla in base (anche) al rischio di valanghe. La sentenza di primo grado ravvisava poi la responsabilità di tutti gli imputati: con particolare riferimento al capo servizio, ritenuta la riapertura della pista condizione necessaria della presenza degli sciatori e della loro esposizione al rischio-valanga, veniva ravvisato il carattere imprudente di tale comportamento, proprio in considerazione — oltre che dell’omessa pretesa di adeguati mezzi tecnici di controllo e di una ‘‘colpa per assunzione’’ comune a tutti gli imputati — della sottovalutazione dei segnali di allarme che le pregresse precipitazioni nevose e le condizioni meteorologiche (con previsto rischio di cadute di valanghe a causa del rialzo termico, degli accumuli di neve fresca e del forte vento) indubbiamente costituivano. Nella sentenza, scarso approfondimento presentava l’individuazione del meccanismo di produzione dell’evento e della tipologia di valanga in cui rientrava quella precipitata sugli sfortunati sciatori, per insistersi invece, come elemento decisivo ai fini del giudizio di colpa, sulla ‘‘generale, riconoscibile e riconosciuta situazione di pericolo incombente sulla pista del Pavillon...’’. La questione, in verità, avrebbe meritato maggiore attenzione, posto che già durante il primo grado di giudizio era emerso il dubbio se la valanga dovesse considerarsi l’effetto della caduta di un seracco su un manto nevoso non stabilizzato, oppure si fosse formata spontaneamente, o ancora fosse stata innescata per effetto dell’improvvisa caduta di parte del fronte di un ghiacciaio pensile sovrastante la pista: con diverso atteggiarsi, come vedremo, dei connessi requisiti della riconoscibilità del pericolo e della prevedibilità dell’evento, e quindi della possibilità di ravvisare, nel comportamente dell’imputato, la violazione di una pertinente regola cautelare. A dire il vero, la sottovalutazione del tema del meccanismo di produzione dell’evento (liquidato troppo sbrigativamente dal Tribunale di Aosta) e quindi della prevedibilità di questo non può sorprendere chi abbia una pur sommaria conoscenza degli orientamenti giurisprudenziali in materia di responsabilità per colpa: è noto infatti come in molte sentenze, anche recenti, si sostenga che ‘‘elemento costitutivo della colpa penale’’ sarebbe soltanto una condotta contraria ad una norma cautelare causalmente collegata all’evento (1), e che la prevedibilità rileverebbe solo ai fini dell’accertamento della violazione di norme cautelari ispirate alla finalità di prevenire eventi penalmente tipici (2) o addirittura che si tratterebbe di un requisito estraneo alla nozione di colpa (3). (1) V. ad es. Cass. 20 gennaio 1986, in Foro it., Rep. 1987, voce Reato in genere, 43; Cass. 10 dicembre 1982, ivi, Rep. 1984, voce cit., 50; Cass. 17 novembre 1980, in Riv. pen., 1981, p. 669. (2) V. ad es. Cass. 18 settembre 1990, in Riv. pen., 1991, p. 669. Questa tendenza giurisprudenziale risente dell’impostazione di ANTOLISEI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1955, p. 337. La critica di MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 176 s. all’utilizzazione della prevedibilità come criterio di accertamento della colpa, è nota: ‘‘si lascia nel vago proprio il contenuto della regola di condotta che bisognava osservare in concreto: autorizzando così, nuovamente, la conclusione che andava compiuto tutto quello che era assolutamente necessario ad evitare l’evento e assegnando così, a quelle regole, lo stesso contenuto di una norma che proibisca, puramente e semplicemente, la « causazione » di un risultato lesivo. Il che però renderebbe assolutamente superfluo il ricorso alle regole di prevenzione, e del tutto illusoria la differenza della responsabilità per colpa da quella a titolo oggettivo’’. (3) Cass. 27 gennaio 1986, in Cass. pen., 1987, p. 1547; Cass. 10 dicembre 1982, cit.; Cass. 9 luglio 1962, in Giust. pen., 1963, II, c. 58.
— 721 — La sordità della giurisprudenza — o almeno, di ampia parte di essa — alle autorevoli voci dottrinali che dagli anni sessanta insistono sull’essenzialità del criterio della prevedibilità ai fini dell’individuazione del dovere di diligenza (4) evidenzia, senza ombra di dubbio, una delle zone di più acuta incomunicabilità (5) fra la scienza penalistica e un’elaborazione giurisprudenziale cui si è imputato, non a torto, di ‘‘attrarre, di fatto, l’intera materia della responsabilità per colpa nell’area della mera responsabilità causale’’ (6). Proprio per questo motivo, la sentenza che si annota si segnala per la capacità di recepire, avvalendosi di alcuni noti insegnamenti dottrinali (7), quelle profonde connessioni fra spiegazione causale e giudizio di prevedibiltà di cui è difficile — forse perché la loro corretta considerazione potrebbe precludere obbiettivi di giustizia sostanziale — trovare traccia anche nelle più complesse motivazioni in tema di responsabilità colposa (8). 2. Il precedente: il caso dell’esplosione sull’Etna. — Va comunque evidenziato che almeno un precedente della giurisprudenza di legittimità (9), nel cui solco la sentenza annotata dichiaratamente si pone, aveva intrapreso, più di un decennio or sono, una meritoria opera di delimitazione delle aree della causalità e (4) Cfr. M. GALLO, voce Colpa penale (dir. vig.), in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1960, p. 637 ss., che riconosce a ‘‘rappresentabilità’’ e ‘‘prevenibilità’’ dell’evento la ‘‘funzione di criteri individuatori della diligenza, prudenza, perizia dovute, e quindi del carattere colposo dell’azione’’; MARINUCCI, op. cit., p. 174 ss., che a sua volta individua ‘‘nella prevedibilità, o meglio, nella rappresentabilità (...) il canone logico fondamentale per la concretizzazione delle regole di condotta’’, e la ‘‘forma-base e matrice principale, per così dire, delle norme preventive’’; F. MANTOVANI, voce Colpa, in Dig. disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 307; conf. in giurisprudenza, nel senso che ‘‘il fondamento della responsabilità colposa è dato sicuramente dalla prevedibilità del pericolo’’, v. Cass. 6 dicembre 1990, in Foro it., 1992, II, c. 36; Cass. 27 febbraio 1987, in Cass. pen., 1988, p. 1712; Pret. Pordenone, 7 luglio 1992, in Foro it., 1992, II, c. 720; Pret. Crema, 12 febbraio 1996, in Giust. pen., 1996, II, c. 376. Da ultimo, pur riconoscendo alla teoria della prevedibilità ‘‘l’indubbio merito di cogliere il modus procedendi attraverso cui una regola cautelare viene concepita sotto il profilo della sua verità esperienziale e della sua efficacia preventiva’’, fungendo la prevedibilità da ‘‘ponte tra le conoscenze causali disponibili e l’efficacia di un comportamento cautelare assunto in ipotesi’’, ritiene tuttavia che detta teoria, per molteplici motivi, ‘‘rischia di amplificare l’indeterminatezza della tipicità della colpa generica’’ GIUNTA, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in questa Rivista, retro, p. 94 ss., il quale privilegia, ai fini dell’individuazione delle regole cautelari sociali, il riferimento agli usi consolidatisi all’interno di determinati ambienti sociali (p. 97 ss.; nonché, in precedenza, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa. I. La fattispecie, Padova, 1993, p. 242 ss. (5) Sul distacco, se non la frattura, che spesso intercorre fra l’elaborazione della dottrina penalistica e quella giurisprudenziale v., con riferimento alle motivazioni generali del fenomeno e ad alcuni campi critici, STILE (a cura di), Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, nonché, in precedenza, CONTENTO, La responsabilità senza colpevolezza nell’applicazione giurisprudenziale, in STILE (a cura di), Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza, Napoli, 1989, p. 515 ss. (6) Così CONTENTO, op. cit., p. 518; conf., nel quadro di una diffusa critica alle tendenze rigoristiche della politica giudiziaria in tema di responsabilità colposa, V. DE FRANCESCO, Il « modello analitico » fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento psicologico del reato, in STILE (a cura di), Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza, cit., pp. 207, 219 ss., che parla a sua volta di ‘‘frequente dissolvimento dell’imputazione per colpa nell’imputazione causale dell’evento’’. (7) In particolare, nella motivazione della sentenza che si annota sono agevolmente riconoscibili riferimenti alle opere di STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, e FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990. (8) Si veda, significativamente, Pret. Torino, 9 febbraio 1995, in questa Rivista, 1997, p. 1447, che svetta all’interno della nutrita serie di sentenze relative alla responsabilità penale del datore di lavoro per l’insorgenza di tumori professionali connessi all’esposizione ad amianto: ‘‘Nel campo della responsabilità colposa generica e specifica per la morte di un lavoratore non occorre che il soggetto tenuto ad adottare specifiche misure cautelari e comunque una generica attenzione si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell’evento mortis o addirittura del decorso causale attraverso cui si può giungere alla morte...’’ (corsivo nostro). In tema v. anche la successiva nota 36. (9) Cass 24 giugno 1986, in Riv. pen., 1987, p. 890 (su questa sentenza v. ampiamente MAGRO, Orientamenti giurisprudenziali sul nesso di causalità, in Cass. pen., 1991, p. 335 ss.). Per la sentenza di primo grado, che aveva condannato gli imputati, v. Trib. Catania, 26 febbraio 1985, in Foro it., 1986, II, c. 310.
— 722 — della colpa, e di sottolineatura della diversità di prospettiva — rispettivamente ex post ed ex ante — in cui i relativi accertamenti si situano: chiarimento non certo ozioso all’interno di un panorama giurisprudenziale in cui — come è noto — il concetto di (im)prevedibilità viene spesso indebitamente trasposto sul terreno del nesso eziologico, come caratteristica di quei ‘‘fattori eccezionali’’ che secondo la teoria della causalità umana dovrebbero escludere il nesso causale (10). La sentenza ora richiamata affrontava un caso per certi aspetti non dissimile da quello giudicato dai magistrati torinesi. Si trattava della morte di nove turisti che, dopo pochi giorni di quiete seguita ad un periodo di intensa attività eruttiva dell’Etna, erano stati accompagnati da alcune guide locali fino ai crateri centrali del vulcano per un’escursione: qui erano stati improvvisamente investiti da materiale lavico che era violentemente fuoriuscito da una voragine. La sentenza d’appello aveva assolto gli organizzatori dell’escursione e le guide per insussistenza del fatto, avendo ritenuto — appunto in ossequio alla teoria della causalità umana — che l’esplosione vulcanica avesse avuto ‘‘rilevanza di un elemento causativo atipico, eccezionale e non prevedibile inseritosi nello sviluppo normale degli avvenimenti’’ ed avesse quindi interrotto il nesso eziologico fra i comportamenti contestati e gli eventi letali. Nell’annullare tale sentenza, modificandone la formula assolutoria, la Suprema Corte procedette ad una revisione totale dei criteri di individuazione del nesso causale, per affermarne la sussistenza nel caso di specie. L’operazione s’imperniò sull’individuazione, all’interno del decorso causale che era sfociato nella morte dei turisti, di un sotto-evento (esplosione di materiale solido (11) ) di cui si affermava la generale, agevole correlabilità, sulla base di leggi causali di copertura a carattere probabilistico, con una situazione di recessione vulcanica: alla luce delle conoscenze scientifiche, cioè, l’esplosione, lungi dal rivestire carattere ‘‘imprevedibile’’, costituiva un evento ‘‘ordinario’’, spiegabile e razionalmente inseribile in uno svolgimento causale (12). Veniva così svelata la scorrettezza della negazione del rapporto causale fra l’accompagnamento dei turisti nelle vicinanze del (10) V. ad es. Cass. 19 dicembre 1996, in Giust. pen., 1997, II, c. 679: costituisce causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quella ‘‘atipica ed eccezionale’’, tale da ‘‘sfuggire al controllo ed alla prevedibilità dell’agente...’’; Cass. 14 settembre 1991, ivi, 1992, II, c. 171; nella giurisprudenza di merito Pret. Verona, 9 giugno 1994, ivi, 1995, II, c. 297, secondo cui il giudizio probabilistico formulato in materia di causalità omissiva ‘‘deve essere effettuato in base a criteri oggettivi quali quelli della prevedibilità e dell’evitabilità in quanto la condotta umana è causa dell’evento solo quando ne costituisca la conditio sine qua non e l’evento stesso non sia dovuto all’intervento di fattori eccezionali, ossia non prevedibili né dominabili dal soggetto agente’’; Pret. Roma, 22 gennaio 1993, in Cass. pen., 1993, p. 2635; Trib. Catania, 26 febbraio 1985, cit. Per una serrata critica alla teoria della causalità umana v. STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in questa Rivista, 1988, p. 1260 ss., che ne evidenzia il carattere di riproposizione, in forma mascherata, della teoria della causalità adeguata. Da ultimo, ritiene, pur al di fuori di un riferimento alla presenza di cause sopravvenute, che l’individuazione della condotta colposa debba precedere l’accertamento del nesso di causalità Cass. 30 settembre 1998, in Riv. pen., 1998, p. 1123. (11) La Suprema Corte così ridescriveva l’evento verificatosi: ‘‘morte per investimento da lapilli provenienti da esplosione in cratere di vulcano attivo’’, inaccettabilmente contrassegnato, nella sentenza impugnata, come generico ‘‘evento letale’’. (12) A proposito della ‘‘spiegazione’’ dell’evento, la Suprema Corte faceva riferimento alla necessità di ‘‘fare ricorso ai dati offerti dalla ricerca scientifica e in particolare ai dati storici e statistici acquisiti nel corso del primo e del secondo grado di giudizio’’ e di ‘‘orientare (...) l’indagine verso una spiegazione scientifica o, comunque, verso una spiegazione statistica esplicativa dei fenomeni’’, fermo restando che ‘‘la prova (...) non può essere fondata esclusivamente sulla base di una « regolarità senza eccezioni » nella successione di determinati fenomeni’’: terminologia e strumenti concettuali già evidentemente ispirati dalla teoria causale della sussunzione sotto leggi scientifiche (su cui STELLA, Leggi scientifiche, cit., passim; v. altresì, tra gli altri, FIANDACA, voce Causalità (rapporto di), in Dig. disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 119 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., Milano, 1995, sub art. 40, 16 ss.) prima della sentenza sul ‘‘disastro di Stava’’ (Cass. 6 dicembre 1990, cit.), cui generalmente si fa risalire l’integrale accoglimento di tale teoria da parte della giurisprudenza.
— 723 — cratere centrale dell’Etna e la morte di alcuni di essi, su cui la sentenza impugnata aveva fondato la soluzione assolutoria (13). Altro discorso era, secondo la Cassazione, quello relativo alla colpa degli imputati, all’interno del quale andavano inserite le considerazioni attinenti alla prevedibilità o meno dell’evento, rectius del sotto-evento ‘‘esplosione’’ verificatasi hic et nunc. Nel caso di specie, questo giudizio ex ante, ritagliato sulle conoscenze del c.d. agente modello, avrebbe dovuto portare ad un esito negativo, in considerazione delle rassicurazioni che gli organizzatori dell’escursione avevano ricevuto da esperti vulcanologi circa l’avvenuta stabilizzazione dei fenomeni recessivi del vulcano. La netta, rigorosa scansione fra i distinti requisiti e criteri di accertamento della causalità e della colpa, e soprattutto la sottolineatura delle diverse basi conoscitive di cui quei due momenti debbono avvalersi — rispettivamente, tutte le circostanze conosciute ex post e le (sole) circostanze di fatto e condizioni iniziali accessibili all’agente ‘‘per il suo livello culturale e per l’attività svolta’’ — costituiscono aspetti tenuti ben presenti dalla Corte d’Appello di Torino nella sentenza che si annota. Agli estensori di quest’ultima va riconosciuto, come vedremo, di avere esplicitato ciò che nella sentenza di legittimità poteva ancora rimanere fra le righe (14): la necessità di utilizzare lo svolgimento del decorso causale, nei limiti in cui il giudice può ricostruirlo sulla base di leggi di copertura, come oggetto stesso del giudizio di prevedibilità e come necessario elemento di concretizzazione dell’evento ‘‘ridescritto’’ (15). 3. La rilevanza del meccanismo di produzione dell’evento ai fini dell’accertamento della colpa. — In effetti, anche la ricostruzione della successione di fenomeni che ha determinato la morte degli sciatori del Monte Bianco occupa, come nella sentenza della Cassazione appena considerata, una porzione assai consistente della motivazione: ciò non avviene peraltro ai fini dell’imputazione causale dell’evento — i giudici della Corte d’Appello non hanno dubbi sull’influenza causale della decisione di riaprire la pista, e non ricercano eventi interruttivi del nesso di causalità — ma esclusivamente per confrontarvi la diligenza dell’addetto alla pista. Secondo i giudici, infatti, ‘‘il decorso causale, ricostruito ex post, per la colpa rileva per escludere la prevedibilità ex ante, se si accerta e si verifica che il rischio del suo avverarsi hic et nunc non era prevedibile, al momento della condotta, dal punto di vista del c.d. agente modello’’. Torneremo in seguito sul significato di ‘rottura’ che il riconoscimento della connessione fra causalità e colpa, centrale nell’argomentazione dei giudici torinesi, possiede rispetto ad una tradizione giurisprudenziale propensa a descrivere l’oggetto del giudizio di prevedibilità in maniera generica — un esempio attuale: il ‘‘danno alla salute’’ a ricomprendere la morte per certi tipi di tumori professionali — e quindi ben poco ‘selettiva’ (16). Intanto, interessa evidenziare, seppur brevemente, modalità e tappe dell’indagine diretta a stabilire quale dei molteplici processi causali ipotizzabili come rilevanti nella vicenda de qua fosse da ritenere come quello effettivamente realizza(13) In particolare, la Cassazione ravvisava nella sentenza annullata, stigmatizzandola, ‘‘quella inversione metodologica, peraltro abbastanza diffusa in dottrina e in giurisprudenza, consistente nell’impostare il rapporto di causalità materiale come ricerca della ‘causa successiva sufficiente da sola a determinare l’evento’ (art. 41 cpv. c.p.)’’. (14) Alla base dell’imprevedibilità dell’evento era stato assunto infatti l’affidamento che gli imputati avevano nutrito nelle rassicurazioni di un ‘‘esperto’’ circa la sopravvenuta non pericolosità della situazione vulcanica, tali da averne falsato il processo rappresentativo, non — come vedremo — un deficit nomologico in capo all’agente modello come nella vicenda oggetto della sentenza annotata. (15) Su questa tematica è fondamentale STELLA, La « descrizione » dell’evento, Milano, 1970. (16) V. sub nota 36.
— 724 — tosi: è infatti degno di rilievo lo sforzo, che percorre questa parte della motivazione, di soddisfare i requisiti di scientificità che debbono caratterizzare la spiegazione dell’evento (17), ricercata con la consapevolezza, condivisa dalla più accreditata dottrina in tema di causalità, che non è possibile fornire la spiegazione dell’intero meccanismo causale, ma che di quest’ultimo è possibile — ma anche sufficiente — cogliere solo certi ‘‘anelli intermedi’’ (18). Tre erano le ipotesi, fra loro alternative, utilizzabili per spiegare la valanga del Monte Bianco. Essa poteva essere ritenuta sviluppo: a) del pericolo, ben conosciuto, che un seracco proveniente dal ghiacciaio pensile sovrastante la pista potesse cadere su un manto nevoso non del tutto stabilizzato; b) del pericolo, determinato da favorevoli condizioni nivometeorologiche, che una valanga a lastroni potesse prodursi spontaneamente, trascinando con sé un seracco in equilibrio precario; c) di un’enorme e improvvisa frattura nella fronte del ghiacciaio, tale da determinare la fluidificazione della placca di neve sovrastante mediante vibrazioni a bassa frequenza. L’iter decisionale è così impostato: ‘‘al di fuori di ogni professione di ‘certezza’ (perché, in una materia e in un caso come questo, non esistono, infatti, altro che ipotesi), la domanda da porsi è quale sia la ipotesi esplicativa di questa valanga che, alla stregua del sapere scientifico, si prospetti provvista del maggior grado di conferme’’. Nella vicenda giudiziaria in questione nessun risultato decisivo al fine di un rassicurante giudizio di maggiore o minore validità delle ipotesi era stato fornito dalle molteplici perizie ordinate nelle diverse fasi. Nell’attribuire all’ipotesi della caduta di parte del fronte del ghiacciaio, funzionante come fattore di ‘‘innesco’’ della valanga, un grado di attendibilità maggiore di quello spettante alle ipotesi rivali, i giudici dell’appello hanno opportunamente privilegiato i due momenti che stanno tipicamente alla base, rispettivamente, della costruzione e del controllo di un’ipotesi causale (19): l’osservazione dei fatti — nella specie, i risultati di esami testimoniali che evidenziavano, in particolare, l’inusuale, consistente presenza di blocchi di ghiaccio frammisti alla neve precipitata, e l’assenza, dopo la valanga, di una porzione rilevante del ghiacciaio spezzatosi — e la prova sperimentale, rappresentata da una simulazione, ritenuta attendibile, della dinamica della caduta della valanga effettuata in laboratorio dai consulenti della difesa. È stata così ottenuta, con procedimento rispettoso del metodo scientifico, una ricostruzione del decorso causale incentrata sulla caduta di una parte del fronte del ghiacciaio, precedente il distacco della valanga, secondo una successione conosciuta come statisticamente ‘normale’ da parte degli esperti di fenomeni valanghivi: ciò consente di affermare l’avvenuta spiegazione (su base necessariamente probabilistica) dell’evento finale (20). In questa fase la motivazione della sentenza annotata si conforma, in maniera puntuale, a considerazioni note e ormai recepite dalla giurisprudenza sia di legitti(17) Evidenzia che l’attribuzione causale di un evento può essere giustificata solo dal ricorso a leggi della scienza, che pur costituendo mere ipotesi debbono essere fornite di alto grado di credibilità razionale (o probabilità logica) STELLA, Leggi scientifiche, cit., passim, part. pp. 166 ss.; 222 ss.; 367 ss. (18) V. sub nota 20. (19) In tema, ampiamente, STELLA, op. ult. cit., p. 153 ss. (20) È appena il caso di osservare che a confutazione di questa affermazione non può certamente rilevare la considerazione che la spiegazione si basa sulla presenza di due sotto-eventi che non costituiscono nulla di più che anelli intermedi di una serie causale di cui non erano conosciute tutte le altre fasi e le cui condizioni iniziali (a differenza di alcune di quelle prospettate dalle ipotesi rivali) erano sostanzialmente sconosciute agli stessi esperti: è noto infatti che, essendo improponibili spiegazioni scientifiche deduttivamente certe, non può essere compito del giudice offrire la spiegazione dell’intero meccanismo di produzione dell’evento: in questo senso v. STELLA, op. ult. cit., p. 280; nonché La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 1241 ss.
— 725 — mità che di merito, il cui atteggiamento in tema di causalità ha subito nel corso dell’ultimo decennio una vera e propria ‘‘svolta copernicana’’, consistita nella generalizzata consapevolezza della necessità di fare ricorso alla sussunzione sotto leggi scientifiche al fine della spiegazione dell’evento (21). Occorre pertanto passare, senza indugio, a valutare le affermazioni più originali contenute nelle sentenza annotata: quelle attinenti all’individuazione della rilevanza che il decorso causale, ricostruito (in maniera necessariamente parziale) nella scansione di alcuni sotto-eventi eziologicamente ricollegabili a quello finale, presenta ai fini dell’imputazione di quest’ultimo per colpa. 4. Regola di diligenza e concretizzazione del rischio: il necessario riferimento al decorso causale come antidoto al versari in re illicita. — Per apprezzare l’opera di chiarificazione concettuale contenuta nella sentenza annotata occorre fare un passo indietro, e tornare ad accennare ai contenuti della sentenza pronunciata dai giudici di primo grado. Sul piano della descrizione dell’evento oggetto del giudizio di prevedibilità, questa aveva contrassegnato l’accadimento rilevante, in maniera generica, come ‘‘evento valanghivo’’. Ciò aveva consentito, in maniera tanto agevole quanto — come vedremo — giuridicamente scorretta, l’imputazione delle morti conseguitene all’addetto all’apertura-chiusura della pista a titolo di colpa: considerato che (dato invero innegabile) la pista da sci ‘‘era soggetta a un grave rischio generale di cadute di valanghe’’, legato anche alla circostanza che, al di sopra di essa, si trova un ghiacciaio che costituiva, appunto, ‘‘una continua fonte di potenziale pericolo’’, ecco che, a fronte delle particolari condizioni nivometeorologiche dei giorni precedenti la valanga, l’osservanza di una regola di prudenza avrebbe imposto — secondo il Tribunale di Aosta — un provvedimento di chiusura della pista. E tanto bastava ai fini dell’imputazione della morte degli sciatori per colpa. Ora, è chiaro come una soluzione del genere sia stata determinata dalla scelta di procedere alla descrizione dell’evento — operazione che, notoriamente, condiziona l’esito stesso del giudizio di prevedibilità (22) — astraendo da ogni aspetto caratterizzante della vicenda concreta (23): una volta identificato l’evento come un generico evento valanghivo, cioè non qualificato da specifici antecedenti causali, e una volta rinunciato, pertanto, a selezionare le modalità concrete dell’evento-valanga (non a caso i giudici di primo grado avevano ritenuto ‘‘del tutto ininfluente’’ indagare la successione dei sotto-eventi che diedero origine alla valanga), il giudizio di prevedibilità risulta ‘annacquato’ fino a perdere la propria funzione di delimitazione della responsabilità colposa. La colpa viene infatti ad essere identificata con la mera violazione della regola cautelare, ravvisata nella riapertura della pista da sci in presenza di un non meglio qualificato pericolo di valanga. (21) L’esigenza di ricorrere, nell’accertamento del nesso di condizionamento, ad una sussunzione del rapporto causale sotto leggi scientifiche di copertura e la natura probabilistica della spiegazione causale sono riconosciute, oltre che da Cass. 6 dicembre 1990, cit., tra le altre da Cass. 17 dicembre 1993, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, p. 56; Cass. 27 maggio 1993, in Cass. pen., 1995, p. 2900; nella giurisp. di merito Pret. Bergamo, 3 aprile 1997, in Foro it., 1998, II; c. 485; App. Torino, 15 ottobre 1996, in questa Rivista, 1997, p. 1448; Pret. Torino, 9 febbraio 1995, cit.; Pret. Pordenone, 7 luglio 1992, cit. (22) Cfr. STELLA, La « descrizione » dell’evento, cit., p. 31 ss. (23) Le alternative della scelta sono state così sintetizzate da MARINUCCI, op. cit., p. 213: ‘‘a quale evento bisogna far capo per costruire la regola di condotta la cui inosservanza dà vita a colpa? A un evento identificato per la sua appartenenza a un genus o poco più, ovvero all’evento storico, individuato nel suo modo di essere concreto, con le sue modalità irripetibili? In particolare: basterà che l’agente reale (rectius: il suo « agente-modello ») si possa rappresentare, come effetto della condotta, uno sbocco lesivo del « tipo » di quello che si è realizzato in concreto, ovvero, scartando le eventualità non realizzate, bisognerà misurare la probabilità — dal punto di vista dell’agente — di ciò che è effettivamente seguito alla sua condotta?’’.
— 726 — Quali siano i rischi di un siffatto modo di argomentare risulta evidente proprio dalla vicenda in esame: confondere la responsabilità colposa con quella oggettiva, addebitando all’agente che in re illicita versatur tutte le conseguenze lesive causalmente ricollegabili alla sua azione, comprese quelle che costituiscono la realizzazione di rischi non riconoscibili né dominabili (il crollo, del tutto inopinato, di un ghiacciaio!). La sentenza che si annota si muove su un piano diverso, a partire dalla fondamentale scelta di procedere ad una descrizione dell’evento prevedibile che contiene alcune note essenziali del decorso causale effettivamente realizzatosi: nel nostro caso, cioè, non (semplicemente) ‘‘morte di dodici sciatori, investiti da una valanga alle 11.55 del 17 febbraio 1991, mentre sciavano sulla pista del Pavillon’’, bensì ‘‘morte di dodici sciatori investiti da una valanga ecc. per effetto della caduta di una gran parte del fronte del ghiacciaio pensile del Colle del Gigante’’. Tale opzione per una più ‘ricca’ descrizione dell’evento non è, naturalmente, il frutto di una ‘libera scelta’ dei giudici d’appello, ma costituisce la premessa necessaria per consentire un’imputazione dell’evento colposo che assicuri il rispetto di fondamentali principi costituzionali. Per dimostrare la necessità che la descrizione dell’evento colposo richiami anche certi antecedenti causali occorre fare iniziale riferimento alla genesi ed alla funzione delle regole di diligenza. Come è stato sostenuto, esse ‘‘non sono concepite per impedire un evento tout court, bensì determinate modalità di causazione dell’evento stesso’’ (24). Quali siano queste modalità, necessariamente specifiche, dipende dall’osservazione di decorsi causali che tipicamente presentano determinati aspetti ripetibili, il cui inserimento in una legge di copertura consente di prevedere che, in presenza di certe condizioni iniziali, possa concretizzarsi il rischio di verificazione dell’evento (25). La regola di diligenza tiene dunque presenti, e tende a contrastare, determinati pericoli tipici (26), individuati sulla base dell’elaborazione di generalizzazioni causali relative alla produzione di certe classi di eventi: individuato uno svolgimento causale che, secondo le migliori conoscenze scientifiche, conduce con un alto grado di probabilità alla verificazione dell’evento lesivo (27), in tanto potrà affermarsi la responsabilità colposa in quanto l’evento concretamente verificatosi abbia costituito la ‘‘realizzazione del rischio’’ insito nella regola cautelare. Ciò significa procedere alla ‘‘verifica di congruità dell’accadimento concretamente prodottosi con il modello di previsione inerente alla norma di diligenza; in altri termini (...) ci si chiede se il fatto verificatosi nella realtà fosse « prevedibile » se(24) Così GIMBERNAT ORDEIG, Gedanken zum Täterbegriff und zur Teilnahmelehre, in ZStW, 1968, p. 923, citato da FORTI, op. cit., p. 440. (25) Sulla ‘‘complementarietà’’ fra determinazione della regola di diligenza e criterio di rappresentabilità-prevedibilità dell’evento v. già M. GALLO, op. cit., p. 639; nonché MARINUCCI, op. cit., p. 177, secondo il quale è dalla logica che presiede al canone della rappresentabilità ‘‘che possono scaturire i tratti fondamentali dei programmi di comportamento cui si deve attenere l’agente nello svolgimento della propria attività’’ (corsivo dell’Autore). (26) Cfr. FORTI, op. cit., pp. 441, 446. (27) Sottolinea che ‘‘una spiegazione statistica adeguata del singolo evento lesivo presuppone una legge statistica con un « coefficiente percentualistico » vicino a 100, e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di « alta probabilità logica » o di « elevata credibilità razionale »: dove « alta » ed « elevata » stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al « massimo » alla certezza o se si vuole di « pratica » (non deduttiva) certezza...’’ STELLA, sub art. 40, in Commentario breve del codice penale, 3a ed., Padova, 1999, VI, 14 ss.; conf. in giurisp., nel senso che il giudizio di probabilità deve avvicinarsi al massimo alla certezza, Cass. 28 febbraio 1991, in Cass. pen., 1991, 1849. Su questa tematica v. da ultimo DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione « per l’aumento del rischio », in questa Rivista, retro, p. 75 ss.
— 727 — condo il punto di vista della regola cautelare’’, e cioè abbia riprodotto il decorso causale tipico su cui essa necessariamente poggia le proprie premesse (28). Come è ampiamente noto, peraltro, questa verifica è lungi dall’esaurire l’accertamento della responsabilità colposa. Dell’evento che realizza il rischio tipico, infatti, l’agente può essere chiamato a rispondere solo in quanto, con riferimento all’appartenente-modello alla sua cerchia di rapporti professionali, sarebbe stato tenuto a raffigurarsi il manifestarsi della serie causale tipica ai fini della ricostruzione del dovere di diligenza, e quindi a riconoscere il pericolo di cui la regola cautelare tiene conto (29). La misura entro cui lo svolgimento causale in atto — rectius, la presenza di ‘‘una situazione concreta che consenta di avvertire concretamente, come condizioni iniziali, e dunque come possibili antecedenti di eventi pericolosi e dannosi, alla luce di regolarità fissate in leggi scientifiche o regole di esperienza, le circostanze di fatto in cui l’agente si trova e la stessa condotta che si accinge a porre in essere’’ (30) — è riconoscibile, facendo scattare l’obbligo di evitare l’evento, non va in effetti identificata con riferimento al complesso delle conoscenze scientifiche pertinenti e delle condizioni antecedenti di cui il giudice si avvale nella spiegazione ex post dell’evento, bensì alle conoscenze nomologiche di cui doveva essere provvisto, al momento della condotta, l’homo eiusdem condicionis et professionis: nel nostro caso, accertato sulla base della miglior scienza che il sotto-evento valanga era stato innescato dal crollo di una enorme massa di ghiaccio, occorreva stabilire se la sua verificazione poteva essere prefigurata da parte di un addetto-modello all’apertura-chiusura della pista immaginato al posto dell’agente concreto. La risposta, secondo i giudici d’appello, non poteva che essere negativa sulla base di un ovvio ragionamento a fortiori: neppure esperti del calibro dei periti e dei consulenti tecnici, per loro ammissione in sede dibattimentale, avevano una conoscenza tale del fenomeno, invero rarissimo, del crollo di ghiacciai, da poterne prevedere la verificazione. Oltretutto, a rendere del tutto irriconoscibile il pericolo, erano mancati, nel caso concreto, elementi che potessero fungere da ‘‘campanelli d’allarme’’ rispetto alla possibilità di verificazione del crollo (31). Sintetizzando, la conclusione cui perviene la sentenza annotata è che, poiché l’ipotesi esplicativa dello specifico decorso causale della valanga, scientificamente confermata, era quella della caduta di gran parte di un fronte glaciale, e poiché il decorso causale così individuato appariva ex ante improbabile, comunque non inserito in alcuna generalizzazione causale accessibile all’agente modello, all’imputato non poteva addebitarsi, posta l’imprevedibilità dell’evento-valanga verificatosi hic et nunc, la causazione dell’evento terminale a titolo di colpa. (28) Così, sottolineando la necessità di confrontare l’evento concretamente verificatosi ed il decorso causale che ha condotto ad esso con la previsione che è alla base della regola di diligenza, FORTI, op. cit., p. 364 ss., 446. Cfr. altresì ROMANO, op. cit., sub art. 41, 31: ‘‘L’imputazione oggettiva presuppone dunque che l’evento concreto si sia prodotto con un decorso causale in cui si manifesti e si evolva (prosegua) il rischio o uno dei rischi per il bene giuridico che la regola di diligenza violata dal soggetto si proponeva di contrastare. Di volta in volta, di fronte all’evento, si tratterà di verificare se esso, nelle concrete modalità di accadimento, è ricompreso nel novero di quelli che la norma violata dal soggetto si riprometteva di impedire (...). Una ricerca del genere (...), talora anche molto difficile, dovrà analizzare le diverse tranches dell’intero decorso causale dalla condotta in poi e, avendo a mente le generalizzazioni nomologiche (relative ai possibili « meccanismi » di produzione dell’evento) che hanno presieduto alla definizione della regola di condotta, verificare la corrispondenza degli « anelli » del caso concreto: controllando dunque se ad un certo punto dell’iter causale si sia avuta l’inserzione di fattori ulteriori i cui rischi abbiano « soppiantato » (« annullato », « scavalcato ») quello o quelli originari’’ (neretti dell’Autore). (29) Sulla figura dell’agente-modello v. per tutti FORTI, op. cit., p. 234 ss.; MARINUCCI, op. cit., p. 187 ss.; F. MANTOVANI, op. cit., p. 307 s. (30) FORTI, op. cit., p. 211 s. (31) Sottolinea la necessaria presenza, ai fini dell’imputazione dell’evento per colpa, di elementi che fungano da monito per il soggetto, rendendo il pericolo riconoscibile FORTI, op. cit., p. 208 ss.
— 728 — Il fatto che, poi, contemporaneamente allo svilupparsi del decorso causale che condusse alla valanga, sussistessero condizioni iniziali di un evento valanghivo (rimasto allo stato potenziale) per fronteggiare il quale era già doveroso un comportamento diligente — la non-riapertura della pista — che avrebbe probabilmente impedito il verificarsi degli eventi finali, è considerazione che non può comunque avere alcun rilievo per l’interprete che intenda evitare, per vincolo costituzionale, di imputare come fatto colposo la causazione di un evento tipico da parte di chi versatur in re illicita. Va però rimarcato, vista la delicatezza della questione, che solo una corretta descrizione dell’evento prevedibile può sventare conclusioni non conformi al principio di colpevolezza. Se è vero, infatti, che, come abbiamo testé verificato, l’evento colposo deve costituire la realizzazione del rischio, prevedibile ex ante, che la regola di diligenza tende ad evitare, e che quest’ultima si costruisce sulla base della prefigurabilità di decorsi causali tipici, per l’imputazione dell’evento occorre che nella situazione concreta sia intervenuto un decorso causale dotato di caratteristiche tali da renderlo conforme ad una regola di diligenza che abbia ‘fatto i conti’ con esso (32). Occorre, insomma, che nello svolgimento causale ricostruito dal giudice venga identificato (all’interno di quello che la sentenza annotata chiama ‘‘evento complesso’’) almeno un sotto-evento o anello causale intermedio sussumibile in una generalizzazione causale, relativa alla sua correlabilità con l’evento ‘finale’, che l’agente modello, consapevole delle relative condizioni iniziali e chiamato a ‘dominare’ i rischi inerenti, sia tenuto a conoscere (33). In considerazione delle diversità dei punti di vista che vengono in gioco, non rileveranno ai fini della ‘‘ridescrizione’’ dell’evento prevedibile, diversamente che in sede di individuazione dei poli del nesso causale, tutti ‘‘quegli accadimenti ed aspetti ripetibili, mancando i quali si dovrebbe dire che un evento del tipo previsto dalla norma non si sarebbe verificato hic o non si sarebbe verificato nunc’’ (34), ma ‘‘esclusivamente — e comunque tutti — quegli accadimenti o aspetti che sono tipici in base alla regola cautelare’’ (35), in modo che sia consentita la verifica di conformità ai ‘‘modelli di comportamento’’ in essa previsti. La regola cautelare non risulta (32) Sulla rilevanza del criterio della ‘realizzazione del rischio’ ai fini della descrizione dell’evento prevedibile v. FORTI, op. cit., p. 507 ss.: ‘‘Verificare la « realizzazione del rischio » significa in sostanza porsi la questione della coincidenza tra le generalizzazioni causali alla base della disposizione preventiva e quelle utilizzabili per la spiegazione dell’evento corrispondente a una fattispecie di reato verificatosi hic et nunc’’ (p. 509). Dello stesso A. v., in precedenza, La descrizione dell’« evento prevedibile » nei delitti colposi: un problema insolubile?, in questa Rivista, 1983, p. 1559 ss. (33) Cfr. ancora FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 519. Nel senso che, generalmente, la regola cautelare tende a prevenire sotto-eventi pericolosi per l’integrità del bene finale v. PIERGALLINI, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di « diritto penale del rischio », in questa Rivista, 1997, p. 1485, con particolare riferimento alla normativa antiinfortunistica e alla problematica della riferibilità dei tumori professionali al suo ambito di tutela. L’ ‘‘evento’’ o ‘‘sotto-evento’’ di cui al testo coincide con uno dei ‘‘momenti essenziali’’ del decorso causale cui fa spesso riferimento la dottrina tedesca quando individua l’oggetto del giudizio di prevedibilità: v. ad es. PUPPE, Die Beziehung zwischen Sorgfaltswidrigkeit und Erfolg bei den Fahrlässigkeitsdelikten, in ZStW, 1987, p. 612 ss.; Die strafrechtliche Verantwortlichkeit für Irrtumer bei der Ausübung der Notwehr und für deren Folgen, in JZ, 1989, p. 732: ‘‘la necessaria prevedibilità degli elementi e delle qualità del decorso causale che si è realizzato svolge la funzione di rovescio della necessaria causalità della lesione del dovere di diligenza. Un momento del decorso causale è « essenziale » (wesentlich) allorché esso fondi in capo all’agente un dovere di diligenza che non sarebbe stato dato in assenza del momento suddetto, o, in altre parole, se l’aspettativa di questo momento avrebbe indotto un soggetto diligente ad intraprendere determinate misure che avrebbero impedito l’evento nel caso concreto perché proprio quel momento costituiva parte integrante del decorso causale’’. Per ulteriori, ampi riferimenti alla dottrina tedesca v. FORTI, op. ult. cit., passim; nella letteratura successiva a tale opera v. TOEPEL, Kausalität und Pflichtwidrigkeitszusammenhang beim fahrlässigen Erfolgsdelikt, Berlin, 1992. (34) Così, con riferimento alla descrizione dell’evento ai fini dell’accertamento del rapprto di causalità, STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 264 s. (35) FORTI, op. ult. cit., p. 507 s.
— 729 — quindi ‘‘precostituita all’indagine’’, ma trae la sua pertinenza — qualificata dal fatto che la sua osservanza avrebbe inciso sulla presenza di una o più condizioni iniziali dell’evento — dal radicamento nel tipo di decorso causale ricostruito ex post (36). Per accertare, ai fini dell’imputazione colposa, la presenza o meno di una regola di diligenza cui l’agente avrebbe dovuto uniformare il suo comportamento è pertanto necessario, riprendendo un noto insegnamento recepito dalla sentenza annotata, che la ‘‘trama’’ delle previsioni del giudizio di prevedibilità ex ante sia desunta ‘‘dalla realtà effettuale’’ (nel nostro caso il decorso: crollo di una massa di ghiaccio — innesco della valanga — morte di dodici sciatori), quindi ‘‘bandendo ogni riferimento a ipotesi immaginarie’’ (37) o comunque, per così dire, rimaste ‘sulla carta’, ancorché — come nelle menzionate ipotesi ‘rivali’ del crollo del ghiacciaio — riferibili a una situazione effettivamente carica di pericoli riconoscibili e non adeguatamente fronteggiati dall’agente (38). Se — diversamente da come ha proceduto la sentenza annotata e conformemente a quanto avviene assai spesso nella giurisprudenza — la descrizione dell’oggetto della prevedibilità si arresta invece al solo evento tipico (o addirittura a un evento che concettualmente lo ricomprende (39) ) non ulteriormente dettagliato in senso causale, in modo da coprire qualsiasi decorso che l’abbia preceduto (rischiando così di rendere superfluo, almeno ai fini dell’individuazione della colpa, un accertamento fondato sulle leggi della scienza), si rinuncia a cogliere quei profondi rapporti fra causalità e colpa che hanno fatto parlare, con espressione felice, di ‘‘ineluttabile radicamento del canone della prevedibilità nell’alveo della spiegazione causale’’ (40), per accedere invece ad una sterile ricostruzione dell’imputa(36) Cfr. FORTI, op. ult. cit., p. 525. In giurisprudenza è invece usuale l’affermazione secondo cui ‘‘ai fini del giudizio di prevedibilità deve aversi riguardo alla potenziale attitudine della condotta a dar vita a una situazione di danno, e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione’’ (così Cass. 6 dicembre 1990, cit.; di ‘‘evento del genere di quello prodottosi’’ parla App. Milano, 28 gennaio 1980, in questa Rivista, 1983, p. 1559). Con riferimento a casi di morte per intossicazione da amianto — in cui la vicenda processuale è spesso caratterizzata dall’allegazione difensiva secondo cui, al tempo dell’esposizione, non erano ancora consolidate le conoscenze sulla cancerogenicità dell’amianto — v., per la ridescrizione dell’evento come ‘‘danno grave per la salute’’, fra le altre, Cass. 19 settembre 1997, in Ind. pen., 1998, p. 541; App. Torino, 15 ottobre 1996, cit.; Pret. Padova, 3 giugno 1998, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 720; Pret. Bergamo, 3 aprile 1997, cit.; Pret. Torino, 9 febbraio 1995, cit.: in particolare, questa sentenza richiede che venga accertato se era prevedibile ‘‘che si verificasse (...) non l’evento così come si è verificato storicamente e specificamente (...) ma un evento appartenente al genus delle conseguenze che possono cagionarsi con la condotta umana nell’ambito del bene giuridico che le regole di comportamento (...) tendono a tutelare’’. Nella stessa linea di tendenza si è posta, sempre in tema di rischi da amianto, una recente sentenza che ha ritenuto sufficiente ai fini dell’imputazione a titolo di colpa dell’evento-morte (da mesotelioma) la prevedibilità di un evento minore (l’asbestosi) in quanto il primo ne costituisce una ‘‘complicanza dipendente dalla medesima causa’’ (Cass. 11 maggio 1998, in Foro it., 1999, II, c. 236). (37) Così, a proposito del giudizio di ‘‘adeguatezza’’ della condotta del partecipe, PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Milano, 1952, p. 78, che così prosegue: ‘‘di fronte a un risultato concreto, il pronostico puro, che asserisce una possibilità ipotetica, non ha senso. (...) Il pronostico puro ha senso quando si prescinda dagli sviluppi reali, e si indaghi la pericolosità dell’azione, la sua attitudine a provocare sviluppi di un certo genere: cioé in sede di tentativo...’’ (p. 79). Sullo specifico terreno della colpa v. MARINUCCI, op. cit., p. 213 s.; FORTI, op. ult. cit., p. 369 s. (38) Sul punto la sentenza annotata è particolarmente incisiva, laddove riconosce che l’imputato ‘‘ben avrebbe potuto e dovuto meglio e diversamente attivarsi rispetto alla decisione di riapertura della pista, alla luce dei fattori meteonivometrici, allora presenti e conoscibili, ma da ‘dominare’ nella prospettiva di un rischio-valanga di neve e non già di un crollo di gran parte del ghiacciaio del Colle del Gigante, che ha innescato la valanga, crollo del ghacciaio da ritenersi non prevedibile ex ante’’ (corsivo nostro). (39) Ad esempio, il ‘‘danno alla salute’’ rispetto alla morte nei casi di tumore professionale da esposizione ad amianto. (40) FORTI, op. ult. cit., p. 526, che così ne sintetizza il motivo: ‘‘il giudice sarà vincolato a ricercare la condotta « diligente » prescritta nel caso concreto sulla base del materiale nomologico e ontologico raccolto in sede di spiegazione causale dell’evento...’’.
— 730 — zione per colpa come risultante di una sommatoria di ‘‘causalità più colpa’’. In tal modo da un lato si espone l’elemento di fattispecie ‘‘colpa’’, una volta privato del riferimento a generalizzazioni causali dotate di validità scientifica, ai noti ‘‘sospetti’’ di indeterminatezza (41), dall’altro si riduce l’evento, funzionalmente, a nulla più che una condizione oggettiva di punibilità, senza cogliere, né tanto meno poter spiegare, le profonde differenze strutturali e di valore che sussistono tra responsabilità colposa e responsabilità oggettiva (42). LUIGI FORNARI Affidatario del corso di Diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catanzaro
(41) Cfr. FORTI, op. ult. cit., p. 10. Da ultimo, sottolinea come ‘‘l’integrazione della tipicità colposa debba avvenire nel rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari’’ GIUNTA, La normatività, cit., p. 90, che aggiunge: ‘‘... proprio perché destinata, al pari degli altri elementi del fatto tipico, all’integrazione della fattispecie colposa, l’individuazione della regola cautelare non può essere rimessa alla discrezionalità giudiziale, ma deve risultare pre-definita e riconoscibile ex ante dall’agente quale regola comportamentale astratta’’. (42) Sottolinea che sostenere l’equivalenza fra ‘‘causazione colposa dell’evento’’ e ‘‘causazione + colpa’’ ‘‘avrebbe come risultato di imputare all’agente tutte le conseguenze comunque derivate dalla sua condotta negligente e come tale (..) apparterrebbe alla logica del versari’’ FORTI, op. ult. cit., p. 422. Sulla creazione di indebiti spazi di ‘‘responsabilità oggettiva per rischio’’, insiti nella tendenza giurisprudenziale a imputare eventi che non possono formare oggetto di previsione, in quanto non considerati dai ‘‘programmi di comportamento’’ diretti a circoscrivere sfere di rischio tipiche, propri delle regole cautelari, v., con particolare riferimento alla colpa specifica, PIERGALLINI, op. cit., p. 1487.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Il trasferimento negli Stati Uniti del detenuto Robert Venetucci. 1. Con fax in data 26 marzo 1997, il Direttore dell’Ufficio II del Ministero di Grazia e Giustizia (Eugenio Selvaggi), trasmetteva, al Direttore della Casa Circondariale di Pesaro, il seguente messaggio: Oggetto: Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983. Nuova istanza di trasferimento negli U.S.A. presentata dal cittadino statunitense Robert Venetucci, nato a New York il 20.5.1920, detenuto presso la Casa Circondariale di Pesaro. In applicazione dell’art. 4, paragrafo 5, della Convenzione in oggetto indicata, si prega la cortesia di codesta Direzione di sottoporre all’attenzione di Robert Venetucci la comunicazione che segue. Questo Ministero sta prendendo in esame la richiesta di Robert Venetucci di scontare negli Stati Uniti d’America, in applicazione della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983, la pena dell’ergastolo alla quale è stato condannato con sentenza della Corte d’assise di Milano del 18 marzo 1986, condanna confermata in appello e divenuta definitiva il 25 febbraio 1988, per reati di concorso in omicidio premeditato (1), concorso in violenza privata aggravata e concorso in tentata estorsione aggravata. Questo Ministero ha pertanto richiesto al Dipartimento della giustizia degli Stati Uniti d’America di trasmettere la documentazione prevista dall’art. 6, paragrafo 1, della richiamata Convenzione ed è attualmente in attesa di riscontro. Si ringrazia la Direzione in indirizzo per la gentile collaborazione. 2. In data 13 maggio 1997, presso la Casa Circondariale di Pesaro il Venetucci (2) compilava il seguente modulo di istanza per il trasferimento: Istanza ai sensi dell’art. 2, par. 2, della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 e ratificata con l. 25 luglio 1988, n. 334, pubblicata sulla G.U. della Repubblica italiana dell’11 agosto 1989. Il sottoscritto .................................................................................................................. nato a .................................................................... il ......................................................... residente a ............................................ in via ................................................................... coniugato o convivente con ..................................................................................................
(*) A cura di MARIO PISANI. (1) La vittima dell’omicidio era stato l’avv. Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona. (2) Di lui la stampa ha poi riferito che ‘‘Faceva il giardiniere in carcere (...) e si ostinava a non imparare l’italiano. Non voleva rassegnarsi a passare il resto della sua vita qui’’ (R. DAMIANI, Un ergastolano con il pollice verde, in Il Giorno del 23 aprile 1998, p. 6).
— 732 — attualmente detenuto nell’istituto di pena di ........................................................................ Premesso: 1) che è cittadino ........................................................................................................ 2) che è attualmente detenuto in esecuzione del ........................................................ emesso il ............................................... da ......................................................................... per l’esecuzione della pena di ............................................................................................... scadente, allo stato, il ........................................................................................................... manifesta il desiderio di essere trasferito in ................................................................................................... per ivi scontare la pena residua, in applicazione della Convenzione suddetta ed in conformità delle disposizioni per l’attuazione della stessa contenute nel Titolo 1 della l. 3 luglio 1989, n. 257, pubblicata sulla G.U. della Repubblica italiana n. 167 del 19 luglio 1989. Al riguardo dichiara di essere pienamente consapevole delle conseguenze giuridiche che deriveranno dall’eventuale accoglimento della presente istanza ed in particolare che le Autorità Giudiziarie dello Stato di esecuzione potranno eventualmente procedere nei suoi confronti, giudicarlo e sottoporlo a restrizioni della libertà personale per qualsiasi altro reato diverso da quello per il quale è stata inflitta la pena che attualmente sta scontando. .............................................., lì ........................................ firma ............................................................... 3. In data 30 giugno 1997, la Corte d’appello di Milano, Sez. V (Pres. Riccardi; rel. Franciosi), pronunciava la seguente sentenza (dep. il 10 luglio): La Corte, vista l’istanza presentata da Venetucci Robert, nato a New York il 20 maggio 1920, condannato alla pena dell’ergastolo dalla Corte d’assise di Milano con sentenza 18 marzo 1986, confermata in appello e divenuta definitiva il 25 febbraio 1988, di trasferimento nel proprio Paese d’origine (U.S.A.) ed il formale consenso rilasciato dallo stesso, il 13 maggio 1997, al Magistrato di Sorveglianza di Ancona, ai sensi dell’art. 2 par. 2, della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 e ratificata con la legge 25 luglio 1988, n. 334; preso atto che il Venetucci ha chiesto, in caso di accoglimento dell’istanza sopra indicata, di essere trasferito nell’Istituto Penitenziario ‘‘Metropolitan Correction Center-Manhattan di New York (U.S.A.)’’ per continuare a scontare colà la pena inflittagli con la suddetta sentenza; letta la documentazione allegata alla nota ministeriale n. TC 811/90/AR del 21 maggio 1997, rilevato che nella procedura in questione trova applicazione la citata Convenzione 21 marzo 1983; ritenuto che non sussiste alcuna condizione ostativa di cui all’art. 743 c.p.p. e di cui all’art. 5 l. 3 luglio 1989, n. 257, legge di attuazione della suddetta Convenzione, e che i reati ascritti al Venetucci (concorso in omicidio premeditato, violenza privata e concorso in tentata estorsione aggravata) sono punibili anche secondo la legislazione statunitense, letta la conforme richiesta della Procura Generale in sede del 29 maggio 1997; visti gli artt. 742 e ss. c.p.p., 1 e ss. l. 25 luglio 1988, n. 334; a scioglimento della riserva formulata all’esito dell’odierna udienza camerale. P.q.m. — Delibera nel senso che Venetucci Robert, come sopra generalizzato, condannato alla pena dell’ergastolo dalla giustizia italiana, può continuare a scontare tale pena, come da sua richiesta, negli U.S.A. 4. L’11 agosto 1997, il Direttore Generale degli Affari penali del nostro Ministero (Giorgio Lattanzi) trasmetteva al Dipartimento della Giustizia presso l’Ambasciata degli Stati Uniti d’America, in Roma, la seguente nota:
— 733 — Si ha il pregio di fare riferimento alla precorsa corrispondenza riguardante il cittadino statunitense Robert Venetucci, detenuto presso la Casa Circondariale di Pesaro. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 30 giugno 1997, ha deliberato in senso favorevole all’ulteriore esecuzione negli Stati Uniti d’America della condanna alla pena dell’ergastolo inflitta a Robert Venetucci dalla Corte d’Assise di Milano con sentenza del 18 marzo 1986, condanna confermata in appello e divenuta definitiva il 25 febbraio 1988, per reati di concorso in omicidio premeditato, concorso in violenza privata aggravata e concorso in tentata estorsione aggravata. Pertanto, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 3, della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983, si richiede il trasferimento negli Stati Uniti d’America di Robert Venetucci per l’ulteriore esecuzione della condanna sopra indicata. Allo scopo, ad integrazione della documentazione inviata a codesto onorevole Dipartimento con nota di questo Ministero del 24 marzo 1997, si trasmettono i seguenti documenti: 1) copia della dichiarazione di consenso al trasferimento resa da Robert Venetucci avanti al Magistrato di sorveglianza di Ancona, con traduzione in lingua inglese; 2) copia della sentenza della Corte d’Assise di Milano del 18 marzo 1986, divenuta definitiva il 25 febbraio 1988, con traduzione in lingua inglese delle parti riguardanti Robert Venetucci; 3) stato di esecuzione della pena predisposto dalla Procura Generale della Repubblica di Milano il 30 luglio 1997, con traduzione in lingua inglese. In caso di accoglimento della presente domanda, si prega codesto onorevole Dipartimento di voler prendere contatti, tramite la sezione Interpol statunitense, con la sezione Interpol italiana, per concordare modalità, tempi e luogo della consegna del condannato. Si rinnovano i sensi della massima stima e considerazione. 5. Il 16 agosto 1997 partiva dall’Ufficio II del Ministero il seguente messaggio, contenente le più appropriate richieste e sollecitazioni di carattere esecutivo, diretto all’Interpol e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (oltre che, p.c., alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano): Oggetto: Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983. Nuova istanza di trasferimento negli U.S.A. presentata dal cittadino statunitense Robert Venetucci, nato a New York il 20 maggio 1920, detenuto presso la Casa Circondariale di Pesaro. Con riferimento all’oggetto, comunicasi che in data 30 giugno 1997 la Corte d’Appello di Milano ha deliberato favorevolmente in ordine al trasferimento negli U.S.A. di Robert Venetucci in base alla Convenzione adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983. Si allega copia del citato provvedimento. Con nota dell’11 agosto u.s., di cui pure si allega copia, questo Ministero ha presentato al Dipartimento della giustizia presso l’Ambasciata statunitense a Roma richiesta per il trasferimento del Venetucci, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 3 della Convenzione in oggetto. All’esito della suddetta richiesta, si prega il Servizio Interpol di prendere contatto con l’Ufficio Interpol statunitense per concordare modalità, tempi e luogo della consegna del Venetucci alle autorità U.S.A. Sempre all’esito della suddetta richiesta, si prega il Dipartimento in indirizzo di volere prendere diretti contatti con il Ministero dell’Interno Interpol Roma-Eur per concordare modalità, tempi e luogo della consegna del condannato. Le spese relative al trasferimento, a norma dell’art. 17, comma 5 della su indicata Convenzione, sono a carico del Paese di esecuzione tranne quelle verificatesi esclusivamente sul territorio italiano. 6. Nel carcere di Pesaro, in data 7 luglio 1997 il Venetucci confermava il suo consenso al trasferimento davanti al magistrato statunitense signora Virginia Morgan.
— 734 — Ecco il testo del documento: Place: Pesaro, Italy; Casa Circondariale; Docket Number: 97x75461 verification of consent to transfer to the United States of America for execution of penal sentence of Italy. I, Robert Venetucci, having been duly sworn by a verifying officer appointed under the laws of the United States of America, certify that I understand and agree, in consenting to transfer to the United States of America for the execution of the penal sentence imposed on me by a court of Italy, that: (1) My conviction or sentence can only be modified or set aside through appropriate proceedings brought by me or on my behalf in Italy; (2) My sentence will be carried out according to the laws of the United States of America and that those laws are subject to change; (3) If a court of the United States of America should determine upon a proceeding brought by me or on my behalf that my transfer was not accomplished in accordance with the treaty or laws of the United States of America, I may be returned to Italy for the purpose of completing my sentence if Italy requests my return; and, (4) Once my consent to transfer is verified by the verifying officer, I may not revoke that consent. I further certify that: (1) I have been advised of my right to consult with counsel, and have been afforded the opportunity for such consultation prior to giving my consent to transfer; (2) I have been advised that if I am financially unable to obtain counsel, one would be appointed for me by the verifying officer free of charge; and, (3) My consent to transfer is wholly voluntary and not the result of any promises, threats, coercion, or other improper inducements. I hereby consent to my transfer to the United States of America for execution of the penal sentence imposed on me by a Court of Italy: ROBERT VENETUCCI (Transferring Prisoner). Subscribed before me this 1 day of November, 1997: VIRGINIA MORGAN (Verifying Officer). Based on the proceedings conducted before me, I find that the above consent was knowingly and understandingly given and is wholly voluntary and not the result of any promises, threats, coercion, or other improper inducements: VIRGINIA MORGAN (Verifying Officer). 7. Facevano seguito due fonogrammi, a livello operativo. Con il primo (in data 27 febbraio 1998) il Ministero dell’Interno (Direzione Centrale della Polizia Criminale) comunicava che il ‘‘Federal Bureau of Prisons’’ avrebbe preso parte, come ‘‘scorta’’, al trasferimento del Venetucci, previsto per il 20 aprile, indicando anche i nomi dei funzionari americani incaricati di prenderlo in consegna, e forniva altre indicazioni di carattere complementare. Con il secondo fonogramma (in data 6 marzo), sempre il Ministero dell’Interno comunicava agli interessati il programma di partenza e di volo (arrivo a New York, h. 3.25), con altre indicazioni complementari, e richiedeva alla Polaria presso l’aeroporto di Fiumicino di fornire l’idonea assistenza per il trasferimento del Venetucci. 8. Il 20 marzo 1998 la Direzione della Casa Circondariale di Rebibbia comunicava ai diversi Enti elencati in indirizzo, ‘‘che il detenuto indicato in oggetto, in data 20 marzo 1998 è stato scarcerato per essere consegnato all’Autorità di Polizia statunitense per il di lui trasferimento negli U.S.A., ai sensi della Convenzione di Strasburgo’’ (3). (3) La notizia ha avuto, con qualche ritardo, una certa eco di stampa. Qualcuno ha fatto rilevare (s.m., Estradato — sic — il complice di Sindona, in Il Giorno del 23 aprile 1998, p. 6) che il Venetucci ‘‘da 15 anni viveva in regime d’isolamento e che aveva già sollecitato un simile provvedimento nel ’91, ’92, ’94 e nel ’96’’; altri, a guisa di contrappunto,
— 735 — Il trasferimento dalle Bahamas di due sposini napoletani. ‘‘... La procedura per far rientrare in Italia i due giovani è stata laboriosa. La Farnesina, il console Mattei, in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia sono intervenuti presso le autorità delle Bahamas, ottenendo che venissero ridotti a sei mesi i tempi di applicazione della prassi di trasferimento, di solito non inferiori a diciotto mesi’’ (P. CAPUA, Carcere, ma a Napoli per gli sposini di Nassau, in la Repubblica del 26 aprile 1997, p. 16). ‘‘... Loro, Angela M(...) e Alberto C(...), 25 anni, hanno avuto appena il tempo di stringersi freneticamente uno all’altra e di sussurrarsi qualche parola. È finito così, tra sollievo e tensione l’incubo dei due sposini di Secondigliano arrestati il 18 giugno all’aeroporto di Nassau, nelle Bahamas, al ritorno dal viaggio di nozze. Nella borsa che conteneva una telecamera gli agenti della dogana trovarono 2 chili e 250 grammi di eroina brown sugar purissima. I due giovani sposi, entrambi dalla fedina penale immacolata, protestarono fin dall’inizio la loro innocenza. ‘‘Ci hanno incastrati’’ dissero ai giudici e alla polizia locale ‘‘la droga doveva già essere nella borsa quando l’abbiamo comprata’’. Una versione a cui la giustizia delle Bahamas non dette alcun peso e marito e moglie furono condannati a due anni di carcere. Poi gli appelli disperati delle famiglie, la mobilitazione del quartiere e di tutto il paese di Secondigliano, le decine di migliaia di firme raccolte in una petizione popolare, la richiesta di grazia del presidente Scalfaro. Grazie alla Convenzione di Strasburgo Angela e Alberto hanno ottenuto di scontare quello che resta della pena — cinque mesi e mezzo — in un carcere italiano. Ieri mattina poco dopo le 10, appena sbarcati all’aeroporto di Fiumicino, i due sposini sono saliti su un’auto della polizia che li ha portati in Questura. Una breve sosta alla squadra mobile per le formalità, un ultimo, convulso abbraccio e poi di nuovo in macchina, diretti lui al Nuovo Complesso e lei al penitenziario femminile di Rebibbia. ‘Adesso la prima cosa è quella di cercare di ottenere un trasferimento in un Istituto più vicino a casa’ spiega l’avvocato Giuseppina Carrino ‘poi vedremo come muoverci per uno sconto di pena. L’essenziale, per ora, è che siano tornati’ ’’ (M. LUGLI, Sono tornati gli sposini di Nassau, in la Repubblica del 3 maggio 1997, p. 18). Sull’estradizione di Erich Priebke (*). ‘‘... Non c’era altra scelta: volendo processare Priebke bisognava andare a pescare nella Plata e portare fragorosamente in giudizio un simbolo scolorito e malfermo, incolpabile di sola servitù militare e di ‘miseria di non essere santi’, la parola con cui Léon Bloy si puniva che alla Baraldini un tale provvedimento era stato negato, in quei giorni, per la quinta volta. Al riguardo, inoltre, si riferiva: ‘‘I due casi — ha detto il portavoce americano — non si possono paragonare. Si tratta di situazioni completamente diverse. Venetucci è anziano e malato di cuore. Il governo italiano ha accolto la richiesta di trasferimento in U.S.A.’’. Ed ancora: ‘‘Venetucci si trova da alcuni giorni nel Rochester Federal Medical Center, nello Stato di New York. Tecnicamente è detenuto ma le autorità carcerarie hanno ritenuto che le sue condizioni di salute non consentissero di chiuderlo in cella’’. (Caso Ambrosoli, Roberto Venetucci trasferito in U.S.A., in la Repubblica del 23 aprile 1998, p. 23). Nel Messaggero del 22 aprile 1998, p. 6, si è parlato del trasferimento in discorso (L. TANCREDI, Sindona, l’uomo chiave torna a casa) come risultato della ‘‘lunga battaglia condotta da una giovane avvocato pesarese, Maria Lucia Pizza’’. (Proprio da lei abbiamo avuto — e la ringraziamo — tutta la documentazione che qui si pubblica). Per la insussistenza — con riferimento allo stato di salute di Venetucci, allora detenuto in Italia — della violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, v. Comm. eur. dei dir. dell’uomo, 2 marzo 1998, in Cass. pen., 1999, p. 1007 (con nota di M. T. Saragnano). (*) Sul caso Priebke (‘‘The case of Erich Priebke’’) v. i recenti contributi di J.A. CONSIGLI, S. MARCHISIO e F. MARTINES, in Yearbook of International Humanitarian Law, vol. I, 1998.
— 736 — e assolveva — davanti al quale, ragionando umanamente, domandarsi perché con perplessità e rimorso (...). L’ho avuto per un’ora e mezza davanti a me nel parlatorio del carcere militare romano, pochi giorni prima della sospensione di pena (provvida, appena in tempo per evitare di trasformare la sentenza definitiva in una mera condanna a morte) ed era uno strano confronto — il vecchio scrittore ebraizzante e l’ottantaseienne ufficiale tedesco di via Tasso — da cui le perplessità che nutrivo sulla legittimità, il senso dei suoi processi sono uscite moltiplicate. Preoccupazioni umanitarie, d’accordo. Ma questo è secondario, se si vede il diritto trattato come un cane ammaestrato pur di arrivare a una condanna estrema, e se le sventure giudiziarie di questo ‘ultimo sconfitto’ non riaccendessero questioni filosofiche (tempo e prescrittibilità, tempo e memoria, tempo sempre riportato ad un’ora atroce, la guerra prima e dopo il ’45) non occorrerebbe essere Dichter in dürftiger Zeit (Hölderlin), poeti dell’indigenza di un’epoca, e io lo sono. Faccio un poco di presa diretta, per dare al vivo il vero parlare di Priebke, un italiano argentinizzato, fuori grammatica ma chiaro, come l’ha riemesso il registratore: (...) Il caso Priebke cominciò con una grande bugia, nell’accusazione che mi è venuta dall’Italia e l’Argentina si dice che Priebke dal novembre ’46 è irreperibile, dicono che non mi hanno più trovato, io nel novembre ’46 stavo nel campo dei prigionieri a Rimini, a disposizione del tribunale di Roma... Al campo siamo scappati il 31 dicembre e poi ho vissuto un anno e mezzo a Vipiteno con la mia famiglia, territorio italiano, indirizzo di casa mia era negli acti del tribunale militare di Roma poi arrivati a Buenos Aires subito abbiamo fatto i nostri documenti, nell’anno ’50 un giornalista italiano ha scritto nel Tempo di Milano un’intervista con me sopra la fuga di Ciano, che io sono stato partecipe di questa faccenda, no? Noi altri eravamo qui a Roma e la signora, la Edda, ha pregato di salvare la famiglia. Ciano stava in arresti domiciliari durante il governo di Badoglio e lei è venuta pregando di essere portato via e Hitler ha detto il sì ma non per Ciano, digamos, io avevo raccontato questo, migliaia di italiani hanno letto che un capitano Priebke está en Buenos Aires e fa il cameriere no? Mia moglie io l’ho dovuta lasciare nel 20 novembre ’95 e poi non l’ho più vista, la povera donna ha avuto un shok molto forte il giorno del mio arresto, sono venuti la sera e quando mi hanno portato via lei ha avuto un shok forte, e un shok più forte nel momento che la polizia italiana mi ha portato via per estradizione. Questo fu del governo Berlusconi per pressione del Centro Wiesenthal di Los Angeles e là si dice non so che fecha era, il nostro collaboratore Cooper fa pressione sopra il presidente Berlusconi per la extradizione. Questa l’ha firmata il ministro Conso del governo Ciampi però dopo pochi giorni se n’è andato e in Argentina l’ha spedita il ministro Biondi nel giro di 24 ore. Quello che hanno detto al TG1 giorni fa è che Menem dava Priebke in cambio di lasciare stare coi desaparecidos rivendicati dalle famiglie italiane che dava fastidio ai suoi militari, ha parlato una persona di questo negocio io poi non so... Il mio extradizione secondo la legge argentina non era possibile e uno dei migliori penalisti argentini è venuto da me volontariamente e mi ha detto tu resta qui a Bariloche la tua extradizione non è possibile e dopo como era questo che hanno cambiato... Io rido per non piangere, io faccio buena cara... (...). Dallo sfaldarsi dell’odio che ‘mai può essere buono’ (SPINOZA, Eth., IV, 45) non emergerà, per il reietto Priebke, l’ergastolizzato senza tempo, il riparo, la riparazione inafferrabile di cui ha bisogno? Qui dunque lo lascio’’ (G. CERONETTI, Priebke - Alcune domande intorno a un ergastolo, in La Stampa del 23 febbraio 1999, p. 25). Reati di ‘‘mercenarismo’’ ed offerta di estradizione. L’art. 9 della Convenzione internazionale contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’istruzione di mercenari, adottata il 4 dicembre 1989 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, demandava ad ogni Parte contraente l’adozione delle misure neces-
— 737 — sarie per stabilire la competenza in ordine ai reati previsti nella Convenzione medesima. (Da noi si è cominciato a parlare, al riguardo, di reati di ‘‘mercenarismo’’). Nel dare esecuzione, in Italia, a tale Convenzione, l’art. 6 della l. 12 maggio 1995, n. 210, ha stabilito che venga ‘‘punito secondo la legge italiana’’, sia ‘‘il cittadino che commette all’estero un reato previsto dagli artt. 3 e 4, salvo che ne venga concessa o accettata l’estradizione’’, sia lo straniero che commette all’estero lo stesso tipo di reato, ma ‘‘esclusivamente nel caso in cui si trovi nel territorio dello Stato’’, e sempre che ‘‘non ne sia concessa o accettata l’estradizione’’. È però il caso di rilevare che l’accettazione dell’estradizione, da parte dello Stato estero, presupporrebbe l’offerta, da parte del nostro Paese, dell’estradizione medesima. E ciò secondo una possibilità testualmente prevista, a suo tempo, nell’art. 661 c.p.p. del 1930 — ‘‘Appartiene al Ministro della Giustizia offrire o concedere l’estradizione... nei casi non vietati dall’art. 13 del codice penale’’ — e, correlativamente, da quest’ultimo articolo e da altre statuizioni dello stesso codice (artt. 9, comma 3o, 10, comma 2o, n. 3) (*). Il fatto è, però, che, per le ragioni illustrate nella relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale (p. 152), l’offerta di estradizione — oltretutto di assai scarsa applicazione pratica — non è stata più prevista (ne prende atto M. ROMANO, Comm. sistematico del codice penale, sub art. 9, 2a ed., 1995, p. 129) nella nuova disciplina processuale: v. art. 700 (‘‘1. L’estradizione è consentita soltanto sulla base di una domanda ecc.’’). Il riferimento, operato dal legislatore del 1995, all’istituto dell’offerta di estradizione, ovverossia ad un ramo secco, ed anzi ad un ramo reciso, di tale disciplina, giustifica qualcosa di più delle perplessità espresse in proposito da qualche commentatore (M.R. MARCHETTI, in Legisl. pen., 1997, p. 360), ed è ad ogni modo riferibile ad una mancanza di coordinamento legislativo. Sul concorso di più domande di estradizione (**). 1. Nell’art. 661, il primo degli articoli dedicati alla disciplina dell’estradizione, il codice 1930 attribuiva con esclusività, al ‘‘Ministro della Giustizia’’, il potere — nel caso di ‘‘concorso di più domande di estradizione — di ‘‘stabilire l’ordine di precedenza’’. E ciò senza la configurazione di criteri orientativi. Si era pertanto ritenuto, per un verso che l’autorità giudiziaria la quale, di propria iniziativa, si fosse spinta a deliberare un tale ordine di precedenza, sarebbe incorsa in un vero e proprio eccesso di potere, denunciabile per cassazione, e, per altro verso, che la ‘‘facoltà discrezionale’’ attribuita al Ministro trovasse dei limiti ‘‘soltanto se ed in quanto’’ le singole convenzioni — pur sempre prevalenti (art. 656) rispetto alla disciplina codicistica — dettassero ‘‘norme speciali al riguardo’’ (1). E non mancavano, neanche allora, delle convenzioni di tal genere. 2. Mentre confermava, nell’art. 696, la ‘‘disposizione generale’’ della prevalenza delle convenzioni sulla disciplina codicistica, nel codice 1988 il legislatore affidava pur sempre al potere esecutivo, nella persona del ‘‘Ministro di Grazia e Giustizia’’ (2), il potere di stabilire, se del caso, l’ordine di precedenza (art. 697, comma 2) tra la pluralità di domande. Al fine dell’esercizio di tale potere venivano peraltro configurati alcuni parametri a guisa di criteri orientativi, così da contrassegnare il passaggio — all’interno della disciplina (*) Come ultimo caso di ‘‘estradizione offerta’’ (offerta agli Stati Uniti, ma non accettata né respinta), ricordiamo — nell’ambito della casistica dei dirottamenti aerei — il ‘‘caso Minichiello) (in Ind. pen., 1971, p. 434 ss.). (**) Contributo destinato agli studi in onore di Marino Barbero Santos. (1) ALOISI, Manuale pratico di proced. pen., vol. IV, 1943, p. 377. (2) Sull’inspiegabile e innovativo preziosismo di tale designazione terminologica, oltretutto dissonante rispetto alle previsioni costituzionali, v. Ind. pen., 1989, p. 528.
— 738 — del codice — dal definito regime di ‘‘facoltà discrezionale’’ (se mai limitato dalle previsioni pattizie) a quello di un potere discrezionale orientato. Il Ministro — si è scritto nel codice — ‘‘tiene conto’’ (deve tener conto) ‘‘di tutte le circostanze del caso e in particolare della data di ricezione delle domande, della gravità e del luogo di commissione del reato o dei reati, della nazionalità e della residenza della persona richiesta e della possibilità di una riestradizione dallo Stato richiedente a un altro Stato’’. Nel dettare queste previsioni il legislatore si è chiaramente ispirato all’art. 17 della Convenzione europea di estradizione (3), dove pure si delinea un criterio di base — tener conto ‘‘di tutte le circostanze’’ del caso — esplicitate poi con una serie di enunciazioni specifiche (‘‘in particolare’’), indicate secondo un ordine testuale parzialmente diverso: gravità dei reati, luogo di commissione, data delle domande, nazionalità dell’estradabile, possibilità di ulteriore estradizione (4). 3. L’ispirazione ‘‘europea’’ del nostro art. 697, comma 2, rende anche più importante e significativa una decisione emessa dal Tribunale Federale elvetico in data 9 ottobre 1998 (e pubblicata in ATF 124 II, p. 586 ss.). Si trattava di un cittadino greco (Aspiotis), detenuto a Thonex (nel carcere di ChampDollon), e richiesto in estradizione, sia dalla Grecia, a seguito di un’accusa a titolo di truffa e di numerose condanne esecutive, per il complessivo ammontare di oltre 26 anni di reclusione, sia, e successivamente, dagli Stati Uniti, a seguito di un procedimento avanti la Corte federale del distretto di Colombia, a titolo di truffa e di false dichiarazioni. Domande diverse, dunque, relative a reati diversi. Aspiotis, sentito dal giudice istruttore di Ginevra, motivava la richiesta di essere estradato, in via prioritaria, verso la Grecia. Successivamente, avendo l’Ufficio Federale di Polizia disposto, invece, l’estradizione verso gli Stati Uniti, con l’autorizzazione a riestradare Aspiotis alla Grecia, in sede di ricorso amministrativo l’interessato investiva il Tribunale Federale elvetico sulla base dell’art. 17 del trattato di estradizione (1990) tra la Confederazione e gli Stati Uniti e del citato art. 17 della Convenzione europea. 4. A tale proposito il Tribunale Federale (2.a) rileva la somiglianza tra le due previsioni convenzionali, e sottolinea, quanto all’omologa previsione della disciplina interna, la possibile incidenza anche del fattore ‘‘reinserimento sociale’’ (5). (3) Nella Relazione al progetto preliminare del codice (p. 151) si era specificato che, ritenuta impraticabile l’idea di una ‘‘europeizzazione’’ della disciplina contenuta nel l. XI, alle convenzioni europee (e ad altre, successivamente ratificate) si era però fatto riferimento per trarre l’indicazione di alcune linee di tendenza. (4) Contro i sostenitori della tesi che accusa di genericità l’enunciazione di tali criteri v. TIZZANO, Pluralità di richieste di estradizione, in Dir. internaz., 1964, p. 173. In particolare, in tema di riestradizione, si vedano, rispettivamente, gli artt. VIII e VI, di identico contenuto, degli Accordi aggiuntivi bilaterali intervenuti con l’Austria e la Germania (in PISANI-MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, pp. 34 e 131). Inoltre, per l’indicazione di convenzioni bilaterali successive alla convenzione europea di estradizione, che ne seguono la traccia (anche) sul tema della pluralità di domande, v. MOSCONI, in MOSCONI-PISANI, Le convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria, 1984, p. 69. (Alcune di tali convenzioni sottolineano che lo Stato richiesto deciderà liberamente). (5) Art. 40.2 della Legge Federale sull’assistenza internazionale in materia penale (1981): ‘‘Se l’estradizione è chiesta da più Stati per diversi reati, la decisione deve tener conto di tutte le circostanze, segnatamente della gravità di reato, del luogo in cui sono stati commessi, dell’ordine di ricezione delle domande, della cittadinanza della persona perseguita, del migliore reinserimento sociale e della possibilità di estradare a un altro Stato’’. Va però anche notato che, alla stregua dell’al. 1 dello stesso art. 40, nell’ipotesi di estradizione richiesta da più Stati per lo stesso reato (e tale non era il caso sub judice), ‘‘l’estradi-
— 739 — Ciò premesso, il Tribunale Federale, anche con richiamo ai propri precedenti (6), osserva che ‘‘lo Stato richiesto dispone di un ampio potere di valutazione allorquando applica’’ i criteri enunciati (ATF 113 Ib 183 consid. 5, pp. 187-188; 103 Ia 624 consid. Ib, p. 627): criteri che — si specifica — ‘‘non sono né esaustivi né ordinati secondo un criterio di gerarchia’’, ovvero di priorità (7). E così continua: ‘‘Se la gravità del reato gioca un certo ruolo, essa non è però risolutiva. Il decidere in base alla data del deposito delle richieste, soluzione apparentemente semplice, può portare a risultati insoddisfacenti rispetto ai criteri della gravità o delle prospettive di riestradizione. I criteri, poi, della cittadinanza e della possibilità di ulteriore riestradizione, sono strettamente connessi: il reinserimento sociale può sembrare meglio garantito nello Stato di cui la persona richiesta è cittadino, ma il principio della non estradizione dei cittadini può opporsi ad una tale soluzione, se essa impedisce un’ulteriore riestradizione. Così, anche se tutti i criteri da prendere in considerazione non hanno lo stesso peso, ciascuno può tuttavia essere decisivo secondo le speciali circostanze del singolo caso (ATF 103 Ia 624 consid. 3, pp. 628-629)’’. In questo quadro, il Tribunale: — respinge la richiesta del ricorrente Aspiotis di dare la priorità alla richiesta greca, di quattro mesi antecedente a quella americana (nonostante che tale richiesta, accolta a seguito del consenso per un’estradizione semplificata, fosse già ‘‘entrée en force’’) (8); — respinge la richiesta del ricorrente di dare la priorità alla richiesta greca sulla base zione è di regola concessa a quello sul cui territorio il reato è stato commesso o principalmente eseguito’’. (6) Quanto al caso (deciso con sentenza 21 dicembre 1977) del cittadino italiano Donadoni, rifugiatosi nella Confederazione e poi richiesto in estradizione sia dal Belgio che dal nostro Paese, v CATELANI, in CATELANI-STRIANI, L’estradizione, 1983, p. 306, nota 37. (7) Per la tesi (condivisibile) secondo cui l’elencazione di cui al nostro art. 697 non sia volta a determinare criteri di priorità v. M.R. MARCHETTI, in Commento al nuovo c.p.p., coordinato da Chiavario, vol. VI, 1991, p. 696. Per un’opposta (e non condivisibile) soluzione, relativa invece all’art. XV del Trattato di estradizione (1983) Italia-Stati Uniti, v. PISA, in La legislaz. pen., 1984, pp. 448-449. Quella norma prevede: ‘‘Nel prendere la sua decisione l’Autorità esecutiva terrà conto di tutti gli elementi pertinenti, ivi compresi (il corsivo è nostro): a) il luogo in cui è stato commesso il reato; b) la gravità dei rispettivi reati nel caso in cui gli Stati richiedenti domandino l’estradizione per differenti reati; c) la possibilità di una nuova estradizione tra gli Stati richiedenti; e d) l’ordine in cui le richieste sono state ricevute’’. Pur dopo aver parlato — con riferimento all’Autorità esecutiva italiana: il Ministro della Giustizia — di discrezionalità ‘‘sia pure blandamente vincolata’’ (p. 448), il cit. A. opta per la tesi della configurazione degli indicati parametri secondo un ‘‘ordine gerarchico’’. Sotto altro profilo, va segnalata l’opinione secondo cui, attesa la natura politica dei provvedimenti ministeriali in materia di estradizione (TIZZANO, op. cit., p. 160, nota 87), l’atto di graduazione delle domande non assume rilievo al di fuori di una valutazione politica (così anche ZAPPALÀ, in D. SIRACUSANO ed a., Dir. proc. pen., vol. II, 2a ed., 1996, p. 633), tenuto conto, in particolare — ma sulla base, per l’appunto, di una premessa assai opinabile (cfr., retro, i riferimenti di cui alla nota (4) — rappresentata dalla considerazione che risultano ‘‘piuttosto vaghi i criteri enumerati nell’art. 697.2’’ (così CORDERO, Codice di procedura penale, 1990, p. 193). Più in generale, sul problema della possibilità (e dell’opportunità) di un sindacato del giudice amministrativo sul provvedimento ministeriale, v. GAITO, Dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere, 1985, p. 62, e, da ultimo, PISANI, Pena di morte ed estradizione nel trattato Italia-U.S.A.: il caso Venezia, in Ind. pen., 1996, p. 677. (8) Si precisa, a tale riguardo, che ‘‘una decisione relativa alla cooperazione internazionale in materia penale, di natura amministrativa, non è rivestita dall’autorità materiale della cosa giudicata se non in misura limitata’’, e come tale deve venir meno davanti ad un fatto sopravvenuto (la domanda americana) da prendere ‘‘imperativamente’’ in considerazione. Si fa inoltre e soprattutto presente, in linea di fatto, che la decisione in discorso era,
— 740 — del criterio della maggior gravità dei reati, a tale riguardo osservando che, sia pure in una situazione di entità penali in qualche modo comparabili, e pur senza ignorare la maggiore idoneità dell’estradizione verso la Grecia a favorire il reinserimento sociale del ricorrente, altri elementi devono essere tenuti in conto ‘‘nella valutazione complessiva delle circostanze del caso’’. Scopo della cooperazione internazionale — si precisa — è quello di ‘‘favorire la repressione ottimale dei crimini e dei delitti. Investito da domande concorrenti, lo Stato richiesto deve, nel miglior modo possibile, optare in favore della soluzione la quale assicuri che la persona ricercata possa rispondere effettivamente in ordine a tutti i fatti di cui è accusata, in tutti gli Stati in gioco. Nel caso di specie, l’estradizione del ricorrente alla Grecia avrebbe per conseguenza di rendere impossibile una riestradizione negli Stati Uniti, atteso che la Grecia non estrada i propri cittdini’’. Preso atto, poi, che gli Stati Uniti avevano escluso l’ipotesi di delegare alla Grecia il perseguimento dei reati (ipoteticamente) commessi in terra americana, il Tribunale fa notare che una decisione diversa da quella dell’Ufficio federale di polizia, oggetto d’impugnazione, avrebbe messo il ricorrente, in linea di fatto, ‘‘al riparo da ogni perseguimento per i fatti commessi negli Stati Uniti’’ (9). Ed avendo essi già espresso anticipatamente il consenso alla riestradizione verso la Grecia, queste sarebbero, secondo il Tribunale Federale, le scansioni temporali configurabili: esaurimento del processo penale pendente nella Confederazione; consegna agli Stati Uniti; riestradizione dagli Stati Uniti alla Grecia. Da ultimo, all’obiezione del ricorrente secondo cui, prima della sua riestradizione in Grecia, i reati commessi, e per i quali è stato condannato, sarebbero già prescritti, il Tribunale puntualizza quanto segue. Secondo i dati forniti dalla Grecia (Procuratore del Pireo) quei reati si prescrivono nel 2004 e nel 2005, mentre la pena cumulativa di anni 26 si prescrive nel termine di anni 10 dalla pronuncia definitiva. E il Tribunale aggiunge, con un lieve tocco d’ironia: ‘‘La preoccupazione del ricorrente di non sfuggire all’azione penale (...) e alla lunga pena detentiva da subire nel suo Paese, è sicuramente degna di lode. È però il caso di ricordare al ricorrente che a suo favore opera la presunzione d’innocenza quanto ai reati posti a suo carico nella Confederazione e negli Stati Uniti. Se la sua difesa riesce a spuntarla, egli potrebbe essere estradato in Grecia prima che in questo Paese maturi la prescrizione dei reati e la prescrizione della pena. Del resto, se così non dovesse essere, il ricorrente non avrebbe motivo per lamentarsene’’. Segue la reiezione del ricorso. Germania-Turchia: espulsione di un minorenne (e dei genitori). ‘‘La Corte costituzionale tedesca ha respinto il ricorso alla sentenza di espulsione decisa dalla magistratura bavarese nei confronti di un piccolo criminale quattordicenne di origine turca, nato e cresciuto in Germania. I giudici costituzionali di Karlsruhe hanno così unanimemente messo la parola fine al ‘caso Mehmet’ che va avanti dalla scorsa estate e che è stato argomento anche di dibattito nella recente campagna elettorale quando le autorità bavaresi chiesero non soltanto di deportare il ragazzo, condannato a un anno per una serie di reati gravi, ma anche i suoi genitori — residenti in Germania da oltre trent’anni e con una condotta irreprensibile — accusati di avere messo in pericolo la sicurezza pubblica per la loro incapacità di dare un’adeguata educazione al figlio. Le Corti d’appello bloccarono il provvedimento di deportazione dei genitori, ma il caso ad ogni modo, sospesa fino all’esaurimento di altro processo penale aperto, nei confronti dello stesso ricorrente, in terra elvetica (e dunque ‘‘per un periodo di diversi mesi). (9) Sulla disciplina dei reati commessi dai cittadini greci all’estero v. l’art. 6 del codice penale greco (1950).
— 741 — ormai era stato strumentalizzato dai politici: i liberali accusavano i conservatori di sciacallaggio su una tragedia familiare per raccogliere consensi dalle frange xenofobe che ritengono gli stranieri responsabili della diffusione della criminalità. Non è chiaro tuttavia se e come il ragazzo possa essere espulso dato che il suo passaporto è stato annullato dalle autorità turche e i genitori non intendono chiederne un altro’’ (corrispondenza da Karlsruhe, sotto il titolo: Espulsione per il ‘‘baby criminale turco’’, in Avvenire del 14 novembre 1998, p. 15). Affare Lockerbie: la ‘‘consegna’’ dei due presunti autori. ‘‘La Libia dovrebbe consegnare all’ONU entro domani i due presunti autori dell’attentato di Lockerbie, che nel 1988 costò la vita a 270 persone (una bomba fece precipitare il 22 dicembre del 1988 un Jumbo della Pan Am sulle case del villaggio scozzese di Lockerbie). Fonti diplomatiche tunisine hanno rivelato che Abdel Basset al-Megrahi e Al-Amin Khalifa Fahima saranno consegnati al segretario generale aggiunto dell’ONU per le questioni giuridiche Hans Correl, ‘nel rispetto di quanto concordato durante la mediazione del presidente sudafricano Nelson Mandela’. I due sospettati, (agenti segreti libici) saranno processati in Olanda, sede considerata ‘neutrale’ e più gradita ai libici timorosi di un processo ‘politico’, da un tribunale scozzese. La strage infatti avvenne nei cieli di Scozia, che pur facendo parte del Regno Unito gode di una parziale autonomia giuridica da Londra. (...) La Libia ha ricevuto dall’Aja il permesso di aprire nei prossimi giorni una sede diplomatica in Olanda per seguire da vicino il processo, che si svolgerà nella base aerea di Soseterburg, vicino all’Aja. Fra i tanti problemi tecnico-procedurali causati dall’insolito procedimento giudiziario, in Olanda si sta procedendo ad emendare addirittura le norme sulla sovranità territoriale: l’aula del processo ricadrà sotto la legge scozzese e diventerà di fatto un pezzo di territorio scozzese. Curiosamente, i due imputati saranno però, fino all’eventuale condanna, sotto la tutela della legge olandese. Saranno infatti dei giudici olandesi (e non scozzesi) che emetteranno i mandati di arresto non appena i due accusati libici scenderanno dall’aereo’’ (R.E., I libici di Lockerbie verso l’Aja via Roma, in Corriere della Sera del 4 aprile 1999, p. 15). ‘‘Dopo dieci anni di resistenza (*), alla fine il colonnello Gheddafi ha ceduto. Ieri pomeriggio alle due meno un quarto, un quadrimotore grigio italiano che era decollato da Tripoli è atterrato alla base militare di Valkenburg, vicino l’Aja, in Olanda, per consegnare alla giustizia internazionale i due uomini più scomodi del regime libico. Due ex agenti dei servizi d’informazione. (...) La TV libica, poche ore prima, ricordava che i due si recano in Europa ‘di loro spontanea volontà per dimostrare la propria innocenza’. E li mostrava in assetto da cerimonia mentre stringevano le mani ad ambasciatori, diplomatici, rappresentanti arabi e, con altrettanta cordialità, a Hans Corell, il segretario aggiunto dell’ONU per gli affari legali, incaricato di accompagnarli in Olanda. Le telecamere li hanno ripresi anche con le dita in alto in segno di vittoria’’ (M.G. CUTULI, Gheddafi consegna i due di Lockerbie, in Corriere della Sera del 6 aprile 1999, p. 17). (*) Affare Lockerbie: l’intimazione della consegna, in questa Rivista, 1998, p. 1444. Il testo della Risoluzione 1192 (1998) — adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 27 agosto 1998 — ‘‘sulla sottoposizione a processo nei Paesi Bassi di fronte ad un tribunale scozzese di persone imputate dell’attentato di Lockerbie’’, è pubblicato in Riv. dir. internaz., 1998, p. 1246.
— 742 — Italia-Svizzera: ritardi nella ratifica dell’‘‘accordo aggiuntivo’’. ‘‘Il Parlamento svizzero ha ratificato da alcune settimane l’accordo con l’Italia per l’assistenza giudiziaria. Mi meraviglio che l’Italia non l’abbia ancora fatto’’. Non nasconde un certo stupore Carla Del Ponte, procuratore federale svizzero. L’accordo, raggiunto quando al dicastero c’era Giovanni Maria Flick (*), e l’unico modo per velocizzare i tempi delle rogatorie italiane in Svizzera. Il testo prevede, oltre alla possibilità di utilizzare anche videoconferenze, l’istituzione, nella Confederazione, di un ufficio centrale (‘realizzato non appena l’Italia ratificherà la convenzione’) che si occupi proprio delle rogatorie italiane con il compito di renderle più rapide. Prima dell’approvazione del Parlamento svizzero, l’accordo ha superato parecchi ostacoli, soprattutto da parte di settori bancari e finanziari. ‘Alcuni parlamentari — dice la Del Ponte — addirittura volevano bocciare l’intera materia. Ho difeso questo accordo davanti ad una commissione parlamentare dove ho sentito che la resistenza ed il blocco sostanziosi venivano dagli ambienti finanziari così come dall’Associazione bancaria svizzera’. Difende, però, il sistema bancario elvetico, il procuratore: ‘Se si vuole sicurezza sotto il profilo politico ed economico sulla gestione dei capitali, le banche svizzere sono le migliori e noi siamo orgogliosi di questo’. Ma ricorda che il governo elvetico è impegnato a fondo nella lotta al denaro sporco e ‘il segreto bancario non esiste per le inchieste penali’. L’Italia è il paese che, in Svizzera, ha presentato più richieste di assistenza giudiziaria. Nel 1997 erano circa 1.800, 442 delle quali dalla sola procura di Milano. ‘Siamo il Paese all’avanguardia — dice la Del Ponte — nell’evasione delle rogatorie. Sono d’accordo che i tempi sono lunghi, ma è vero pure che ne arrivano a migliaia da tutto il mondo’. Dietro l’Italia per numero di rogatorie, si comincia ad intravvedere la Russia. Anche perché, secondo una stima che il procuratore definisce ‘presunta, ma forse non lontana dal vero’, sarebbero di 50 miliardi di dollari i depositi dai Paesi dell’Est. E per molti di quei soldi c’è il sospetto che siano di mafiosi russi. I magistrati di Mani pulite lamentano che ci sono rogatorie pendenti addirittura dal ’96, ‘Da noi — spiega la Del Ponte — chi è colpito da questi atti d’inchiesta ha la possibilità di ricorrere. In Italia non è possibile. Ci sono poi i ritardi perché le banche devono raccogliere la documentazione’. Ma anche i magistati svizzeri trovano difficoltà nelle rogatorie in Italia, spesso relative alla criminalità organizzata ‘Ai miei colleghi — conclude, con un consiglio anche agli italiani — dico che non basta inviare una rogatoria ed aspettare. Bisogna prendere contatto di persona, stimolare’’. (Corrispondenza da Berna, sotto il titolo Rogatorie, l’Italia ratifichi l’accordo, in Avvenire del 31 marzo 1999, p. 9). Interrogativi sul caso Ocalan. ‘‘... il titolare della Farnesina, nella capitale francese per l’assemblea dell’Ueo, l’organizzazione di difesa europea, lo ripete: ‘Si sta lavorando per costituire un tribunale internazionale in un Paese europeo, l’Italia inclusa’. La strada esplorata da giuristi italiani e tedeschi, spiega il ministro, è tracciata da due convenzioni del Consiglio d’Europa: ‘Quella del ’77 sul terrorismo e quella del ’72 sulla possibilità che i processi si svolgano in Paesi diversi da dove sono stati commessi i reati. Ci sono Paesi — aggiunge Dini — che si sono dati in particolare la vocazione di ospitare tribunali internazionali e speciali’. Quali? Viene in soccorso un giurista del calibro dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, presidente della commissione (sic) per l’istituzione del tribunale penale internazionale. La questione, spiega, non è né turca né italiana né tedesca: ‘È un problema europeo e quindi una soluzione in Europa è fondamentale’. Gli strumenti ‘ci sono’. Una Corte in(*) V. Italia-Svizzera: negoziati in tema di assistenza giudiziaria, in questa Rivista, 1998, p. 1441.
— 743 — ternazionale ad hoc ‘sarebbe lo strumento migliore, ma ci vuole molto tempo. C’è però una convenzione firmata a Strasburgo nel ’72 che prevede nell’ambito del territorio del Consiglio d’Europa, la possibilità di trasferire processi penali in uno qualunque di questi Paesi’’. La convenzione è stata firmata da una dozzina di Stati (*) ‘Se uno di questi è disposto a ospitare il processo, lo si può fare. Uno dei Paesi firmatari è l’Olanda. L’Aja è già sede del tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia e di altri tribunali internazionali. L’Olanda dunque è certamente il Paese più adatto ma ce ne sono anche altri’. Estonia o Spagna’’ (L. LIVERANI, Dini: per Ocalan processo o espulsione, in Avvenire del 4 dicembre 1998, p. 12). Intorno al caso Ocalan ci è accaduto di leggere, nel giro di qualche settimana, anche interventi, più o meno estemporanei, di tipo alluvionale, da parte di opinionisti, ministri, politici e operatori vari. Alcuni punti, a parere di chi scrive, meriterebbero ancora d’essere chiariti. Premesso che da molti, e in primis dal presidente del Consiglio, si è fatto riferimento all’ipotesi di un processo all’estero, in ambito europeo, sulla base della Convenzione di Strasburgo per il trasferimento delle procedure penali (1972), va notato che — il punto è passato sotto silenzio — l’Italia non ha ratificato tale Convenzione europea, e non è quindi in grado di richiedere formalmente a chicchessia di disporsi a celebrare il processo a Ocalan, con conseguente ‘‘trasferimento’’ del processo medesimo dall’Italia. A proposito: perché mai il nostro Paese non ha ratificato quella Convenzione? (**). Premesso che Ocalan si trova nel territorio dello Stato; è accusato di delitti gravissimi; l’estradizione verso la Turchia non verrà concessa; come mai — domanda ingenua — il nostro ministro della giustizia non si appresta ad attivarsi per richiedere, come testualmente previsto dall’art. 10 del nostro codice penale, il processo in Italia, a carico del leader del Pkk? È una scelta discrezionale, ispirata da ragioni politiche? Si abbia almeno il coraggio di dirlo. Se invece, come sembra, si tratta di terrorismo, avendo l’Italia ratificato la Convenzione europea del 1977, non ha scelta: non potendo estradare Ocalan, deve avviare il procedimento penale. Anzi, dice l’art. 7 della Convenzione: deve farlo ‘‘senza alcuna eccezione e senza indebiti indugi’’. Ognuno, va da sé, deve assumersi le proprie responsabilità. E non serve il tentativo di eluderle mediante confusioni o diversivi di comodo (M. PISANI, Caso Ocalan, che fare, dalla rubrica ‘‘Lettere al giornale’’ in Il Sole-24 Ore del 16 dicembre 1998). ‘‘... — N’avez-vous pas fait une erreur fin 1998 en renonçant à demander l’extradition d’Abdullah Ocalan pour le juger en Allemagne? — C’était une décision délicate. Je pense qu’elle était justifiée au regard des problèmes de sécurité et de paix intérieure qu’aurait posé un jugement en Allemagne. Cette décision a été prise alors que nous efforons, et nous nous efforçons toujours, de faire traduire M. Ocalan devant un tribunal international. Les réactions en Allemagne après son arrestation par la Turquie confirment qu’il y avait bien un risque énorme de violence en Allemagne’’ (Dall’intervista di A. Leparmentier al ministro degli interni tedesco O. SCHILY pubblicata in Le Monde del 19 febbraio 1999, p. 2, sotto il titolo: Nous devons avoir une harmonisation européenne etc.). (*) Rectius: la Convenzione europea in discorso, a tutto il 4 gennaio 1999, è stata ratificata da 12 Stati (ultimi tra i quali l’Estonia e la Lettonia), ma non dall’Italia. Assai superiore era stato il numero delle firme di sottoscrizione. L’Italia aveva invece, e semplicemente, sottoscritto, nel 1990 (ma poi non ha ratificato) l’Accordo tra gli Stati membri delle Comunità Europee sul trasferimento dei procedimenti penali (v. in PISANI-MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 718 ss.): accordo che non è (ancora) entrato in vigore. (**) Sul tema cfr. DOMINIONI-PISANI, Sulla compatibilità del trasferimento dei processi penali con i principi dell’ordinamento interno (1982), in Ind. pen., 1987, p. 176 ss.
DOTTRINA
SULLA DOTTRINA DELL’IMPUTAZIONE OGGETTIVA DELL’EVENTO (*)
I. La teoria del’imputazione obiettiva dell’evento, fondata da Honig (1), è stata rivitalizzata da Roxin (2) all’inizio degli anni ’70 e da allora di continuo ulteriormente approfondita. Oggi essa risulta dominante nella letteratura tedesca (3). Secondo Roxin l’imputazione del fatto tipico obiettivo presuppone la realizzazione di un pericolo creato dall’autore e non coperto da un rischio consentito all’interno della cornice del fatto stesso (4). E Lenckner parla di una regola di imputazione che delimita il fatto tipico obiettivo, nel senso che un evento conforme alla fattispecie legale può essere imputato solo quando l’autore abbia creato un rischio di evento contrario al divieto attraverso la sua condotta causale rispetto a tale esito e proprio questo pericolo giuridicamente disapprovato si sia realizzato nell’evento concreto venuto a esistenza (5). Honig all’inizio degli anni ’30 attraverso la teoria dell’imputazione (*) Questo lavoro è stato pubblicato originariamente in Germania con il titolo: Zur Lehre von der objektiven Zurechnung, in Festschrift für Theodor Lenckner zum 70. Geburtstag (a cura di A. ESER, U. SCHITTENHELM e H. SCHUMANN), München, 1998, p. 119 ss. La traduzione dal tedesco, approvata dall’Autore, è stata curata dal Dott. LUIGI CORNACCHIA dell’Università di Bologna. (1) HONIG, Frank-Festg., I, 1930, p. 174 ss. (2) ROXIN, Honig-Festschr., 1970, p. 133 ss.; con riguardo alle sue numerose successive prese di posizione v. le indicazioni di ROXIN, Allg. Teil I, 3. Ed., 1997, § 11 vor Rn. 1, e inoltre l’illustrazione della teoria nel § 11 Rn. 39 ss. (3) Cfr. ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 39 ss.; JAKOBS, Allg. Teil, 2. Ed., 1991, 7/35 ss.; JESCHECK-WEIGEND, Allg. Teil, 5. Ed., 1996, p. 286 ss.; LENCKNER, in: SCHÖNKE-SCHRÖDER, 25. Ed., 1997, Vor § 13 Rn. 91 ss.; PUPPE, in: NK, 1995, Vor. § 13 Rn. 120 ss.; RUDOLPHI, in: SK, 6. Ed., 1997, Vor 1 Rn. 57 ss.; SCHMIDHÄUSER, Allg. Teil StudB, 2. Ed., 1984, 5/57 ss.; WESSELS, Allg. Teil, 27. Ed., 1997, Rn. 176 ss.; WOLTER, Objektive und personale Zurechnung, 1981, p. 330 ss.; così come le ulteriori ampie indicazioni in ROXIN, loc. cit. Critici nei riguardi di tale teoria: Arm. KAUFMANN, Jescheck-Festschr., 1985, p. 251 ss.; STRUENSEE, GA, 1987, p. 97 ss.; HIRSCH, Kölner Festschr., 1988, pp. 399, 403 ss.; KÜPPER, Grenzen der normativierenden Strafrechtsdogmatik, 1990, p. 90 ss.; KORIATH, Grundlagen strafrechtlicher Zurechnung, 1994, p. 534 ss.; in senso limitativo MAIWALD, Miyazawa-Festschr., 1995, p. 478 ss.; mostrano cautela LACKNER, StGB, 22. Ed., Vor § 13 Rn. 14; KÜHL, Allg. Teil, 2. Ed., 1997, § 4 Rn. 42; KÖHLER, Allg. Teil, 1997, p. 144 con nt. 26. (4) ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 44. (5) LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 92. In JESCHECK-WEIGEND ciò viene a significare
— 746 — obiettiva intese arginare sul piano della dimensione obiettiva l’indeterminatezza del concetto di fatto tipico oggettivamente inteso dalla allora dominante dottrina causale dell’illecito (6), e a Roxin più tardi va ricondotto innanzitutto il tentativo di filtrare attraverso il punto di vista dell’imputazione obiettiva l’inclusione del dolo nella tipicità dell’illecito, portato della dottrina personale dell’illecito. Fu tale Autore a scrivere che il ‘‘compito della dogmatica’’ consiste nell’enunciazione di criteri generali di imputazione obiettiva da determinarsi in chiave normativa (7). Tuttavia, in conseguenza dell’affermarsi nella letteratura tedesca del concetto di illecito personale, accolto da parte di Lenckner nel commentario di Schönke/Schröder e riflessosi anche nella riforma della parte generale (8), è stata combinata con esso la dottrina dell’imputazione obiettiva dell’evento. Gli attuali rappresentanti di tale teoria assumono parimenti come presupposto delle loro elaborazioni il punto di vista secondo cui nel delitto doloso anche il dolo di fattispecie appartiene alla dimensione della tipicità dell’illecito. La circostanza contingente per cui la dottrina dell’imputazione obiettiva ha in realtà ampliato i propri orizzonti, ad onta della delimitazione del fatto tipico intrapresa già dalla teoria dell’illecito personale, dipende dal fatto che tale delimitazione secondo la falsariga del concetto di illecito personale proposto da Welzel essenzialmente ha successo solo sul piano della tipicità soggettiva, in ogni caso a livello di delitto doloso (9). Fu avvertita come una mancanza il fatto che la tipicità obiettiva debba essere in linea di principio già integrata dalla causazione dell’evento determinata secondo la teoria della conditio sine qua non. Infatti nel diritto penale del fatto la realizzazione di un fatto tipico obiettivo forma di regola la base di partenza della considerazione penale. Si potrebbe in senso contrario addurre che la tipicità obiettiva del fatto di per sé sola non possiede ancora alcuna rilevanza in termini di valore (10). Solo attraverso la sussistenza anche della dimensione soggettiva potrebbe effettivamente essere fondata la tipicità. Va tuttavia considerato che ‘‘la condotta deve avere procurato una situazione di pericolo giuridicamente vietato per l’oggetto di tutela e il pericolo deve essersi realizzato nell’evento tipico’’ (p. 287). (6) HONIG (nt. 1), pp. 179 s., 188, 195 s. (7) ROXIN, Honig-Festschr., p. 147 ss. (8) V. LENCKNER, in: SCHÖNKE-SCHRÖDER, 18. Ed., 1976, Vor § 13 Rn. 46 ss. Per quel che concerne il riflesso sulla riforma del 1975 dettagliatamente HIRSCH, ZStW 93 (1981), 831, 839. (9) Cfr. WELZEL, Strafrecht, 11. Ed., 1969, p. 61 s. Tuttavia egli intese stralciare dalla tipicità una parte dei casi oggi ricompresi nello spettro della teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, con l’ausilio della dottrina, germogliata sul tronco della sua impostazione, dell’adeguatezza sociale (loc. cit., p. 55 ss.). Con riguardo a tale dottrina v. ancora nelle pagine successive gli sviluppi, nt. 19. (10) In questa direzione dapprima anche HIRSCH (nt. 3), p. 407.
— 747 — come a incidere sul contenuto dell’illecito sia anche la proporzione in cui la tipicità obiettiva viene concretata e la misura in cui essa si estende anche a una soglia anticipata rispetto alla perfezione del reato. Si pensi alla distinzione tra consumazione e tentativo, come pure a quella tra inizio del tentativo e meri atti preparatori. Se si accoglie come fondamento, rispetto alla categoria dei delitti di evento, la causazione di quest’ultimo secondo il principio dell’equivalenza delle condizioni — con esclusione delle sole condizioni riflesse —, si deve ritenere che di regola a integrare la tipicità obiettiva del delitto commesso oggi dall’autore abbiano concorso anche tutti gli antenati dell’autore stesso, dai genitori risalendo fino ad Adamo ed Eva, mentre una delimitazione potrebbe essere offerta solo dalla ‘‘Teilnahmelehre’’ (e sempre fin tanto che un ordinamento non accolga il modello unitario di tipizzazione del fatto). Anche Roxin incomincia le sue considerazioni sull’imputazione oggettiva con il problema della delimitazione rispetto ai fatti antecedenti rilevanti. L’Autore richiama l’attenzione sulla circostanza che il produttore di un oggetto poi danneggiato da altri non può dirsi avere concretato gli estremi di tipicità obiettiva della fattispecie di cui al § 303 StGB (11) solo per il fatto di avere posto in essere, attraverso l’attività di produzione, una condizione dell’evento (12). Pertanto è ragionevole che la teoria dell’imputazione obiettiva tenti di compensare le carenze dogmatiche implicate da una impostazione che risolva il problema della dimensione obiettiva della tipicità dei delitti di evento sul piano della pura causalità. Da tempi risalenti, come noto, per la realizzazione di una simile opera di delimitazione si adoperano le dottrine della adeguatezza (‘‘Adäquanz’’) e della rilevanza (‘‘Relevanz’’), nell’ambito delle quali tuttavia la prima non separa sufficientemente la posizione della questione da quella relativa alla causalità, mentre l’altra ha trovato pochi sostenitori a causa della sua indeterminatezza. Inoltre colpisce come mentre nell’ambito della responsabilità civile è stata intrapresa una delimitazione dell’illecito attraverso la teoria dell’adeguatezza (13), il diritto penale invece si è orientato tradizionalmente di principio solo alla teoria dell’equivalenza (14), cosicché, sebbene la pena si manifesti sostanzialmente come un inasprimento delle conseguenze sanzionatorie rispetto a quelle del diritto civile, uno stesso comportamento potrebbe non essere sufficiente a concretare i requisiti richiesti dall’illecito nell’ambito del diritto civile, ma nondimeno costituire illecito valutato ai sensi del diritto penale. (11) Si tratta della fattispecie di danneggiamento (Sachbeschädigung). (12) ROXIN, Allg. Teil I, § 10 Rn. 55. (13) Cfr. BGHZ 79, 259, 262, e giurisprudenza ivi citata; KÖTZ, Deliktsrecht, 7. ed., 1996, p. 61 s. (14) Risalendo fino a V. BURI, Über Kausalität und deren Verantwortung, 1873, nonché ID., Die Kausalität und ihre strafrechtlichen Beziehungen, 1885. Con riguardo alla giurisprudenza v. recentemente BGHSt. 39, 195, 197 con ulteriori indicazioni.
— 748 — II. Sorge tuttavia la domanda, se l’attuale dottrina dell’imputazione obiettiva costituisca la soluzione concettuale appropriata. Prima di un’analisi sistematica più precisa, sono da prendere in considerazione i principali casi applicativi con rilevanza pratica trattati dai sostenitori di questa teoria. 1. Quali ipotesi più importanti rispetto al delitto doloso vengono trattate le fattispecie in cui viene a mancare la possibilità di influire su di un evento intenzionalmente perseguito e le costellazioni di casi della deviazione essenziale dal decorso causale che l’agente si è rappresentato (15). a) Le questioni relative al mancato influsso sulla realizzazione di un evento voluto dall’agente trovano di preferenza terreno di dibattito rispetto al caso — interessante certo non sotto l’aspetto pratico, ma teorico — dello zio ricco (16). Questo esempio riguarda, come è noto, la situazione in cui il nipote erede persuade suo zio a fare un viaggio in aereoplano nella speranza che egli muoia in un disastro aviatorio ed effettivamente lo zio resta ucciso a causa di un incidente aereo occorso in costanza di quel viaggio. Secondo la tradizionale concezione la soluzione dovrebbe suonare nei termini seguenti: nei casi in cui tanto il nipote quanto lo zio si rappresentano la pericolosità della situazione e quest’ultimo si risolve liberamente per il volo, non si può dire che il nipote abbia posto in essere il fatto tipico obiettivo, dal momento che sussisterebbe solamente un’istigazione atipica ad auto-esposizione a pericolo pienamente consapevole e liberamente accettata (17). Però non necessariamente la fattispecie si atteggia in questi termini. È anche possibile che lo zio non si sia rappresentato affatto il pericolo, ovvero, magari per ragioni di età, non abbia potuto decidere liberamente e consapevolmente. Secondo l’impostazione tradizionale si dovrebbe in tale caso negare il dolo di offesa in capo al nipote, nella misura in cui egli non avesse alcun concreto motivo di sospettare un eventuale difetto dell’aereo. Alla luce di tale concezione si dovrebbe affermare che lo spettro rappresentativo del nipote si relazionerebbe solamente al rischio usuale, generico, che lo zio possa divenire vittima di un incidente aereo, non però a un accadimento realmente calato nella situazione (15) Cfr. ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 39 ss.; JESCHECK, in: LK, 11. Ed., 1993, Vor § 13 Rn. 66 e 67; LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 93 e 96. (16) Cfr. la citazione di questo esempio da parte di WELZEL, ZStW 58 (1939), 491, 517, formulato da JESCHECK-WEIGEND, p. 287; LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 93; ROXIN, Honig-Festschr., p. 137; WOLTER (nt. 3), p. 79. Parimenti l’esempio di WELZEL (Strafrecht, p. 66), in cui taluno manda altri nel bosco nell’imminenza di un temporale, con la speranza che costui venga colpito da un fulmine, viene citato da ROXIN nel suo manuale all’inizio dell’introduzione nell’ambito della problematica della dottrina dell’imputazione obiettiva (Allg. Teil I, § 11 Rn. 39). (17) Così già HIRSCH (nt. 3), p. 405.
— 749 — effettiva. Si tratterebbe di una pura speranza, non di una volontà tale da governare il decorso degli eventi, come richiesto dal concetto di dolo (18). In senso contrario i rappresentanti della dottrina dell’imputazione obiettiva adducono che mancherebbe la realizzazione di un pericolo esorbitante dai limiti del rischio consentito — ovvero, con espressione di significato equivalente, la creazione di un pericolo vietato —, e che, per tale ragione, comunque già ab origine andrebbe sempre esclusa la realizzazione della tipicità del fatto — cioè, nell’esempio in questione: dell’omicidio — (19). In realtà, indipendentemente dalla circostanza della sussistenza dei presupposti della consapevole autoesposizione a pericolo, in questo caso sembra poco aderente alla realtà negare solo la dimensione soggettiva, il dolo. La summenzionata giustificazione con la quale l’impostazione tradizionale rifiuta il dolo indica piuttosto che sussistono carenze già sotto il profilo obiettivo, che si rispecchiano nell’ambito soggettivo, tanto che a questo livello può residuare solamente la considerazione di un atteggiamento di speranza. I sostenitori della teoria della c.d. soziale Adäquanz nel caso dello zio ricco hanno prospettato una esclusione della tipicità obiettiva già con l’ausilio del punto di vista dell’adeguatezza sociale. Si tratta tuttavia di una chiave di lettura troppo indefinita, e oltretutto utilizzabile solo rispetto a comportamenti del tutto socialmente adeguati, per potere offrire una soluzione soddisfacente dal punto di vista dogmatico (20). Per tale ordine di considerazioni si giustifica la critica espressa da parte della dottrina dell’imputazione oggettiva dell’evento in questa prima costellazione di casi. (18) Per la negazione solo del dolo in casi di mancata dominabilità di un esito intenzionalmente perseguito: FRANK, SGB, 18. Ed., 1931, § 59 nt. V; BOCKELMANN-VOLK, Allg. Teil, 4. Ed., 1987, p. 65; Arm. KAUFMANN (nt. 3), p. 66 s.; WELZEL, Strafrecht, p. 66 (‘‘Quale volontà di realizzazione il dolo presuppone che l’agente si ascriva la possibilità di incidere sui reali accadimenti. Ciò che secondo il punto di vista proprio dell’agente cade al di fuori della sua possibilità di influenza, può essere oggetto di speranza o di desiderio da parte sua quale casuale collegamento con la propria condotta, ma non di una piena volontà di realizzazione’’). Per tale soluzione del dolo dapprima anche HIRSCH (nt. 3), p. 405 s.; diversamente però già HIRSCH, in: LK, 11. Ed., 1994, Vor § 32 Rn. 32. (19) ROXIN, Honig-Festschr., p. 137; ID., Allg. Teil I, § 11 Rn. 62; LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 93; EBERT, Jura 1979, 561, 569 con ulteriori indicazioni in nt. 31 così come HERZBERG, Stree-Wessels-Festschr., 1993, p. 215 s. (20) Per la soluzione di questo caso con l’ausilio del punto di vista dell’adeguatezza sociale in particolare WELZEL (v. supra nt. 9). A riguardo, nel senso che questa teoria è tuttavia troppo indeterminata per offrire più esatte esplicazioni e sistematizzazioni dogmatiche alternative, già HIRSCH, ZStW 74 (1962), 78, 93 ss., così come ROXIN, Klug-Festschr., vol. 2, 1983, p. 303, 310 con ulteriori indicazioni. L’ambito della problematica in discussione non si esaurisce peraltro a livello della casistica dell’adeguatezza sociale; v. gli esempi in HIRSCH, loc. cit., p. 100. Inoltre WELZEL riteneva di potere risolvere il summenzionato (nt. 15) caso del temporale attraverso la negazione del dolo (Strafrecht, p. 66).
— 750 — b) Quale seconda ipotesi fondamentale di applicazione della teoria dell’imputazione obiettiva rispetto ai fatti dolosi viene citata, come già accennato, quella della deviazione essenziale dal decorso causale che è stato oggetto di rappresentazione. Si tratta notoriamente, con riguardo a tale figura giuridica, della situazione in cui l’evento si verifica in modo diverso rispetto a quello che l’agente si era rappresentato. Un caso spesso menzionato di deviazione non essenziale è quello in cui la vittima gettata da un ponte, contrariamente alle attese dell’agente, non muore affogata, ma urtando un pilone del ponte. Per quel che concerne invece la deviazione essenziale, un corrente esempio è quello in cui l’agente vuole uccidere la vittima con un colpo di pistola, ma la lesione inferta da questo non risulta mortale, tuttavia la vittima muore per un incendio divampato nell’ospedale in cui è stata ricoverata. Secondo tesi tradizionale si tratterebbe di un problema di dolo, ossia della questione se la deviazione sia adeguata, cioè sia tale da potere essere considerata come non essenziale nell’ambito dello spettro della rappresentazione dell’agente, e pertanto come ancora coperta dal dolo (21). Se non si verifica questa ipotesi, nel senso che sussiste dunque una deviazione essenziale, si accerterà se — a prescindere dal permanere degli estremi di un tentativo — sia da assumere la colpa rispetto al verificarsi dell’evento. Di contro la dottrina dell’imputazione obiettiva, rispetto a deviazioni essenziali del decorso causale, nega la sussistenza già del fatto tipico (22). Tuttavia a uno sguardo più attento si rivela come essa recuperi la linea di confine tra deviazioni non essenziali ed essenziali in maniera diversa da quella tradizionale; giacché finora si è trattato solo della determinazione della cornice del contenuto del dolo, cioè di quegli elementi che vanno considerati come coperti dal dolo (23). Pertanto il punto di vista della essenzialità nell’accezione finora esaminata lascia impregiudicata la questione della possibilità della sussistenza di un fatto colposo. Secondo la teoria dell’imputazione obiettiva la demarcazione deve invece essere orientata a stabilire se nell’evento cagionato si sia realizzata la concretiz(21) RGSt. 70, 257, 258 s.; BGHSt. 7, 325, 329; 9, 240, 242; 23, 133, 135; 38, 32, 34; ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, 1930, p. 79; WELZEL, Strafrecht, pp. 66, 73; BAUMANN-WEBER-MITSCH, Allg. Teil, 10. Ed., 1995, § 20 Rn. 24; CRAMER, in: SCHÖNKE-SCHRÖDER, 25. Ed., 1997, § 15 Rn. 55; TRÖNDLE, StGB, 48. Ed., 1997, § 16 Rn. 7. Per una più rigorosa elaborazione dei criteri e limiti vedi SCHROEDER, in: LK, 11. Ed., 1994, § 16 Rn. 23 ss. (22) In questo senso ROXIN (nt. 2), p. 137 e ID., Allg. Teil I, § 11 Rn. 63 s.; JESCHECK (nt. 14), Vor § 13 Rn. 67; LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 96; RUDOLPHI, in: SK, § 16 Rn. 31; WOLTER, ZStW 89 (1977), 649, 673 ss; EBERT, Jura 1979, 561, 569; PUPPE, GA 1981, 1, 14 ss.; PRITTWITZ, GA 1983, 110, 113, 129; DRIENDL, GA 1986, 253, 271 ss.; etc. (23) Cfr. le indicazioni in nt. 20. Questo motivo viene addotto, in senso critico contro l’opinione documentata in nt. 21, già da Arm. KAUFMANN (nt. 3), p. 262 ss. e HIRSCH (nt. 3), p. 404 s.
— 751 — zazione di un pericolo creato dall’agente e non coperto da un rischio consentito. Se tale situazione non si verifica, allora deve ritenersi che a causa della deviazione essenziale manchi il fatto tipico e pertanto non residui più alcuno spazio neppure per la colpa. Già si intravvede un punto critico della dottrina dell’imputazione obiettiva: la generale commistione di criteri attinenti alla tipicità e criteri attinenti alla colpa. D’altro lato si riscontra nuovamente in una parte dei casi di deviazione il fenomeno della mancata possibilità di influenzare gli accadimenti, di cui si è detto in precedenza. Desta perplessità l’affermazione per cui in un caso come l’esempio menzionato dell’incendio in ospedale si realizzerebbe la tipicità obiettiva di un fatto di ‘‘Mord’’ o di ‘‘Totschlag’’ (24). La problematica si chiarisce ulteriormente introducendo una variazione nell’esempio: taluno procura una ferita a un altro con il solo dolo di lesioni corporali collegando inoltre a tale accadimento la speranza che il soggetto colpito muoia coinvolto in un ipotetico incendio in ospedale, e questa evenienza effettivamente per una coincidenza fortuita si realizza. Anche in tale caso nuovamente il fatto che l’agente dal punto di vista soggettivo possa avere solo una speranza e non possa essere in dolo trova fondamento in carenze che risiedono già sul piano oggettivo. c) Quali ulteriori ipotesi di applicazione nell’ambito del dolo vengono menzionate in particolare la diminuzione del rischio e la partecipazione alla dolosa autoesposizione a pericolo di chi sia pienamente responsabile (25). Per quanto concerne i casi di diminuzione del rischio, in mancanza di una ‘‘produzione di rischio’’ devono essere considerate atipiche sul piano oggettivo quelle fattispecie in cui taluno modifica un decorso causale in modo tale ‘‘da ridurre il pericolo già sussistente per la vittima, e dunque da migliorare la situazione dell’oggetto della condotta’’ (26). Viene menzionato l’esempio in cui taluno, vedendo una pietra diretta minacciosamente in testa a un altro, non è in grado di respingerla, ma può deviarla su una parte del corpo meno essenziale dal punto di vista vitale. Qui si dà certamente la causalità del soccorritore rispetto alla concreta lesione; per tale ragione la tradizionale opinione afferma la realizzazione del fatto tipico delle lesioni personali e in casi siffatti assume solamente la esclusione della punibilità per sussistenza della causa di giustificazione del consenso presunto o dello stato di necessità scriminante. Anche secondo i rappresentanti dell’orientamento dottrinale dell’imputazione obiettiva non va trascurato completamente il piano delle cause di giustificazione. (24) N.d.T.: si è preferito riportare la terminologia tedesca, data la difficoltà di rinvenire concetti esattamente corrispondenti in lingua italiana (si potrebbe rendere, approssimativamente, il primo termine con ‘‘omicidio semplice’’, il secondo con ‘‘omicidio aggravato’’). (25) ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 47 s., così come Rn. 43, 90 ss.; LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 94 e 101b con ulteriori indicazioni. (26) ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 47.
— 752 — Stando all’ultimo caso menzionato, se il soccorritore devia la pietra in modo tale che questa vada solamente a rovinare una cosa situata nelle vicinanze della persona in pericolo, anche in base alla teoria dell’imputazione obiettiva deve ritenersi sussistente il fatto tipico di una condotta di danneggiamento. Secondo Roxin ciò, corrispondentemente, significa che se taluno anziché ridurre la portata di un pericolo già sussistente lo sostituisce con un altro il cui verificarsi risulta per l’agente negli effetti meno dannoso di quello che sarebbe stato il pericolo originario, ne deve conseguire la soluzione fondata sui menzionati principi delle cause di giustificazione (27). Può restare aperta la questione se una delimitazione basata su questi punti di vista sia solida. In ogni caso la teoria dell’imputazione obiettiva rende palese che si danno casi di diminuzione del rischio in cui è problematica l’affermazione della tipicità obiettiva del fatto. Delle ipotesi di dolosa autoesposizione a pericolo di soggetto responsabile è già stata fatta parola in precedenza in collegamento con il caso dello zio. Rispetto ad essi si pone uno specifico problema di partecipazione (‘‘Teilnahmeproblematik’’). Il fatto che colui che agisce mettendo direttamente in pericolo se stesso non realizza alcun fatto principale tipico lascia impregiudicata la diversa questione se la persona che lo istiga o lo agevola ricopra realmente solo il ruolo di un partecipe. Questo profilo, come noto, è stato lungamente e a fondo esaminato all’interno del dibattito sulla partecipazione al suicidio (28). Una condotta di partecipazione, in ragione della sua natura essenzialmente accessoria, presuppone tuttavia, perché sia concretata la sua tipicità, un fatto tipico principale posto in essere da chi agisce direttamente. Tale requisito qui manca, cosicché in questi casi non si pone alcun problema dogmatico (29). Si rivela con riguardo ai fatti tipici dolosi come la dottrina dell’imputazione obiettiva, sia pur non rispetto a ciascuna delle ipotesi applicative citate, ma certo rispetto a un’ampia serie di costellazioni di casi, sia utile a smascherare le insufficienze della tradizionale impostazione troppo unilateralmente orientata al dogma causale. Se poi i suoi criteri siano quelli giusti, è questione che va sottoposta a esame critico. 2. In primo luogo vanno ancora però trattati gli esempi fondamentali che sono menzionati dalla dottrina dell’imputazione obiettiva rispetto (27) ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 48. (28) Cfr. in particolare RGSt. 70, 313; BGHSt. 13, 162, 166 s.; 19, 135, 137 ss.; WELZEL, Strafrecht, p. 281; GALLAS, JZ 1960, 686 ss. Come effettivamente la differenziazione sia significativa anche rispetto alla colpa del partecipe viene sottolineato con precisione da BGHSt. 24, 342. D’altra parte questo aspetto viene nondirado omesso in altre decisioni, cosa che riceve critiche nella letteratura; cfr. ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, 25. Ed., 1997, Vor § 211 Rn. 42 s.; HIRSCH, JR 1979, 433; etc. (29) Conformemente si pone la questione con riguardo ai casi addotti da ROXIN (Allg. Teil I, § 11 Rn. 111 ss.) della ‘‘correlazione a sfera di responsabilità altrui’’. I gruppi di casi più ampi assumono solo rispetto alla colpa un interesse pratico — così la messa in pericolo consensuale di terzi — e solo in quella sede sono trattati (v. nt. 33).
— 753 — ai delitti colposi. Si fa riferimento alla connessione di antidoverosità (‘‘Pflichtwidrigkeitszusammenhang’’) che viene richiesta tra condotta contraria all’obbligo di diligenza e evento (30) e ai casi del cosidetto scopo di protezione della norma (31). Rispetto a entrambi si tratta indubitabilmente di punti di vista che si pongono sul piano della fattispecie obiettiva. Inoltre si può parlare con riguardo al delitto colposo, diversamente che con riguardo al delitto doloso, di imputazione di un evento che non è compimento di una condotta abbracciata dalla volontà, ma che ne è solo conseguenza; infatti la condotta vietata nei reati colposi si esaurisce nell’agire volontario che va classificato come contrario all’obbligo di diligenza, per esempio il fatto di tagliare volontariamente una curva con scarsa visibilità. Tuttavia questa ipotesi non offre alcuno spazio per una teoria e per una categorizzazione sistematica generale dell’imputazione obiettiva; infatti la modalità della relazione tra l’agire contrario all’obbligo di diligenza e l’evento è già ricavabile dalle peculiarità proprie del delitto colposo di evento, rispetto al quale si richiede che nell’evento si sia realizzata proprio quella contrarietà all’obbligo di diligenza che è correlata alla condotta antidoverosa (32). Nel caso in cui taluno guidi l’auto con velocità superiore al consentito e investa mortalmente un pedone che abbia contravvenuto alle regole sul traffico, ma questo stesso fatto sarebbe accaduto egualmente anche rispettando il limite di velocità prescritto, il verificarsi dell’evento non si fonda sulla contrarietà all’obbligo di diligenza del comportamento tenuto dal conducente, cosicché manca uno specifico presupposto del delitto colposo di evento (33). Non diversamente si atteggia la problematica nei casi caratteristici dell’ambito tematico inquadrato quale ‘‘scopo di protezione della norma’’, come quello del conducente di (30) ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 68, 76 ss. (‘‘comportamento alternativo lecito’’); JESCHECK-WEIGEND, p. 288 s.; LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 99; EBERT, Jura 1979, 561, 571; rispettivamente con ulteriori indicazioni. Per il requisito della connessione di antidoverosità in generale: BGHSt. 11, 1, giurisprudenza costante; ULSENHEIMER, Das Verhältnis von Pflichtwidrigkeit und Erfolg bei den Fahrlässigkeitsdelikten, 1965; KÜPER, Lackner-Festschr., 1987, p. 247 ss.; PUPPE, ZStW 99 (1987), 595 ss.; TOEPEL, Kausalität und Pflichtwidrigkeitszusammenhang beim fahrlässigen Erfolgsdelikt, 1992. (31) ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 69, 72 ss; JESCHECK-WEIGEND, p. 288; LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 96; EBERT, Jura 1979, 561, 574; rispettivamente con ulteriori indicazioni. (32) WELZEL, Strafrecht, p. 136; HIRSCH (nt. 3), p. 406. (33) Anche la teoria dell’aumento del rischio, sviluppata da Roxin con riguardo alla connessione di contrarietà all’obbligo (v. l’attuale stato del dibattito in ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 76 ss. con ulteriori indicazioni) costituisce una soluzione categoriale concepita con riguardo a una specifica problematica della colpa. Per le obiezioni che vanno addotte contro tale impostazione v. CRAMER (nt. 20), § 15 Rn. 171 ss.; BAUMANN-WEBER-MITSCH, § 24 Rn. 86 s.; Arth. KAUFMANN, Jescheck-Festschr., pp. 273, 277 ss.; SCHLÜCHTER, JA, 1984, 673, 676; ULSENHEIMER, JZ 1969, 364 ss.; HIRSCH, in: LK, 10. Ed., 1989, § 230 Rn. 7 con ulteriori indicazioni.
— 754 — vettura che attraversa un incrocio stradale nonostante il semaforo sia rosso, e così raggiunge più in fretta un determinato punto posto alcune centinaia di metri oltre, dove pur guidando in modo perfettamente regolamentare investe mortalmente un passante che compare improvvisamente camminando sulla strada in violazione delle regole del traffico. Anche qui si tratta di un problema attinente specificamente alla colpa: cioè quello per cui la contrarietà all’obbligo di diligenza del comportamento del conducente va preso in considerazione solo in relazione all’ambito dell’incrocio stradale, e pertanto l’evento successivo non costituisce alcuna manifestazione obiettiva di tale contrarietà a obbligo cautelare (34) (35). 3. Non diversamente stanno le cose rispetto alla tematica, in definitiva ancora da menzionare, della cosidetta connessione di immediatezza nei delitti aggravati dall’evento, che pure viene chiamata in causa quale ipotesi applicativa della teoria dell’imputazione obiettiva (36). Pure in tale contingenza si tratta di una esigenza che non trae origine da un principio dogmatico generale, ma dalle caratteristiche della forma di delitto: cioè dal fatto che nella conseguenza aggravata si realizza proprio quello specifico rischio insito nel fatto di base realizzato dolosamente (37). Per la concretizzazione dei requisiti di fattispecie non possono assolutamente essere sufficienti i criteri di quella teoria, dal momento che essa, nella misura in cui si affiancasse alla colpa necessaria in relazione alla conseguenza aggravata, non avrebbe più alcun autonomo significato. In ragione della peculiare connessione di condizioni bisogna tenere conto proprio (34) Così anche KÜPER (nt. 28), pp. 247, 251. Cfr. ulteriormente rispetto a tale ambito di questioni BGHSt. 33, 61, 64 con ulteriori indicazioni riguardo alla giurisprudenza e alla dottrina, così come con riguardo a tale decisione la presa di posizione in letteratura di EBERT, JR 1985, 356; PUPPE, JZ 1985, 295; STRENG, NJW 1985, 2809. (35) Rispetto agli ulteriori casi applicativi citati da ROXIN (Allg. Teil I, § 11 Rn. 119, § 24 Rn. 42 ss., § 11 Rn. 105 ss.) che possono essere rilevanti per la sfera della colpa, si tratta, con riguardo ai danni da schock per il terzo, di questioni attinenti alla colpa, alle quali va posto in relazione l’obbligo cautelare nell’ambito dell’accertamento della tipicità (cfr. anche BGHZ 56, 163). Nelle ipotesi di danni derivati manca nondirado già la prevedibilità: se essa sussiste, allora la discussione concerne il contenuto dell’obbligo di cura e la connessione di contrarietà all’obbligo. E per quanto riguarda l’esposizione a pericolo di terzo che abbia accordato il suo consenso, si tratta infine di questioni attinenti alla teorica del consenso, che trovano in quella sede la loro coerente soluzione; su questo tema più precisamente HIRSCH, in: LK, Vor § 32 Rn. 94 s., 105 ss. Anche rispetto alla questione del divieto di regresso si deve trattare di un caso applicativo della teorica dell’imputazione obiettiva; cfr. EBERT, Jura 1979, 561, 569; JESCHECK, in: LK, Vor § 13 Rn. 58; JAKOBS, ZStW 89 (1977), 1, 17 ss. Qui tuttavia vengono comunque in questione, nella misura in cui nel caso concreto non manchi già la prevedibilità, specifiche questioni attinenti alla colpa, quelle del contenuto dell’obbligo di cura e della connessione di contrarietà all’obbligo. (36) Un caso applicativo viene contemplato da JESCHECK-WEIGEND, p. 289; WOLTER, GA 1984, 443, 445 (5. principio); e altri. (37) BGH NJW 1971, 152. BGHSt. 31, 96, 98; 32, 25; 38, 295, 298; giurisprudenza costante; STREE, in: SCHÖNKE-SCHRÖDER, § 226 Rn. 3 ss.; tesi maggioritaria.
— 755 — della circostanza che nel caso dei delitti aggravati dall’evento, con l’elevato inasprimento di pena che essi comportano, si ha a che fare con un fenomeno che non può essere ridotto alla mera contingenza del concorso di un delitto doloso e di uno colposo tale da costituire un’unità di reati. Per tale motivo la tradizionale impostazione richiede a riguardo che sia proprio lo specifico pericolo insito nell’evento concreto del fatto-base realizzato dolosamente a concretarsi nella conseguenza aggravata. La preoccupante tendenza della giurisprudenza ad annacquare i requisiti richiesti rispetto ai delitti qualificati dall’evento nel senso di ritenere sufficiente già il rischio specifico dell’atto — e con ciò conseguentemente il rischio già contenuto nella colpa — viene ancor più favorito con l’accoglimento dei criteri dell’imputazione obiettiva (38). Nella misura in cui i sostenitori di questa teoria ritengono che quello della connessione di immediatezza vada riguardato come uno dei casi applicativi, disconoscono il carattere peculiare di tale requisito necessario del delitto qualificato dall’evento e dei criteri particolari da esso implicati. 4. La considerazione dei casi applicativi paradigmatici menzionati dai sostenitori della dottrina dell’imputazione obiettiva mostra come sotto la rubrica ‘‘imputazione obiettiva’’ vengano in realtà unificate questioni dogmatiche del tutto eterogenee. In massima parte si tratta di punti di vista attinenti alla dimensione obiettiva. Ma la loro funzione e il loro contenuto sono fatti derivare da speciali figure giuridiche. Quella teoria reclama di conseguenza di attrarre al proprio interno in porzione rilevante requisiti obiettivi che già in precedenza hanno trovato considerazione accanto alla causalità. La stessa dottrina tradizionale non ha inteso assolutizzare il dogma causale. Piuttosto, nonostante l’orientamento di principio nel senso del primato della causazione dell’evento, è stato riconosciuto già da lungo tempo che per l’affermazione della tipicità obiettiva giocano un ruolo ulteriori parametri oggettivi sotto diversi aspetti — e cioè, precisamente, in ragione di particolari questioni dogmatiche, quali quelle attinenti ai requisiti del delitto colposo o del delitto qualificato dall’evento —. A tale ambito pertiene ulteriormente anche la demarcazione tra la figura dell’autore e quella del partecipe. Notoriamente la teoria soggettiva (38) Con riguardo agli orientamenti giurisprudenziali che considerano sufficiente il rischio derivante dagli atti che compongono l’attività [senza evento], cfr. BGHSt. 7, 37; 14, 110; 31, 96; 41, 113; diversamente ancora RGSt. 44, 59; RG JW 1924, 1735 nr. 29. Contro tale orientamento del BGH: HIRSCH, GA 1972, 65; ID., Oehler-Festschr., 1985, pp. 111, 129 ss.; GEILEN, Welzel-Festschr., 1974, p. 655 ss.; JAKOBS, Allg. Teil, 9/35; KÜPPER, Der unmittelbare Zusammenhang, 1982, pp. 35 ss., 85 ss.; LACKNER-KÜHL, StGB, 22. Ed., 1997, § 226 Rn. 2; RUDOLPHI, in: SK, § 18 Rn. 3; per la soluzione dell’attività [senza evento] v. però STREE, in: SCHÖNKE-SCHRÖDER, § 226 Rn. 4 ss. con ulteriori indicazioni. Del resto anche Roxin si pronuncia per la soluzione dell’evento (Letalitätslehre) con riferimento al § 226 StGB [ora § 227 StGB della nuova versione], cfr. ROXIN, Allg. Teil I, § 10 Rn. 115 s.
— 756 — della partecipazione, che ancora gode di un certo credito in giurisprudenza, germoglia sulle fondamenta della più risalente dogmatica orientata unilateralmente al dogma causale. In ragione dell’accoglimento del principio dell’eguale peso di tutte le condizioni secondo la teoria dell’equivalenza si ritenne allora di potere attuare la delimitazione non in base a criteri oggettivi, ma solo soggettivi (39). Nel frattempo si è tuttavia affermata da parecchio tempo l’opinione secondo cui sono i punti di vista obiettivi a giocare il ruolo decisivo (40). Non si vuole però per tale ragione accogliere l’assunto secondo cui la demarcazione tra la figura dell’autore e quella del partecipe si risolverebbe in una questione di imputazione obiettiva. Piuttosto è chiaro che si tratta non di un principio generale di imputazione, ma di un problema di graduazione (41). Va ricordato ulteriormente a riguardo che si danno disposizioni penali rispetto alle quali l’inizio dell’azione penalmente rilevante viene espressa attraverso l’esatta tipizzazione della condotta già a livello obiettivo, per esempio rispetto a contrassegni come ‘‘giurare’’ o ‘‘guidare autoveicoli’’ (42). Necessitano realmente ancora di una esplicazione in via residuale solo le problematiche, peraltro di interesse prevalentemente teorico, che si originano dall’accertamento della causalità rispetto al passato, nonché i casi menzionati della impedita possibilità di influire su di un accadimento rispetto ai fatti dolosi. L’ambito delle fattispecie con riguardo alle quali la dottrina dell’imputazione obiettiva potrebbe portare a nuovi risultati pratici è pertanto veramente limitato. Tuttavia è un dato di fatto, come già rileva Lenckner (43), che essa è divenuta ‘‘tema centrale’’ del dibattito dogmatico. III. 1. L’analisi teorica verterà da questo punto in poi su quella che proprio secondo il punto di partenza sistematico costituiva la prima questione. Il termine ‘‘imputazione’’ comporta il pericolo, rispetto alla problematica in discussione, di intendere l’imputazione dell’evento nel si(39) V. BURI, Die Kausalität (nt. 13), p. 41. Cfr. a riguardo anche ENGISCH, Kausalität als Merkmal der strafrechtlichen Tatbestände, 1931, p. 41 ss. (40) Cfr. anche le indicazioni ricavabili da ROXIN, in: LK, 11. Ed., 1993, § 25 Rn. 10, così come KÜPPER, GA 1986, 437 ss. (41) Tuttavia da parte della teoria dell’aumento del rischio, che peraltro si considera come sottoipotesi della dottrina dell’imputazione obiettiva (v. supra nt. 31), viene messa in gioco l’idea dell’aumento del rischio in connessione con il problema della causalità nella complicità. A riguardo già in senso critico KÜPPER (nt. 3), p. 112 ss. con indicazioni. La sentenza BGH NStZ 1997, 272 n. 2, nonostante l’utilizzo dell’espressione ‘‘aumento del rischio’’ non è riconducibile alla teorica in questione, dal momento che in quella sede si trattava di un contributo causale alla condotta di frode. (42) Con riguardo a peculiarità dell’inizio dell’azione sussistenti nondimeno anche rispetto all’actio libera in causa vedi HIRSCH, NStZ 1997, 230, 231. (43) LENCKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 91.
— 757 — gnificato di responsabilità secondo i canoni civilistici (‘‘Haftung’’) (44). È di dominio delle nozioni di dottrina generale del diritto che bisogna distinguere nettamente tra colpevolezza, cioè comportamento colpevole, e responsabilità, cioè il rispondere per un evento cagionato (45). Per quanto concerne la responsabilità si considera l’accadimento dal punto di vista dell’evento verificatosi, poiché la sussistenza della stessa non presuppone come necessario l’essere colpevole, ma può aversi anche attraverso ascrizione dell’evento al soggetto responsabile in ragione della sfera di rischio o di personali relazioni nei confronti di terzi. Rispetto alla colpevolezza invece il profilo cruciale è dato dal comportamento contrario alla norma. Per il diritto penale è decisivo, conformemente alla sua natura, avendo riguardo alla funzione di disciplina, la colpevole infrazione di norme di comportamento, dunque di divieti o comandi, nonché il contenuto degli stessi in relazione all’evento. Ora, poiché però divieti e comandi hanno ad oggetto delle condotte — rispettivamente, i divieti condotte commesse, i comandi condotte omesse —, su cui l’intero sistema dogmatico poggia le fondamenta e che storicamente sono già state esaminate a fondo anche dalla dottrina dell’imputazione penale (46), la questione primaria è del seguente tenore: si deve affermare che dietro le carenze evidenziate dalla dogmatica tradizionale con riguardo ai presupposti della fattispecie tipica obiettiva si celino già carenze della dottrina dell’azione finora prevalente? Scrive Roxin all’inizio della sua esposizione sulla fattispecie tipica obiettiva: è ‘‘da spiegare come debba essere caratterizzata la relazione intercorrente tra soggetto del delitto ed evento, affinché si possa imputare l’evento a un determinato soggetto del delitto come sua azione’’ (47). Nella stessa sede l’Autore afferma che occorre accertare che l’evento sia opera dell’autore, e con riguardo al suo esempio, già menzionato, del danneggia(44) Il ricorso all’angolo visuale della responsabilità civilisticamente intesa (‘‘Haftungsgesichtspunkt’’) si rinviene oggi già molto chiaramente nell’ambito di un altro settore problematico di attualità: quello della punibilità delle imprese. In tale sede si parla spesso della questione della ‘‘strafrechtliche Haftung’’ [N.d.T.: l’espressione tedesca potrebbe rendersi con ‘‘responsabilità penale da danno’’; ma, ancora una volta, pare preferibile mantenere la più icastica espressione tedesca] (in senso contrario già HIRSCH, Die Frage der Straffähigkeit von Personenverbänden, 1993, p. 13 con nt. 41, 24). Inoltre colpisce che persino in una decisione del BGH (BGH NStZ 1997, 272 n. 1) si faccia uso dell’espressione ‘‘strafrechtliche Haftung’’ come se fosse ovvia. (45) Questa differenziazione salta all’occhio in modo particolarmente vistoso in diritto civile, laddove in presenza di certi presupposti si risponde anche senza colpevolezza per il danno cagionato a un terzo, cioè lo si deve compensare. Cfr. a riguardo nell’ambito della più recente letteratura civilistica LAUFS, Gernhuber-Festschr., 1993, p. 245 ss. (46) Con riguardo al dato di fatto che nella storia della teoria dell’imputazione penale si è sempre dato primario risalto al problema dell’azione, più precisamente KÜPPER (nt. 3), p. 83 ss. così come KORIATH (nt. 3), pp. 102 ss., 330 ss. (47) ROXIN, Allg. Teil I, § 10 Rn. 55, laddove ulteriormente specifica che si denomina la determinazione dei presupposti ‘‘imputazione al fatto tipico obiettivo’’.
— 758 — mento reale spiega che vanno selezionati quei comportamenti causali per l’evento ‘‘che possono valere come azioni di danneggiamento’’. Dal momento che egli, all’unisono con la maggioranza degli altri rappresentanti della dottrina dell’imputazione obiettiva, è dell’opinione che il significato del concetto di azione comunque consista nel delimitare ad excludendum quelle forme di causazione rispetto alle quali l’uomo opera solo come massa meccanica ovvero effettua meri movimenti riflessi (48), di conseguenza la prospettiva dell’azione diviene immediatamente evanescente di nuovo, e sono degli aspetti normativi a dominare il campo. Fin dall’inizio la questione dell’azione esce di scena allorché l’attenzione si concentra unicamente sul tema dell’attribuzione, una osservazione questa della svalutazione della centralità delll’azione che risalta in tutta evidenza rispetto alla concezione di Jakobs, il quale costruisce il sistema dell’imputazione sulla base della definizione di sfere di competenza personale (49), attraverso cui la dogmatica finisce col perdersi in pure divagazioni classificatorie, esplicazioni immaginifiche e asserzioni che cancellano la distinzione tra agire colpevole e responsabilità di tipo aquiliano. Prima di venire a trattare direttamente della questione concernente eventuali carenze della dottrina dell’azione come concepita fino ad oggi, è indispensabile ancora un secondo fondamentale accertamento: come mai i sostenitori dell’imputazione obiettiva parlano proprio di imputazione giuridico-penale (‘‘strafrechtliche Zurechnung’’)? Rispetto al fatto illecito, come già sottolineato, non è competente solamente il diritto penale, ma anzi a questo di regola spetta solo una funzione di rafforzamento della tutela: quella cioè di prevedere una conseguenza giuridica più grave, la pena, per un comportamento sanzionato già in un altro settore dell’ordinamento come contrario all’obbligo o al divieto. L’opinione maggioritaria prende pertanto le mosse anche giustamente dall’idea dell’unitarietà dell’ordinamento (50). Per tale ragione si potrebbero trattare solo quegli specifici punti di vista penali che stanno in connessione con l’armatura penale di un illecito dato. Ma a prescindere completamente dal fatto che ben difficilmente sono rinvenibili parametri generali specifici del diritto penale dai quali si possano fare discendere con esattezza scientifica delimitazioni della fattispecie tipica obiettiva, i casi in questione palesano che rispetto ad essi manca già dall’inizio l’infrazione della norma. Nel caso dello zio (48)
Vedi ROXIN, Allg. Teil I, § 8 Rn. 44, 46 ss.; JESCHECK-WEIGEND, p. 224 s.; LEN-
CKNER (nt. 3), Vor § 13 Rn. 37 ss. Alcuni autori ritengono persino che sia possibile rinun-
ciare del tutto al requisito dell’azione, laddove però i divieti sottesi all’illecito tipico verrebbero privati del loro contenuto. Per la tesi dell’irrinunciabilità più precisamente HIRSCH, ZStW 93 (1981), 831, 844 ss. e ora anche ROXIN, loc. cit. (49) JAKOBS, Allg. Teil, 7/47 ss., 7/56 ss.; ID., Arm. Kaufmann-Gedächtnisschr., 1989, pp. 271, 283 ss.; ID., Der strafrechtliche Handlungsbegriff, 1992, p. 31 ss. (50) Cfr. a riguardo HIRSCH, in: LK, Vor § 32 Rn. 10 con ulteriori indicazioni (anche sulla concezione opposta).
— 759 — per esempio non è certo la meritevolezza o il bisogno di pena a mancare in primo luogo, ma già tout court l’illiceità del fatto. Rispetto alla problematica oggetto di discussione si tratta di punti di vista che riguardano in generale l’illiceità giuridica del caso di volta in volta in questione. Tutto ciò depone a favore di una considerazione delle questioni affiorate nel contesto della dottrina generale dell’illecito, il che riporta il discorso al punto di partenza di questa, cioè all’agire contrario alla norma. 2. Sarà oggetto di nostro interesse dunque la dimensione obiettiva dell’azione contraria alla norma. Si può ritenere questa realizzata in qualche modo già per il fatto che taluno pone in essere un contributo causale equivalente per il rispettivo evento? Nell’esempio citato da Roxin può affermarsi che il produttore della cosa successivamente danneggiata da un altro ha commesso una condotta di danneggiamento? Chiaramente no, e la motivazione di tale soluzione si impone con assoluta evidenza, per il fatto che nell’attività di produzione non può essere ravvisato un inizio dell’azione di danneggiamento. Questa inizia piuttosto solo quando la persona in questione, direttamente o eventualmente attraverso utilizzo di un agente strumentale (‘‘Werkzeug’’), incomincia a innescare l’effettivo processo di danneggiamento. Rispetto a ciò non si tratta meramente di un’argomento di diritto positivo ricavato dal § 22 StGB. Tale disposizione piuttosto dà espressione solo a una generale visione dogmatica: cioè che la verificazione dell’inizio dell’azione di volta in volta in questione necessita della diretta impostazione della sua esecuzione. Inoltre appare chiaro come si tratti di una concezione già pre-giuridica, dal momento che il problema dell’inizio dell’azione si pone per natura rispetto a ogni comportamento umano. Pertanto non intraprende un’azione di riparazione né il costruttore del tetto della casa che successivamente sia stato aggiustato da un conciatetti, né il produttore dei mattoni con i quali sia avvenuta tale riparazione. Un’operazione di questo tipo non è ancora l’inizio di una tale azione, ma tutt’al più — rispetto ai mattoni utilizzati per la riparazione — una porzione degli atti preparatori di questa. Che si tratti dell’inizio dell’azione obiettivamente tipica viene confermato dal caso in cui lo stesso autore successivo abbia sviluppato attività causali precedenti. Chi dapprima produce l’esplosivo e con questo successivamente seguendo un piano preciso uccide un altro, ha incontestabilmente iniziato l’azione tipica di omicidio già solo al momento in cui egli si accingeva alla diretta esecuzione. Ciò che è accaduto in precedenza, è stato niente più che un’azione di preparazione. La demarcazione dell’inizio dell’azione tipica rispetto ai fatti antecedenti è indipendente dalla circostanza che si tratti di tentativo o di consumazione. Qualora sia in atto l’inizio dell’azione tipizzata nella fattispecie e diretta a un evento che però non viene ad esistenza, non cambia nulla se l’evento si verifica. Ciò in quanto il verificarsi dell’evento è solo la realizzazione allo stadio di consu-
— 760 — mazione dell’azione iniziata nel momento del tentativo. La problematica in questione si pone nei seguenti termini: è necessario che vi sia l’inizio dell’azione tipica perché si possa attribuire alla causalità la rilevanza penale che deriva dalla relativa azione. Che assumano importanza i criteri dell’inizio dell’azione significa per la dottrina dell’imputazione obiettiva dell’evento che il criterio da essa utilizzato della creazione di un ‘‘pericolo’’ certamente segna una direzione vicina a quella da accogliere, ma non esprime il profilo decisivo. Comunque su questo punto quella teoria pecca di notevole indeterminatezza. Se infatti il criterio del ‘‘pericolo’’ dovesse essere interpretato come determinazione di una situazione di rischio, ciò significherebbe che dovrebbe sussistere già un delitto di pericolo concreto. Questo comporterebbe tuttavia una frizione rispetto ai delitti di pericolo astratto, ma prima ancora non renderebbe possibile la distinzione in relazione ai vari tipi di reati di pericolo, dato che rispetto alla situazione di rischio, analogamente a quanto accade in ragione del dogma causale in relazione all’evento tipico di lesione, ogni causalità sarebbe sufficiente. Più precisamente si comprende la teoria dell’imputazione obiettiva se ci si sofferma su di una caratteristica dell’azione, quella cioè di produrre un rischio in relazione all’evento (51). A riguardo è anche condivisibile che una condotta, per concretare gli estremi di un’azione tipica rispetto alla verificazione dell’evento, debba essere adatta alla realizzazione dell’evento stesso. D’altra parte è la dottrina del tentativo a mostrare come la pericolosità ancora non sia requisito sufficiente perché possa parlarsi di inizio dell’azione (52). Il rischio che (51) Più precisamente LENCKNER nella sua definizione parla di ‘‘rischio dell’evento’’; (nt. 3), Vor § 13 Rn. 92. Ma anche tale Autore menziona l’apprestamento di un tale rischio e il ‘‘pericolo’’ insito. Tuttavia non si tratta della produzione di un evento intermedio (situazione di pericolo per il relativo oggetto del fatto) — con cui resterebbe non delimitata l’estensione della causalità —, ma di una caratteristica del comportamento stesso. Per la distinzione tra rischio (pericolosità) di un comportamento e pericolo per un determinato oggetto giuridico vedi HIRSCH, Arth. Kaufmann-Festschr., 1993, p. 545 ss. I concetti vengono in generale differenziati in modo non chiaro nell’esposizione della dottrina dell’imputazione obiettiva. (52) Per i requisiti dell’ ‘‘immediato accingersi’’ rispetto al tentativo più in particolare MAURACH-GÖSSEL, Allg. Teil II, 7. Ed., 1989, § 40 Rn. 45 ss.; RUDOLPHI, in: SK, § 22 Rn. 7 a ss. La pericolosità del comportamento viene in discussione solo in collegamento con ulteriori criteri delimitativi. D’altra parte il verificarsi di una situazione di minaccia per l’oggetto della condotta costituisce già un evento e con ciò una fase temporale troppo avanzata, come conferma anche l’esistenza di delitti di pericolo concreto. Rispetto al tentativo inidoneo l’inizio del tentativo si determina conformemente al § 22 StGB, secondo una misura obiettiva — relazionata alla rappresentazione dell’Autore — eguale a quella del tentativo idoneo. Ciò lascia tuttavia impregiudicato il fatto che la teoria maggioritaria in tema di tentativo, quella soggettiva (inclusa la sua versione modificata attraverso la teoria dell’impressione) non è dogmaticamente sostenibile, e piuttosto sembra doversi segnalare un ritorno della scienza alla più recente teoria obiettiva. Attraverso il dibattito sulla dottrina dell’imputazione obiettiva viene allo stesso tempo in questione il rilievo
— 761 — una condotta tragga con sé un evento tipico sussiste anche già rispetto agli atti preparatori. Chi, avendo in piano di compiere un omicidio, compra un’arma o si reca sul luogo del fatto si comporta già in modo pericoloso per la vita della vittima designata. Tuttavia non può certo dirsi che egli abbia cominciato la condotta di omicidio — che è ciò che veramente conta —. Di conseguenza, il punto di vista del ‘‘pericolo’’ o rispettivamente del ‘‘rischio’’ non può fornire quegli elementi che i sostenitori della dottrina dell’imputazione obiettiva vogliono conseguire con essa. Esaminando se con i criteri del tentativo sia possibile comprendere anche i summenzionati casi della mancanza di possibilità di influsso sugli accadimenti (esempio dello zio) e della deviazione assolutamente essenziale del decorso causale (esempio dell’incendio nell’ospedale) (53), si può accertare che in entrambe le costellazioni di casi manca già la misura oggettiva di una condotta di omicidio. L’ ‘‘autore’’ ha certamente desiderato la morte della vittima, ma il suo contributo causale in relazione al concreto evento letale non ha costituito ancora un accingersi alla condotta di omicidio. La ragione di ciò consiste nel fatto che un’azione richiede il dominio sul decorso causale da essa innescato. Se la concreta verificazione dell’evento è affidata al caso al di fuori del controllo dell’autore, non sussiste fin dall’inizio alcuna azione diretta alla realizzazione dell’evento (54). Il punto di vista del dominio del decorso causale del resto non è estraneo alla dogmatica penalistica. Introdotto da Welzel all’interno della dottrina della partecipazione, è stato in quella stessa sede successivamente ulteriormente sviluppato da Roxin (55). Nell’ambito del dibattito sull’imputazione obiettiva dell’evento viene inoltre fatto notare come esso emerga reiteratamente nello sviluppo storico della dottrina dell’azione (56). Sul suo significato generale per la tipicità obiettiva dell’azione ha già richiamato l’attenzione l’autore di questo contributo tre decenni orsono (57). La considerazione che d’altra parte l’orientamento unilaterale al conper cui senza che vi sia un rischio — da determinarsi secondo prospettiva ex ante — di una consumazione del fatto non può sussistere alcun inizio reale di un’azione di realizzazione dell’evento. (53) Per la distinzione tra casi di deviazione relativamente essenziale, rispetto ai quali si tratta primariamente di una questione di dolo, e casi di deviazione assolutamente essenziale, in cui in mancanza di un’obiettiva dominabilità viene in considerazione già un problema di assenza del fatto tipico obiettivo v. supra II 1b. (54) KÜPPER (nt. 3), p. 92 s. (54) V. WELZEL, ZStW 58 (1939), 491, 543 ss.; ID., Strafrecht, p. 100 ss., così come ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, 1963, p. 107 ss. [nel frattempo 6a ed.]. Ulteriormente ROXIN nella sua esposizione del concetto di azione parla di manifestazione esteriore della personalità ‘‘dominata o dominabile’’: cfr. Allg. Teil I, § 8 Rn. 44. (56) Cfr. le affermazioni di KÜPPER (nt. 3), p. 85 ss. (57) Cfr. HIRSCH, ZStW 74 (1962), 78, 98.
— 762 — cetto di ‘‘pericolo’’ ovvero di ‘‘rischio’’ risulti riduzionistico rispetto alla problematica non viene certo compensata con l’ulteriore criterio, secondo l’esigenza espressa dalla teoria dell’imputazione obiettiva, per cui il ‘‘pericolo’’ (il ‘‘rischio’’) si deve fondare su un comportamento che oltrepassa i limiti del ‘‘rischio consentito’’, dunque — secondo la conseguente formulazione di Jescheck e Lenckner — un comportamento vietato (58). L’interrogativo cui si cerca di dare risposta è se il comportamento dell’autore concreti gli estremi del fatto ricompreso dal diveto rilevante in relazione all’evento tipico. La contingenza di essere vietato non può costituire presupposto della sua stessa esistenza. La sussistenza di una condotta di omicidio non dipende dal fatto che essa sia vietata. Qualora però essa si verifichi, allora concreta i presupposti del fatto tipico del § 212 StGB, senza che ciò dipenda da una specifica considerazione del divieto. Del resto la costruzione di un simile punto di vista normativo avrebbe come conseguenza che l’errore sul divieto diverrebbe un errore escludente il dolo. Questo assunto però si porrebbe in contraddizione con la Schuldtheorie, che giustamente separa la coscienza dell’illiceità dal dolo, e il suo ancoraggio nel § 17 StGB (59). Sullo sfondo dell’accoglimento di quel parametro normativo da parte della dottrina dell’imputazione obiettiva possono individuarsi innanzitutto ipotesi come quella in cui taluno attraverso un comportamento giudicabile come giuridicamente conforme all’obbligo di cura, poniamo condurre l’auto nell’osservanza delle regole del traffico, desidererebbe realizzare un evento tipico ed esso effettivamente si verifica, ad es. un incidente mortale di cui sia responsabile solo l’altro conducente. Effettivamente qui la soluzione di negare unicamente il dolo non è soddisfacente. Che vada esclusa la sussistenza già del fatto tipico obiettivo si può tuttavia spiegare anche in questa ipotesi in base ai criteri sviluppati in precedenza: manca infatti una condotta che realizzi l’evento. Quando in una società i comportamenti sono conformi all’obbligo di cura e si mantengono pertanto completamente all’interno della cornice della normalità sociale, può negarsi che essi costituiscano un mezzo con cui si intende realizzare un dominio del decorso causale. Certo rispetto al ‘‘rischio consentito’’ si ha a che fare con una figura giuridica. La determinazione dei confini dell’ambito socialmente adeguato che discende da essa ha però come effetto che la generalità si regola secondo le norme corrispondenti e pertanto tali comportamenti conformi alle aspettative sociali non possono essere contrassegnati (58) Vedi, con riguardo a tale requisito della teoria dell’imputazione obiettiva, le indicazioni supra nt. 4 e 5. (59) In questo direzione si orienta già la critica di Arm. KAUFMANN (nt. 3), p. 261. Anche se si parla, invece che di rischio ‘‘vietato’’, di ‘‘superamento del rischio consentito’’, comunque l’errore su di esso, cioè l’errore sulla qualifica di non consentito, sarebbe un errore sul divieto.
— 763 — come premessa di un omicidio, di un fatto di lesione o di danneggiamento. Il deficit sul piano obiettivo dell’azione si riflette nella sfera soggettiva nel senso che un dolo che sia orientato al dominio del decorso causale non può venire in questione, ma ad apparire è al più l’intenzione dell’autore intesa unicamente come speranza. Già il quivis de populo del resto respingerebbe l’idea che vada ascritto l’inizio di una condotta di omicidio semplice (‘‘Mord’’) o aggravato (‘‘Totschlag’’) a chi viaggiando con l’auto secondo le regole del traffico speri di potere provocare in tal modo un incidente mortale. Dalle menzionate motivazioni sorgono inoltre dubbi sulla questione se al requisito, contenuto nella definizione dell’imputazione obiettiva, consistente nel fatto che il comportamento sia vietato spetti in genere un significato autonomo all’interno della dottrina dell’imputazione obiettiva (60). Se in una società certe azioni sono accettate come conformi agli obblighi di cautela e pertanto si muovono nella cornice del socialmente normale, chi mantenga la propria condotta all’interno di tali confini si comporta secondo l’opinione comune in modo non rischioso. A un conducente che guida in modo assolutamente corretto nessuno rimprovererà di avere agito in modo rischioso. All’opposto, solo se egli oltrepassi i limiti della guida secondo le regole sulla circolazione stradale. Pertanto rispetto a un comportamento corretto è già proprio la pericolosità della concreta condotta di guida et similia a dovere essere negata. Poiché però la pericolosità si determina secondo l’obiettiva prevedibilità di un possibile evento, la definizione della imputazione obiettiva, una volta ridotta alla pericolosità del comportamento, non si allontanerebbe di molto dalla teoria, già nota da lungo tempo alla dottrina, della adeguatezza. Si dimostra con ciò che anche quel requisito non è adducibile come argomento per suffragare la dottrina dell’imputazione obiettiva. Allo stesso modo si conferma anche alla luce del menzionato gruppo di casi della diminuzione del rischio che la teoria dell’imputazione obiettiva non offre alcun efficace criterio risolutivo. Anche qui la soluzione è conseguenza già dei presupposti della condotta. A riguardo bisogna considerare il caso in cui taluno si avventi sul braccio di altri che con una coltellata intenda recare una grave ferita alla vittima, in modo tale che il colpo, invece che investire la prevista parte del corpo, si risolve in un leggero graffio. Qui manca già la realizzazione da parte del soccorritore di un evento, dal momento che il suo impiego di energia ha solamento ridotto la portata di quello che avrebbe procurato l’agente, e l’evento realizzatosi in concreto in ogni caso sarebbe stato ricompreso nell’evento più grave avuto di mira dall’agente. La questione sollevata dalla teoria dell’imputazione obiettiva si pone nei seguenti termini, se possa essere ne(60)
Vedi a riguardo anche Arm. KAUFMANN (nt. 3), pp. 260 e 266.
— 764 — gata la sussistenza del fatto tipico obiettivo delle lesioni personali anche nel caso in cui il soccorritore procuri alla medesima persona una lesione diversa, ma meno grave. Limitatamente alla ferita concretamente inflitta, in letteratura è già stata richiamata l’attenzione sul fatto che il soccorritore a tale riguardo ha posto in essere o comunque concorso a porre in essere il pericolo, cosicché tale ferita dovrebbe essergli imputata anche a livello obiettivo (61) (nella misura in cui non si volesse prendere in qualche modo in considerazione, rispetto al profilo dell’esistenza del divieto, il consenso presunto già sul piano del fatto tipico obiettivo, il che potrebbe accentuare ulteriormente la frizione di carattere dogmatico). Diversamente va impostata la questione solo se si considerano le condizioni fisiche della vittima in modo unitario e in ragione di ciò si addiviene a un apprezzamento complessivo anche in rapporto al danno fisico ad essa arrecato. Il soccorritore dunque, deviando il colpo sferrato dall’aggressore in modo da produrre una ferita più lieve, non avrebbe realizzato alcun evento di lesione, allo stesso modo del caso di partenza. Tutto questo si risolve però in una questione di determinazione dell’oggetto dell’azione — comune già alla tematica dell’intervento chirurgico terapeutico (62) — e non ha nulla a che vedere con i requisiti generali proposti dalla dottrina dell’imputazione obiettiva. In generale, con riguardo alle fattispecie tipiche dolose, si può dare per acclarato dopo tutto che la dottrina dell’imputazione obiettiva certamente permette di mettere in luce profili problematici e ne mostra la rilevanza per la definizione della fattispecie tipica obiettiva, ma che non è in grado di rinvenire i criteri risolutivi. Rispetto a tali delitti essa non solo non è indipensabile, ma non è neanche appropriata. 3. Sorge la questione su come rilevino rispetto al reato colposo le considerazioni svolte con riguardo al delitto doloso. La teoria dell’imputazione obiettiva adduce a giustificazione delle proprie asserzioni il fatto di riuscire a unificare sotto una unica fattispecie obiettiva tipica delitti dolosi di evento e delitti colposi (63). Se si aggiunge che secondo la dottrina maggioritaria la prevedibilità individuale rappresenta solo un problema di colpevolezza nell’ambito del delitto colposo, ne consegue inoltre che se(61) Cfr. MAIWALD, Miyazawa-Festschr., p. 478. Se quale motivazione della circostanza che qui debba essere negata la tipicità obiettiva del fatto per mancanza della possibilità di obiettiva imputazione viene addotto, attraverso argomentazione di carattere normativo, che la riduzione del danno non potrebbe costituire alcuna messa in pericolo giuridicamente vietata per l’oggetto dell’azione (JESCHECK-WEIGEND, p. 287), sorge allora la questione come possa accordarsi con una simile valutazione il fatto che nel caso sopra (II/1/c) menzionato, in cui il soccorritore riesce addirittura a ridurre gli accadimenti a una lesione della proprietà, non è possibile passare all’affermazione della tipicità del fatto (solamente scriminato). (62) Più approfonditamente HIRSCH (nt. 31), Vor § 223 Rn. 3. (63) ROXIN, Allg. Teil I, § 11 Rn. 44, § 24 Rn. 10 ss.
— 765 — condo la teoria dell’imputazione obiettiva il fatto tipico del delitto colposo nella sua globalità è identico al fatto tipico del delitto doloso di evento (64). Il delitto doloso diviene dunque un fatto tipico qualificato dal dolo rispetto al corrispondente delitto colposo. Ma corrisponde una simile costruzione effettivamente al dato di fatto reale? Viene alla mente il livellamento della tipicità del delitto doloso e colposo operato dalla teoria causale dell’azione, con la quale molte distinzioni materiali erano state cancellate. La distinzione materiale che in primo luogo rimane obliterata con la teoria dell’imputazione obiettiva è già stata in precedenza oggetto di attenzione: l’azione tipica rispetto al delitto doloso può iniziare solo con lo stadio del tentativo. L’azione contraria all’obbligo di cura che risulta determinante per il delitto colposo può invece collocarsi già in una fase temporale precedente. Su questo aspetto ha posto l’accento recentemente anche il BGH (65). Se ad esempio un architetto contravvenendo all’obbligo di cura costruisce un edificio in modo tale che in caso di incendio gli inquilini dell’ultimo piano non abbiano alcuna possibilità di uscire vivi, ed effettivamente alcuni anni dopo si verifica una simile catastrofe, la precedente condotta negligente costituisce il fondamento della punizione per omicidio colposo. Al contrario, l’inadeguata tecnica di costruzione che ha condotto alla morte degli inquilini non sarebbe sufficiente come fondamento di un omicidio doloso, anche nell’eventualità in cui l’architetto avesse ricollegato al proprio agire la speranza che in futuro si verificasse un simile incendio. Ciò perché la condotta contraria all’obbligo di cura comunque non è tale da porre in essere l’inizio di una condotta di omicidio; questa deve sempre dirigersi a un accadimento concretizzato. Ancora un altro esempio può contribuire a illustrare la distinzione: un infermiere apre (servendosi di false attestazioni di titoli) uno studio medico. Dopo qualche tempo accade che egli, per mancanza di adeguate conoscenze specialistiche, omette di prescrivere un medicamento necessario secondo le leges artis a un paziente, cosicché questi muore. In questo caso sussiste un agire contrario all’obbligo di cura, consistente già nell’assunzione dell’attività (c.d. colpa per assunzione). Naturale sarebbe però non vedere nell’apertura dello studio medico già l’inizio, necessario per la sussistenza di un fatto doloso, di una condotta concreta di omicidio, qualora l’infermiere avesse accettato la possibilità del caso di morte. La differenziazione si spiega da un punto di vista dogmatico con il fatto che rispetto al delitto colposo si tratta di una condotta rischiosa che ha come ripercussione il verificarsi dell’evento. Con riguardo al delitto doloso invece si ha a che fare con una condotta concreta di realizzazione dell’evento. (64) Così espressamente ROXIN (nt. 61); YAMANAKA, ZStW 102 (1990), 928, 944. (65) BGHSt. 42, 235, 236 s.
— 766 — Mentre rispetto al delitto doloso i limiti generali del fatto tipico obiettivo non coincidono con il concetto di condotta, nel caso del delitto colposo, a causa della mancanza di una stretta connessione tra l’azione rischiosa oggetto della valutazione di contrarietà al dovere di cautela (es. il viaggiare a velocità troppo elevata) e l’evento concreto, sono necessari ulteriori criteri accanto a quello della causalità per fondare il legame tra la dimensione di contrasto con l’obbligo di cura propria dell’azione e l’evento verificatosi. In questo ambito è questione di esigenze che conseguono dalla struttura del delitto colposo. Queste pertanto, almeno nella misura in cui costituiscono punti indiscussi (come in sostanza può affermarsi per la teoria dell’aumento del rischio) (66), sono riconosciute già indipendentemente dalla teoria dell’imputazione obiettiva, cosicché quest’ultima non apporta rispetto alla colpa nulla che non sia derivabile già dalle peculiarità del delitto colposo. Inoltre la problematica discussa in precedenza rispetto al delitto doloso, consistente nella proposizione per cui la causalità rimanda illimitatamente al passato, non ha alcuna corrispondenza nell’ambito del delitto colposo. Ciò perché attraverso i requisiti richiesti dalla tipicità, quelli per cui deve sussistere un’azione da valutarsi come oggettivamente contraria all’obbligo cautelare, ha luogo una delimitazione delle condotte rischiose rilevanti ai fini della tipicità. Si dimostra in questo modo come la dottrina dell’imputazione obiettiva non rappresenta alcun guadagno neanche per il delitto colposo. Costituisce solo una sintesi costruita su clausole generali di aspetti singoli che sono condizionati dalla specifica struttura del delitto colposo. Soprattutto però è diventato chiaro che la critica che sta al centro del dibattito, e che si sarebbe dovuta rivolgere alla dottrina dell’imputazione obiettiva in riferimento al fatto tipico doloso, viene confermata dalla differenziazione a livello di tipicità tra delitto doloso e delitto colposo. IV. La dottrina dell’imputazione obiettiva ha il merito di avere dato consapevolezza del fatto che la delimitazione soggettiva, scaturente dalla teoria dell’illecito personale, dell’ampio concetto di fatto tipico dispiegato dal dogma causale non è sufficiente, ma sono necessarie anche restrizioni sul piano oggettivo. Rispetto alla maggior parte dei casi presi in considerazione tale dottrina potrebbe meritare approvazione con riguardo alla conclusione della mancanza già della fattispecie tipica oggettiva. Il fatto che la teoria sia nondimeno da criticare è considerazione che discende dalla visuale metodica che ne costituisce fondamento e dalle frizioni di carattere dogmatico che conseguono dal suo accoglimento. Dal punto di vista del metodo, i rappresentanti della corrente dottri(66) In riferimento a tale teoria in senso critico supra nt. 31 con ulteriori indicazioni.
— 767 — nale della imputazione obiettiva procedono partendo dalla causazione dell’evento e cercando criteri di delimitazione nella valutazione, per poi ordinarli. Quasi tutto ciò che in qualsiasi modo sul piano del fatto tipico obiettivo, eccedendo i requisiti speciali della singola disposizione penale, deve aggiungersi alla causalità, diviene un’ipotesi applicativa di imputazione obiettiva. Questa ascrizione normativa è favorita dall’accentuato normativismo della corrente dogmatica oggi dominante in Germania (67). Come si è dimostrato in precedenza, la conseguenza di ciò è il profilarsi di notevoli ‘‘faglie’’ dogmatiche. Rispetto alle fattispecie dolose — a differenza delle fattispecie colpose, concepite secondo clausole generali e per questo bisognose di criteri aggiuntivi — l’accoglimento di generali punti di vista normativi (e tanto più quando essi sono indeterminati) porta a una pericolosa relativizzazione della tassatività. I criteri menzionati dalla teoria dell’imputazione obiettiva risultano non conformi alla realtà di fatto. Se invece si prendono le mosse, prima di introdurre valutazioni, dai contenuti delle norme che stanno dietro alle fattispecie, cioè dalle condotte vietate e dai loro limiti ontico-strutturali, sia pure in modo problematico, è possibile accedere alla sede appropriata della questione. Dall’esame della dimensione dell’azione risulta che non c’è proprio bisogno della dottrina dell’imputazione obiettiva, ma che già una più esatta analisi dei criteri generali dell’inizio dell’azione e dei presupposti preesistenti conformi alla sua natura conduce a soluzioni adeguate (68). (67) Critico rispetto ad essa HIRSCH (nt. 3), pp. 403 ss., 414 ss.; ID., Spendel-Festschr., 1992, pp. 43, 44 ss.; KÜPPER (nt. 3), p. 196 ss.; GÖSSEL, Miyazawa-Festschr., 1995, p. 317 ss. (68) L’obiezione, formulata da ROXIN (Allg. Teil I, § 11 Rn. 41 nt. 85), secondo cui la mia critica alla dottrina dell’imputazione obiettiva si fonderebbe su una ‘‘prospettiva finalistica’’ non coglie comunque nel segno rispetto alle riflessioni precedentemente sviluppate. Il riferimento alla dimensione dell’azione — che peraltro attraversa pur sempre anche l’impostazione di ROXIN (v. loc. cit., § 11 Rn. 41, 46, 56) — è conseguenza dei requisiti giuridici di base del reato e prescinde completamente dalla discussione sul finalismo. Che in diritto penale si faccia questione di condotte commesse (e di condotte omesse) è acquisizione antichissima e si riflette in un gran numero di problematiche penali. Ulteriormente chi scrive non è affatto dell’opinione che le conseguenze giuridiche possano discendere direttamente da strutture ontologiche. Tuttavia egli ritiene necessario che vengano fatte oggetto di studio le strutture dei contenuti degli ordinamenti, in questa sede i contenuti delle norme, prima di cimentarsi con le valutazioni e che si prenda in considerazione e inoltre si chiarisca che tipo di parametri di valutazione siano quelli che si assumono a fondamento. Inoltre viene espresso da Roxin, all’interno della sua convincente critica alla separazione, patrocinata da FRISCH (Tatbestandmässiges Verhalten und Zurechnung des Erfolgs, 1988, p. 67), tra ‘‘comportamento tipico’’ e ‘‘imputazione dell’evento’’, l’asserto secondo cui ‘‘senza un evento mortale e la relativa imputazione non si dà alcuna azione di omicidio e alcun comportamento tipico (ma al massimo una condotta di omicidio tentato)’’. Oltre a ciò egli fa riferimento al fatto che ‘‘il disvalore di azione e quello di evento sono legati reciprocamente senza possibilità di scissione’’. Ciò corrisponde alla concezione sostenuta da WELZEL (Strafrecht, p. 62) e da me (ZStW 94 [1982] pp. 239, 240 ss.) con riguardo al delitto doloso
— 768 — Inoltre non si dovrà perdere di vista che si tratta certo di una concezione interessante dal punto di vista teorico, per giunta presentata in modo suggestivo e straordinariamente stimolante sul piano scientifico nell’esposizione di Roxin e in quella di Lenckner, ma il cui significato pratico è ridotto — tanto più che i punti essenziali della dogmatica della colpa trovano già da lungo tempo nell’ambito di quest’ultima la loro soluzione adeguata. Gli esempi, in parte molto astratti, confermano la distanza dalla prassi. Il profluvio di pubblicazioni provenienti dai sostenitori della dottrina dell’imputazione obiettiva con le variegate sfumature offerte non corrisponde proprio alla sua effettiva rilevanza. Fa pensare il fatto che Lenckner e gli altri curatori del commentario al codice penale tedesco Schönke/Schröder nella prefazione alla 25a edizione da poco edita parlino di ‘‘un’epoca di sempre maggiore distanza tra teoria e prassi’’. HANS JOACHIM HIRSCH Ordinario di Diritto penale nell’Università di Colonia
consumato. L’azione consumata costituisce realizzazione dell’evento (dominabile e coperta dalla volontà), corrispondentemente il disvalore di azione del delitto di evento consumato costituisce causazione dell’evento tipico (dominabile, dolosa), cioè del disvalore di evento qui abbracciato dal disvalore di azione.
IL REATO NEL SISTEMA DEGLI ILLECITI (*)
1. Il concetto di reato. — Si parla di reato con termini che mutano col variare delle scienze che hanno tra i loro oggetti di studio la delinquenza. Esistono scienze che si interessano della definizione del reato inteso quale fenomeno naturale e vengono dette scienze criminalistiche, tali sono: l’antropologia criminale, la medicina legale, la sociologia criminale, la psicologia giudiziaria, la polizia scientifica, ecc. A differenza delle scienze criminalistiche, la dogmatica penale si interessa della definizione del reato nei suoi elementi formali. Il nostro studio si svolge nell’ambito della dogmatica penale, di conseguenza ci occupiamo della definizione del reato da un punto di vista formale e distinguiamo la definizione formale del reato in astratto dalla definizione formale del reato in concreto. Dal punto di vista formale, il reato in astratto è la descrizione di un fatto umano operata da un complesso di disposizioni dell’ordinamento giuridico, costitutive della fattispecie cui il legislatore ricollega conseguenze sanzionatorie definite penali imputandole all’autore del fatto. Lo schema descrittivo del reato risulta da una pluralità di disposizioni: alcune disposizioni concorrono ad ipotizzare un comportamento esterno, altre ad ipotizzare un comportamento interno (dolo o colpa), altre disposizioni ancora configurano elementi negativi, ossia che devono mancare perché sussista il reato (c.d. scriminanti). La conseguenza ricollegata al fatto umano così descritto è la sanzione penale in genere, ossia non specificata in relazione al fatto: la specificazione della sanzione penale (pena in senso stretto, misura di sicurezza) è successiva alla realizzazione del fatto e all’indagine sulla personalità di chi lo commise; se il soggetto che ha commesso il fatto era capace di intendere e di volere, ma non pericoloso, si tratta di pena; se il soggetto era capace di intendere e di volere ed inoltre pericoloso, si tratta di pena insieme a misura di sicurezza; se era incapace di intendere e di volere ma pericoloso, si tratta di misura di sicurezza. Posta la definizione di reato in astratto, non rientrano in tale categoria le ipotesi di c.d. ‘‘quasi reato’’, previste negli artt. 49 e 115 c.p. (1). Al (*) Il presente lavoro fa parte di un volume di prossima pubblicazione su ‘‘Il reato’’, alla cui redazione ha collaborato la dott.ssa Maristella Amisano. (1) L’art. 49 c.p. recita: ‘‘Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato.
— 770 — quasi reato, a cagione della sua particolare struttura oggettiva, è ricollegata in astratto unicamente la misura di sicurezza. Manca, cioè, in tale ipotesi, la comminazione di pena, di misure di sicurezza, o di entrambe — a seconda della personalità del soggetto agente. Che la specie di sanzione sia determinata a priori esclude la diversità di conseguenze discendente dalla personalità del reo. Dal punto di vista formale, il reato in concreto è un fatto umano, un ente fenomenico conforme alla fattispecie astratta di reato prevista dal legislatore. Si può dire che i reati in concreto rientrino nella gamma dei fatti giuridici penalmente rilevanti, non che esauriscano detti fatti. È sufficiente pensare che fattispecie giuridiche penalmente rilevanti sono la morte del reo, l’amnistia, la grazia, l’indulto, ossia fatti estintivi del reato o della pena. Nella fattispecie criminosa, inoltre, possono esserci fatti che sono condizioni oggetive di punibilità e come tali non rientrano negli elementi costitutivi del reato, come la sentenza dichiarativa di fallimento nella bancarotta prefallimentare (2). Un reato in concreto è un fatto umano cui è collegata una sanzione: non coincide necessariamente con la fattispecie criminosa, che — non di rado — comprende elementi distinti dal comportamento sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo. 2. Il reato dal opunto di vista sostanziale. — Quando diamo una definizione formale di reato, ci muoviamo su un piano descrittivo; non diciamo nulla cioè sul perché certi fatti siano considerati reati. L’indagine sul perché certi fatti siano considerati reati postula una valutazione pre-giuridica di certi comportamenti che conduca, attraverso La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso. Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso. Nel caso indicato nel primo capoverso il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza’’. L’art. 115 c.p. stabilisce: ‘‘Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo. Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza. Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere reato se la istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso. Qualora la istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d’istigazione a un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misura di sicurezza’’. (2) Contra, Cass., Sez. I, 25 luglio 1991, n. 2988; Cass., Sez. I, 5 agosto 1992, n. 3282; Cass., Sez. I, 5 novembre 1992, n. 4134; Cass., Sez. V, 23 agosto 1993, n. 7912; Cass., Sez. I, 17 gennaio 1995, n. 4859.
— 771 — l’esame delle costanti dei fatti penalmente sanzionati, alla definizione sostanziale di reato. Le note essenziali del reato, considerato dal punto di vista sostanziale, sono state cercate percorrendo due vie: — attraverso l’analisi del reato in sé considerato; — attraverso il confronto tra il reato e gli altri illeciti giuridici. Seguendo la prima via si è detto: A) Il reato è il fatto che offende gravemente l’ordine etico; ossia mette in crisi il minimo etico. Il diritto non coincide con l’etica, ma esiste una minima istanza etica, trascurata la quale viene meno la possibilità della convivenza nel mondo civile (3). B) Il reato viola i sentimenti altruistici fondamentali della probità e della pietà secondo la misura media in cui si trovano nell’umanità civile. C) Il reato è l’azione che, a giudizio delle persone autorizzate a porre le norme giuridiche, rende impossibile o mette in grave pericolo l’esistenza e la conservazione della società. Punti di vista, questi, che non solo danno risultati approssimativi, ma trattano del reato in termini solo apparentemente sostanziali: in realtà non è considerato il reato in sé, da un punto di vista meramente sociologico, nell’intento di trovare le costanti di quei comportamenti che poi diventano reati. Al contrario si parte dalle valutazioni operate dal legislatore e si cerca di spiegarle. In questo modo sono confusi elementi sociologici ed elementi formali; la ricerca si sposta verso l’individuazione dei motivi che inducono il legislatore ad una certa normativa. Che questi motivi di politica legislativa siano quanto mai numerosi e svariati è una delle spie della sterilità di simili indagini. 3. Il reato e gli altri illeciti giuridici. — La seconda via tentata per individuare le note sostanziali del reato è stata quella di porre a confronto il reato con altri illeciti giuridici, in particolare con l’illecito civile. Posto che, sul piano formale, l’illecito civile è un fatto umano previsto da una fattispecie cui sono collegate conseguenze sanzionatorie di carattere civile, ci si è domandato, sul piano sostanziale, cosa renda un fatto penalmente o, per contro, civilmente rilevante come illecito. Una prima risposta viene dalla considerazione di un momento prenormativo. L’illecito penale desterebbe un maggior allarme sociale rispetto all’illecito civile. Ma tale distinzione è solo approssimativa: una contravvenzione (illecito penale) desta minor allarme sociale di un danneggiamento colposo di beni di rilevante valore culturale (illecito civile). E ancora si sostiene che, mentre l’illecito civile offende un interesse (3) Cfr. il primo volume di questi Appunti: La legge penale, Giappichelli, Torino, 1999, p. 32 ss., § 12. Regola penale e regola morale.
— 772 — puramente patrimoniale, l’illecito penale offende un interesse extrapatrimoniale. Ma anche questa contrapposizione non è esatta, perché da un lato vi è tutta una serie di norme penali che tutelano interessi patrimoniali (Titolo XIII del Libro II del codice penale, ad esempio), dall’altro vi sono norme civili che tutelano interessi non patrimoniali (ad es. artt. 7-10 c.c.: diritto al nome). Il fallimento di questa impostazione ha indotto a spostare l’indagine sul piano post-normativo. È dato individuare un primo criterio orientativo confrontando l’elemento soggettivo dell’illecito penale e l’elemento soggettivo dell’illecito civile. L’illecito penale è di regola illecito colpevole, in quanto per la realizzazione di esso occorre che il fatto di reato sia commesso con l’elemento soggettivo dolo (in via generale) o colpa (in via subordinata all’espressa previsione normativa). Viceversa l’illecito civile è di regola incolpevole, in quanto, per la realizzazione di esso, è sufficiente l’oggettivo verificarsi del fatto, a prescindere dall’elemento soggettivo. Si è contestato che l’illecito civile sia incolpevole: l’art. 2043 c.c. dispone che è assoggettato alla sanzione del risarcimento del danno chi cagiona colposamente o dolosamente un danno ingiusto ad altri. Questa obiezione sarebbe fondata se l’unico illecito civile fosse quello dell’art. 2043. Ma un’attenta analisi di questa norma dimostra l’infondatezza dell’asserzione. L’art. 2043 si impernia sul ‘‘danno ingiusto’’. È evidente che il requisito dell’ingiustizia non si riferisce al danno, ma al comportamento che lo ha causato: il danno è ingiusto in quanto il comportamento che lo ha causato è contra jus. Vero è che potremmo parlare di ingiustizia di un comportamento in quanto ad esso sia ricollegata una sanzione. Ora, sanzione civile non è solo il risarcimento del danno, ma altresì la restituzione, l’impedibilità, la sentenza di annullamento. Tutti i fatti che vengono sanzionati in questo modo costituiscono illecito civile; ed è importante rilevare come ad essi sia estraneo l’elemento della colpevolezza. Se questa sussiste, il fatto che cagiona un danno (patrimoniale) ingiusto ad altri realizzerà la complessa fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. e sarà sanzionato coll’obbligo di risarcire il danno; ma resta fermo che prima e indipendentemente dall’accertamento della colpa o del dolo, il fatto costituisce già illecito e sarà sanzionato con le altre sanzioni, civilistiche e non, sopra ricordate. In altri termini: l’elemento della colpevolezza rileva ai fini della realizzazione della complessa fattispecie dell’art. 2043 (consistente nel verificarsi di un torto obiettivo più il danno più i requisiti di imputazione soggettiva del fatto all’agente) ma non rileva per il verificarsi di tutti gli altri illeciti civili che si basano puramente su un torto obiettivo e che sono seguiti da sanzioni diverse dal risarcimento.
— 773 — Quanto agli illeciti amministrativi, occorre dire che dopo la L. 689/81 le differenze rispetto ai modelli penalistici si sono fortemente attenuate. Basta al riguardo ripercorrere gli artt. 1-12 che pongono i principi generali — tutti ricalcati su quelli che reggono la materia penale, o, quanto meno, assai contigui a questi ultimi. Ed era inevitabile che così fosse, essendo queste regole enunciate in una legge che, con un curioso strabismo, sembra guardare più al sistema penale (‘‘Modifiche al sistema penale’’ ne è l’intitolazione) che a quello amministrativo direttamente disciplinato. Si è voluto cioè trasferire dal primo al secondo tutta una serie di illeciti e così facendo non potevano essere dimenticati i principi generali dell’ordinamento penale. La legge voleva rappresentare un passo avanti quanto a snellezza di procedure, non certamente un passo indietro per ciò che concerne le garanzie prestate ai destinatari delle regole amministrative. Che questo attaccamento al background del sistema penale sia di per sé un fatto positivo e, come tale, degno di lode, non c’è dubbio. Sul piano funzionale, però, è lecito chiedersi se portare nell’area amministrativa le garanzie d’ordine sostanziale proprie del diritto penale sia compatibile coll’esigenza di assicurare alle procedure amministrative maggiore celerità rispetto a quelle penali. Resta comunque il risultato, di tutto rispetto, di evitare per una serie di torti il marchio dell’illecito penale, sociologicamente e agli effetti delle conseguenze giuridiche, dotato di particolare pesantezza. Senza anticipare quanto sarà detto più appresso, possiamo a questo punto rilevare che la struttura dell’illecito amministrativo ricalca, su punti chiave, quella delle contravvenzioni-illecito penale. 4. Il reato come illecito di modalità di lesione. — Mentre le distinzioni suesposte si fondano su un principio di carattere tendenziale, esiste un altro criterio distintivo assai più solido e che non soffre, a differenza del precedente, alcuna eccezione. Questo criterio si basa sulle diverse modalità di tipicizzazione dell’illecito penale rispetto agli altri illeciti. L’illecito penale risulta assai più tipicizzato dell’illecito civile. Spieghiamo tale affermazione. È evidente che il legislatore non può prendere in considerazione tutte le caratteristiche del fatto storico concreto: la previsione legislativa deve necessariamente esprimersi in termini generali ed astratti, limitandosi a delineare l’illecito con uno schema comprensivo di quelle note che si ritengono maggiormente rilevanti per il diritto. Tenuto presente ciò, va però osservato che l’illecito penale è descritto con fattispecie molto dettagliate, mentre per l’illecito civile il legislatore configura modelli estremamente sommari. Ad esempio, l’illecito civile consiste nella violazione di un obbligo giuridico; il legislatore non bada alle modalità del comportamento che pone in essere la lesione; prescinde addirittura dall’attribuire rilevanza all’elemento soggettivo.
— 774 — Anche considerando la più complessa fattispecie di illecito civile prevista nell’art. 2043 c.c., assai più tipicizzata delle fattispecie di illecito civile obiettivo, si constata come sia lontana dalla tipicizzazione propria dell’illecito penale. Nello schema dell’art. 2043 si può far rientrare un’infinità di comportamenti: l’ingiustizia dipende dalla violazione degli obblighi più svariati purché assoluti; qualsiasi danno rileva, purché patrimoniale; è indifferente che vi sia dolo o semplice colpa, persino — si noti — agli effetti della determinazione dell’ammontare del risarcimento (4). Viceversa, per l’illecito penale, il legislatore segue una tecnica descrittiva assai più particolareggiata, cercando di fotografare nel modo più dettagliato possibile la realtà del fatto storico che concretamente si potrà verificare. Ciò emerge chiaramente anche in quelle fattispecie di reato che, a prima vista, possono sembrare più generiche e quindi più vicine alla tipicizzazione dell’illecito civile, come le cosiddette fattispecie « a forma libera » o « causalmente orientate », in cui una condotta assume rilevanza penale per il solo fatto di essere collegata o collegabile ad un certo evento da un nesso di causalità. Ad esempio, l’omicidio: è punita qualunque condotta umana che cagioni la morte di un uomo. Un’attenta analisi dimostra che anche queste ipotesi di reato sono più tipicizzate delle fattispecie di illecito civile. Pure a tacere di quanto sarà detto più avanti a proposito della struttura oggettiva di tali figure di reato, il legislatore penale attribuisce particolare rilievo all’elemento soggettivo, rilievo che va ben oltre quello di mero criterio di imputazione del fatto all’autore. Si distingue, ad esempio, l’omicidio doloso, che è punito più gravemente, dall’omicidio colposo, che è punito meno gravemente. Inoltre il legislatore penale ipotizza tutta una serie di elementi eventuali o accessori (circostanze attenuanti e aggravanti nonché talune scriminanti — quelle che escludono la sola antigiuridicità penale) (5) che arricchiscono ulteriormente gli astratti modelli penali: è necessario che alcuni non si verifichino perché si possa qualificare un fatto come penalmente antigiuridico (4) Si ricordi che agli effetti della valutazione dei danni l’art. 2056 c.c. non menziona l’art. 1225 c.c., in forza del quale se l’inadempimento o il ritardo dipende da dolo del debitore il risarcimento si estende anche ai danni non prevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione. (5) Sono solo le scriminanti che escludono la mera antigiuridicità penale a definire i confini dell’illecito penale. Non così quelle che precludono ogni qualifica di antigiuridicità del fatto a cui accedono. Senza anticipare quanto sarà più analiticamente detto allorché ci occuperemo in modo specifico delle esimenti, qui basterà ricordare come al primo gruppo appartenga, ad esempio, lo stato di necessità. Al secondo, la legittima difesa. È vero che lo stato di necessità rileva anche nei fatti illeciti civili ma l’art. 2045 c.c., nel disporre che all’obbligo di risarcire il danno si sostituisce quello di un’equa indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, configura quella che, senza escludere l’illecito, costituisce, probabilmente, l’unica attenuante prevista nel sistema dei torti civili.
— 775 — (scriminanti); altri determinano con la loro presenza una notevole graduazione delle conseguenze sanzionatorie (circostanze attenuanti ed aggravanti). Mediante queste disposizioni si fa riflettere nello specchio della valutazione normativa tutta una gamma di note individuanti il fatto storico concretamente verificatosi — il che non avviene nell’illecito civile. Le considerazioni fatte permettono di prospettare la differenza tra illecito penale e illecito civile in questi termini: l’illecito penale è illecito di modalità di lesione, mentre l’illecito civile è illecito di semplice lesione. L’illiceità penale assume anch’essa come punto di partenza una lesione oggettiva, ma, a differenza dell’illecito civile, costruisce la rilevanza di essa in base a modalità che hanno accompagnato il suo verificarsi; in particolar modo tiene anche conto delle caratteristiche personali del soggetto agente (art. 133 c.p.); cosicché si può anche definire l’illecito penale: illecito personale. 5. Delitti e contravvenzioni. — Il nostro codice distingue i reati in due gruppi: delitti e contravvenzioni; mentre molti codici moderni seguono la tripartizione consacrata dal codice Napoleonico tra crimini, delitti, contravvenzioni. La ratio della distinzione sta nella volontà del legislatore di diversificare i reati più gravi (delitti) da quelli meno gravi (contravvenzioni) per ricollegare a questi ultimi conseguenze sanzionatorie e, comunque, trattamento più mite. Le norme che prevedono contravvenzioni hanno di solito una funzione sussidiaria rispetto a norme che prevedono delitti, nel senso che si pongono quale fronte avanzato di difesa di un certo interesse offeso meno gravemente che da un delitto. Qualche volta sanzionano comportamenti di soggetti rispetto ai quali sanzioni extra penali non avrebbero efficacia. Un esempio della prima funzione è dato dalla contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p. (acquisto di cose di sospetta provenienza) in relazione al delitto di cui all’art. 648 c.p. (ricettazione); un esempio della seconda funzione è dato dalla contravvenzione di cui all’art. 670 c.p. (mendicità con modalità ripugnanti o vessatorie). Al fine di sapere se ci troviamo di fronte a un delitto o ad una contravvenzione è insufficiente il criterio della collocazione nel codice penale: se è vero che le contravvenzioni occupano da sole il III libro, la maggior parte di esse sono previste in leggi speciali. Sono state prospettate diverse teorie per trovare un criterio di distinzione sul piano sostanziale, ma nessuna di esse ha dato risultati soddisfacenti. La nostra conclusione è che unico criterio di distinzione tra delitti e contravvenzioni sia quello meramente formale che si fonda sulla natura della pena principale ricollegata al fatto di reato. Questo criterio della
— 776 — pena è enunciato nell’art. 39 c.p.: ‘‘I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice’’. L’art. 17 precisa che ‘‘le pene principali stabilite per i delitti sono: l’ergastolo; la reclusione; la multa. Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: l’arresto; l’ammenda’’. Dunque, alla stregua del criterio formale, siamo di fronte a delitto se il fatto risulta sanzionato con l’ergastolo, la reclusione o la multa, siamo di fronte a contravvenzione se il fatto è sanzionato da arresto o ammenda. Possiamo inoltre prospettare una distinzione tra delitto e contravvenzione in termini di maggiore o minore gravità, ma solo da un punto di vista formale: è delitto il fatto che il legislatore mostra di valutare come più grave della contravvenzione. Tra le numerose particolarità che caratterizzano il regime delle contravvenzioni la più importante è quella relativa all’elemento soggettivo: mentre i delitti sono imputati di regola a titolo di dolo — e solo nei casi espressamente stabiliti dalla legge a titolo di colpa — ‘‘nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa’’ (art. 42, ultimo comma, c.p.). Secondo questa disposizione si risponde anche a titolo di colpa pur se la rilevanza della colpa non è prevista espressamente dalla legge per il caso specifico: insomma, nei delitti è indispensabile che la forma colposa sia espressamente ipotizzata per il singolo titolo di reato; nelle contravvenzioni vale la regola generale che sancisce l’equivalenza fra i due criteri di imputazione: dolo e colpa. Il che non esclude la possibilità di contravvenzioni realizzabili soltanto per dolo o, per contro, unicamente per colpa. Ma in questi casi è la struttura della previsione normativa in una con l’interpretazione sistematica che conduce a tale risultato: non è messa in discussione la regola generale. Ne deriva che l’area di punibilità delle contravvenzioni risulta più estesa di quella dei delitti. Conseguenza questa direttamente dipendente dalla circostanza che, come già si è detto, nel nostro sistema le norme che prevedono contravvenzioni hanno per lo più funzione di prevenzione. Mirano ad evitare che si instaurino stati di fatto che, secondo l’id quod plerumque accidit, potrebbero sfociare in reati più gravi. Così, molte contravvenzioni portano intitolazioni di questo tipo: ‘‘delle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica’’ o addirittura e in maniera assolutamente esplicita ‘‘delle contravvenzioni concernenti la tutela preventiva dei segreti’’, ‘‘delle contravvenzioni concernenti la prevenzione dell’alcooli-
— 777 — smo e dei delitti commessi in stato di ubriachezza’’, ‘‘delle contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro la fede pubblica’’, ‘‘delle contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale’’, ‘‘delle contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio’’. Ora, se lo scopo è quello di evitare che si crei uno stato di fatto oggettivamente pericoloso, perde di interesse se chi ha realizzato questo stato di fatto abbia agito intenzionalmente o per leggerezza. Ai fini della prevenzione, ciò che conta è che questo stato di fatto oggettivamente pericoloso non venga posto in essere. Che il fatto sia stato commesso con dolo o con colpa rileva in sede di determinazione discrezionale della pena in concreto, quando cioè si deve irrogare la sanzione. È l’art. 43, ultimo comma, c.p. che impone di tener conto se il fatto contravvenzionale sia stato realizzato con dolo o con colpa ogniqualvolta da tale distinzione la legge faccia discendere un qualsiasi effetto giuridico. Ora, effetto giuridico particolarmente saliente è quello del dosaggio della pena a seconda che il reato sia stato commesso con dolo o con colpa. Al riguardo è decisivo l’art. 133 c.p. che, nella disciplina del potere discrezionale che il giudice esercita a norma dell’art. 132 c.p., menziona, fra gli indici di gravità del reato, l’intensità del dolo e il grado della colpa. Va innanzitutto sottolineato che se nel sistema penale c’è una nomenclatura assolutamente univoca e priva di incertezze è quella per cui la previsione che riguarda il ‘‘reato’’, si riferisce tanto ai delitti che alle contravvenzioni: quando si fa distinzione la legge parla di delitto o, rispettivamente, di contravvenzione. Ora, se nella determinazione della pena in concreto occorre tener conto della intensità del dolo o della gravità della colpa — e questo è stabilito anche per le contravvenzioni — bisognerà, preliminarmente accertare se il fatto contravvenzionale è sorretto dall’una o dall’altra delle due specie di elemento soggettivo. Per valutare in concreto se un certo compartamento sia sorretto da un dolo particolarmente intenso o da una colpa particolarmente grave, dovrò innanzitutto appurare le modalità ‘‘psicologiche’’ del comportamento tenuto: e ciò, ripetiamo, va fatto anche per le contravvenzioni. La conclusione cui perveniamo urta contro l’opinione dominante in dottrina e giurisprudenza. Si dice infatti che la ratio della equivalenza tra dolo e colpa nelle contravvenzioni sia tutt’altra da quella che abbiamo indicato. Questa disciplina riguarda reati ‘‘bagatellari’’. Basterebbe affidarsi al minimo comun denominatore della colpa, senza bisogno di indagini, più o meno complesse, intese ad una verifica di quell’aspetto assai delicato dell’illecito che è l’elemento soggettivo. Quindi una mera esigenza di speditezza dell’accertamento giudiziale. Conseguenza, assai raramente dichiarata in modo esplicito, ma inevitabile in questo ordine di idee, è che per raggiungere lo scopo occorre po-
— 778 — stulare una presunzione di colpa: se l’interessato non si fa parte diligente o non risulta comunque la carenza di colpa, il giudice penale motiva congruamente se ritiene la presenza di colpa. Naturalmente si tratterebbe non di una presunzione iuris et de iure — in tutto e per tutto equivalente a responsabilità oggettiva — ma iuris tantum, posto che non è esclusa la prova del contrario. Senonché in diritto penale non esiste alcuna norma che giustifichi una presunzione del genere. Ma più ancora: è l’idea stessa di ‘‘semplificazione’’, di una mano tesa ad alleviare il compito del giudice, che appare insostenibile. Si ponga mente alla infinita varietà degli atteggiamenti colposi che possono presentarsi in ordine alla realizzazione di un illecito. L’imputazione a titolo di colpa viene ad allargare la sfera di rilevanza penale di un fatto per un numero indefinito e indefinibile di casi. L’esigenza di cosiddetta semplificazione sfocerebbe, insomma, nella moltiplicazione senza limiti dei fatti contravvenzionali: per rendere più snella l’opera del giudice lo si carica di un lavoro assai maggiore di quello che dovrebbe affrontare se alle ragioni di celerità e semplicità di accertamento si fosse stati meno sensibili. E non basta. S’è già visto che l’art. 43, ultimo comma, c.p. impone di distinguere il dolo dalla colpa anche nelle contravvenzioni in tutti i casi in cui la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico. Donde la necessità di accertare sempre se il fatto sia stato commesso con dolo o con colpa, dato che, quanto meno, del concreto elemento psicologico occorrerà sempre tenere conto ai fini della determinazione della pena in concreto (art. 133, primo comma, n. 3, c.p.). Abbiamo detto come il modello delle previsioni contravvenzionali sia stato puntualmente ripreso dalla L. 689/81 (Modifiche al sistema penale). Questo è vero soprattutto con riferimento alla disciplina dell’elemento soggettivo del reato. Anche qui equivalenza, per ciò che concerne la realizzazione dell’illecito, tra dolo e colpa. Anche qui necessità di verificare, nel caso concreto, se il fatto appaia sorretto dall’una o dall’altra delle due forme o specie di cosiddetta ‘‘volontà colpevole’’. Decisivo, al riguardo, l’art. 11 della legge citata che detta i criteri per l’applicaione delle sanzioni amministrative pecuniarie. Criteri che si sostanziano nella gravità della violazione (e si ricordi che la ‘‘gravità del reato’’ dell’art. 133 c.p. si desume anche dall’intensità del dolo e dal grado della colpa con tutto ciò che questo importa agli effetti dell’accertamento giudiziale); nell’opera svolta dall’agente per la eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione (e qui siamo di fronte alla rilevanza della condotta contemporanea o susseguente al reato, sempre dell’art. 133 c.p., secondo comma) e infine nella personalità dell’agente e nelle sue condizioni economiche (dove sono richiamati il nucleo centrale degli indici di capacità a
— 779 — delinquere posti nel secondo comma dell’art. 133, nonché il concetto centrale dell’art. 133-bis). Notevoli diversità si presentano invece a proposito dell’elemento oggettivo dell’illecito. Qui la tecnica di tipicizzazione tesa ad ottenere un quadro normativo il più possibile vicino alla realtà dell’evento storico è, senza dubbio, portata avanti con minor rigore di quanto avvenga in campo penale: e ne è prova la mancata previsione di circostanze, vuoi aggravanti vuoi attenuanti. Né avrebbe potuto essere altrimenti, stanti — e sul punto dovremo ritornare — le differenze intercorrenti tra sanzione penale e sanzione amministrativa. 6. L’oggetto giuridico del reato. — Si intende per ‘‘oggetto giuridico’’ del reato l’interesse che la norma penale reale mira a tutelare da possibili offese. La dottrina dominante, per giungere a questa concezione, parte da considerazioni di ordine generale: ogni norma giuridica reale (6) — e assai spesso singole disposizioni che compongono la norma reale (che risulta da più disposizioni di legge) — è preordinata alla tutela di uno o più interessi giuridici: non è possibile interpretare la regola giuridica senza tener presente l’interesse tutelato. Su tal via si afferma che la norma penale è preordinata alla tutela di uno o più interessi, l’individuazione dei quali è di guida alla sistematica del reato e all’interpretazione della regola penale stessa. Si parla di interesse tutelato e non di bene. Spesso i due termini sono usati indifferentemente: secondo una famosa, storica definizione essi si identifichebbero con tutto ciò che a noi può servire. Parleremo di interesse tutelato e non di bene perché l’ordinamento giuridico tutela un bene soltanto in relazione ai bisogni, alle tensioni, alle aspettative di un soggetto umano: il concetto di interesse implica quello di relazione tra un soggetto ed un oggetto di valutazione. Ed ancora perché l’interesse può cadere su una utilità presente o futura; in quest’ultima ipotesi l’affermare che l’ordinamento giuridico tutela interessi equivale a riconoscere la (possibile) funzione propulsiva dell’ordinamento (mentre la tutela di beni è relativa a qualcosa di attuale e statico). Precisiamo inoltre che accogliamo il termine ‘‘interesse’’ non nella accezione di giudizio individuale, ma di valutazione media compiuta dal legislatore secondo l’id quod plerumque accidit; di valutazione, cioè, che continua a spiegare la sua efficacia anche quando il soggetto rinuncia a tutelare il suo interesse. L’esistenza di reati perseguibili a querela di parte non è un’eccezione alla valutazione media, dal momento che la querela è (6)
Per il concetto di norma reale, cfr. La legge penale, cit., p. 17 ss.
— 780 — solo una condizione di procedibilità e per ciò stesso presuppone la realizzazione di un illecito penale. L’elaborazione del concetto di oggetto giuridico del reato coincide con la nascita e lo sviluppo della scuola cosiddetta tecnico-giurdica. Si distingueva tra (7): — Oggetto giuridico formale, consistente nel diritto dello Stato all’obbedienza alla norma da parte dei destinatari. — Oggetto giuridico sostanziale generico, consistente nell’interesse dello Stato a conservare le condizioni della propria esistenza. — Oggetto giuridico sostanziale specifico, che si articola in una duplice accezione: interesse del soggetto passivo del reato tutelato dalla singola norma e interesse del soggetto passivo del reato tutelato da una categoria di norme. Contro la configurabilità dell’oggetto formale può osservarsi che non esiste un diritto soggettivo dello Stato all’osservanza delle singole norme: diritto che, se corrispondesse ad effettiva realtà giuridica, dovrebbe essere suscettibile di violazione, e quindi di sanzione, prima e indipendentemente dalla trasgressione della singola regola giuridica: il che non è. Si tratta di un diritto-fantasma evocato dalle fantasie di una concezione tutta paternalistica dell’ordinamento giuridico. Alla partizione dell’oggetto sostanziale in generico e specifico si è obiettato, con una critica rimasta decisiva, che così si confonde l’interesse protetto mediante il comando sanzionato dalla pena, con la ragione per la quale vengono posti il comando e la sanzione. La distinzione tra oggetto generico e oggetto specifico ha il torto di porre come oggetto ciò che invece è il motivo della protezione; e, per conseguenza, di immaginare fra l’oggetto della tutela giuridica ottenuta mediante la pena e quella che si serve delle altre sanzioni, una differenza che non esiste, perché di ogni comando anche non penale potrebbe dirsi che serve a tutelare l’interesse alla sicurezza e alla tranquillità dello Stato: interest rei publicae, invero, non solo che gli uomini non si uccidano o non si percuotano a vicenda, ma anche per esempio che i debiti siano pagati. Resta ora da considerare l’oggetto giuridico sostanziale specifico. Riteniamo di poterlo identificare nell’interesse tutelato dalla singola norma penale ed avente la struttura ricavabile dalla fattispecie astrattamente ipotizzata nella norma medesima. È possibile raggruppare gli interessi tutelati da singole norme sotto categorie superiori e dire, ad esempio, che la norma sul furto (art. 624 c.p.) e quella sulla appropriazione indebita (art. (7) Sul punto resta di fondamentale importanza L’oggetto giuridico del reato (1913) di Arturo Rocco. Libro che non soltanto ha segnato un momento decisivo nella letteratura penalistica italiana, ma, ancor più, ha pesato sulla struttura e sui contenuti del Codice del 1930. Tanto che all’apparire di questo qualche bello spirito ebbe a definirlo L’oggetto del reato messo in versi.
— 781 — 646 c.p.) tutelano interessi patrimoniali. Si tratta di un raggruppamento utile a fini sistematici, ma non più che questo. Possiamo parlare di interesse giuridicamente protetto solo quando il comportamento che offende quel certo interesse è giuridicamente sanzionato. È allora mera approssimazione sostenere che la norma che prevede e punisce il furto tutela un interesse patrimoniale. L’offesa di un interesse così definito non condiziona per sé sola una conseguenza sanzionatoria. Non è nemmeno sufficiente dire che la norma sul furto tutela l’interesse alla conservazione del possesso, poiché esistono fatti che offendono il possesso altrui e non l’interesse tutelato dalla norma sul furto: ad esempio l’impossessamento di cosa mobile altrui senza l’intenzione di trarne profitto o perché erroneamente creduta propria. Se interesse tutelato è quello alla cui offesa segue la sanzionabilità del comportamento che realizza l’offesa se ne deduce che alla definizione della sua struttura concorre non soltanto la considerazione degli elementi obiettivi del fatto ma altresì quella degli elementi soggettivi la cui presenza condiziona gli effetti giuridici della lesione o messa in pericolo dell’interesse. Su tal via si può ritenere che non corre differenza di sorta fra il concetto di interesse tutelato e quello, proposto come più pertinente, di scopo o ratio della norma. Il finalismo di quest’ultima non può che coincidere con la tutela di un interesse, facente capo ad una situazione di fatto preesistente alla posizione della regola di diritto o ravvisata come virtuale in quanto la norma mira proprio a che essa abbia a prodursi. Non si nega, quindi, in linea di principio, la funzione cosiddetta propulsiva del diritto in genere e del diritto penale in particolare. Tale funzione deve essere considerata, anzi, fuori discussione. Il problema è un altro: di carattere prenormativo, precedente cioè alla posizione della regola; concerne i limiti di accettabilità di un ordinamento volto a creare una sorta di moralità ufficiale, o di Stato. Con il pericolo di scivolata verso l’autoritarismo che ben si comprende. Tendenza della quale v’è forte traccia nel favore di cui nella recente legislazione hanno goduto le fattispecie omissive — quelle, cioè, consistenti nella violazione di un obbligo a contenuto positivo, obbligo di fare. Agli obblighi a contenuto negativo, di non fare, si addice la funzione di protezione del dato esistente, gli obblighi a contenuto positivo, di fare, oltre che alla tutela dell’esistente (si pensi alla maggior parte delle regole che compongono la disciplina anti-infortunistica) assai spesso tendono ad ispirare tipi di comportamento corrispondenti a modelli che possono essere in larga parte propri soltanto di chi detiene il potere normativo. A questo punto, si profila quella che è la critica più penetrante alla nozione di interesse tutelato sopra delineata. L’interesse tutelato inteso nel modo che si è visto si presenterebbe come doppione inutile della fatti-
— 782 — specie criminosa. Sarebbe niente altro che la fattispecie considerata dal punto di vista del soggetto passivo del reato. Riteniamo che il rilievo sia superabile. In primo luogo esistono regole che non possono essere spiegate senza il soccorso della nozione di interesse giuridico. Ad esempio l’art. 50 c.p. (8), che prevede la scriminante del consenso dell’avente diritto. Chi può, secondo tale regola, validamente disporre del diritto che sarebbe altrimenti oggetto di un’offesa o messa in pericolo giuridicamente rilevante? Se si dice: il titolare del diritto coinvolto, si usa una espressione troppo ampia. Infatti, non può trascurarsi quella concezione dottrinale (che taluno potrebbe adottare come chiave di lettura dell’art. 50 stesso) secondo la quale i creditori hanno un diritto soggettivo perfetto sui beni dei propri debitori. Su tal via, quando si afferma che del diritto coinvolto può disporre il suo titolare, nell’ipotesi di furto di una cosa mobile appartenente a Tizio debitore di Caio, il consenso di Caio al furto scriminerebbe il fatto. Conclusione, questa, certamente inaccettabile. Di conseguenza è opinione diffusa, anzi, dominante, che ai sensi dell’art. 50 è legittimato al consenso il titolare dell’interesse la cui lesione o messa in pericolo è indispensabile perché sussista reato. Risulta chiaro che chiedersi quale sia il soggetto descritto nell’art. 50 significa individuare l’interesse tutelato dalla norma stessa, al fine di interpretarla. Altro esempio: all’art. 120 c.p. è semplicemente disposto che ha diritto alla querela ogni persona offesa dal reato. Come nell’esempio precedente, ci chiediamo chi sia il titolare del potere in questione. La risposta non può essere che una. Non chiunque abbia, in concreto, riportato un’offesa, ma solo il titolare dell’interesse la cui lesione è indispensabile perché sussista reato. In secondo luogo le nozioni di interesse giuridico e di tutela a questo interesse, oltre ad essere strumento interpretativo, sono al centro della teoria del reato: nel senso che possono esistere comportamenti che corrispondono al tipo descrittivo di illecito e non sono punibili perché non è offeso l’interesse tutelato. Se la tecnica legislativa fosse perfetta, il comportamento conforme allo schema descrittivo della norma incriminatice costituirebbe al tempo stesso effettiva lesione o messa in pericolo di un interesse giuridicamente protetto. È vero che secondo l’id quod plerumque accidit corrispondenza al tipo descrittivo e offesa all’interesse protetto coincidono; in alcuni casi, però, divergono. Ad esempio: Tizio stacca un acino d’uva da una vite non sua e se ne impossessa. In base alla pura forma si dovrebbero rinvenire nel fatto gli (8) Art. 50 c.p.: ‘‘Consenso dell’avente diritto. Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne’’.
— 783 — estremi di furto aggravato da violenza sulle cose (artt. 624 e 625, n. 2, c.p.). Senonché, unanimemente un siffatto comportamento è definito furto innocuo e, come tale, non punibile; dunque esso non dà luogo a reato. Altro esempio: l’acquisto di cose della cui provenienza si avrebbe motivo di sospettare, senza preoccuparsi di compiere gli accertamenti imposti dalla legge. Nel corso del procedimento si accerta che la cosa oggetto materiale della condotta è di provenienza legittima. Anche in questo caso si afferma la irrilevanza penale del comportamento posto in essere: si ha perfetta corrispondenza al tipo descrittivo ma nel contesto non può ritenersi offeso alcun interesse patrimoniale. Nessuno dubita della non punibilità. Se ne trae la conclusione che non basta che il fatto concreto sia conforme al tipo descrittivo: esso rivestirà tutti gli estremi di reato quando si aggiunga l’offesa all’interesse protetto. Rimane da chiedersi se i risultati cui abbiamo fatto cenno siano puro e semplice frutto di interpretazione di alcune regole che prevedono e puniscono determinati fatti umani o ne dettano sul piano penale la complessiva disciplina (cfr. ad es. art. 120 c.p.) o discendano invece da una regola che, quanto meno in materia penale, è principio generale. Viene qui in considerazione l’art. 49, secondo comma, c.p. L’esclusione della punibilità quando per ‘‘l’inidoneità dell’azione’’ è impossibile il verificarsi dell’evento dannoso o pericoloso è conseguenza diretta della divergenza tra conformità del comportamento posto in essere al tipo descrittivo e realizzazione o messa in pericolo dell’interesse tutelato. Il secondo comma dell’articolo in questione regola anche l’ipotesi di inesistenza dell’oggetto dell’azione, ma di questa avremo occasione di occuparci più oltre trattando analiticamente del cosiddetto reato impossibile. Al momento ci bastano alcune riflessioni sulla cosiddetta inidoneità dell’azione. Cominciamo col dire che l’art. 49 c.p. non è, come frequentemente sostenuto, la mera ripetizione in negativo dell’art. 56 c.p. Norma quest’ultima che prevede il delitto tentato: ‘‘Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. (...)’’. Già una prima osservazione dovrebbe essere decisiva. Non si comprende la ragione per la quale, prima ancora di dettare in positivo gli elementi costitutivi del tentativo, si enuncerebbe una regola in negativo secondo la quale non vi è tentativo ogniqualvolta difetta uno degli elementi che lo realizzano (l’idoneità). E non basta. L’art. 56 esige che siano posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto quando l’azione non si compia o l’evento non si verifichi. L’art. 49, per contro, si impernia su un’‘‘azione’’ inidonea. Nella semantica legislativa azione equi-
— 784 — vale di solito (9) a fatto di reato al completo di tutti gli elementi. Il che vuol dire che deve darsi un comportamento conforme al tipo descrittivo ma inidoneo, mentre si ha tentativo anche prima della realizzazione di atti tipici (tentativo di furto che si arresta all’effrazione della serratura di una porta che conduce al bottino avuto di mira). Accade in ogni momento dell’esperienza giuridica, ma soprattutto quando questa, come è per il diritto penale, trova la sua manifestazione più forte nel processo: vanno considerati il problema e le tecniche di accertamento. Quanto abbiamo finora esposto sul profilo formale e su quello sostanziale della fattispecie (complesso degli elementi che condizionano la sanzionabilità di un certo comportamento) non deve far credere che la verifica del profilo formale e quella del contenuto sostanziale ubbidiscano alle medesime regole. Il primo, e cioè la corrispondenza al tipo descrittivo, va puntualmente verificato dall’interprete: in ultima analisi, dal giudice. Occorre cioè ripercorrere uno per uno tutti gli elementi che caratterizzano il fatto concreto per decidere della sua conformità al modello astratto. Tutto, cioè condotta, rapporto di causalità, evento, elemento soggettivo, deve essere provato in una progressione che saldi ogni fase della verifica a quella precedente, vuoi utilizzando elementi probatori diretti, vuoi indizi purché gravi, precisi e concordanti. Diversamente stanno le cose per quanto concerne il requisito sostanziale. E si badi. Non si tratta di rovesciamento del cosiddetto onere probatorio, che non troverebbe giustificazione in diritto penale, ma di una regola del processo di accertamento comune ad ogni ricerca che miri a stabilire ‘‘come le cose sono realmente andate’’: a fare, cioè, della storia. Quando la materia è dominata dall’id quod plerumque accidit, si adempie ad ogni corretto canone di analisi storica, facendo proprie le conclusioni che nascono dall’applicazione di tale principio. Solo allorché emergano dati dai quali sia possibile desumere che nel concreto le cose sono andate diversamente da come discenderebbe dal principio, ci si dovrà chiedere se vi sia eccezione alla regola. Ora, si è già detto che, nella normalità dei casi, la corrispondenza al tipo descrittivo implica l’offesa all’interesse protetto. Se per uno o più dati emergenti alla lettura del fatto sia lecito ipotizzare il contrario, si impone l’indagine sulla effettiva realizzazione del momento dell’offesa. Non in ogni caso, dunque. Ma unicamente allorché appaia necessario secondo i (9) Così ad esempio all’art. 81, primo e secondo comma, c.p. dove col termine azione deve intendersi il fatto, al completo di tutti gli elementi che lo costituiscono, che ponga in essere la violazione di un obbligo a contenuto negativo (di non fare). E lo stesso deve dirsi per il corrispettivo ‘‘omissione’’. Al solito le espressioni così richiamate hanno una valenza meramente oggettiva quando sono contrapposte ad un requisito soggettivo, di carattere psicologico. Si veda, in proposito, l’art. 42, primo comma, c.p.
— 785 — canoni di accertamento storico. Canoni il rispetto dei quali è controllato in maniera eminente in quel grado del processo che segna il passaggio dalla storia alla storiografia: la Cassazione. 7. Antigiuridicità formale e antigiuridicità sostanziale. — La dottrina prende in considerazione il momento dell’offesa dell’interesse o degli interessi giuridicamente rilevanti in una serie di situazioni e categorie dommatiche, che, pur partendo dalla medesima premessa, finiscono con l’esprimere dei contenuti notevolmente diversi. Le maggiori differenze tra le singole posizioni concernono, come è noto, soprattutto la funzione e la collocazione sistematica, nel quadro generale della fattispecie, che al concetto ottenuto si assegnano. Poiché si tratta di un problema veramente centrale, non soltanto nel campo del diritto penale, ma in tutto il settore della fenomenologia giuridica, la questione della rilevanza e del modo di rilevanza della violazione degli interessi tutelati impegna l’intiero atteggiamento dello studioso di diritto nei confronti dell’oggetto della sua indagine; ne determina, in un certo senso, il complessivo orientamento metodologico, e si può dire, in ultima analisi, che rappresenti l’indice più sicuro della sua concezione di ciò che è norma, ordinamento giuridico, e delle reciproche influenze tra criterio regolatore e materia regolata. Questa ricchezza di motivi che si riscontra nell’argomento che adesso dobbiamo affrontare non può essere, qui, per necessità di cose, che appena sfiorata; ai nostri scopi sarà sufficiente prendere posizione sui seguenti punti: in che senso vada intesa l’affermazione, così comune in dottrina, secondo la quale la lesione o la messa in pericolo di una data situazione di interessi costituisce una nota distintiva, un requisito, un carattere del fatto criminoso; e, una volta accertato che tale elemento svolga, in seno alla fattispecie criminosa, un ruolo diverso da quello di una mera indicazione sociologica o di politica legislativa, vedere quale ne sia l’esatta collocazione sistematica. Giova partire, per rispondere a queste domande, da una brevissima analisi delle principali categorie scientifiche che imperniano la loro definizione su quella della lesione dell’interesse. Tali categorie sono: l’antigiuridicità sostanziale o materiale in contrapposto all’antigiuridicità formale; l’offesa in contrapposto al danno; e, infine, l’evento giuridico in contrapposto all’evento naturalistico. Abbiamo volutamente indicato, in correlazione ai concetti che fanno capo al cosiddetto momento sostanziale, quelli che si trovano di fronte ad essi in un rapporto di tensione dialettica, perché ci sembra proprio che risalga ad uno sforzo di giustificazione o di critica, nella polemica con altri concetti, quel tanto di frammentario che si riscontra, salvo rarissime eccezioni nelle analisi che hanno per oggetto il momento dell’offesa.
— 786 — In altre parole, la dottrina, impegnandosi a difendere o a combattere una certa concezione basata sulla considerazione dell’interesse offeso, ha per lo più, trascurato che, una volta portata in discussione, sotto uno qualunque dei tanti profili possibili, la questione dell’aspetto sostanziale, accanto a quello formale, del reato, non ci si poteva più limitare a dare una risposta circoscritta al quesito particolare da cui traeva lo spunto. Bisognava, e bisogna, affrontare il problema in tutte le sue implicazioni, tanto d’ordine obiettivo che d’ordine soggettivo. D’altra parte, è doveroso riconoscere come l’approfondimento compiuto nelle singole direzioni lungo le quali l’indagine si è svolta ha raccolto tanta e tale massa di osservazioni, di chiarimenti, di precisazioni intorno ai vari punti toccati che se le linee di una sintesi, di una soluzione unitaria del problema della rilevanza dell’aspetto sostanziale del reato e dei suoi rapporti con quello che, per il momento, possiamo chiamare aspetto formale, incominciano a delinearsi, il merito ne va ascritto tutto a chi ha preparato e fornito quelle soluzioni parziali che rappresentano le indispensabili premesse di un inquadramento generale. Ciò è particolarmente vero per la contrapposizione antigiuridicità formale-antigiuridicità sostanziale, che, rappresentando lo scontro fra due valutazioni globali del fatto-reato è quella che, in questa fase introduttiva della nostra ricerca, ci interessa. Dietro alla diversità delle posizioni dottrinali sta un punto d’accordo che è costituito dal concorde riconoscimento che funzione del diritto è quella di tutelare gli interessi della vita sociale. Al di là di esso nasce il dissenso e nasce, proprio, dal contrasto che si verifica nel modo di intendere la relazione che si instaura tra questi due termini: la regola (il diritto) e la materia regolata (gli interessi). Secondo la teoria che per prima e più chiaramente ha posto sul tappeto tutti i dati concernenti il problema dell’antigiuridicità materiale, il giudizio di disvalore che investe l’azione sarebbe duplice: da un lato, l’azione è formalmente antigiuridica; dall’altro è materialmente antigiuridica. La prima qualifica discenderebbe dalla violazione della norma; la seconda da quella dell’interesse. Così impostato il problema, si giustificano tutti gli interrogativi volti a sapere quale sia il reale valore di questa enunciazione, che rapporto ci sia tra antigiuridicità formale e antigiuridicità materiale; se le valutazioni che esse esprimono diano luogo a due coefficienti distinti l’uno dall’altro i quali debbono autonomamente attuarsi; se, infine, il giudizio di antigiuridicità materiale possa condurre ad un risultato diverso da quello di antigiuridicità formale e, in caso affermativo, quale dei due prevalga sull’altro. Come si vede, un complesso di domande che ripropongono l’eterna polemica tra sostenitori di un diritto libero e sostenitori del diritto statuale o, se più piace, tra cultori dei valori della legge e cultori dei valori cosiddetti sostanziali.
— 787 — Ma occorre riconoscere che, formulata in tal modo, la questione soffre di una falsa partenza e minaccia di condurre ad un grave fraintendimento del significato che alla situazione ‘‘offesa di un interesse protetto’’ va riconosciuto. Presentato il giudizio sul carattere lesivo o pericoloso della condotta, come concettualmente autonomo ed, eventualmente, perfino contrastante con quello che afferma la violazione di una norma, la reazione di chiunque non voglia vedere naufragare l’ordine giuridico nell’incertezza e nel relativismo più assoluti non può essere che una. I giuristi italiani, qualunque sia la loro posizione di scuola, hanno sempre finito col concordare sul principio metodologico che ‘‘la illiceità giuridica penale formale è la sola vera illiceità giuridica’’ e che ‘‘la illiceità giuridica è necessariamente e sempre formale’’. Qualora il contenuto lesivo dell’azione si determini come un quid dotato di autonomia rispetto alla qualifica di antigiuridicità formale, al giudizio, cioè, che afferma che un certo comportamento è contrario ad una norma incriminatice, si dà vita ad un concetto che, se trova pratica applicazione, rischia di condurre all’anarchia giuridica; mentre si rivela del tutto inutile, se, come sono costretti ad ammettere i suoi stessi fautori, il giudice resta legato alla legge anche quando accerta che il legislatore si è sbagliato, permettendo ciò che è sostanzialmente illecito, o vietando ciò che non lo è. L’offesa dell’interesse non rappresenta, dunque, un elemento che, accanto a quello formale, costituito dalla violazione della norma, contribuisca a determinare l’illecito. Su questo punto non possono aversi dubbi di sorta; soprattutto quando si pensi che, poiché l’interesse, la cui lesione si ritiene ponga in essere una situazione di antigiuridicità materiale, è l’interesse protetto, l’interesse tutelato, e non qualunque interesse riscontrabile sul piano sociale, attraverso questa specificazione e questa limitazione si dà implicito rilievo al riconoscimento che di esso compie l’ordinamento. Ma questo — e lo abbiamo già detto — non ha che un mezzo per esprimere la sua valutazione di un interesse come degno di tutela: e cioè, predisporre una norma che ne vieti l’effettiva lesione o la messa in pericolo. Questo significa che, al di fuori del campo degli interessi protetti, non si ha offesa che dia luogo ad una situazione di antigiuridicità materiale e che solo per un errore di prospettiva il momento sostanziale si può concepire svincolato da quello formale. Senonché, e qui arriviamo al punto che a noi maggiormente interessa, è necessario stabilire quali siano gli elementi sulla cui base sorge la qualifica di antigiuridicità formale. Va bene parlare di contrarietà alla norma come unico requisito alla cui stregua si determini l’esistenza di un torto; ma quello che desideriamo sapere è proprio quando si possa ritenere realizzata una tale situazione di contrarietà. Non è più il caso, insomma, di parlare di una contrapposizione tra momento formale e momento sostan-
— 788 — ziale; bensì occorre precisare nell’ambito, sempre, della considerazione normativa, i requisiti che un certo fatto deve presentare perché possa essere ritenuto illecito (e s’intende, illecito formalmente, cioè illecito nell’unica accezione che abbia un significato per il giurista). Sia avvertito subito che il porre la questione nei termini che abbiamo indicato importa una prima, decisiva, chiarificazione. S’è visto come il dualismo tra ‘‘antigiuridicità formale’’ e ‘‘antigiuridicità sostanziale’’, ridotto alla sua più lineare espressione, non possa significare altro che antitesi tra un giudizio formulato alla stregua dell’ordinamento positivo e un giudizio che tiene conto, invece, di altri criteri di valore. Ora, basta pensare alle conseguenze di questa idea di una libera valutazione sociale contrapposta, proprio in linea di principio, a quella del legislatore, per capire perché la dottrina dell’antigiuridicità sostanziale debba, senza possibilità di scampo, limitarsi a fornire delle enunciazioni destinate a restare lettera morta in sede di attuazione del diritto; ovvero conduca il giurista fuori, quando non addirittura contro, l’ordinamento nel quale è chiamato ad operare. Senza svalutare il bisogno di aderenza alla realtà sociale, che rappresenta il momento migliore e più fecondo di simili tentativi, certo però è che molti equivoci si sarebbero evitati ove si fosse esattamente afferrato il senso della natura formale della illiceità. Questa non è, come molti sembrano credere, pura e vuota forma, priva di ogni contatto col mondo degli interessi umani, ma giudizio di relazione, che ha un proprio contenuto, costituito dalla manifestazione della volontà legislativa. Se riferito alla qualificazione, il termine formale sta, dunque, a denotare un’idea di rapporto e non una mancanza di contenuto: le espressioni di forma, da un lato, e di contenuto o sostanza, dall’altro, riacquistano il loro più preciso valore allorché dall’antigiuridicità vengano trasferite al fatto antigiuridico, dalla qualifica a ciò che è qualificato. Fermo restando che nel fatto giuridico non può avere rilevanza quello che l’ordinamento non abbia preso in considerazione, occorre stabilire il significato dell’affermazione secondo la quale il contenuto dell’illecito è dato da una lesione di interessi. Si intende, in tal modo, semplicemente porre in luce un criterio di tendenza che, dal più al meno, si può ritenere operante in ogni ordinamento, o, piuttosto, si enuncia una regola rispetto alla quale non sono possibili eccezioni? A questo punto si apre una duplice possibilità di soluzioni. Si può rispondere, in un ordine di idee che cessa di essere formale per diventare formalistico, che l’unico criterio del quale è necessario tener conto per stabilire se un fatto sia o meno antigiuridico è la sua corrispondenza ad un astratto tipo descrittivo legale; oppure si può esigere qualcosa di più. Fermiamoci un istante a considerare la portata e le conseguenze della prima soluzione.
— 789 — Elevare a unico momento, decisivo per l’esistenza del fatto, come illecito, la sua tipicità, presenta indubbiamente il grande vantaggio di risparmiare al giudice e all’interprete una serie di indagini oltremodo delicate e complesse. Non diremmo, però, che questa semplificazione dell’attività ermeneutica e dei compiti giudiziari si traduca anche in una maggiore fedeltà ed aderenza alla volontà normativamente significata. Si abbia presente, infatti, il procedimento per mezzo del quale il legislatore costruisce la fattispecie di un comportamento antigiuridico. Valendosi di una serie di considerazioni fondate sull’esperienza e sull’id quod plerumque accidit si perviene alla conclusione che certi comportamenti caratterizzati da determinate note sono pregiudiziali ad un interesse che viene reputato degno di tutela. Ora, quanto più si desidera che nessuna condotta dannosa o pericolosa per l’interesse che si vuol salvaguardare sfugga alla previsione normativa, tanto più la descrizione della relativa fattispecie risulterà imperniata soltanto su quelle note dalla cui presenza si pensi dipenda il nocumento o la possibilità di nocumento. Tanto più, cioè, la fattispecie in questione dovrà, per necessità di cose, prescindere da ogni altra modalità o circostanza che sul piano degli accadimenti reali caratterizzi la condotta. Il che, se non andiamo errati, porta con sé un gravissimo inconveniente. Vale a dire, rende possibile che sotto la figura criminosa cadano anche comportamenti i quali, malgrado la conformità al modello legale, si rivelino per effetto di particolarità che il legislatore, nel suo sforzo di astrazione generalissima, non ha potuto prevedere, del tutto innocui nei confronti dell’interesse alla cui tutela la norma penale è preordinata. Si vorrà, allora, sostenere che, in un’ipotesi del genere, il fatto che, senza dubbio è un fatto tipico conforme al tipo descrittivo, sia, per ciò solo, anche un fatto antigiuridico? Ma non vogliamo lasciare equivoci. Non diciamo che il giudice debba pronunciarsi sul carattere lesivo o pericoloso dell’azione, in base a criteri diversi da quelli forniti dal legislatore: criteri, ad esempio, etici sociali o economici. Così ragionando, invero, si attribuirebbero al magistrato poteri che non sono i suoi, rendendolo, in definitiva, arbitro di negare, nel caso concreto, validità alla legge, anche dopo averne accertati tutti i presupposti di applicazione. Il nostro punto di vista, ben diverso da quello tradizionale dei seguaci della teoria dell’antigiuridicità materiale, è che la conformità al tipo non rappresenta che una condizione, necessaria ma non sufficiente, per decidere se una condotta sia illecita o meno. Oltre al requisito della conformità al tipo, requisito certamente fondamentale, in quanto ad esso di regola consegue il carattere di antigiuridicità di un fatto, occorre anche che si realizzi quello della effettiva contrarietà all’interesse giuridicamente tutelato. Né si obietti che la differenza è soltanto di parole e che considerare l’indagine relativa a quest’ultimo punto entro i confini, invece che fuori, della norma, nulla muta alla sostanza delle cose: sempre infatti
— 790 — si finirebbe col chiedere al giudice una pronuncia che va oltre quella della mera corrispondenza della condotta allo schema normativo. A parte ogni considerazione sulle illusioni che si nutrono nei riguardi del cosiddetto sillogismo giudiziale (che postulerebbe un magistrato completamente spersonalizzato e trasformato in macchina per fare sentenze), si osserva come l’elemento differenziale sia innegabile, e consista nella necessità, implicita in tutto il nostro discorso, di formulare il giudizio sull’offensività o meno del fatto non dal punto di vista dell’interprete o di quello (che — poi — non si sa bene che cosa sia) della società; bensì dal punto di vista dell’ordinamento. Prendendo, cioè, come misura di valutazione del fatto da qualificare i principi che vigono nell’ambito di un dato sistema normativo, in modo che la qualifica attribuita non risulti priva di congruenza con essi. Insomma, potremmo dire che, pur riconoscendo all’offesa una efficacia costitutiva dell’illecito, la nostra resta sempre una concezione saldamente ancorata al presupposto normativo: anzi, è una concezione che costringe l’interprete a giocare con le carte che sono distribuite dallo stesso ordinamento. Riteniamo, insomma, che il valore qualificante discenda dalla norma al fatto, oltre che per la corrispondenza di quest’ultimo all’ipotesi astratta, anche per il suo rientrare compiutamente nella ratio della norma, vale a dire nel principio che ne costituisce la ragion sufficiente, ciò per cui essa è. Una situazione di fatto è elevata ad oggetto di qualificazione giuridica e una volta qualificata è idonea a produrre gli effetti giuridici stabiliti dalla norma, non come fine a se stessa, bensì in vista di uno scopo. Ove, pertanto, la qualificazione di una situazione di fatto (concreta) della quale sia già stata accertata la rispondenza allo schema descrittivo, non appaia conforme allo scopo che l’ordinamento attraverso una data norma persegue, viene meno ogni motivo per procedere alla qualificazione stessa, ossia, in linguaggio più strettamente penalistico, per definire antigiuridico un dato comportamento. Ed ecco, allora, come i termini di forma e sostanza, portati sul piano dell’analisi stutturale dei fatti giuridici, assumano il loro senso più proprio. Entrambi stanno ad indicare, cioè, i requisiti fondamentali di un comportamento giuridicamente rilevante: il primo esprime la necessità che la condotta realizzi il modello della descrizione legale; il secondo, che a tale condotta possa riconoscersi quel significato a cagione del quale il legislatore ha elevato ad elemento condizionante del prodursi di conseguenze giuridiche una determinata classe di fatti. È chiaro, quindi, che parlare, così come noi facciamo, di contenuto del fatto illecito non equivale a riferirsi a criteri di valutazione praeter legem, necessariamente assai vaghi ed incerti (nonché politicamente pericolosi) bensì presuppone un’indagine, in profondità, dell’ordinamento, ricostruito non soltanto nelle sue formulazioni espresse, ma anche negli scopi cui è preordinato.
— 791 — Del resto, questo pretendere ai fini della rilevanza penale, accanto alla tipicità della condotta, anche il requisito dell’offesa, non si pone come una caratteristica particolare del reato, ma rappresenta l’applicazione, ad un campo specifico, di un principio che è valido per tutti gli atti giuridici. In ogni ramo del diritto, cioè, la determinazione del tipo di comportamento umano corrispondente alla previsione normativa, avviene tanto in base alla corrispondenza ad un certo schema, che al realizzarsi di un certo contenuto. Con il quale ultimo concetto si vuole, appunto, esprimere l’esigenza che l’atto (oltre a possedere i connotati formali tipici che l’ordinamento, secondo quanto suole normalmente accadere, ritiene indici di quel significato in forza del quale l’atto è assunto come fattispecie di conseguenze giuridiche), si presenti, anche nel caso concreto e non unicamente in astratto, carico di questo significato o, che in fondo è lo stesso, adempia, anche nel caso concreto, la funzione che costituisce la ratio della sua giuridicità. Significato o funzione che, ove si tratti di atto giuridico lecito, sarà dato dalla regolamentazione di interessi di fronte ai quali l’ordinamento non può restare indifferente; mentre, quando si passi a considerare l’atto illecito, diventerà l’offesa di interessi che il legislatore reputa troppo importanti per essere abbandonati a qualunque ingerenza da parte di terzi. Onde evitare l’eccessivo tecnicismo e, soprattutto, quel tanto di stridente che, specialmente alle orecchie del laico, l’espressione ‘‘significato o funzione del reato’’ presenterebbe, preferiamo parlare di ‘‘contenuto’’. In conclusione, l’offesa dell’interesse tutelato, che si affaccia alle soglie della teoria dell’antigiuridicità quasi in una posizione di conflitto con la situazione che esprime la contrarietà alla norma, finisce, a ben guardare, per rivelarsi nella sua esatta natura di requisito che concorre a realizzare tale situazione. La violazione della norma penale è, insomma, perfezionata quando si ponga in essere un’azione tipica che leda o metta in pericolo l’interesse protetto. Abbiamo già anticipato che questo asserto, cui ci è possibile pervenire per via meramente deduttiva, argomentando dalla finalità di protezione di determinati rapporti tra gli uomini e i beni della vita, caratteristica del diritto, e dimostrando quanto poco sia giustificata una considerazione limitata ad un semplice giudizio di corrispondenza tra l’azione e uno schema astratto che, per forza di cose, deve prescindere da tutte le infinite sfumature riscontrabili negli accadimenti reali, trova puntuale riscontro in una fondamentale disposizione del nostro codice penale (art. 49, secondo comma, c.p.). 8. Il fatto-reato. — Gli elementi costitutivi essenziali delle singole fattispecie criminose emergono dalle singole norme penali reali dettate dal legislatore. Dall’analisi delle fattispecie criminose risulta che tutte presentano elementi essenziali comuni; attraverso la astrazione di tali elementi, otte-
— 792 — niamo gli elementi costitutivi essenziali con i quali possiamo costruire il modulo ideale del reato. Le regole di parte generale si incentrano prevalentemente su modelli ai quali devono adeguarsi gli elementi effettivamente richiesti in una figura di reato. Così i termini ‘‘azione’’ ed ‘‘omissione’’ non ci dicono nulla circa il contenuto che i termini corrispondenti alle relative nozioni, a seconda delle diverse norme incriminatrici, posseggono. Si limitano a delineare i profili dei comportamenti umani che saranno di volta in volta collocati sotto la casella ‘‘azione’’ o sotto quella di ‘‘omissione’’. Si tratta, insomma, di astrazioni che concettualizzano più fatti giuridici in un modello unico, che, evitando inutili ripetizioni, ne coglie l’aspetto formale costante. Va detto però che accanto a formulazioni del genere se ne incontrano altre che ipotizzano un dato contenutisticamente descritto che, sempre lo stesso, è suscettibile di verificarsi in relazione ad un numero praticamente illimitato di ipotesi oggetto di previsione normativa. Per ciò che concerne gli elementi positivi, si pensi agli artt. 40 e 41 c.p. che disciplinano non soltanto, come parrebbe dalla lettera della legge, il rapporto causale tra condotta ed evento, ma in modo generale ed esaustivo ogni processo causale rilevante per il diritto penale (e, assai probabilmente, per ogni settore dell’esperienza giuridica: si pensi per tutte alla problematica della causalità nei fatti illeciti di diritto civile) (10). Ancora più netta si presenta la rilevanza come elemento concreto di fattispecie allorché consideriamo alcune delle cosiddette scriminanti. Non si può dire, invero, che gli artt. 52 e 54 c.p. si limitino a delineare degli schemi vuoti che attendano di essere completati e concretati dal riferimento agli elementi offerti dalle varie ipotesi criminose. La situazione di legittima difesa e quella di stato di necessità sono compiutamente descritte nelle disposizioni richiamate, né al loro contenuto è aggiunto alcunché quando si realizzano accompagnando un comportamento che sarebbe stato illecito ove esse fossero mancate. Ciò posto, partiamo dalle regole che, in apicibus, disegnano la struttura minima ed inderogabile della fattispecie criminosa. In apicibus perché il riferimento è a regole costituzionali, con caratteristiche di assoluta essenzialità, perché sono richiesti gli elementi che si pongono come il minimo comun denominatore di ogni figura criminosa. L’art. 25, secondo comma, Cost. enuncia più e diversi principi fonda(10) Gli artt. 651, 652 e — per i giudizi civili o amministrativi diversi da quelli di danno — 654 c.p.p. si spiegano solo con la rilevanza che deve essere riconosciuta alla disciplina penalistica del rapporto di causalità, per ciò che concerne la struttura del fatto che ha cagionato il danno. Rimane il problema, cui si deve l’asserto di mera probabilità del testo, del nesso causale tra fatto e danno. Ma anche a questo riguardo, nell’assenza di regole che espressamente lo disciplinino, non sembra potersi fare a meno del ricorso ai disposti degli artt. 40 e 41 c.p.
— 793 — mentali del diritto penale. Innanzitutto, quello su cui ci siamo ampliamente soffermati ne « La legge penale », della riserva (assoluta) di legge; poi quello della irretroattività della legge incriminatice e, più generalmente, della legge più sfavorevole per il destinatario della regola penale; nonché la retroattività della legge più favorevole; infine, con passaggio dalle modalità di produzione ed applicazione delle regole penali a quello dei comportamenti che esse sanzionano, il principio che si può essere chiamati a rispondere soltanto per un ‘‘fatto’’. Dall’art. 27, primo comma, Cost. si evince, poi, che, essendo la responsabilità penale ‘‘personale’’, il fatto, oltre che proprio del soggetto che per esso sarà suscettibile di sanzione, con esclusione, quindi, di ogni ipotesi di responsabilità penale per fatto altrui (11), deve essere riferibile a tale soggetto in virtù di ciò che lo rende ‘‘persona umana’’ e non mera forza causale. Deve essere cioè riferibile alla coscienza e volontà sia in quanto effettivamente esplicate (mi sono rappresentato e ho voluto) sia in quanto non attuati ma potenzialmente attuabili (potevo rappresentarmi, potevo evitare) (12). La stretta relazione esistente tra il principio del fatto e quello della irretroattività della legge più sfavorevole conduce a ritenere che gli elementi di imputazione soggettiva, sintetizzati all’art. 27, primo comma, Cost. attraverso l’enunciato della natura personale della responsabilità penale, fanno parte della struttura del fatto. Se così non fosse, dovremmo — e sarebbe davvero assurdo — ritenere applicabile una legge sopravvenuta, che estendesse la punibilità di un certo fatto dalla realizzazione dolosa a quella colposa a chi detto fatto avesse commesso senza dolo, ma imprudentemente, sotto il regime della legge precedente. Sempre dallo stretto rapporto tra fatto e irretroattività della legge che lo prevede (quando questa sia più severa rispetto alla disciplina sotto la vigenza della quale il fatto era stato commesso) si evince il requisito della tipicità. Requisito che, seppur discendente dai contenuti della norma legislativa, riguarda specificatamente i tratti del fatto regolato. La garanzia stabilita dal principio di irretroattività contra reum trova la sua giustificazione in uno stato di cose che permetta al destinatario della regola di prenderne conoscenza e di seguirne il precetto. Donde la necessità che il fatto vietato o comandato sia fornito di lineamenti precisi (11) Per un tipico esempio di responsabilità civile per fatto altrui, cfr. art. 2049 c.c.: ‘‘Responsabilità dei padroni e dei committenti’’. A differenza di quanto è disposto dagli artt. 2047 e 2048 c.c. che si limitano ad invertire l’onere probatorio, le persone menzionate dall’art. 2049 sono incondizionatamente responsabili del fatto illecito dei domestici o dei commessi realizzato nell’esercizio delle incombenze a cui essi sono adibiti. (12) Cfr. Cass., Sez. I, 21 aprile 1972, n. 2593; Cass., Sez. I, 13 maggio 1976, n. 5764; Cass., Sez. I, 7 gennaio 1978, n. 352; Cass., Sez. I, 11 giugno 1980, n. 7319; Cass., Sez. I, 16 gennaio 1982, n. 354, Cass., Sez. I, 20 aprile 1984, n. 3605; Cass., Sez. V, 19 marzo 1993, n. 2634.
— 794 — e suscettibili non solo di essere compresi ma altresì di convincente verifica della rispondenza del fatto concreto al modello astratto (13). La rilevanza centrale che il ‘‘fatto’’ possiede per la determinazione dell’area sulla quale incide il principio di irretroattività ci ha portato a considerare inclusi nella relativa nozione gli elementi soggettivi, quelli che oltre ad essere determinanti, né più né meno che gli elementi oggettivi, per il disvalore del comportamento, si pongono come inderogabili criteri di imputazione della condotta al suo autore. Analoga conclusione si impone in ordine alle scriminanti, a quelle situazioni, cioè, in presenza delle quali non si verifica illecito penale. Dobbiamo ritenere che ex art. 25 Cost. esse sono ricomprese nel fatto come elementi la cui mancanza è necessaria perché quest’ultimo possa qualificarsi illecito penale. Se la regola della irretroattività segue i confini che delineano il concetto di fatto, non v’è dubbio che quanto si è osservato in ordine all’elemento psicologico vale anche per le scriminanti. Si faccia il caso dell’abrogazione di una disposizione che contempli una data scriminante (ad esempio, una delle ipotesi di adempimento di dovere discendente da ordine sostanzialmente illegittimo). Se la struttura del ‘‘fatto’’ non contemplasse la assenza di tale scriminante se ne dovrebbe concludere che a chi avesse posto in essere il comportamento in questione, vigente la normativa che detta scriminante contemplava, dovrebbe applicarsi la disciplina successiva — quella, cioè, che non fa più conto della esimente. E invero il fatto risulterebbe immutato tanto secondo la legge precedente che secondo quella successiva. Anzi, dovrebbe dirsi che per ciò che concerne il fatto costituzionalmente rilevante non vi sarebbe stata successione di legge. Ove è chiaro che per tal modo andrebbe, in questa ed in simili altre situazioni, completamente vanificata la funzione di regola di condotta dei disposti penali — quella funzione che offre al destinatario della norma la possibilità di orientarsi alla stregua di ciò che è lecito e di ciò che invece non lo è. Naturalmente sarebbe sempre possibile il ricorso all’art. 2 c.p. per il quale ‘‘Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato’’: ed è fuori discussione che la disposizione che prevedeva la scriminante poi abrogata, come quella che limitava la punibilità alla sola realizzazione dolosa, impedissero che il fatto potesse essere considerato reato. Ma una cosa è la garanzia posta da regola costituzionale, altra e ben diversa quella stabilita da legge ordinaria, sempre esposta quest’ultima ai colpi di mano di una possibile maggioranza magari tale per un solo voto, effimera o male intenzionata. (13) Cfr. sent. Corte Cost., 8 giugno 1981, n. 96, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 603 c.p.: plagio.
— 795 — Cogliamo subito il peso specifico della valenza costituzionale del principio del fatto quando poniamo a raffronto l’art. 1 c.p. con il secondo comma dell’art. 25 Cost. Anche all’art. 1 si enuncia la regola che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge come reato. Ma si tratta di legge ordinaria e, come tale, derogabile da altra legge del medesimo rango. Tanto che, con scarso fondamento sul piano della lettura delle disposizioni richiamate, ma nella perfetta legittimità di diritto pubblico generale — così come questo si presentava prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana — si è frequentemente parlato di reati di mero sospetto: di reati, cioè, non imperniati su un fatto umano ma su una situazione che giustifica il sospetto di commissione di futuri o passati reati. Esempi tipici di tali figure criminose erano visti nelle contravvenzioni di cui agli artt. 707 e 708 c.p. In realtà, nessuna delle due fattispecie ignora un fatto umano quale elemento costitutivo. Per entrambe il momento del fatto deve ravvisarsi nel possesso — giuridicamente rilevante solo se cosciente e volontario — di determinati oggetti. Tant’è che la previsione posta dall’art. 708 c.p. è stata ritenuta dalla Corte Costituzionale illegittima ai sensi degli artt. 3 e 25 Cost. per irragionevole discriminazione nei confronti di una categoria di soggetti composta da pregiudicati per reati di varia natura o entità contro il patrimonio che siano colti in possesso di denaro o di oggetti di valore o di altre cose non confacenti al loro stato, e per mancanza di tassatività del precetto, in quanto tipizzato attraverso la riferibilità del fatto, di per sé neutro, a un pregiudicato per alcune classi di precedenti penali, e non per carenza di un fatto riferibile ad un soggetto agente. E per contro, sempre nella sentenza n. 370 del 2 novembre 1996, la Corte Costituzionale ha ritenuto la legittimità dell’art. 707 c.p., la fattispecie del quale è caratterizzata dalla medesima struttura di quella dell’art. 708, rilevando che ‘‘la determinazione del fatto-reato è data dalla tipologia stessa degli oggetti detenuti, in ordine ai quali è pleonastica la mancata giustificazione della loro attuale destinazione’’. Dove è importante notare come le questioni di legittimità costituzionale si incentrassero non su una asserita mancanza del fatto, bensì su una insufficiente tipicizzazione di quest’ultimo. Come che sia per ciò che concerne la pertinenza delle esemplificazioni addotte, certo è che prima dell’entrata in vigore della Costituzione sarebbe stata pur sempre concepibile la previsione di reati imperniati su mere situazioni di sospetto (sul tipo delle fattispecie che danno vita alle misure di prevenzione). Possibilità, questa, esclusa dall’enunciato dell’art. 25, secondo comma, Cost. che non pone eccezioni di sorta alla regola secondo la quale non si dà fattispecie criminosa senza un fatto umano. 9. Nozione costituzionale e nozioni codicistiche del fatto. — Abbiamo finora delineato la struttura del fatto così come essa si profila alla
— 796 — stregua della previsione dell’art. 25, secondo comma, Cost. Comprensiva, come è, oltre che, naturalmente, dell’elemento oggettivo, dell’elemento soggettivo e dell’assenza di situazioni scriminanti, la nozione fornita dall’art. 25 Cost. coincide con quella di reato. Resta da vedere se l’uso che del termine ‘‘fatto’’ compie la legge penale ordinaria e, in particolar modo, il codice penale (14) e quello di procedura penale sia identico o no a quello che ne fa il dettato costituzionale. Limitiamoci, per il momento, al codice penale. Si è già visto come il fatto su cui si incentra il disposto dell’art. 1 c.p. (‘‘Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite’’) vada inteso negli stessi termini di quelli che caratterizzano il concetto costituzionale. Le ragioni di garanzia che sono alla base dell’art. 1 sarebbero in larga parte eluse se nella nozione in questione non si comprendessero anche l’elemento soggettivo e l’assenza di scriminanti. A diversa conclusione occorre giungere quando si esamini il disposto dell’art. 47 c.p. Al primo comma questo dispone che ‘‘l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente’’. Data la contrapposizione fra l’elemento soggettivo e ciò che ne costituisce l’oggetto (che cosa mi rappresento, che cosa voglio) il termine fatto non può che esprimere gli elementi oggettivi del reato. Più precisamente, occorre dire che il fatto è in tale norma inteso come insieme degli elementi oggettivi positivi. La situazione psicologica simmetrica a quella dell’errore sugli elementi positivi e cioè la supposizione erronea dell’esistenza di una scriminante, è disciplinata dall’art. 59, ultimo comma, c.p. Così come gli elementi positivi, cioè quelli che debbono realizzarsi perché si dia illecito penale, vanno rappresentati e voluti, gli elementi negativi, quelli che debbono mancare perché si dia illecito penale, non debbono essere oggetto di rappresentazione. Il difetto di rappresentazione di un elemento positivo come l’erronea rappresentazione di un elemento negativo esclude il dolo. Simmetricamente, deve dirsi che sono elementi del fatto quelli che, previsti come elementi che debbono essere positivamente realizzati, costituiscono oggetto di volontà e rappresentazione da parte del soggetto agente; appartengono altresì al fatto, come elementi negativi, quelli sui quali non deve cadere la rappresentazione stessa. In definitiva, il concetto di fatto nel suo profilo oggettivo si riporta al dolo: tanto per ciò che ne costituisce l’oggetto positivo, quanto per ciò che non ne deve costituire oggetto. (14) Per il codice penale si vedano, ad esempio, con significati diversi, l’art. 1 e l’art. 47 c.p.; per il codice di procedura penale si vedano, ad esempio, le formule terminative delle sentenze di proscioglimento: il fatto non sussiste, il fatto non costituisce reato, non commissione del fatto.
— 797 — Resta sia ex art. 47 c.p. che ex art. 59, ultimo comma, c.p. la responsabilità per colpa: ma anche qui le cose non mutano. L’errore dovuto a colpa deve concernere o gli elementi positivi, che nella realizzazione dolosa si riflettono positivamente nel dolo, o quelli negativi, che nella realizzazione dolosa non debbono essere rappresentati dall’agente. Emerge a questo punto, interpretando sistematicamente l’art. 47, primo comma, c.p. e l’art. 59, ultimo comma, c.p., una nozione di ‘‘fatto’’ più ampia di quella normativa discendente dall’art. 47, primo comma e che consiste nel complesso degli elementi positivi e negativi del fatto. Questa nozione di fatto che astraiamo in via di interpretazione sistematica del diritto positivo e che non coincide con i due concetti di fatto normativamente previsti (con riferimento agli artt. 1 c.p., 25, secondo comma, Cost. e 47, primo comma, c.p.) permette di comprendere perché l’errore è trattato nello stesso modo sia che cada sugli elementi positivi, sia sugli elementi negativi. Entrambi gli errori escludono nel soggetto agente la rappresentazione e la volontà del fatto che costituisce reato. 10. Struttura della fattispecie criminosa: concezione bipartita e concezione tripartita. — Si è molto discusso in dottrina sulla ripartizione degli elementi costituitivi del reato in due o più nozioni. Senza indugiare su quelle che si pongono o come chiarimento utile, ma non necessario, di ciò che significa fatto, specificando che quest’ultimo deve essere tipico (il che ovviamente è implicito nell’enunciato che ha come punto di riferimento il fatto quale fatto giuridico, non come accadimento fenomenico), o trasferiscono sulla struttura della fattispecie condizionante momenti che fanno parte, invece, delle conseguenze condizionate — e si parla in tal senso della punibilità quale elemento del reato — prendiamo brevemente in esame le due concezioni che da tempo appaiono dominanti. Secondo la concezione tripartita, la struttura della fattispecie criminosa (rectius: del reato; si danno fattispecie criminose che accanto al reato esigono il verificarsi di eventi ulteriori che del reato non fanno parte) sarebbe costituita dal fatto, come insieme degli elementi materiali di cui è necessaria la realizzazione, dall’antigiuridicità obiettiva, che qualificherebbe nel senso della contrarietà al diritto penale gli elementi che danno vita al fatto e dall’elemento soggettivo, o volontà colpevole, o colpevolezza, che permette l’imputazione del fatto, antigiuridico, a chi lo ha posto in essere. La concezione bipartita, invece, contrappone al fatto l’elemento soggettivo della volontà colpevole. Non si parla, in quest’ordine di idee, di antigiuridicità obiettiva penale, bensì di antigiuridicità penale che investirebbe tutti gli elementi del reato, tanto soggettivi che obiettivi, e che, in quanto tale, rappresenterebbe una qualifica dell’insieme (il reato) e non una parte o momento che dir si voglia dell’insieme stesso. La teoria dell’antigiuridicità penale obiettiva va incontro a serie diffi-
— 798 — coltà quando ci si pone la domanda su quale sia il criterio alla cui stregua si formula il relativo giudizio. Certamente non la norma penale incriminatrice, a meno di accedere alla mitologia della cosiddetta doppia funzione della norma stessa: che, in primo luogo, isolerebbe gli elementi obiettivi del fatto valutandoli negativamente, cioè antigiuridici; quindi passerebbe ad una funzione di comunicazione imperativa comandando di astenersi dal comportamento qualificato come antigiuridico. Ma di valutazione normativa può parlarsi soltanto quando ad essa faccia seguito l’applicabilità di effetti sanzionatori: e questi, come sappiamo, nascono da un comportamento fornito non soltanto delle note di tipicità oggettiva, ma anche di quelle che segnano la tipicità soggettiva. Non è la pura e semplice causazione della morte di un uomo a mettere in moto il meccanismo coattivo-sanzionatorio, occorre che la condotta che cagiona l’evento letale sia sorretta da dolo o, perlomeno, da colpa. Ma non basta. Si è già detto che segno inconfutabile che l’elemento soggettivo fa parte dell’oggetto della valutazione normativa è che per i reati più gravi, i delitti, ordinariamente si risponde solo per dolo: la colpa è rilevante quando la realizzazione colposa di un certo fatto sia espressamente preveduta dalla legge. Il che significa una prima cernita operata dal sistema normativo che si riserva di prendere posizione singola fattispecie per singola fattispecie sulla necessità, od opportunità, di punire la commissione di un fatto delittuoso non ‘‘intenzionale’’ ma dovuto a mera leggerezza. E quando alla colpa è dato rilievo, la conseguenza di punibilità ricollegata alla condotta colposa è sempre di misura notevolmente inferiore a quella propria del corrispondente comportamento doloso. La rinuncia ad utilizzare la norma incriminatrice come criterio dal quale discenderebbe la qualifica di antigiuridicità penale oggettiva potrebbe indurre a ritenere che a detta qualifica si perviene alla stregua di norme, diverse da quella incriminatrice, la violazione delle quali si riscontrerebbe in ogni fatto di reato. Non si perverrebbe, insomma, all’illecito penale se non attraverso la messa in atto di un illecito non penale, o comunque diverso da quello costituito dalla inosservanza dell’obbligo discendente dalla norma incriminatrice. Senonché, se questo passaggio dall’una all’altra forma di illecito è frequente — basti pensare, per tutti, ai delitti conto il patrimonio — esso non rappresenta una costante delle fattispecie criminose. Assai numerose, infatti, sono quelle nelle quali si verifica proprio il contrario di quanto postula la cosiddetta concezione sanzionatoria del diritto penale. È l’illecito penale, attraverso le norme di collegamento tra giurisdizione penale e giurisdizione extrapenale e, ancor più semplicemente, per il dettato dell’art. 2043 c.c. (danno ingiusto è anche, anzi, in primo luogo, quello causato da un reato), a costituire momento essenziale di illecito, ad esempio, civile. Più calzante parrebbe il riferimento ad una situazione di contrarietà
— 799 — all’ordinamento, considerato nel suo insieme, che produrrebbe la sanzione dell’impedibilità: reazione dell’intiero ordinamento e non di uno specifico settore di esso alla condotta che si avvia a dar luogo ad un reato. Ma l’impedibilità, conseguenza in forza della quale diventa lecito, come per ogni sanzione, ciò che se non fosse tale costituirebbe condotta antigiuridica, rinvia alla legittima difesa: e questa esige che l’offesa sia rivolta ad un ‘‘diritto’’ proprio o altrui. E qui non possiamo anticipare ciò che per ‘‘diritto’’ ai sensi di tale scriminante si deve intendere. Questi gli interrogativi ai quali la teoria della antigiuridicità penale oggettiva non pare dare risposte soddisfacenti. Si possono, invece, considerare poco appropriate le critiche che contestano la stessa configurabilità di un illecito oggettivo, tale cioè prima e indipendentemente dalla realizzazione di elementi soggettivi. A quest’ordine di idee, che nasce dalla concezione imperativistica del diritto, si può ribattere che negli ordinamenti moderni non esiste una struttura tipo dell’illecito. Accanto ad illeciti contrassegnati dalla rilevanza di momenti soggettivi, si danno, e assai numerosi, illeciti puramente oggettivi. Così quello che costituisce elemento essenziale della più complessa fattispecie delineata dall’art. 2043 c.c. Ciò detto, va ricordato che siamo in presenza di un problema di sistemazione degli elementi essenziali del reato, rispetto al quale è inopportuno prendere posizione o assumere conclusioni come se si trattasse di muovere da dati incontestati e incontestabili forniti di valenza indipendente dalle funzioni che le nozioni che li esprimono svolgono. Ora, quando ci chiediamo quale sia il senso, il significato della qualifica di antigiuridicità penale obiettiva, la risposta non può essere che una. Si ricorre a questo terzo requisito dell’illecito penale per introdurre accanto al fatto umano e alla colpevolezza un elemento negativo: l’assenza di scriminanti. Ma abbiamo già visto come il concetto di fatto umano tipico, desumibile dall’interpretazione sistematica degli artt. 47 e 59 c.p., comprenda in sé anche la mancanza di scriminanti. Stando così le cose, la superfluità della qualifica di antigiuridicità obiettiva, come terzo requisito del reato, non può essere negata. Non è questione di optare per una concezione piuttosto che per l’altra in termini di maggiore o minore correttezza scientifica. Contano ragioni di semplicità e facilità a spiegare la struttura del reato, sia sul piano oggettivo che, come già si è accennato, sul piano soggettivo. A tacere di ogni altra considerazione, muovendo ad esempio dall’angolo visuale offerto dall’oggetto del dolo e della colpa, gli imbarazzanti quesiti che si pongono circa la riconducibilità a tale nozione della qualifica di illecito oggettivo sono radicalmente superati dal rilievo che la regola dettata dall’art. 59, ultimo comma, c.p. risolve il problema in termini di necessità che il soggetto agente non abbia la rappresentazione degli elementi costitutivi di una scriminante: non si esige, insomma, che per aversi dolo si ab-
— 800 — bia consapevolezza dell’antigiuridicità obiettiva del comportamento posto in essere. 11. I c.d. presupposti del reato. — Accanto, anzi, prima della categoria degli elementi essenziali del reato, alcuni autori collocano la categoria dei cosiddetti presupposti del reato: elementi che, senza essere parte costitutiva della fattispecie criminosa, rappresentano presupposti che condizionano l’esistenza dell’illecito (ad esempio: la norma penale, il soggetto agente, il bene penalmente tutelato). La concezione che vede nella regola incriminatrice un presupposto del reato si basa su un equivoco. Confonde il reato dato fenomenico con il reato istituto giuridico (reato in astratto); quest’ultimo non è altro che il complesso di disposizioni che concorrono a individuare la norma penale incriminatrice (norma penale reale). Pertanto la norma penale non è un prius rispetto al reato in astratto; il reato in astratto coincide con la norma penale (rectius: con la parte condizionante della norma penale). Solo passando da una indagine giuridica ad una indagine fenomenica potremmo dire che la norma penale condiziona la esistenza del reato (in concreto), nel senso che, se non ci fosse una certa previsione legislativa, un certo fatto non costituirebbe reato; ma è chiaro che in questa sede, cioè in sede di analisi del reato, noi ci occupiamo del reato come istituto giuridico e non come ente fenomenico. Presupposto generale del reato è considerato anche il soggetto agente: colui che è idoneo a porre in essere un reato in quanto titolare della capacità giuridico-penale. Potrebbe parlarsi di presupposto se la capacità di diritto penale, come titolarità di situazioni giuridico-penali sfavorevoli, non fosse riconducibile alla categoria più propria del ‘‘soggetto penalmente rilevante’’ data l’inscindibilità, in diritto penale, tra capacità giuridica e capacità d’agire (15). Pertanto il soggetto agente non è un semplice presupposto del reato, ma è assai di più: è il soggetto che dà vita al reato. Maggiori consensi potrebbe forse meritare la considerazione delle qualifiche che condizionano la realizzazione di determinati reati (propri in senso stretto (16)) come presupposti del reato: ma anche a questo ri(15) Cfr. La legge penale, cit., p. 190 ss. (16) Definiamo propri in senso stretto quei reati il cui soggetto attivo deve possedere una qualifica che non si ricava da elementi del fatto: così ad esempio l’accettazione di onorificenze o altre utilità da uno Stato nemico. Comportamento che potrebbe benissimo essere posto in essere da uno straniero, ma la cui rilevanza penale è circoscritta, per ovvi motivi, alla commissione da parte dei soli cittadini italiani. Si pensi, adesso, alla profonda differenza rispetto alla fattispecie dell’art. 314 c.p. Il soggetto attivo deve essere un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, ma la portata della norma resterebbe invariata anche se l’autore fosse indicato con l’usuale ‘‘chiunque’’. Poiché la struttura del fatto esige che il possesso del denaro o altra cosa mobile sia dovuto a ragioni di ufficio o di pubblico servizio è da questo elemento oggettivo che scaturiscono le qualifiche espressamente menzionate: con
— 801 — guardo può osservarsi che dette qualifiche trovano la loro sistematica nella nozione di capacità penale. Più precisamente si pongono come costitutive della capacità cosiddetta relativa. E non si vede, pertanto, la convenienza del ricorso a concetti ripetitivi gli uni degli altri. Quanto al bene giuridicamente tutelato si possono richiamare, mutatis mutandis, le stesse considerazioni che si sono svolte circa la norma penale. Rispetto al reato in astratto, ossia alla descrizione del reato contenuta nella norma reale, il bene (rectius: interesse) penalmente tutelato non è un prius, ma semplicemente l’oggetto di una valutazione (operata dal legislatore secondo l’id quod plerumque accidit) di un rapporto tra i singoli soggetti e una entità, preesistente alla norma o creata da quest’ultima, che si deduce da detta descrizione. Oggetto la cui struttura è data da tutti gli elementi presi in considerazione dallo schema descrittivo della norma incriminatrice. Ciò che può accogliersi è la categoria dei presupposti del fatto, più precisamente, della condotta del soggetto agente: elementi naturali o giuridici che devono preesistere alla condotta criminosa perché il reato possa verificarsi; ad esempio l’esistenza di un precedente matrimonio valido agli effetti civili nel reato di bigamia (art. 556 c.p.), l’altruità della cosa nel furto (art. 624 c.p.), la gravidanza nell’interruzione della stessa senza il consenso della donna (art. 18, L. 194/78), ecc. Questa categoria, metodologicamente ineccepibile, ha notevole importanza pratica: soprattutto perché nei suoi confronti l’elemento soggettivo si atteggia talora in maniera particolare. MARCELLO GALLO
conseguenze, assai rilevanti, per ciò che concerne la disciplina dell’errore sul fatto costitutivo di illecito.
DIRITTO PENALE ‘MINIMO’ E NUOVE FORME DI CRIMINALITÀ (*)
SOMMARIO: 1. Il punto di partenza: nuove forme di criminalità. — 2. Le tendenze ‘riduzionistiche’ di un filone della dottrina penalistica: il c.d. diritto penale minimo. — 3. Le risposte dei teorici del diritto penale ‘minimo’ alle nuove forme di criminalità. — 4. Il diritto penale ‘minimo’: una proposta neoliberale o neoliberista? — 5. Diritto penale ‘minimo’, criminalità organizzata e attentati alle istituzioni democratiche. — 6. Diritto penale liberale o diritto penale ‘minimo’?
1. Il punto di partenza: nuove forme di criminalità. — Negli ultimi decenni il volto della criminalità nelle società europee è mutato radicalmente: sono emersi fenomeni nuovi e sono diventati più numerosi e più gravi fenomeni che in passato rappresentavano una felice rarità. Accenneremo schematicamente a questi fenomeni, perché si tratta del banco di prova su cui valutare la plausibilità delle proposte politico-criminali avanzate sotto il vessillo del diritto penale ‘minimo’. 1.1. Molti di questi fenomeni patologici si radicano nel mondo degli affari. Notizie relative a scandali finanziari di proporzioni gigantesche compaiono con frequenza non solo nei giornali economici, ma anche sulle prime pagine di tutti i quotidiani. È difficile individuare un gruppo di imprese di rilevante importanza che non sia o non sia stato di recente coinvolto in almeno uno di questi scandali. Né si tratta di fatti le cui ripercussioni si esauriscono entro i confini nazionali: la globalizzazione dei mercati finanziari si manifesta anche nelle situazioni patologiche. Bilanci falsi — funzionali, fra l’altro, ad imponenti evasioni fiscali —, informazioni non veritiere sulla situazione economica della società, la creazione di ‘fondi neri’ a disposizione di amministratori rapaci o comunque disonesti sono altrettanti attentati alla fiducia degli investitori. La conseguenza quasi automatica del tradimento di questa fiducia è la fuga in massa dei capitali stranieri, il crollo delle quotazioni di borsa, la rovina dei piccoli risparmiatori, il coinvolgimento del sistema bancario, per finire, talora, con la chiusura delle fabbriche e il licenziamento degli operai. In Italia scandali del genere sono stati frequenti e clamorosi, soprat(*) sapia.
Il presente saggio è destinato agli Studi in memoria del prof. Gian Domenico Pi-
— 803 — tutto negli ultimi vent’anni. Non si tratta però di un fenomeno solo italiano. La letteratura criminologica dei principali paesi europei ci informa infatti del carattere ubiquitario delle principali tipologie di illeciti economici di grandi dimensioni; e la diffusione di queste patologie in tutti i Paesi dell’Europa occidentale richiama la crescente attenzione degli organi della Comunità Europea: sempre più spesso i legislatori nazionali vengono invitati a reprimere nuove forme di illecito economico, come è accaduto, ad esempio, per l’insider trading (1), ovvero a prevedere per svariate forme di criminalità economica la responsabilità penale delle imprese, concorrente con quella degli amministratori (2). (1) Per un esauriente esame della disciplina dell’insider trading nell’ordinamento italiano, introdotta con la l. 17 maggio 1991 n. 157, attuativa della direttiva CEE n. 89/592 del 13 novembre 1989, cfr. MUCCIARELLI, Speculazione mobiliare e diritto penale, 1995, e ivi un’ampia bibliografia. Anche per un quadro di diritto comparato, antecedente alla riforma italiana, cfr. inoltre SEMINARA, Insider trading e diritto penale, 1989. (2) A proposito di una recente convenzione internazionale in materia di criminalità degli affari — il Secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee (Convenzione P.I.F.), del 19 giugno 1997 — che prevede la configurazione da parte degli Stati firmatari della responsabilità penale delle persone giuridiche, cfr. DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in questa Rivista, 1999, p. 19 s. L’introduzione della responsabilità penale delle persone giuridiche in altri settori del diritto penale dell’economia è poi prevista, fra l’altro, in due recentissime convenzioni sottoscritte dagli Stati membri del Consiglio d’Europa: la Convenzione sulla protezione penale dell’ambiente, Strasburgo, 4 novembre 1998, in Série des Traités européens, 172 (art. 9) e la Convenzione penale sulla corruzione, Strasburgo, 27 gennaio 1999, ivi, 173 (artt. 18 e 19). Per un quadro delle tendenze della legislazione europea ed extraeuropea in tema di responsabilità penale delle persone giuridiche, cfr. inoltre TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in questa Rivista, 1995, p. 615 ss. e, da ultimo, l’ampio e approfondito studio di DE MAGLIE, Societas delinquere potest. Un’indagine di diritto italiano e comparato, 1999. Sulle prime esperienze maturate in Francia, dopo che il codice penale del 1994 ha introdotto la responsabilità penale delle persone giuridiche, cfr. i contributi di FRANCHI, A quoi peut bien servir la responsabilité pénale des personnes morales?, in Rev. sc. crim., 1996, p. 277 ss.; VICHNIEVSKY, Bilan sommaire de la mise en oeuvre de la répression à l’encontre des personnnes morales, ivi, p. 289 ss.; PINIOT, Table ronde. Evaluation comparée des deux voies répressives, ivi, p. 293 ss. Sugli orientamenti del diritto penale statunitense, cfr. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi e innovazioni nel diritto penale statunitense, in questa Rivista, 1995, p. 88 ss. Un significativo indice degli orientamenti oggi dominanti in Europa in tema di responsabilità penale delle persone giuridiche è fornito anche dal ‘‘Corpus iuris recante disposizioni penali per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea’’, presentato nel 1996 a conclusione dei lavori di una commissione di esperti costituita su iniziativa del Parlamento europeo: il progetto, limitatamente ai reati ivi contemplati, prevede infatti la responsabilità penale degli enti collettivi (art. 14). Il testo del Corpus iuris e la relazione che lo accompagna possono leggersi in Verso uno spazio giudiziario europeo. Corpus iuris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea, 1997, p. 33 ss. In controtendenza rispetto al generale orientamento a favore della responsabilità penale delle persone giuridiche, si è mosso di recente il codice penale della Federazione Russa in vigore dal 1o gennaio 1997, che all’art. 19, nell’individuare i ‘‘requisiti generali della responsabilità penale’’, fa esclusivo riferimento alla ‘‘persona fisica’’. In propo-
— 804 — 1.2. Strettamente correlato alla criminalità economica è il fenomeno dei sistematici accordi corruttivi tra mondo politico e mondo degli affari. La costruzione di nuove strade, l’ampliamento delle reti dei trasporti pubblici urbani — in particolare, delle ferrovie metropolitane —, la creazione di nuove discariche per lo smaltimento dei rifiuti, la fornitura di impianti e macchinari alla pubblica amministrazione hanno spesso fornito l’occasione, nell’esperienza italiana di questi anni, per far scorrere imponenti flussi di denaro dalle imprese ai partiti politici in cambio dell’attribuzione di appalti, commesse e favori di ogni genere. I danni complessivi di queste pratiche illecite si possono così compendiare: da un lato, la corruzione dei pubblici ufficiali e degli esponenti politici ha provocato una devastante crisi di fiducia nella correttezza e imparzialità della pubblica amministrazione e nelle stesse istituzioni democratiche; dall’altro lato, le imprese corruttrici hanno ricavato enormi profitti, danneggiando i concorrenti onesti e, soprattutto, l’intera collettività, che ha pagato per ogni opera pubblica somme di gran lunga superiori al giusto prezzo. La vastità dei danni provocati da questi fenomeni corruttivi è stata ripetutamente sottolineata con drammatica efficacia dal Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. ‘‘Il danno più grave che le forme di corruzione, ora giudiziariamente perseguite, hanno arrecato all’economia italiana è costituito dall’interferenza che tali comportamenti hanno esercitato sul buon funzionamento di una economia concorrenziale. Oltre agli effetti di disincentivazione di una sana competizione, rimane una differenza rilevante tra il valore delle opere realizzate con criteri di favoritismi e corruttela e il valore di quelle che sarebbero state ottenute attraverso una spesa effettuata secondo criteri di efficienza e di economicità’’ (3). Ancora: ‘‘Forme di corruzione diffusa nei rapporti fra imprese e sfera pubblica hanno gonfiato la spesa, leso il buon funzionamento del mercato, ostacolato la selezione di fornitori e dei prodotti migliori. L’esito di questa tassazione impropria, che da ultimo ricade sui cittadini, la conseguente distorsione nella allocazione delle risorse si stanno rivelando di una gravità che sgomenta’’ (4). sito, anche con riferimento ai lavori preparatori, nel corso dei quali si era affacciata anche la soluzione opposta, cfr. DEL TUFO, Il nuovo codice penale russo: un primo sguardo d’insieme, in Il codice penale della Federazione Russa, trad. it., 1998, p. 58 s. In Italia, nel Disegno di legge Dini-Diliberto, approvato dalla Camera dei Deputati il 24 marzo 1999 e trasmesso al Senato il 25 marzo del 1999, contenente la ratifica di una serie di Atti internazionali elaborati in base all’art. K 3 del Trattato sull’Unione Europea, all’art. 6 si prevede la delega al Governo per la configurazione di una responsabilità amministrativa (dunque, non penale) delle persone giuridiche a vantaggio delle quali sia stato commesso il reato. (3) FAZIO, Etica ed economia, in Razionalità economica e solidarietà, 1996, p. 37. (4) FAZIO, Relazione del Governatore della Banca d’Italia del 1993, in Il Sole-24 Ore Documenti, 1o giugno 1993, p. 15. Sui danni macroeconomici della corruzione, cfr. altresì
— 805 — Anche questo tipo di fenomeni non è, d’altra parte, un’esclusiva delle vicende italiane degli ultimi anni: lo attestano le allarmate relazioni dei rappresentanti dei Paesi europei ed extraeuropei più sviluppati presentate alla Settima e all’Ottava Conferenza Internazionale sulla Corruzione (IACC), svoltesi rispettivamente a Pechino nel ’95 (5) e a Lima nel ’97, nonché, soprattutto, in ambito europeo, alcune recenti convenzioni che impegnano gli Stati contraenti a intensificare la lotta contro la corruzione dei pubblici funzionari nazionali e stranieri (6). In tema di corruzione, l’Italia può semmai vantare la scoperta e la repressione da parte della magistratura di un numero particolarmente rilevante di episodi: soprattutto per effetto dell’inchiesta ‘Mani pulite’ dei giudici di Milano, un’intera classe politica è stata spazzata via e decine dei più alti dirigenti di grandi imprese nazionali e straniere hanno fornito i loro volti alle immagini ‘libresche’ dei ‘criminali dal colletto bianco’. 1.3. Il mondo imprenditoriale è protagonista di un altro importantissimo capitolo della criminologia contemporanea: gli attentati all’ambiente. Non si tratta di un fenomeno nuovo: gli anni della ricostruzione dei Paesi europei devastati dalla seconda guerra mondiale furono caratterizzati dalla totale disattenzione per le ripercussioni dannose della ripresa delle attività industriali e della crescita incontrollata degli insediamenti produttivi e urbani. Negli ultimi decenni, peraltro, lo sviluppo industriale ha assunto ritmi sempre più accelerati, moltiplicando di pari passo i rischi per l’integrità degli equilibri ecologici e per la salute collettiva. Il cumularsi nel tempo di fenomeni di inquinamento dell’acqua e dell’aria, il diffondersi delle conoscenze scientifiche sui danni immediati o futuri che derivano da quei fenomeni, il verificarsi di alcune vere e proprie catastrofi ecologiche hanno ormai reso visibile a tutti che il mancato rispetto da parte delle imprese industriali delle cautele messe a disposizione dalla tecnica per minimizzare i rischi ambientali offende interessi vitali dei singoli e della collettività (7). FORTI, La corruzione del pubblico amministratore. Linee di una indagine interdisciplinare, 1992, p. 23. (5) Cfr. Anti-Corruption for Social Stability and Development, The Collected Works of the Seventh International Anti-Corruption Conference, Pechino, 1996. (6) Ci riferiamo al Secondo Protocollo della citata Convenzione P.I.F. e alla Convenzione del 1999 sulla corruzione promossa dal Consiglio d’Europa (cfr. supra, nt. 2), nonché alla Convenzione OCSE del 17 ottobre 1997 sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali, il cui testo è pubblicato in International Business Transactions (and related Documents), 1997, p. 6 ss. (7) La dottrina più autorevole a livello europeo segnala che ‘‘la trascuratezza collettiva degli obblighi... in materia di tutela dell’ambiente o di conservazione del clima’’ è oggi avvertita come ‘‘una minaccia per l’esistenza dell’umanità’’: così JESCHECK, Franco Bricola e la sua opera vista dalla Germania, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, 1998, p. 16.
— 806 — Le ripercussioni dannose degli attentati all’ambiente, d’altra parte, travalicano spesso i limiti di questo o quello Stato: è il caso degli incidenti a centrali nucleari, dell’affondamento di petroliere, dell’immissione di scarichi inquinanti nelle acque di fiumi che attraversano diversi Stati. E un importante segnale, in ambito europeo, della consapevolezza della gravità delle offese ai beni ambientali viene ora, fra l’altro, dalla Convenzione sulla protezione penale dell’ambiente del 4 novembre 1998 (8), sottoscritta dai Paesi membri del Consiglio d’Europa, che prevede l’obbligo da parte dei legislatori nazionali di incriminare una serie di aggressioni dolose o colpose ai più diversi beni ambientali (artt. 2 e 3), predisponendo altresì, accanto alle classiche sanzioni penali per le persone fisiche e per le persone giuridiche (art. 6), la confisca degli strumenti del reato ovvero di beni di valore equivalente (art. 7), nonché la reintegrazione del bene ambientale offeso (art. 8). 1.4. Il nostro tempo è segnato anche dall’espansione e dalla evoluzione dei fenomeni di criminalità organizzata, che presentano connessioni sempre più strette sia con il mondo degli affari sia con quello della politica. L’enorme fiume di danaro sporco che le più diverse organizzazioni criminali traggono dal traffico della droga e dal commercio illegale di armi da guerra viene dapprima ‘ripulito’ attraverso complesse operazioni di riciclaggio (9), compiute con la complicità del sistema bancario internazionale, e viene poi reinvestito nelle attività economiche più diverse: con l’effetto di condizionare la vita di banche e di imprese di primaria importanza. La moderna criminalità organizzata ha d’altra parte un vitale bisogno del sostegno di esponenti del mondo politico, che — in cambio di voti elettorali — assicurano appalti di opere pubbliche nelle quali investire i capitali di provenienza illecita e, all’occorrenza, intervengono presso magistrati corrotti o corrompibili per far ottenere agli esponenti dell’organizzazione l’assoluzione nei processi. Anche il fenomeno della criminalità organizzata ha dimensioni internazionali e transnazionali (10): alligna in Paesi, come gli Stati Uniti d’America o l’Italia, dove ha radici antiche e si alimenta oggi del cospicuo ap(8) Cfr. supra, nt. 2. (9) Per un’approfondita analisi del fenomeno del riciclaggio e dei suoi effetti dannosi su scala internazionale, cfr., nella letteratura penalistica, ZANCHETTI, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, 1997, p. 1 ss. Sulle tecniche adottate dal legislatore italiano per contrastare tale fenomeno, cfr. — oltre a ZANCHETTI, op. cit., p. 346 ss. — MOCCIA, Impiego di capitali illeciti e riciclaggio: la risposta del sistema penale italiano, in questa Rivista, 1995, p. 728 ss. (10) Per un lucido quadro di insieme della fenomenologia e delle ripercussioni della criminalità organizzata internazionale e transnazionale sulla stabilità economico-istituzionale, cfr. BASSIOUNI-VETERE, Towards Understanding Organized Crime and its Transnational
— 807 — porto di ‘filiali’ di organizzazioni criminali straniere; in Paesi ad alto sviluppo economico — come la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, il Belgio, etc. — che non hanno tradizioni di questo tipo, ma nei quali le organizzazioni criminali, anche internazionali, hanno assunto la gestione del mercato della droga, dello sfruttamento della prostituzione, del traffico di armi; in Paesi, come la Russia, la Romania o l’Albania, che hanno conosciuto un’improvvisa disgregazione del loro sistema economico-politico, per non parlare dei ben noti fenomeni di criminalità organizzata presenti nei Paesi del Terzo Mondo produttori di droga. Il fenomeno della criminalità organizzata è da tempo al centro dell’attenzione sia della sociologia criminale, sia della dottrina del diritto penale: una significativa conferma è offerta dall’XI Congresso dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, che si è svolto a Budapest nel settembre 1999, e che è stato interamente dedicato a questa tematica (11). 1.5. Un ultimo capitolo della criminologia europea affollato di episodi recenti e meno recenti di enorme gravità è quello del terrorismo politico, e più in generale degli attentati all’integrità degli Stati. Il terrorismo politico — sotto sigle quali ‘Brigate rosse’ e ‘Rote Armee Fraktion’ — ha insanguinato negli anni settanta e ottanta soprattutto la vita italiana e tedesca, culminando nell’uccisione o nel ferimento di uomini politici di primo piano, di magistrati, giornalisti, esponenti del mondo industriale. Con la sospetta complicità dei servizi segreti, anche stranieri, gruppi di terroristi hanno inoltre provocato stragi e disastri ferroviari. D’altra parte, l’uccisione del prof. D’Antona nel 1999, rivendicata dalle Brigate rosse, dimostra che il terrorismo politico non è un fenomeno esaurito in Italia, come si era ottimisticamente ritenuto da molte parti, al punto che erano state avanzate ripetutamente proposte di ‘chiusura del passato’ con provvedimenti generali di clemenza. Quanto agli attentati all’integrità degli Stati, basterà accennare alla lotta violenta — che nelle fasi più drammatiche assume i tratti di una vera e propria guerra civile — condotta dall’ETA per il distacco dei Paesi BaManifestations in Organized Crime, in BASSIOUNI-VETERE (a cura di), Organized Crime. A Compilation of U.N. Documents 1975-1998, 1998, p. XXVII ss. (11) I testi della relazione generale e delle relazioni nazionali presentate al Colloquio preparatorio di Napoli (18-20 settembre 1997), relativo ai profili di parte generale della disciplina della criminalità organizzata, sono pubblicati in Rev. int. dr. pén., 1997, p. 479 ss., mentre gli atti del Colloquio preparatorio di Alessandria d’Egitto (8-12 novembre 1997), relativo ai profili di parte speciale, sono pubblicati in Rev. int. dr. pén., 1998, p. 11 ss. Nella recente letteratura italiana, v. inoltre MOCCIA (a cura di), Criminalità organizzata e risposte ordinamentali. Tra efficienza e garanzia, 1999; AA.VV., I reati associativi, Atti del XXI Convegno di studio ‘‘Enrico De Nicola’’, 1998; GIOSTRA-INSOLERA (a cura di), Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, 1995.
— 808 — schi dalla Spagna o dall’IRA per il distacco dell’Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna. Anche l’Italia ha conosciuto in passato fenomeni di questo tipo, quando, agli inizi degli anni sessanta, una minoranza di lingua tedesca tentò, anche con atti di terrorismo, di sottrarre una parte del territorio dello Stato alla sovranità italiana (12). In questi ultimi anni, d’altra parte, l’Europa ha assistito al dissolvimento non consensuale di alcuni Stati, che si è realizzato senza violenza, ma con l’apporto di potenze straniere: è il caso del distacco della Slovenia e della Croazia dalla Jugoslavia, che è stata la scintilla dalla quale sono scaturiti i conflitti etnici e politici che hanno devastato, e stanno devastando, la regione balcanica. L’Italia non è del tutto immune da rischi del genere: da alcuni anni è infatti presente nella vita politica del nostro Paese un movimento che propugna l’indipendenza delle regioni settentrionali. Per ora non si sono verificati episodi di terrorismo, né sono accertate forme di sostegno internazionale al movimento secessionista; tuttavia, la minaccia all’integrità nazionale non appare trascurabile, anche per l’appoggio non dissimulato di gruppi industriali, che si ripromettono dalla secessione vantaggi fiscali ed economici. 2. Le tendenze ‘riduzionistiche’ di un filone della dottrina penalistica: il c.d. diritto penale minimo. — Come si è anticipato, le nuove forme di criminalità presenti in gran parte dei Paesi europei rappresentano un banco di prova della plausibilità delle proposte politico-criminali dei fautori del c.d. diritto penale minimo: il tratto comune è infatti la riduzione al ‘minimo’ dei confini del diritto penale e la tendenziale espulsione da tali confini proprio di quella fenomenologia patologica. 2.1. Un primo orientamento ‘riduzionistico’, la cui elaborazione si deve ad un esponente della scuola penalistica di Francoforte, Winfried Hassemer (13), fa leva su uno dei cardini del diritto penale liberale — il concetto di ‘bene giuridico’ — per tagliar fuori dal diritto penale tutti i fe(12) Per una disamina di questi episodi, e per i riferimenti alle relative decisioni delle autorità giudiziarie italiane, cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 2a ed., 1999, p. 438 ss. (13) Cfr. HASSEMER, Spunti per una discussione sul tema ‘Bene giuridico e riforma della parte speciale’, in STILE (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, 1985, p. 367 ss.; ID., Il bene giuridico nel rapporto di tensione tra Costituzione e diritto naturale, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 109 ss.; ID., Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, in SCHOLLER-PHILIPPS (a cura di), Jenseits des Funktionalismus - Arthur Kaufmann zum 65. Geburtstag, 1989, p. 85 ss.; ID., Symbolisches Strafrecht und Rechtsgüterschutz, in NZStr, 1989, p. 553 ss., in particolare p. 557 ss.; ID., Alternativ Kommentar - StGB, I, 1990, vor § 1, p. 83; ID., Neue Kriminalität - neues Strafrecht?, Zur Modernisierung des Strafrechts, relazione presentata al Convegno su La modernizzazione del diritto penale (Pavia, 31 ottobre 1992), dattiloscritto.
— 809 — nomeni sociali patologici che non ledano o non pongano in pericolo oggetti degni del nome di ‘bene giuridico’. Degni di tale nome sarebbero soltanto una ristrettissima cerchia di beni individuali, come la vita, la salute, la libertà personale, l’onore, la proprietà e il patrimonio: solo questi beni sarebbero infatti condizioni per lo sviluppo della personalità umana — sarebbero dunque ‘beni giuridici in senso personalistico’ —, e solo l’offesa a questi beni produrrebbe delle vittime in carne ed ossa. Non vi sarebbe quindi più posto per la tutela penale dei beni collettivi, a meno che non siano strumentali rispetto ad interessi individuali: di per sé i beni collettivi non meriterebbero infatti il nome di bene giuridico, perché si tratterebbe di entità vaghe, la cui offesa non provocherebbe vittime. Si tratterebbe non di ‘beni’, ma di ‘funzioni’, la cui tutela potrebbe essere legittimamente assicurata da strumenti diversi dal diritto penale. Da questo diritto penale ridotto, secondo Hassemer, al suo nucleo essenziale (Kernstrafrecht) dovrebbero perciò essere estromessi, fra l’altro, i reati economici, i reati tributari, i reati ambientali, i reati in materia di stupefacenti, il traffico illegale di armi, etc. 2.2. All’insegna del ‘rispetto dei diritti umani’ si muove invece un secondo, emblematico orientamento, patrocinato da Alessandro Baratta (14), che auspica, del pari, un diritto penale ‘minimo’: cioè, il ritrarsi dell’intervento dello Stato con l’arma della pena, per far luogo ad altre tecniche di soluzione dei conflitti, incentrate su sanzioni statuali o su forme di controllo sociale non coercitivo. Il punto di partenza di questa proposta riduzionistica è la sottolineatura delle funzioni svolte realmente dal diritto penale nella società: una violenza istituzionale, posta al servizio degli interessi di gruppi ristretti, che colpisce in modo selettivo i settori più deboli della popolazione, utilizzando come strumento la pena carceraria — uno strumento criminogeno, ‘‘funzionale alla produzione e alla riproduzione dei delinquenti’’ (15) —. Il diritto penale si lascerebbe quindi legittimare solo a condizione che si rispetti una serie di limiti posti a tutela dei diritti individuali: principi relativi alle fonti e all’efficacia nel tempo delle norme penali (riserva di legge, tassatività e irretroattività), principi di politica criminale che circoscrivono l’ambito o l’entità dell’intervento penale (sussidiarietà, proporzionalità, idoneità, effettività, rispetto per le autonomie culturali — e quindi anche delle sottoculture dell’illegalità —, personalità della responsabilità penale, come sinonimo di responsabilità per fatto proprio colpevole, con esplicita esclusione della responsabilità delle persone giuridiche). (14) BARATTA, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in Dei delitti e delle pene, 1985, p. 443 ss. (15) ID., Principi, cit., p. 446.
— 810 — In applicazione di questi principi, Baratta propone l’estromissione dal diritto penale di una serie di materie: fra le altre, ‘‘la sicurezza del lavoro..., la corruzione amministrativa, le relazioni tra mafia e potere legittimo..., le gravi deviazioni degli organi militari e dei servizi segreti’’ (16). 2.3. Un terzo orientamento ‘riduzionistico’, nel quale confluiscono spunti presenti sia in Hassemer che in Baratta, trova il proprio manifesto nell’ampio lavoro di Luigi Ferrajoli, intitolato ‘Diritto e ragione’ (17). La cornice ideale in cui si inscrive la proposta di Ferrajoli è l’insieme dei principi del diritto penale elaborati dagli Illuministi e sviluppati dalla dottrina contemporanea sotto il segno del diritto penale liberale. In polemica con l’utopia abolizionistica, l’Autore ritiene indispensabile il ricorso alla pena statuale quale strumento per evitare l’innescarsi di incontrollabili reazioni punitive delle vittime; con la conseguenza che la pena si giustificherà solo se ‘‘ridotta a un male minore rispetto alla vendetta o ad altre reazioni sociali’’ (18). Il diritto penale deve dunque assumere i connotati di un diritto penale ‘minimo’ sia sul versante della tipologia e del quantum delle sanzioni, sia sul versante degli oggetti da tutelare. Quanto al primo profilo — quello cioè della pena —, si auspica la rinuncia ad entrambe le tipologie sanzionatorie ‘classiche’: la pena detentiva dovrebbe in un primo tempo ridursi entro il limite massimo di quindici anni, per poi cedere integralmente il passo a sanzioni diverse; la pena pecuniaria dovrebbe invece scomparire immediatamente dall’arsenale sanzionatorio del diritto penale ‘minimo’, e ciò in quanto impersonale, diseguale e sproporzionata rispetto al disvalore dei fatti — tutti di rilevante gravità — che dovrebbero essere configurati come reati nel ‘nuovo’ diritto penale. Il presidio sanzionatorio del ‘diritto penale minimo’ sarebbe dunque assicurato da pene parzialmente privative della libertà personale (semilibertà, detenzione di fine settimana, detenzione domiciliare), da pene limitative della libertà di circolazione (divieto e obbligo di soggiorno), nonché da pene interdittive, configurate come pene principali per i reati propri commessi con abuso di una professione, di una pubblica funzione, etc.: in particolare, secondo Ferrajoli, nei casi di ‘‘bancarotte, frodi, corruzioni, falsi’’ le pene interdittive sarebbero ‘‘ben più adeguate ed efficaci di una generica pena restrittiva della libertà personale’’ (19). Quanto poi agli oggetti di tutela, ‘‘un programma di diritto penale minimo deve... puntare... a una massiccia deflazione dei ‘beni’ pena(16) ID., Principi, cit., p. 466. (17) FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989. Dello stesso Autore, cfr. inoltre Il diritto penale minimo, in Dei delitti e delle pene, 1985, p. 493 ss. (18) FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, cit., p. 513. Nello stesso senso, cfr. ID., Diritto e ragione, cit., p. 237 ss., p. 322 ss. e p. 332 ss. (19) FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 417.
— 811 — li’’ (20). Caposaldo di questa politica deflattiva è un’idea di ‘bene’ fortemente restrittiva, che riecheggia la concezione personalistica del bene giuridico elaborata da Hassemer: secondo Ferrajoli, dovrebbero infatti assumersi come ‘beni’ ‘‘solo quelli la cui lesione si concreta in un’offesa in danno di altre persone in carne ed ossa’’ (21). Il diritto penale ‘minimo’ dovrebbe dunque estromettere le numerose norme incriminatrici che attualmente tutelano beni superindividuali — non immediatamente pertinenti, cioè, a ‘persone in carne ed ossa’ —: in primo luogo, per espressa indicazione di Ferrajoli, tale sorte dovrebbe essere riservata ai ‘delitti contro la Personalità dello Stato’ (22), come, ad esempio, la banda armata, l’associazione terroristica, l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato, la guerra civile. La stessa sorte dovrebbe toccare a tutti i delitti di attentato, come — ad esempio — l’attentato contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato: la disciplina generale del tentativo sarebbe infatti sufficiente ad assicurare la repressione di questi fatti (23). 3. Le risposte dei teorici del diritto penale ‘minimo’ alle nuove forme di criminalità. — L’estromissione dal diritto penale di gravi fenomeni patologici che affliggono le società contemporanee pone il problema dell’individuazione di tecniche alternative di controllo, giacché ben difficilmente fatti del genere potrebbero restare privi di una qualsivoglia risposta. A ben vedere, talora i fautori del diritto penale ‘minimo’ si spingono fino a proporre l’abolizione ‘secca’ di intere classi di norme incriminatrici: è il caso, ad esempio, nella visione di Ferrajoli, di tutti i reati associativi (associazione per delinquere, associazione mafiosa, associazione terroristica o eversiva, etc.), della guerra civile, dell’insurrezione armata contro i poteri dello Stato, per i quali non sarebbe necessaria alcuna risposta — anche extrapenale — da parte dell’ordinamento, in quanto per un verso basterebbe la repressione dei reati-scopo, per altro verso sarebbe illegittimo il mantenimento di qualsiasi norma sanzionatoria perché si tratterebbe di punire il mero sospetto di altri reati che non si riesce a provare (24). La stessa sorte — l’abolizione ‘secca’ — andrebbe riservata ai delitti di attentato, ampiamente presenti, nell’ordinamento italiano, tra i delitti contro la Personalità dello Stato (ad esempio, gli attentati contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato, l’attentato contro la Costituzione, l’attentato contro organi costituzionali, etc.): secondo Ferrajoli, (20) (21) (22) (23) (24)
FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 479. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 481. FERRAJOLI, ibidem. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 482. FERRAJOLI, ibidem.
— 812 — norme del genere, per essere legittime, dovrebbero richiedere gli estremi del tentativo, e in particolare l’idoneità degli atti a conseguire lo scopo verso il quale sono diretti; ma per assicurare questo risultato basterebbe la disciplina generale del tentativo ‘‘previsto in via generale per tutti i delitti’’ (25). Di regola, però, i teorici del diritto penale ‘minimo’ ritengono indispensabile il ricorso a tecniche di controllo statuale alternative a quella penalistica. Ampio spazio si ipotizza soprattutto per il diritto amministrativo, che è caratterizzato in modo preponderante dall’utilizzo di mere sanzioni pecuniarie: a confronto con il diritto penale, l’alternativa amministrativistica segna dunque un sensibile addolcimento della risposta sanzionatoria, mentre conserva — in base alle scelte operate da diversi legislatori europei — le più importanti garanzie proprie del diritto penale liberale (principi di legalità, di irretroattività, di colpevolezza, etc.). Secondo Hassemer, nel diritto amministrativo (Ordnungswidrigkeitenrecht) dovrebbero confluire gli attuali reati contro l’economia, contro l’ambiente, le evasioni fiscali, le frodi nelle sovvenzioni pubbliche, il traffico di armi e di droga (26). Successivamente, lo stesso Hassemer ha inoltre abbozzato una proposta che — sempre nel quadro del diritto amministrativo — affianca agli strumenti classici del diritto sanzionatorio amministrativo tedesco un ‘diritto dell’intervento’ (Interventionsrecht) i cui contenuti non sono stati sin qui precisati, ma che mostra una caratteristica preoccupante: ‘‘non ha le forti garanzie del diritto penale, non avendo sanzioni altrettanto penetranti’’ (27). Anche Baratta guarda al diritto amministrativo come alternativa alla pena. Tra i fenomeni da degradare a illeciti amministrativi andrebbero annoverate, tra l’altro, la corruzione, gli attentati alla sicurezza del lavoro, le relazioni tra mafia e poteri legittimi, le gravi deviazioni degli organi militari e dei servizi segreti (28). Secondo Baratta, il controllo amministrativistico potrebbe addirittura cedere il passo — per questi gravissimi fenomeni — a interventi del Parlamento: dunque, parrebbe, non a sanzioni, neppure amministrative, bensì ad inchieste e dibattiti parlamentari, che assicurerebbero ‘‘la partecipazione e il controllo popolare nella gestione (25) FERRAJOLI, ibidem. (26) HASSEMER, Grundlinien, cit., p. 93. (27) HASSEMER, Neue Kriminalität, cit., p. 3. Dello stesso A., v. altresì Produktverantwortung im modernen Strafrecht, 1984, p. 22 ss. Per la proposta dell’introduzione di un ‘‘diritto di intervento sociale’’ in luogo del diritto penale, cfr. inoltre LÜDERSSEN, Zurück zum guten alten, liberalen, anständigen Kernstrafrecht?, in Festschrift Jäger, 1993, p. 268 ss. Per una critica nei confronti di queste proposte, cfr. PALIERO, L’autunno del patriarca, in questa Rivista, 1994, p. 1249 s., nonché MAUGERI, La sanzione patrimoniale fra garanzie ed efficienza, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 822. (28) BARATTA, Principi, cit., p. 465 s.
— 813 — delle contraddizioni più rilevanti del sistema politico... Sono queste — secondo Baratta — le misure più adeguate alla natura di tali contraddizioni, e sono quelle che possono assicurare trasparenza pubblica agli aspetti fondamentali della lotta delle classi popolari contro i rapporti di sfruttamento e dominazione’’ (29). 4. Il diritto penale ‘minimo’: una proposta neoliberale o neoliberista? — 4.1. A uno sguardo d’insieme, in tutte le sue versioni il diritto penale ‘minimo’ si propone di estromettere i beni collettivi dall’ambito del diritto penale: sarebbe illegittimo il ricorso alla pena come strumento di tutela dei beni collettivi perché non si tratterebbe di beni giuridici veri e propri, ovvero, in termini criminologici, la loro offesa non avrebbe vittime in carne ed ossa. Questa tesi è però totalmente infondata. Quanto all’argomento dommatico di chi nega dignità di beni giuridici ai beni superindividuali, basterà rammentare la classica definizione — liberale — di bene giuridico, come situazione di fatto permeata di valore, che può essere modificata e che perciò può essere tutelata contro tali modificazioni (30). A questa stregua, entità offendibili, e quindi tutelabili con lo strumento della pena, non sono soltanto i classici beni individuali, ma anche beni collettivi, come l’integrità del territorio dello Stato, l’esercizio delle funzioni proprie degli organi costituzionali, l’esercizio delle funzioni di controllo degli organi di governo dell’economia, la fiducia dei risparmiatori nella veridicità dei bilanci societari, la purezza dell’acqua, dell’aria, etc. (31). Né si dimentichi che il diritto penale liberale — evocato da chi rimpiange un passato mai esistito — non ha mai circoscritto la propria tutela ai soli beni individuali, ma ha sempre protetto una gamma più o meno ampia di beni collettivi: ciò che caratterizza il diritto penale contemporaneo è soltanto una crescente attenzione ai beni collettivi, frutto non di una visione panpenalistica del controllo sociale da parte della dottrina e del legislatore, ma delle trasformazioni economico-istituzionali, che hanno fatto emergere nuove entità meritevoli e bisognose di (29) BARATTA, Principi, cit., p. 466. (30) Così JÄGER, Strafgesetzgebung und Rechtsgüterschutz bei Sittlichkeitsdelikten, 1957, p. 13. Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 294. (31) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 404 ss. L’offendibilità sta a indicare il prerequisito perché si possa attribuire la qualità di bene giuridico a una data entità, rapporto, attività giuridicamente regolata, etc.: il ricorso alla pena come strumento di tutela è il risultato di ulteriori due valutazioni da parte del legislatore, relative l’una all’importanza del bene, che decide della meritevolezza della tutela penale, l’altra relativa al bisogno di ricorrere all’arma della pena, in assenza di altri strumenti egualmente efficaci e meno costosi. Per questi chiarimenti, resi necessari da alcuni equivoci nati in dottrina, cfr. MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 406.
— 814 — tutela penale, o che hanno accresciuto l’importanza di beni collettivi classici. Ancor più debole è, d’altra parte, il tentativo di delegittimare la tutela penale dei beni collettivi facendo leva sull’argomento criminologico che vede nei reati offensivi di quei beni altrettanti ‘reati senza vittime’, come sarebbero, emblematicamente, secondo Hassemer, i reati contro l’economia e contro l’ambiente. Si tratta all’opposto di reati caratterizzati da una vittimizzazione di massa (32): direttamente o indirettamente, offendono infatti cerchie ampie, e non di rado vastissime, di persone. Nella sfera della criminalità economica, bancarotte fraudolente, false comunicazioni sociali che interessino imprese di grandi dimensioni intaccano il patrimonio di migliaia di risparmiatori. Quanto poi alla criminalità ambientale, le aggressioni grandi o piccole all’integrità dell’aria, dell’acqua, del suolo etc. minano le condizioni stesse per la sopravvivenza, fisica ed economica, di gruppi più o meno vasti di persone o dell’intero genere umano. Fino a ieri poteva semmai osservarsi che, a fronte dei reati economici e ambientali, le stesse vittime non si avvedevano, o tardavano ad avvedersi, di tale loro ruolo. Non è più così ai giorni nostri: la dannosità degli inquinamenti ambientali è così avvertita che non vi è movimento politico che non inserisca nei suoi programmi una più energica tutela dell’ambiente, e anzi in ogni Paese europeo sono presenti forze politiche che fanno della salvaguardia dei beni ambientali la loro stessa ragion d’essere. D’altra parte, le disastrose conseguenze di recenti scandali finanziari (crollo delle quotazioni in borsa, fuga in massa degli investitori stranieri, rovina dei piccoli risparmiatori, pericolo di chiusura delle fabbriche) hanno reso visibile a tutti che la criminalità economica provoca vittime su scala ben più vasta del ristretto mondo dell’industria e della finanza (33). 4.2. Incrinati i pilastri argomentativi su cui si è cercato di fondare l’espulsione dal diritto penale di tutti i fenomeni patologici legati al mondo degli affari, il diritto penale ‘minimo’ rivela un volto imbarazzante: la parola d’ordine ‘meno intervento punitivo dello Stato’ sembra ritagliata sui bisogni di impunità della ‘gente perbene’, dei ‘delinquenti in (32) Cfr. nella letteratura italiana PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in STILE (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, cit., p. 295 ss.; MARINUCCI, Relazione di sintesi, ivi, p. 355 s.; ALESSANDRI, in PEDRAZZI-ALESSANDRI-FOFFANI-SEMINARASPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa, 1998, p. 18 s.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 407 s. Nella letteratura di lingua tedesca, cfr. H.J. SCHNEIDER, Wirtschaftskriminalität, in Handwörterbuch der Kriminologie, 1975, p. 660 ss.; TRIFFTERER, Viktimologische Aspekte in Umweltsstrafrecht, in Strafrechtliche Probleme der Gegenwart, 1986, p. 101 ss. (33) Cfr. DI GENNARO-PEDRAZZI (a cura di), Criminalità economica e pubblica opinione, 1982; PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, p. 915 ss.
— 815 — guanti gialli’, o, come si usa dire da sessant’anni a questa parte, sulla ‘criminalità dei colletti bianchi’ (34). I tratti di questo volto si precisano quando si passa a considerare gli strumenti di controllo della criminalità economica proposti dai teorici del diritto penale ‘minimo’. I più ‘rigoristi’ dicono ‘no al carcere’ e ‘sì alle pene interdittive’ (35). Una proposta di questo genere provocherebbe probabilmente un vibrante applauso in un’assemblea di dirigenti industriali di ogni paese, ben felici di scongiurare il rischio del carcere e consapevoli che l’impresa nel cui interesse hanno commesso reati non mancherà — nel caso in cui essi venissero condannati ad una pena interdittiva — di ripagare il loro operato con lucrosi contratti di consulenza. Né sembra che la pena detentiva minacciata ai ‘colletti bianchi’ sia priva di efficacia deterrente: tutt’altro. L’esperienza italiana di questi anni, caratterizzata da un numero rilevante di procedimenti penali contro alti dirigenti delle più grandi imprese, parla in senso diametralmente opposto: e non è forse casuale che si sia innescata una campagna d’opinione — di per sé meritevole di apprezzamento — contro la pena detentiva, proprio nel momento in cui si è profilato il rischio che le porte del carcere potessero aprirsi non solo per le classi più deboli, ma, inopinatamente, anche per esponenti del mondo dell’economia e della finanza. Le prospettive per i ‘colletti bianchi’ diventano ancora più rosee quando si propone di trasferire in blocco i reati economici e i reati ambientali nel diritto sanzionatorio amministrativo (36), il luogo nel quale tradizionalmente si vorrebbero relegare gli ‘illeciti della gente perbene’ (37). Si otterrebbe così il risultato di ‘bagatellizzare’ fatti gravemente dannosi, evitando ai colpevoli qualsiasi traumatico impatto con la giustizia penale, e per di più facendo pagare il prezzo dei loro comportamenti illeciti alla stessa collettività: le sanzioni pecuniarie previste dal diritto amministrativo verrebbero infatti dapprima pagate non dalla persona fisica del dirigente, ma dall’impresa nel cui interesse egli ha agito; successivamente il costo delle sanzioni pecuniarie verrebbe trasferito sulle spalle dei consumatori attraverso una maggiorazione dei prezzi. C’è infine, come si è anticipato, chi addirittura sembra ritenere eccessivo il ricorso al controllo amministrativo di gravissimi fenomeni, come i rapporti corruttivi fra mondo degli affari e pubblica amministrazione: più appropriato sarebbe, secondo Baratta (38), l’intervento solo politico del (34) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 409. (35) Cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 417. (36) Cfr. HASSEMER, Grundlinien, cit., p. 93 ss.; BARATTA, Principi, cit., p. 466. (37) Cfr. la classica presa di posizione di LANGE, Die Magna Charta der anständigen Leute, in JZ, 1956, p. 519 ss. (38) Cfr. BARATTA, Principi, cit., p. 466.
— 816 — Parlamento, sotto forma, parrebbe, di inchieste, di dibattiti, etc. Ora, sembra alquanto improbabile che i potenziali autori di fatti di corruzione si lascino intimidire dall’attività di una commissione parlamentare di inchiesta, per sua natura priva di poteri coercitivi. D’altra parte, la proposta di surrogare il controllo penale con forme di controllo politico-parlamentare viene estesa da Baratta anche alle ‘‘relazioni fra mafia e potere legittimo’’ e alle ‘‘gravi deviazioni degli organi militari e dei servizi segreti’’ (39): come se non fosse notorio che gli unici risultati delle inchieste parlamentari sulla mafia, sulle deviazioni dei servizi segreti e degli apparati militari e sulle collusioni tra settori della massoneria e mondo degli affari sono rappresentati da decine e decine di volumi, ricchi di informazioni, ma che giacciono impolverati nelle biblioteche del Parlamento. 4.3. In definitiva, l’insieme delle proposte avanzate dai fautori del diritto penale ‘minimo’, all’insegna della rinuncia alla tutela penale dei beni collettivi in vario modo offesi dalla criminalità di impresa, otterrebbe certamente nel breve periodo il plauso di quanti agitano scompostamente la bandiera della libertà di impresa per invocare amnistie, condoni o comunque chiusure dei processi penali che vedono imputati i dirigenti di un gran numero di imprese, incolpati di falso in bilancio, corruzione, riciclaggio di denaro sporco, evasione fiscale, etc. Se poi quel progetto venisse attuato dal legislatore, il diritto penale moderno assumerebbe i connotati del ‘buon vecchio diritto penale ottocentesco’, che, come ha scritto Klaus Lüderssen, ‘‘era soprattutto un diritto di classe...; non si volgeva mai contro i ‘grandi’, né sul piano dell’economia, né su quello della politica’’, dominato com’era dall’idea secondo cui ‘‘i piccoli si impiccano, i grandi si lasciano andare’’ (40). Ed è paradossale che approdi a questo risultato anche chi, come Baratta, ha elaborato la sua proposta di diritto penale ‘minimo’ muovendo dalla denuncia del carattere selettivo della giustizia penale, alla quale si rimprovera di essere diretta ‘‘quasi esclusivamente contro le classi popolari ed in particolare contro i gruppi sociali più deboli..., nonostante che... le violazioni più gravi di diritti umani avvengano ad opera di individui appartenenti ai gruppi dominanti o facenti parte di organismi statali o di organizzazioni economiche private, legali o illegali’’ (41). Una denuncia del genere dovrebbe approdare, coerentemente, o all’auspicio dell’abolizione del diritto penale, o all’intensificazione del controllo penale sui comportamenti delle classi dominanti: Baratta scarta invece l’una e l’altra solu(39) Cfr. BARATTA, ibidem. (40) LÜDERSSEN, Zurück zum guten alten, liberalen, anständigen Kernstrafrecht?, cit., p. 271. (41) BARATTA, Principi, cit., p. 445.
— 817 — zione, e, paradossalmente, ripetiamo, ritiene ‘‘decente e rispettabile’’ (42) un diritto penale ‘minimo’, nel quale si accentuerebbe ulteriormente la propensione a reclutare la ‘clientela’ fra i gruppi sociali più deboli, rinunciandosi già in via di principio a punire i ‘grandi’. Le libertà propugnate — senz’altro con le migliori intenzioni — dai fautori del diritto penale ‘minimo’ sembrano pertanto identificarsi non con le libertà dei cittadini, ma piuttosto con la più illimitata e incontrollata libertà di impresa (43): ciò che si propone non è un diritto penale neoliberale, bensì un diritto penale neoliberista. 5. Diritto penale ‘minimo’, criminalità organizzata e attentati alle istituzioni democratiche. — Apprezzabili istanze garantistiche stanno alla base delle proposte di abolizione dei reati associativi e dei reati di attentato avanzate da Ferrajoli. Nondimeno, per varie ragioni, è davvero difficile sottoscrivere quelle proposte. 5.1. Quanto ai reati associativi, non persuade infatti la tesi che considera sufficiente la previsione dei reati-scopo, alla cui realizzazione sarebbero finalizzate le associazioni criminose (cfr. supra, 3). Questa tesi sembra infatti muovere da una visione semplicistica della criminalità organizzata. Fenomeni come la mafia da tempo hanno ampliato i loro scopi, che non si esauriscono affatto nella commissione di delitti. Tra le finalità essenziali delle associazioni di tipo mafioso rientra ormai l’assunzione del controllo di attività economiche, di appalti per opere pubbliche, la canalizzazione dei voti elettorali su questo o su quel candidato: dunque, finalità di per sé lecite. D’altra parte, per conseguire questi scopi le organizzazioni criminali spesso non hanno bisogno di commettere delitti: è sufficiente l’effetto intimidativo prodotto dalla loro visibile presenza sui territori nei quali operano. Attendere il compimento di delitti da parte della criminalità organizzata significherebbe dunque rinunciare a priori a combattere manifestazioni gravissime delle associazioni criminali, lasciando loro una illimitata libertà di inquinamento della vita economica e delle competizioni elettorali. Queste caratteristiche della moderna criminalità organizzata non sono del resto sfuggite al legislatore, il quale ha espressamente descritto il modus operandi e l’ampio ventaglio di finalità dell’associazione mafiosa. Dispone infatti l’art. 416-bis c.p.: ‘‘l’associazione è di tipo mafioso (42) Così si esprime, in polemica con le posizioni dei nostalgici tedeschi del diritto penale ottocentesco, LÜDERSSEN, Zurück zum guten alten, liberalen, anständigen Kernstrafrecht?, cit., p. 269. (43) Per un rilievo di questo tenore, cfr. CORREAS, El neoliberalismo en el imaginario Juridico, in Direito e neoliberalismo: elementos para um leitura interdisciplinar, Curitiba, 1996, p. 4.
— 818 — quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti o servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali’’ (44). 5.2. Non più plausibile sembra d’altra parte la proposta di Ferrajoli in materia di delitti di attentato (cfr. supra, 2.3). In primo luogo, va sottolineato che secondo la giurisprudenza unanime e secondo la dottrina assolutamente prevalente i delitti di attentato possono essere integrati soltanto da atti oggettivamente idonei a cagionare il risultato, considerandosi irrilevante la mera intenzione che anima l’agente (45). Le istanze garantistiche che animano Ferrajoli trovano dunque una risposta del tutto appagante già sul terreno dello ius conditum. In secondo luogo, la scelta del legislatore di configurare autonomi delitti di attentato contro le istituzioni è una scelta spesso obbligata, non surrogabile — come suggerisce Ferrajoli — attraverso la disciplina generale del tentativo. Come si sa, infatti, dai tempi di Binding in Germania e dai tempi di Delitala in Italia, l’unica repressione possibile per questo tipo di fatti si realizza nella forma del tentativo punito come reato a sé stante, perché ‘‘il raggiungimento del fine cui è diretta la volontà dell’agente assicurerebbe al colpevole la completa impunità’’ (46). Così, ad esempio, non avrebbe senso configurare reati che si consumino nel momento in cui si verifica la modificazione della Costituzione o della forma di governo, l’impedimento del funzionamento degli organi costituzionali, la sottoposizione del territorio dello Stato a uno Stato straniero, il distacco dallo Stato di una parte del suo territorio, etc.: al verificarsi di eventi del genere corrisponderebbe infatti il dissolvimento dello Stato, o comunque la sicura impunità di chi ne abbia in tutto o in parte modificato le istituzioni o i confini territoriali (47). Una volta che il reato fosse giunto a consumazione, resterebbe aperta soltanto la strada di una guerra contro lo Stato straniero che abbia annesso una parte del territorio nazionale, ovvero quella di una guerra civile contro quanti, con un colpo (44) Sulla portata della norma incriminatrice introdotta nel codice penale italiano nel 1982, cfr. per tutti SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, 4a ed., 1993. (45) Cfr., anche per le citazioni di dottrina e giurisprudenza, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 434 ss. (46) Così DELITALA, Il ‘fatto’ nella teoria generale del reato, 1930, ora in Diritto penale. Raccolta degli scritti, I, 1976, p. 133. Cfr. inoltre BINDING, Lehrbuch des Gemeinen Deutschen Strafrechts, B.T., 2a ed., I, 1902, rist. 1969, p. 13. (47) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 442 s.
— 819 — di Stato, hanno modificato la Costituzione, destituito il Presidente della Repubblica, chiuso il Parlamento, etc. 5.3. In ultima analisi, le proposte del diritto penale ‘minimo’, quando si cimentano con fenomeni enormemente gravi, come la criminalità organizzata o gli attentati alle istituzioni, o rischiano di aprire inquietanti lacune repressive, o risultano impraticabili alla stregua dei più elementari principi di scienza della legislazione penale. 6. Diritto penale liberale o diritto penale ‘minimo’? — Il tratto comune alle più diverse versioni del diritto penale ‘minimo’ risiede nell’idea che il diritto penale debba autolimitarsi, rinunciando a penetrare in modo pervasivo in tutti gli aspetti della vita sociale, e che, laddove intervenga, debba addolcire l’asprezza delle sue sanzioni. Queste idee si prestano ad essere sintetizzate in due formule icastiche: la pena deve essere utilizzata soltanto come ultima ratio rispetto alla politica sociale e alle forme di controllo extrapenale; tra le sanzioni penali, la pena detentiva deve essere del pari l’ultima ratio, da riservare ai fatti più gravi, che non siano controllabili con strumenti meno distruttivi. Entro questi limiti, non si può non essere d’accordo, perché il principio di sussidiarietà del diritto penale — così come i principi di proporzione, legalità, irretroattività, colpevolezza, etc. — appartengono da tempo al patrimonio consolidato della politica criminale liberale, a partire dagli insegnamenti di Cesare Beccaria, illustrati con sapienza e passione civile dal Maestro che onoriamo (48). D’altra parte, la lotta alla pena detentiva, e la ricerca di alternative al carcere, è un’altra bandiera della politica criminale liberale almeno a partire dalla fine del secolo scorso (49). È noto che l’attuazione di questi principi incontra dappertutto difficoltà e ostacoli di ogni genere: va perciò salutata con favore l’adesione di nuovi filoni di pensiero, che ripropongono quei principi sotto la nuova etichetta del diritto penale ‘minimo’. Ciò che invece non si può condividere è l’idea, patrocinata da queste nuove correnti, che il ritrarsi del diritto penale debba realizzarsi a scapito degli interessi collettivi aggrediti dai potenti dell’economia, dalla criminalità organizzata, dagli eversori delle istituzioni democratiche. Il diritto penale moderno deve sì correggere la sua naturale tendenza all’ipertrofia (50), ma deve nel contempo realizzare una tutela equilibrata di tutti i (48) Cfr. G.D. PISAPIA, Presentazione a BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1964, p. V ss. (49) Cfr. fra gli altri PADOVANI, L’utopia punitiva. Il problema delle alternative alla detenzione nella sua dimensione storica, 1981, nonché DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, 1989. (50) Cfr. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, 1985.
— 820 — beni fondamentali, individuali e collettivi; e la dottrina penalistica, proprio nel momento in cui la giustizia penale comincia a dedicare le sue attenzioni anche ai grandi dell’economia e della politica, non può patrocinare, neppure inconsapevolmente, un ritorno al passato, che altro non può significare che la restaurazione di uno stereotipo del delinquente ritagliato sulle ‘classi pericolose’. GIORGIO MARINUCCI - EMILIO DOLCINI
DICHIARAZIONI DELL’IMPUTATO SUL FATTO ALTRUI, DIRITTO AL SILENZIO E GARANZIA DEL CONTRADDITTORIO (dagli insegnamenti della Corte costituzionale al progettato nuovo modello di « giusto processo ») (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La sentenza costituzionale n. 361 del 1998 nel quadro del sistema. — 3. La declaratoria di illegittimità parziale dell’art. 513 comma 2o c.p.p. — 4. L’acquisizione probatoria mediante contestazione di dichiarazioni precedentemente rese dall’imputato sul fatto altrui. — 5. La declaratoria di illegittimità parziale dell’art. 210 c.p.p. — 6. L’equiparazione tra l’imputato nel medesimo processo e l’imputato in separato procedimento connesso rispetto alla disciplina dell’esame sul fatto altrui (e la declaratoria di illegittimità parziale dell’art. 238 comma 4o c.p.p.). — 7. Garanzia del contraddittorio e meccanismo di ‘‘contestazione acquisitiva’’ di precedenti dichiarazioni in caso di silenzio dell’imputato dichiarante. — 8. Intervento ablatorio, intervento integrativo e criterio di ragionevolezza nella decisione della Corte costituzionale. — 9. Diritto al silenzio dell’imputato sottoposto ad esame sul fatto altrui e garanzia contro il pericolo di autoincriminazione. — 10. L’esercizio del diritto al silenzio come limite al principio di formazione dialettica della prova. — 11. L’assimilabilità tra le posizioni del testimone e dell’imputato dichiarante contra alios in rapporto alla facoltà di non rispondere di quest’ultimo. — 12. Insegnamenti della Corte costituzionale e prospettive di riforma in materia di « giusto processo ». — 13. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova e le ipotesi di deroga previste: a) nel caso di « consenso dell’imputato ». — 14. (Segue): b) nel caso di « accertata impossibilità di natura oggettiva ». — 15. (Segue): c) nel caso di « provata condotta illecita ». — 16. La regola di inutilizzabilità come prova di colpevolezza delle dichiarazioni acquisite senza contraddittorio. — 17. Riflessi dell’implicito riconoscimento costituzionale in capo al dichiarante della « libera scelta » di sottrarsi all’« interrogatorio ». — 18. Il rischio di effetti controproducenti per la concreta attuazione del contraddittorio.
1. Tra le molte reazioni di segno opposto provocate dalla ben nota sentenza costituzionale n. 361 del 1998 hanno suscitato sconcerto, e sono apparse davvero fuori misura, le aspre polemiche subito esplose presso larghi strati del mondo parlamentare, all’insegna dell’accusa — rivolta ai giudici costituzionali — di avere ‘‘invaso il campo’’ delle prerogative riservate al potere legislativo. (*) Questo studio, dedicato alla memoria di Gian Domenico Pisapia, riprende e sviluppa gli argomenti già svolti nella relazione introduttiva presentata al convegno su « Giusto processo: quale riforma costituzionale? », organizzato dall’Associazione nazionale magistrati. Movimento per la giustizia (Roma, 17 aprile 1999).
— 822 — Si tratta di polemiche già di per sé sorprendenti, poiché sembrano ignorare quale sia il compito primario della Corte costituzionale, in quanto « giudice della legittimità delle leggi », ed attraverso quali vie tale compito sia stato finora svolto, anche facendo leva sullo strumento delle sentenze ‘‘additive’’, peraltro sempre entro il quadro di riferimento dei princìpi costituzionali applicati. Ma, nella specie, si tratta di polemiche ancora più sorprendenti se si pensa che, all’indomani dell’approvazione della l. 7 agosto 1997, n. 297 (modificativa dell’art. 513 c.p.p., nella versione oggi dichiarata parzialmente illegittima), di fronte alle riserve riguardanti alcune scelte legislative da varie parti ritenute poco meditate, assai diffuso era stato, proprio negli ambienti politici, il richiamo al prevedibile intervento della Corte costituzionale come ad una sorta di ‘‘momento della verità’’ circa la legittimità delle medesime scelte. 2. A parte queste considerazioni di metodo e, prima ancora, di costume costituzionale, va anzitutto sottolineato come la sentenza in discorso si sia ovviamente mossa all’interno del sistema normativo imperniato sulla più recente stesura dell’art. 513 c.p.p., in naturale collegamento con gli artt. 210 e 238 c.p.p. (oltre che con la disciplina dettata negli artt. 500 e 503 c.p.p.). Sicché esclusivamente nella cornice di tale sistema devono collocarsi le valutazioni ed i giudizi da essa espressi per pronunciarsi sulle numerose questioni sottoposte al suo esame, specialmente sotto il profilo della compatibilità della corrispondente disciplina con gli artt. 3 e 24 Cost. Numerose erano state, infatti, le questioni sollevate nei precedenti dodici mesi, ma tutte in realtà riconducibili ad un unico quesito di fondo, ruotante intorno alla singolare posizione dell’imputato (nello stesso o nel separato procedimento connesso) che, dopo avere reso in sede preliminare le dichiarazioni indicate nell’art. 513 comma 1o c.p.p. anche con riferimento all’altrui responsabilità, si fosse poi avvalso del diritto al silenzio in sede dibattimentale (rifiutando di sottoporsi all’esame ovvero, rispettivamente, rifiutandosi di rispondere), col risultato di determinare la inutilizzabilità contra alios delle predette dichiarazioni, salvo il consenso delle parti interessate. Ed il quesito consisteva nel domandarsi, in sintesi, se potesse ritenersi conforme a ragionevolezza — alla luce del contesto costituzionale — un sistema nel quale l’utilizzabilità processuale delle precedenti dichiarazioni rese dall’imputato sul fatto altrui venisse fatta sostanzialmente dipendere, stando al disposto dell’art. 513 commi 1o e 2o c.p.p., da una scelta assolutamente discrezionale del medesimo imputato. Cioè dalla scelta di esercitare in dibattimento il diritto al silenzio sul contenuto di quelle stesse dichiarazioni, da lui liberamente rese nella fase preliminare, pur con la consapevolezza di potersi avvalere già in quella sede della facoltà di tacere.
— 823 — Per risolvere il quesito la Corte ha naturalmente dovuto prendere le mosse dai valori costituzionali di raffronto rispetto alle disposizioni sospettate di incostituzionalità, a cominciare dalla garanzia di inviolabilità del diritto di difesa dell’imputato, peraltro necessariamente considerata da un duplice punto di vista, in rapporto alle ben distinte ipotesi dell’imputato autore delle pregresse dichiarazioni accusatorie e dell’imputato cui tali dichiarazioni si siano riferite. Quanto alla prima ipotesi, l’accento è caduto sulla esigenza di tutela del diritto al silenzio dell’imputato dichiarante, quale si realizza attraverso il riconoscimento allo stesso della facoltà di non rispondere in dibattimento a domande suscettibili di coinvolgere responsabilità proprie, anche quando il suddetto imputato « abbia reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri ». Quanto alla seconda ipotesi, è stata posta in risalto l’esigenza di assicurare all’imputato così coinvolto nella trama accusatoria il diritto di « sottoporre al vaglio del contraddittorio le dichiarazioni che lo riguardano », in modo da assicurare l’osservanza del « metodo di formazione dialettica della prova davanti al giudice chiamato a decidere ». Senonché accanto a queste esigenze — espressive, lungo diversi versanti, della garanzia del diritto di difesa ex art. 24 comma 2o Cost. — la Corte costituzionale non poteva non richiamarsi, tra i valori costituzionalmente rilevanti in ordine al tema de quo, nel quadro del più generale rapporto intercorrente tra ‘‘garanzie’’ ed ‘‘efficienza’’ sul terreno processuale, anche alla « funzione del processo penale », inteso quale strumento non disponibile dalle parti « destinato all’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità ». Dopo di che, pur movendo dalla premessa secondo cui « tale funzione non può essere utilizzata » allo scopo di « attenuare la tutela, piena e incoercibile, del diritto di difesa » (affermazione, questa, piuttosto discutibile nella sua assolutezza, specialmente alla luce di altre recenti sentenze costituzionali, nelle quali avevano invece assunto risalto prevalente i valori della « efficienza del processo » o delle sue « esigenze prioritarie »), la medesima Corte ne ha tuttavia fatto discendere una valutazione di censurabilità, sotto il profilo della ragionevolezza, di soluzioni normative che, pur « non necessarie per realizzare le garanzie della difesa », per l’appunto « pregiudichino la funzione del processo ». Che è una conclusione di per sé ineccepibile — nonostante l’enfasi della premessa — salvo peraltro doversi domandare, caso per caso, quali siano le « garanzie della difesa » da realizzarsi necessariamente, anche a costo di pregiudicare la stessa funzione del processo, essendo evidente che proprio nella individuazione dello standard minimo imprescindibile di tali garanzie risiede la chiave del bilanciamento tra « valori costituzionali coinvolti », su cui si fonda il giudizio di ragionevolezza proprio del sindacato di costituzionalità. 3. Sulla base dei princìpi in tal modo enucleati, ben si comprende che la Corte costituzionale sia pervenuta a ritenere « privo di ragionevole
— 824 — giustificazione » un meccanismo normativo piuttosto singolare, qual è quello recepito nel 2o comma dell’art. 513 c.p.p. In particolare là dove, per effetto della regola ivi prevista, l’esclusione dal patrimonio di conoscenza del giudice delle dichiarazioni precedentemente rese dall’imputato riguardo alla responsabilità di terze persone risultava in concreto rimessa alla volontà manifestata dallo stesso imputato (salvo l’improbabile verificarsi di un accordo di tutte le parti circa la lettura dei relativi verbali) attraverso l’esercizio della facoltà di non rispondere. Più precisamente, la Corte ha giudicato « non conforme » al principio costituzionale di ragionevolezza la previsione (emergente, per quel che qui importa, dall’art. 513 comma 2o c.p.p.) di una disciplina diretta a precludere a priori l’acquisizione in dibattimento di determinati elementi di prova (nella specie, le dichiarazioni sul fatto altrui rese dall’imputato, poi rimasto silente in sede d’esame) raccolti legittimamente nel corso della fase preliminare, invece di subordinare l’acquisizione processuale di tali elementi alla possibilità di « instaurare il contraddittorio tra il dichiarante ed il destinatario delle dichiarazioni ». E non sembra dubbio che, così ricostruito, l’insegnamento della Corte corrisponda all’assetto di un sistema ispirato al modello accusatorio, dove la formazione della prova si realizza di regola nell’osservanza del metodo dialettico-contestativo (alla cui base campeggia, per usare la formula risultante ex art. 6 comma 3o lett. d Conv. eur. dir. uomo, il diritto dell’imputato di « interrogare o far interrogare » i soggetti fonti di prova a carico), naturalmente sulla scorta delle ‘‘ragionevoli’’ soluzioni di volta in volta accolte dal legislatore ordinario per adeguare il doveroso rispetto di quel metodo alle peculiarità delle diverse contingenze processuali. Tra queste soluzioni, sempre movendosi all’interno del vigente ordinamento processuale penale — nel cui contesto non poteva non collocarsi lo scrutinio di legittimità delle disposizioni impugnate — la Corte costituzionale ha posto l’accento sul meccanismo della c.d. ‘‘contestazione acquisitiva’’, disciplinata dall’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. attraverso un duplice passaggio, a sua volta corrispondente a due ben distinti momenti del procedimento probatorio. Tali, da un canto, il riconoscimento alle parti del potere di operare le contestazioni ivi previste nei confronti del testimone, quando il medesimo in sede di esame « rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere » sulle circostanze già da lui riferite nel corso di precedenti dichiarazioni durante la fase preliminare; e, dall’altro, la conseguente acquisizione al fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni così utilizzate, cui si raccorda la possibilità di valutazione delle stesse, sotto certi presupposti, come prova dei fatti in esse affermati. E tale meccanismo, assunto quale tipico tertium comparationis, è parso alla Corte concretizzare la soluzione più adeguata, proprio in quanto già « offerta dallo stesso ordinamento », per superare i problemi di legittimità posti dall’art. 513 c.p.p., negli aspetti ormai più volte richiamati.
— 825 — 4. Più precisamente, movendo dall’evidente analogia tra le posizioni processuali di soggetti le cui dichiarazioni sono caratterizzate « dall’essere rivolte, e dall’essere destinate a valere, nei confronti di altri », la Corte costituzionale ha praticamente ritenuto assimilabile, per quel che qui importa, la figura dell’imputato già dichiarante sul fatto altrui a quella del testimone: sulla scorta, del resto, di uno spunto testuale sintomatico, qual è il richiamo alla normativa sui testimoni contenuto nell’art. 210 comma 2o c.p.p. Dopo di che, sulla base di una simile premessa, di per sé incontestabile, non poteva non apparire incoerente nel quadro del sistema (e quindi costituzionalmente illegittimo, sotto il profilo della irragionevolezza, con riguardo al contemperamento tra diritto al silenzio del dichiarante e diritto al contraddittorio dell’accusato rispetto a situazioni caratterizzate dall’eadem ratio) che, nell’ipotesi di scelta del silenzio da parte dell’imputato dichiarante in sede di esame sul fatto altrui, non dovessero applicarsi le regole « relative alle contestazioni previste per i testimoni in caso di rifiuto di rispondere » a norma dell’art. 500 comma 2o-bis c.p.p. Ciò appare tanto più vero quando si consideri che da tali regole scaturisce un sistema di contestazioni al cui interno — pur nell’anomalia rappresentata dal rifiuto di rispondere del soggetto fonte di prova — possono realizzarsi due diverse, ed egualmente valide, aspirazioni: sia il diritto della parte interessata all’acquisizione probatoria di « portare direttamente davanti al giudice il contenuto delle dichiarazioni rese in precedenza » dall’imputato dichiarante; sia, nel contempo, il diritto delle controparti di sottoporre le suddette dichiarazioni « al vaglio critico, sollecitando e favorendo eventuali ritrattazioni, correzioni e chiarimenti » ad opera del medesimo imputato, che pure in prima battuta si fosse rifiutato di rispondere. Dove è evidente come la Corte costituzionale non solo ritenga in sé perfettamente legittimo il meccanismo di ‘‘contestazione acquisitiva’’ previsto dall’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. con riguardo al testimone, ma altresì lo individui come quello meglio rispondente all’esigenza di assicurare il contraddittorio nelle condizioni descritte, tra l’altro facendo leva sulla possibilità di selezionare in anticipo — grazie ai verbali delle dichiarazioni rese nella fase preliminare — le circostanze su cui l’imputato abbia già deposto in ordine al fatto altrui, e sulle quali possa quindi correttamente venire chiamato a deporre in sede di esame dibattimentale. Appunto a questa prospettiva di acquisizione « mediante contestazione di singoli contenuti narrativi » delle precedenti dichiarazioni rese dall’imputato contra alios, da intendersi quale momento di esplicazione del metodo dialettico-contestativo allorché si verifichino le particolari situazioni in discorso, si raccorda, dunque, la configurazione di « un onere, per la parte che chieda l’esame ex art. 210 c.p.p. » di presentare la lista dei soggetti da esaminarsi « con l’indicazione delle circostanze su cui deve
— 826 — vertere l’esame ». Un onere che, secondo la Corte, già oggi troverebbe le sue radici nell’implicito richiamo all’art. 468 comma 1o c.p.p. desumibile dal rinvio operato dall’art. 210 comma 2o c.p.p. alle « norme sulla citazione dei testimoni », ma che, in ogni caso, sarebbe bene prevedere formalmente attraverso uno specifico intervento legislativo, essendo palese la sua stretta strumentalità al buon funzionamento dell’intero meccanismo così prefigurato. È questo, pertanto, lo sfondo sul quale deve inquadrarsi la declaratoria di illegittimità dell’art. 513 comma 2o c.p.p., là dove non prevedeva che anche con riguardo all’imputato sottoposto ad esame ex art. 210 c.p.p., nel caso di rifiuto di rispondere su fatti concernenti l’altrui responsabilità « già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni », in mancanza di accordo delle parti alla lettura, dovesse applicarsi il metodo di contestazione previsto dall’art. 500 comma 2o-bis c.p.p. e, quindi, il congegno acquisitivo previsto dall’art. 500 comma 4o c.p.p. (fermo restando, com’è ovvio, data la natura delle dichiarazioni in questione, il criterio valutativo stabilito in via generale nell’art. 192 comma 3o c.p.p.). 5. Sebbene formalmente riferita, in quanto avente ad oggetto l’art. 513 comma 2o, agli imputati in separato procedimento connesso cui allude l’art. 210 c.p.p., la sentenza costituzionale appena ricordata — proprio perché fondata sulla riconosciuta assimilabilità, per quel che qui importa, tra le posizioni processuali del testimone e dell’imputato sottoposto ad esame sul fatto altrui — non poteva non porre un problema di simmetria rispetto alla analoga posizione dell’imputato nel suo medesimo processo, il quale nella sede dibattimentale avesse scelto la strada del diritto al silenzio, in particolare attraverso il rifiuto dell’esame, pur avendo nella fase preliminare rilasciato dichiarazioni contra alios. Al riguardo la Corte costituzionale ha giustamente posto l’accento, riprendendo spunti ed argomenti già da tempo sviluppati in dottrina, sulla innegabile peculiarità dell’esame dell’imputato intorno a fatti concernenti la responsabilità di altri, sottolineandone la « autonomia concettuale e sistematica ». Un’autonomia indipendente dalla circostanza che si tratti dell’imputato in separato procedimento connesso, da esaminarsi a norma dell’art. 210 c.p.p., ovvero dell’imputato all’interno dell’unico processo cumulativo, per il cui esame non è invece prevista alcuna differenza di regime a seconda che abbia ad oggetto il fatto proprio oppure il fatto altrui. Ed appunto su questa mancata diversificazione circa la disciplina dell’esame dibattimentale dell’imputato in rapporto all’oggetto dello stesso — laddove, per converso, in sede di incidente probatorio risultano dettate regole comuni relativamente all’esame sul fatto altrui (sia che debba esaminarsi l’indagato nel medesimo procedimento ex art. 392 comma 1o lett. c c.p.p., sia che debba esaminarsi un imputato in separato procedimento
— 827 — connesso ex art. 392 comma 1o lett. d c.p.p.) — ha insistito la Corte, movendo da un rilievo di fondo. Ponendosi, cioè, anzitutto il problema della razionalità della previsione della predetta disciplina unitaria dell’esame dibattimentale dell’imputato, senza distinguere tra il caso dell’imputato esaminato sul fatto proprio ed il caso dell’imputato esaminato sul fatto altrui. Alla luce di tali premesse, la recente sentenza non poteva non registrare come alcune delle regole che più specificamente caratterizzano la disciplina dell’esame dibattimentale dell’imputato (dalla mancata previsione dell’obbligo di comparire all’esclusione dell’accompagnamento coattivo ex art. 490 c.p.p., fino alla possibilità di rifiuto dell’esame ex art. 208 c.p.p.) in tanto si giustifichino, sul piano dell’esigenza di garanzia del diritto di difesa, in quanto si riferiscano all’esame « sul fatto proprio », trattandosi di regole dirette a consentire il libero esplicarsi della strategia difensiva, sotto lo specifico profilo del diritto di non collaborare. Mentre, quando l’esame debba vertere « su fatti non propri », poiché « concernenti la responsabilità di altri » è inevitabile — e la sentenza ne prende atto — che, venendo meno l’esigenza di garanzia del diritto di difesa, nei termini sopra precisati, rispetto al fatto proprio, se ne traggano le necessarie conseguenze. In particolare, nel senso del corrispondente venir meno di qualunque « ragionevole giustificazione » di una disciplina che, assorbendo sotto un unico regime l’esame dibattimentale dell’imputato nel processo cumulativo, finisce per estendere le regole dettate per l’esame sul fatto proprio anche all’ipotesi dell’esame del predetto imputato sul fatto altrui. Più precisamente allorché l’imputato, nell’ambito del medesimo processo, sia sottoposto ad esame sul fatto altrui (come accade, in particolare, quando l’esame verta sul contenuto di sue precedenti dichiarazioni relative all’altrui responsabilità), è questa la peculiarità che assume rilievo qualificante circa la stessa natura dell’istituto. Un istituto che, dal punto di vista teorico, si distingue nettamente dall’esame sul fatto proprio, dovendo semmai essere assimilato per « sostanziale coincidenza » all’esame cui viene sottoposto ex art. 210 c.p.p. l’imputato in separato procedimento connesso. Pertanto la già rilevata irragionevolezza della omologazione nell’ambito di un’unica disciplina dell’esame dell’imputato nel medesimo processo — sia che verta sul fatto proprio, sia che verta sul fatto altrui — si traduce, per altro verso, con riguardo a quest’ultima ipotesi, nel riconoscimento dell’irragionevolezza della conseguente disparità di regolamentazione applicabile all’esame sul fatto altrui, a seconda che ne sia protagonista l’imputato in separato procedimento connesso, a norma dell’art. 210 c.p.p., ovvero l’imputato nel processo cumulativo. Tenuto conto, infatti, che l’eventualità della riunione, o della separazione, dei procedimenti connessi ubbidisce a circostanze processuali « meramente occasionali e contingenti », appare manifesta, e non giustificabile, l’incoerenza di un sistema che esclude dalla disciplina dell’esame dell’im-
— 828 — putato nel medesimo processo sul fatto altrui (per effetto della suddetta irragionevole omologazione alla disciplina dell’esame sul fatto proprio) le previsioni dettate, nella corrispondente situazione, rispetto all’imputato in separato procedimento connesso, di cui venga richiesto l’esame ex art. 210 c.p.p.: in particolare, la previsione in capo a quest’ultimo imputato dell’obbligo di presentarsi per rendere l’esame e la previsione della possibilità per il giudice di ordinarne, ove occorra, l’accompagnamento coattivo. E poiché si deve convenire con la Corte costituzionale che la figura dell’imputato dichiarante contra alios risulta « sostanzialmente identica » — quanto alla sua posizione in sede di esame sul fatto altrui —« sia esso imputato nel medesimo procedimento o in separato procedimento connesso », ben si comprende che da tutto ciò sia scaturita la declaratoria di illegittimità dell’art. 210 c.p.p., nella parte in cui l’applicazione della disciplina ivi stabilita non era prevista anche rispetto « all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri », in quanto « già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni » rese nel corso della fase preliminare. 6. Dall’angolo visuale che qui soprattutto interessa, il primo e principale effetto di questa pronuncia di illegittimità dell’art. 210 c.p.p. è rappresentato dall’ormai acquisita equiparazione — sul terreno del regime da applicarsi nell’ipotesi di esame sul fatto altrui — tra l’imputato nel medesimo processo e l’imputato in separato procedimento connesso, con il corollario di rendere « omogenea », indipendentemente dall’una o dall’altra posizione processuale dell’imputato, la disciplina dell’esame « avente ad oggetto fatti concernenti la responsabilità di altri ». Da questa premessa, poi, la Corte ha tratto l’ulteriore corollario costituito dal riconoscimento nell’art. 513 comma 2o c.p.p. (ovviamente da leggersi in rapporto alla già ricordata declaratoria di illegittimità) della sede della « disciplina unitaria di tutti i casi di rifiuto » dell’imputato dichiarante di rispondere sul fatto altrui. È questa una conseguenza che, a stretto rigore, non discenderebbe di per sé dalla pronuncia di illegittimità dall’art. 210 c.p.p. cui si è appena fatto cenno, dal momento che sul punto la sentenza (come è stato ribadito anche dalla successiva ordinanza n. 84 del 1999) in pratica si limita ad « estendere » la disciplina stabilita per l’esame ex art. 210 c.p.p. anche all’esame sul fatto altrui dell’imputato nel processo cumulativo (mentre l’art. 513 comma 2o c.p.p. si riferisce letteralmente alle « persone indicate nell’art. 210 », dettando una disciplina ulteriore e molto più specifica rispetto a quella ivi sancita, con particolare riferimento a determinate ipotesi di cui lo stesso art. 210 c.p.p. in realtà non si occupa). Tuttavia, al di là del pur obiettivo dato testuale, sembra innegabile che la Corte costituzionale, sebbene forse attraverso un ragionamento non esplicitato in tutti i
— 829 — suoi passaggi logici, abbia inteso in sostanza ricomprendere nella propria declaratoria di illegittimità dell’art. 210 c.p.p. (sotto il profilo della necessaria inclusione di ogni imputato esaminato sul fatto altrui nell’area di soggetti cui deve applicarsi la corrispondente normativa) anche quella particolare proiezione della disciplina ivi prevista, che è costituita dalla regolamentazione ex art. 513 comma 2o c.p.p. delle ipotesi in cui un tale esame dell’imputato non possa avere luogo a causa del verificarsi di una delle situazioni descritte dal medesimo art. 513 comma 2o c.p.p. Con il risultato di farne doverosamente derivare l’operatività di quest’ultima disposizione con riguardo non solo alle « persone indicate nell’art. 210 », ma anche agli imputati nel medesimo procedimento da sottoporsi ad esame sul fatto altrui, ai quali per effetto della ormai più volte ricordata sentenza costituzionale si applica la disciplina dell’esame stabilita nell’art. 210 c.p.p. Ciò è confermato dalla circostanza che la medesima sentenza costituzionale, nell’affrontare le censure rivolte contro l’art. 238 comma 4o c.p.p. (sulla base dell’ovvio rilievo per cui, ove le dichiarazioni rese dalle persone indicate ex art. 210 c.p.p. nell’ambito di un diverso procedimento siano acquisite a norma dell’art. 238 c.p.p., non vi sarebbe ragione per non assoggettarle alle regole concernenti le dichiarazioni rese nell’ambito dello stesso procedimento), ha ritenuto « priva di ragionevole giustificazione » la disciplina ivi prevista, proprio in quanto non vi era prescritto che, ricorrendone i presupposti, dovesse trovare applicazione « una normativa analoga a quella stabilita dall’art. 513 comma 2o c.p.p., così come modificato dalla contestuale declaratoria di illegittimità », cui poco sopra si è fatto riferimento. Dove, evidentemente, si dà per scontato che, in virtù « dell’unificazione sub art. 210 c.p.p. dell’esame dell’imputato nel medesimo procedimento all’esame dell’imputato in procedimento connesso », quando sia l’uno che l’altro abbiano comunque già reso dichiarazioni contra alios, la disciplina dettata nell’art. 513 comma 2o c.p.p. debba operare con riguardo ad entrambe le suddette ipotesi di esame sul fatto altrui. Su questo scenario, per l’appunto, si è collocata la declaratoria di illegittimità dell’art. 238 comma 4o c.p.p., nella parte in cui non prevedeva (prescindendo, ovviamente, dall’ipotesi contemplata nel comma 2o-bis) che, qualora in dibattimento la persona esaminata a norma dell’art. 210 c.p.p. si fosse rifiutata di rispondere su fatti riguardanti l’altrui responsabilità « già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni », in mancanza di consenso dell’imputato all’utilizzo di tali dichiarazioni dovesse applicarsi il meccanismo di ‘‘contestazione acquisitiva’’ risultante dall’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. Ed è significativo, in proposito, che la Corte costituzionale si sia preoccupata di precisare come tale meccanismo debba trovare applicazione anche quando « le dichiarazioni concernenti il fatto al-
— 830 — trui acquisite da altro procedimento » siano state « rese da un soggetto che nel procedimento ad quem riveste la qualità di imputato »: dunque da un soggetto che, a rigore, non rientra tra « le persone indicate nell’art. 210 », ma al quale egualmente, nell’ipotesi di esame sul fatto altrui, deve applicarsi, secondo l’insegnamento della Corte, non solo la disciplina dettata nel medesimo art. 210 c.p.p., ma anche, se del caso, la disciplina dettata nell’art. 513 comma 2o c.p.p. Che l’insegnamento della Corte costituzionale sia sicuramente indirizzato in tal senso (quantunque, come si accennava poco sopra, si tratti di una ricostruzione interpretativa interna alla sentenza, di cui manca un’esplicita traccia nel dispositivo della medesima) è dimostrato, del resto, da alcune delle successive ordinanze con le quali la Corte è dovuta tornare sull’argomento. Più precisamente dalle ordinanze che, nel dichiarare la manifesta inammissibilità di questioni già affrontate con la sentenza n. 361 del 1998, hanno espressamente sottolineato tra gli effetti di quest’ultima sentenza l’operatività della « disciplina degli artt. 210 e 513 comma 2o c.p.p. » — così come intesi dalla stessa sentenza — anche nei confronti del coimputato nel medesimo processo cumulativo che, avendo « in precedenza reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, in dibattimento rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su tali fatti » (ci si riferisce, in particolare, alle ordinanze n. 57 e n. 82 del 1999). Ne deriva, per usare ancora una volta le parole della sentenza costituzionale appena menzionata, che — in coerenza con tali premesse — il disposto dell’art. 513 comma 1o c.p.p. risulta « ora riservato esclusivamente all’esame dell’imputato sul fatto proprio (art. 208 c.p.p.) », nel qual caso è conforme all’esigenza di necessaria garanzia del diritto di difesa che il medesimo imputato possa rifiutare di sottoporsi all’esame (come pure che possa scegliere di rimanere assente o contumace). Al contrario, per quanto concerne l’ipotesi dell’esame cui l’imputato venga sottoposto sul fatto altrui — ovviamente entro i limiti dell’oggetto di sue anteriori dichiarazioni — non possono esservi dubbi, di fronte alle ripetute e non equivoche affermazioni della Corte costituzionale, che la disciplina da applicarsi debba essere sempre quella dettata nell’art. 513 comma 2o c.p.p.; questa, infatti, è la disciplina sotto la cui sfera unificatrice risultano omologate sia la posizione delle « persone indicate nell’art. 210 », sia la posizione degli imputati nel medesimo procedimento, le cui dichiarazioni rese nella fase preliminare riguardino « fatti concernenti la responsabilità di altri ». Con l’ulteriore conseguenza che, nella seconda ipotesi, graverà evidentemente sul pubblico ministero o sulle altre parti private interessate (salva l’eventuale iniziativa d’ufficio del giudice ex art. 507 c.p.p.) l’onere di formulare la richiesta affinché l’imputato in sede di processo cumulativo venga sottoposto ad esame sul contenuto di tali dichiarazioni a norma
— 831 — dell’art. 210 c.p.p., previo il già ricordato adempimento circa la presentazione della lista prescritta dall’art. 468 comma 1o c.p.p., con l’indicazione delle « circostanze su cui deve vertere l’esame ». 7. Così definito l’ambito degli imputati (nel medesimo o in separato procedimento connesso) cui deve applicarsi, nelle situazioni ivi contemplate, la disciplina dell’art. 513 comma 2o c.p.p., quale risulta dalla declaratoria di illegittimità richiamata poco sopra, l’attenzione dell’interprete deve necessariamente tornare al contenuto di tale declaratoria. In particolare, là dove la Corte costituzionale individua nel meccanismo della contestazione, operata in base alle precedenti dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui (secondo il modello già ammesso dall’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p., con riguardo all’esame testimoniale), lo strumento per consentire la formazione dialettica della prova in sede di esame di fronte al giudice, nonché la sua successiva acquisizione, anche quando l’imputato dichiarante si rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere sulle circostanze già riferite nelle stesse dichiarazioni. Al riguardo è importante precisare, anzitutto, anche per smentire certe erronee interpretazioni della sentenza costituzionale in discorso come emblematica di un ‘‘ritorno al passato’’ ispirato ad un proposito politico di pura restaurazione, quanto sia grande la diversità, sul terreno di attuazione del contraddittorio, tra il meccanismo di acquisizione delle predette dichiarazioni in forza di semplice lettura di esse al di fuori dell’esame (come ammetteva il testo originario dell’art. 513 comma 2o c.p.p., soprattutto dopo la declaratoria di illegittimità parziale conseguente alla sentenza n. 254 del 1992) ovvero in forza dell’impiego delle stesse all’interno dell’esame per operarvi le contestazioni ex art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. relativamente alle circostanze indicate a norma dell’art. 468 comma 1o c.p.p. (come accade oggi, per effetto della sentenza costituzionale n. 361 del 1998). E la precisazione non sembra superflua, se è vero che nelle aule giudiziarie continua ad essere diffusa la prassi della mera lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni, quale strumento di ‘‘finta’’ contestazione successiva al rifiuto di rispondere dell’imputato dichiarante: al punto che nella relazione ad un recente disegno di legge ministeriale si è alluso al meccanismo della ‘‘contestazione acquisitiva’’, su cui ha fatto leva la sentenza costituzionale in questione, parlando addirittura, con sintomatico lapsus, di « dichiarazioni acquisite esclusivamente mediante lettura » (Relazione al disegno di legge recante « disposizioni in tema di rifiuto di rispondere da parte delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. », presentato dal ministro Diliberto il 23 febbraio 1999, in Atti Senato. XIII legislatura, stampato n. 3831, p. 3). In realtà, nelle ipotesi qui considerate, la differenza tra acquisizione mediante lettura ed acquisizione mediante contestazione è notevole, e non
— 832 — solo sotto il profilo teorico. Infatti lo strumento della contestazione — come ha sottolineato la stessa Corte costituzionale — dà luogo ad un vero e proprio rapporto dialettico tra le parti circa l’oggetto delle precedenti dichiarazioni, nell’ambito del quale ad una parte è consentito di « portare direttamente davanti al giudice » il contenuto di tali dichiarazioni, mentre alle controparti (come si ricordava poco sopra) è consentito di « sottoporle al vaglio critico, sollecitando e favorendo eventuali ritrattazioni, correzioni e chiarimenti » ad opera del dichiarante, quand’anche il medesimo all’esordio dell’esame avesse manifestato la volontà di non rispondere. In altri termini, tra l’ipotesi dell’acquisizione mediante lettura ai sensi dell’abrogato art. 513 c.p.p. e l’ipotesi dell’acquisizione mediante contestazione, così come profilata dall’insegnamento dei giudici costituzionali, vi è la stessa differenza che intercorre tra un meccanismo acquisitivo senza contraddittorio (poiché tale lettura di per sé escludeva che il dichiarante, una volta scelta la strada del silenzio, potesse venire coinvolto nell’esame, nemmeno con riguardo all’oggetto delle sue precedenti dichiarazioni) ed un meccanismo acquisitivo realizzato attraverso il contraddittorio (poiché la contestazione presuppone che il dichiarante, nonostante l’iniziale rifiuto di rispondere, peraltro modificabile nel corso dell’esame, venga sottoposto a tutte le domande che le parti riterranno di rivolgergli, sulla scorta delle sue precedenti dichiarazioni, in linea con il diritto delle stesse parti di « interrogare o far interrogare » le fonti di prova a carico). E, sebbene in quest’ultimo caso il contraddittorio risulti imperfetto, allorquando il dichiarante mantenga ferma, in tutto o in parte, la scelta del silenzio, non si tratta comunque di una differenza che possa ritenersi irrilevante, sul piano dei livelli di concreta utilizzabilità delle dichiarazioni acquisite nell’uno o nell’altro modo. È significativo, del resto, che già prima della recente sentenza di illegittimità dell’art. 513 comma 2o c.p.p., si fosse levata in dottrina una voce autorevole come quella di Franco Cordero, diretta a prospettare — sul piano politico-legislativo — una soluzione in buona sostanza anticipatoria rispetto a quella poi delineata nella predetta sentenza, sul presupposto dell’attribuzione di obblighi testimoniali all’imputato già in precedenza dichiarante sul fatto altrui. Una soluzione volta a prevedere, cioè, che ove il medesimo imputato fosse successivamente rimasto « a bocca chiusa » in sede di esame, dovesse comunque passare « nel fascicolo il verbale delle dichiarazioni anteriori », in quanto fossero state « rievocate dall’escussore », affinché « i relativi dati diventino fruibili alle condizioni » stabilite dall’art. 500 c.p.p. in materia di esame del testimone. È questa, per l’appunto, la prospettiva seguita dalla Corte costituzionale, proprio facendo leva sul meccanismo previsto per l’esame testimoniale dall’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. Da un canto è innegabile che, per tale via, possa superarsi — attraverso una soluzione già ben nota al si-
— 833 — stema — la « manifesta irragionevolezza » di una disciplina che, dopo aver consentito all’autorità giudiziaria di raccogliere legittimamente, nella fase preliminare, le dichiarazioni rese dall’imputato sul fatto altrui, rimetteva la possibilità della loro acquisizione in dibattimento alla scelta totalmente discrezionale dello stesso imputato di rispondere o di non rispondere all’esame, così come stabiliva la più recente versione dell’art. 513 c.p.p. D’altro canto è del pari innegabile che, in questo modo, risulti salvaguardato il diritto di difesa dell’imputato dichiarante, sotto il profilo del diritto al silenzio, essendo fuori dubbio che tale ultimo diritto non venga scalfito ove il dichiarante sia sottoposto a contestazioni in ordine alle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni, relativamente alle quali sia stata esercitata la facoltà di non rispondere in sede di esame. Mentre, per quanto concerne il diritto al contraddittorio dell’imputato destinatario delle suddette dichiarazioni d’accusa, di fronte all’insegnamento della Corte rimane aperto il quesito se tale diritto (inteso nell’accezione essenziale di right to confrontation) possa ritenersi adeguatamente soddisfatto, anche nell’eventualità di rifiuto di rispondere dell’imputato dichiarante, grazie al meccanismo della contestazione operata nei confronti del medesimo dichiarante, entro i limiti dell’oggetto delle proprie precedenti dichiarazioni sul fatto altrui. Poiché, in ogni caso, si tratta di un meccanismo « già previsto dal legislatore » (come la Corte si preoccupa di precisare) con riguardo alla corrispondente situazione in cui venga a trovarsi il testimone sottoposto ad esame, la soluzione accolta dalla Corte appare comunque difficilmente contestabile, sotto il profilo della ragionevolezza, nel quadro dell’attuale sistema, del resto sul punto mai posto in discussione a livello costituzionale. Anche perché appare ampiamente giustificata, per quel che importa, la valutazione di stretta analogia tra la posizione processuale del testimone e quella dell’imputato dichiarante contra alios, su cui si fonda tale soluzione. 8. Fin qui è arrivata la Corte costituzionale, sulla base di una sentenza che, indiscutibile rispetto al suo profilo ablatorio puro (quanto alla ritenuta illegittimità dell’art. 513 comma 2o c.p.p., là dove stabiliva che, nel caso di rifiuto di rispondere delle persone esaminate ex art. 210 c.p.p., l’acquisizione al processo delle precedenti dichiarazioni potesse avvenire soltanto con l’accordo delle parti), presenta altresì un obiettivo contenuto di integrazione del testo illegittimo (quanto all’individuazione del disposto ex art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. quale normativa da applicarsi, nelle ipotesi predette, in assenza dell’accordo delle parti), nei cui riguardi non sono mancate le perplessità, talora espresse anche con toni aspramente scomposti.
— 834 — Simili perplessità, tuttavia, non appaiono fondate su solidi argomenti — sempre ragionando entro la cornice del vigente ordinamento processuale — a meno di non voler mettere in discussione lo stesso potere della Corte costituzionale di emettere sentenze di natura additiva o sostitutiva. Al contrario, se le si riconosce tale potere, sembra difficile negare che nella specie la Corte, di fronte al pericolo di pregiudizio per il diritto al contraddittorio dell’imputato (diritto, peraltro, non riconducibile ad una potestà di veto rispetto all’impiego delle dichiarazioni accusatorie rese in precedenza da altro imputato), correttamente abbia individuato, in chiave ricostruttiva, la soluzione ricalcata sulla disciplina dell’art. 500 commi 2obis e 4o c.p.p. come quella più conforme all’esigenza di coerenza interna del sistema. E ciò, ovviamente, movendo dalla premessa della incontestabile assimilabilità, sotto il profilo in parola, della posizione dell’imputato dichiarante sul fatto altrui alla posizione del testimone. Perché, se è vero che per altri versi potrebbe anche discutersi su tale premessa, non c’è dubbio che, dal punto di vista del diritto al contraddittorio dell’imputato destinatario di anteriori accuse provenienti da altro imputato, non sarebbe ragionevolmente giustificabile, nel caso di rifiuto di quest’ultimo di rispondere all’esame, la previsione di una disciplina diversa da quella dettata, in circostanze corrispondenti, nei confronti di un testimone. Non sfugge, d’altronde, che per questo versante la sentenza n. 361 del 1998, nella misura in cui apre un varco, entro i limiti che si sono precisati — facendo leva sullo strumento della contestazione, anche nel caso di rifiuto di rispondere del dichiarante — alla possibilità di acquisire al processo le dichiarazioni rese dall’imputato contra alios nella fase preliminare, pur in assenza di accordo tra le parti, si riallaccia al proprio precedente indirizzo giurisprudenziale, così come espresso nella sentenza n. 254 del 1992 (e ribadito nella sentenza n. 179 del 1994), con la quale era stato ritenuto illegittimo che, in situazioni del genere, tale possibilità finisse per venire preclusa dalla scelta di tacere operata dal dichiarante. Da tale indirizzo si era manifestamente discostato il legislatore del 1997 (senza che nessuno, per la verità, mostrasse soverchio disappunto, nonostante il palese proposito di ‘‘ribaltare’’ il predetto insegnamento costituzionale), tanto è vero che, in forza del nuovo testo dell’art. 513 c.p.p., per usare le parole della più recente sentenza, si era « ritornati, sia pure con alcune variazioni, ad una disciplina analoga a quella vigente prima della sentenza n. 254 del 1992 »: con la conseguenza che « in caso di esercizio della facoltà di non rispondere, la lettura non è preclusa in modo assoluto, ma risulta condizionata all’accordo delle parti ». Ed è appunto su quest’ultimo aspetto che si è concentrato, per quel che qui importa, l’intervento della Corte costituzionale, ancora una volta allo scopo di impedire che, nelle ipotesi considerate, la acquisizione al processo delle dichiarazioni in questione potesse venire esclusa per effetto della scelta del tutto
— 835 — discrezionale dell’uno o dell’altro soggetto processuale. Come sarebbe avvenuto, questa volta, ai sensi dell’art. 513 comma 2o c.p.p., in forza della « concorrente volontà dell’imputato in procedimento connesso », esplicitata attraverso il rifiuto di rispondere all’esame, e « della parte processualmente interessata ad impedire l’acquisizione e l’utilizzazione delle dichiarazioni stesse ». Ecco perché la Corte costituzionale, come si ricordava poco sopra, dopo aver giustamente sottolineato l’irragionevolezza (in rapporto alla funzione essenziale del processo, quale strumento di accertamento dei fatti e delle responsabilità) del congegno preclusivo rimesso ex art. 513 comma 2o c.p.p. alla « concorrente volontà » dei soggetti in questione, ed aver quindi dichiarato l’illegittimità della relativa previsione, si è sforzata di ricercare, sul terreno ricostruttivo, all’interno dello stesso ordinamento processuale la soluzione più plausibile in situazioni del genere. Avendo fatta propria, ovviamente, la scelta del legislatore del 1997 volta ad escludere, salvo il consenso degli interessati, una forma di acquisizione soltanto « cartolare », ovvero mediante semplice lettura, delle dichiarazioni rese in precedenza sul fatto altrui dall’imputato che in sede di esame si rifiutasse di rispondere. Che poi tale soluzione sia stata individuata, sulla scorta di un innegabile parallelismo — sotto il profilo in parola — tra la posizione del testimone e quella dell’imputato dichiarante sul fatto altrui, i quali entrambi si rifiutino di rispondere in sede di esame, attraverso l’estensione al secondo dello stesso meccanismo di ‘‘contestazione acquisitiva’’ delle precedenti dichiarazioni già previsto ex lege con riguardo al primo, è circostanza esclusivamente riconducibile alla presenza, nel sistema, di un meccanismo di acquisizione come quello disciplinato, in sede di esame testimoniale, attraverso il combinato disposto dei commi 2o-bis e 4o dell’art. 500 c.p.p. Un meccanismo dal quale la Corte costituzionale ha coerentemente fatto discendere la conclusione per cui, se nel caso di rifiuto di rispondere del testimone l’esame può egualmente proseguire in forma dialettica grazie allo strumento delle contestazioni (con la successiva allegazione al fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni utilizzate a tale scopo), corrisponde ad un elementare criterio di ragionevolezza, conforme agli equilibri del sistema, in rapporto ai princìpi degli artt. 3 e 24 comma 2o Cost., che la medesima disciplina debba applicarsi anche all’esame dell’imputato già dichiarante sul fatto altrui. E ciò perché, nel corso di tale esame, la sua posizione rispetto all’imputato destinatario delle dichiarazioni accusatorie (ivi compresa l’ipotesi in cui il primo si avvalga della facoltà di non rispondere), risulta pienamente assimilabile a quella del testimone. Semmai c’è da domandarsi perché la Corte non si sia spinta più in là — come senza dubbio avrebbe potuto — una volta riconosciuta la suddetta equiparabilità di posizioni tra il testimone e l’imputato dichiarante
— 836 — sottoposto ad esame sul fatto altrui: fino al punto, cioè, da giudicare illegittima la previsione della facoltà di non rispondere attribuita a quest’ultimo in via generale ex art. 210 comma 4o c.p.p., e quindi anche con riferimento a fatti già oggetto di sue precedenti dichiarazioni contra alios. Il che sarebbe stato coerente con le premesse su cui è stata costruita la sentenza in questione, ed avrebbe anche reso più completo ed organico il quadro della disciplina derivante dal combinato disposto degli artt. 210 e 513 comma 2o c.p.p., così come rimodellata dalla medesima sentenza. 9. In realtà, non sembrano particolarmente persuasive le ragioni addotte dalla Corte costituzionale per dichiarare non fondate le diverse questioni concernenti l’art. 210 comma 4o c.p.p., nella parte in cui attribuisce agli imputati ivi indicati la facoltà di non rispondere, anche sul contenuto di dichiarazioni già rese dagli stessi con riguardo all’altrui responsabilità. Se non si va errati, del resto, appare sintomatico un certo disagio emergente dalle parole con cui la Corte ha tenuto a sottolineare in più di un passaggio come la propria pronuncia sul punto si riferisca all’« attuale formulazione dell’art. 210 comma 4o c.p.p. » (nel senso, cioè, di ritenere « non suscettibile di censure di costituzionalità » il riconoscimento del diritto al silenzio « così come regolato dalla norma impugnata »), quasi a lasciar intendere che, in un diverso contesto normativo, la soluzione non sarebbe stata la stessa. E, comunque, che l’eventuale esclusione di tale diritto non dovrebbe di per sé ritenersi incostituzionale. A ben vedere, sarebbe stato ragionevole attendersi che, dopo aver preso atto della assimilabilità, con riferimento all’esame dibattimentale, tra le posizioni del testimone e dell’imputato dichiarante sul fatto altrui — e dopo avervi radicato il presupposto della conseguente illegittimità dell’art. 513 comma 2o c.p.p. — da simili premesse la Corte costituzionale facesse discendere, con riguardo al disposto dell’art. 210 comma 4o c.p.p., una pronuncia tale da completare il quadro della parificazione tra le due suddette figure, anche dal punto di vista delle rispettive situazioni di obbligo dinanzi al giudice in sede di esame. Tanto più che, a parte l’evidente disparità di trattamento tra due soggetti, pur fortemente assimilati dalla circostanza di avere già reso dichiarazioni destinate a valere nei riguardi di altri, il mantenimento in capo all’imputato dichiarante sul fatto altrui della facoltà di tacere nel corso dell’esame, anche rispetto al contenuto delle sue precedenti dichiarazioni, si traduce obiettivamente in un sacrificio (sotto il profilo della parzialità dell’esercizio) per il diritto al contraddittorio dell’imputato nei cui confronti le medesime dichiarazioni siano rivolte, poiché su tale diritto finisce per prevalere la tutela del diritto al silenzio dell’imputato dichiarante. A quest’ultimo aspetto, per la verità, la recente sentenza non dedica l’approfondimento che avrebbe meritato, limitandosi a registrare il « ca-
— 837 — rattere ibrido » della disciplina dettata nell’art. 210 c.p.p., quale riflesso della « peculiarità » della posizione dell’imputato in procedimento connesso (ma lo stesso vale, ovviamente, anche per l’imputato nel processo cumulativo) chiamato a rendere dichiarazioni sulla responsabilità di altri, e derivandone la conseguenza che comunque si tratti, per questo risvolto, di soggetto « non identificabile, sul terreno sostanziale, con la figura del testimone ». Di qui viene ricavato il corollario secondo cui sarebbe coerente la scelta legislativa di attribuire a tale soggetto, nelle ipotesi descritte, la facoltà di non rispondere, in quanto « irrinunciabile manifestazione del diritto di difesa dell’imputato », ma si tratta di conclusione davvero sorprendente. Stupisce, in particolare, che la Corte — dopo avere più volte differenziato, e con piena ragione, la posizione dell’imputato dichiarante, in quanto venga sottoposto ad esame sul fatto proprio, ovvero sul fatto altrui — rinunci a far valere la distinzione fondata su tale corretto criterio, rassegnandosi a coprire sotto la generica cortina di una indifferenziata tutela del diritto al silenzio anche la posizione dell’imputato chiamato a rispondere esclusivamente su fatti concernenti la responsabilità di altri, e pur nei limiti delle proprie precedenti dichiarazioni. Tutto ciò suscita forti perplessità, proprio con riferimento alla ratio del diritto al silenzio dell’imputato. Infatti, com’è noto, in tanto la facoltà di non rispondere si configura quale intangibile espressione del diritto di difesa dell’imputato, in quanto venga riferita al fatto proprio, secondo il criterio del « nemo tenetur se detegere », mentre l’attribuzione di analoga facoltà anche rispetto al fatto altrui risulta priva di qualunque giustificazione riconducibile all’esercizio del diritto di difesa, soprattutto allorché il tema dell’esame risulti precedentemente individuato in rapporto all’oggetto delle anteriori dichiarazioni rese dallo stesso imputato contra alios. Del resto era stata la medesima Corte, poco prima, a precisare come la garanzia del diritto al silenzio, nei confronti dell’imputato dichiarante su fatti concernenti la responsabilità altrui, si manifestasse attraverso l’esclusione a suo carico « dell’obbligo di rispondere in dibattimento a domande che potrebbero coinvolgere responsabilità proprie ». Senonché non sembra dubbio che, per realizzare tale garanzia — nella peculiare ipotesi di cui si discute — non sia indispensabile l’attribuzione all’imputato sottoposto ad esame esclusivamente sul fatto altrui di un diritto al silenzio in forma generale ed assoluta: così come dev’essere, invece, per l’imputato chiamato a rispondere sul fatto proprio. Per converso, allo scopo sarebbe sufficiente far leva su altri strumenti, non dissimili da quelli già predisposti dal sistema per la salvaguardia del diritto al silenzio di soggetti diversi dall’imputato, i quali debbano deporre sul fatto altrui, e solo eventualmente possano trovarsi nella situazione di dover essere tutelati dal rischio di rendere dichiarazioni a proprio danno: si pensi, per esempio, ai congegni di garanzia ‘‘anticipata’’ del diritto al silenzio di-
— 838 — sciplinati dagli artt. 63 comma 1o e 198 comma 2o c.p.p. E ciò appare tanto più necessario allorché, come nel nostro caso, l’attribuzione all’imputato dichiarante sul fatto altrui di una facoltà di non rispondere ... ad oggetto indifferenziato, quale quella prevista ex art. 210 comma 4o c.p.p., si traduce in un concreto (e, per la verità, poco ragionevole) sacrificio per il completo esercizio del diritto al contraddittorio da parte dell’imputato coinvolto dalle dichiarazioni del primo. 10. A queste perplessità la Corte costituzionale risponde osservando che altri dovrebbero essere i rimedi offerti sul punto dall’ordinamento processuale penale, ed in proposito si richiama agli ormai ben noti risultati dell’« intervento additivo sull’art. 513 comma 2o c.p.p. », con la conseguente « estensione della disciplina delle contestazioni prevista dall’art. 500 comma 2o-bis c.p.p. » all’esame dell’imputato su fatti concernenti l’altrui responsabilità. Senonché non è detto che una risposta del genere possa ritenersi esaustiva. È vero infatti che, per tale via, da un lato viene garantito il diritto dell’imputato dichiarante di avvalersi della facoltà di non rispondere, e dall’altro viene altresì tutelato il diritto al contraddittorio dell’imputato destinatario delle correlative dichiarazioni rese nella fase preliminare. Tuttavia si è già fatto notare come, in situazioni del genere, l’invocato « principio della formazione dialettica della prova in dibattimento » trovi realizzazione solo in maniera parziale ed incompleta, proprio a causa della scelta di uno degli interlocutori di non prestarsi, attraverso il silenzio, a tale rapporto dialettico. Alla luce di simili rilievi, che evidentemente si riflettono sulla ‘‘qualità’’ del contraddittorio, di cui potrà giovarsi l’imputato coinvolto da precedenti dichiarazioni a suo carico, a seconda che il soggetto fonte di tali dichiarazioni risponda o non risponda alle domande rivoltegli in sede di esame, si comprende subito come la situazione risulti ben diversa a seconda che tale soggetto sia per legge obbligato a rispondere, ovvero possa legittimamente avvalersi della facoltà di non rispondere, estesa fino a ricomprendervi il contenuto delle proprie precedenti dichiarazioni contra alios. Una cosa infatti è che, in ipotesi del genere, la scelta del soggetto sottoposto ad esame, il quale si rifiuti di rispondere su « circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni », integri un comportamento illecito (come capita nel caso del testimone, cui testualmente si riferisce l’art. 500 comma 2o-bis c.p.p.), configurandosi cioè in termini tali da rappresentare una anomalia rispetto alla normalità delle suddette situazioni. Ben altra cosa, invece, è che la scelta del rifiuto di rispondere in analoghe eventualità costituisca un comportamento lecito, anzi corrispondente all’esercizio di un diritto (come capita nel caso dell’imputato dichiarante, legittimato ad avvalersi della « facoltà di non rispondere » ex art. 210 comma 4o c.p.p. anche quando venga esaminato sul fatto altrui), configurandosi così in chiave di normalità rispetto alle situazioni considerate.
— 839 — Al riguardo, sebbene non si possa sostenere che, in quest’ultimo caso, quella del silenzio rappresenti una scelta ‘‘prevedibile’’ da parte del suddetto imputato, nonostante le precedenti dichiarazioni a carico di altri (essendo semmai prevedibile che l’imputato dichiarante ripeta in dibattimento le dichiarazioni già liberamente rese nella fase preliminare, o comunque accetti di rispondere alle corrispondenti domande), si deve tuttavia ammettere che una tale scelta rientra oggi nell’ambito delle opzioni del tutto libere ed insindacabili ad opera del medesimo imputato. Si tratta, quindi, di una scelta tale da poter essere adottata senza alcuna possibilità di censura (né sul piano giuridico, né sul piano morale), anche per ragioni ampiamente diverse, ed anzi estranee, rispetto a quelle riconducibili alla logica del « nemo tenetur se detegere ». Tutto questo nuoce, evidentemente, al grado di effettività di attuazione del contraddittorio nella formazione della prova, quale risulta dal meccanismo di ‘‘contestazione acquisitiva’’ delineato nell’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p., allorché tale meccanismo si applichi nei confronti di un imputato dichiarante che si sia avvalso della facoltà di non rispondere in ordine al fatto altrui. Ai fini della valutazione della concreta idoneità di quel meccanismo a soddisfare il diritto al contraddittorio dell’imputato coinvolto da dichiarazioni accusatorie rese nella fase preliminare non è irrilevante, infatti, la circostanza che il rifiuto di rispondere opposto dal soggetto dichiarante in sede di esame corrisponda ad un fenomeno anomalo (come nel caso del testimone, in quanto soggetto obbligato a « rispondere secondo verità alle domande rivoltegli » ex art. 198 comma 1o c.p.p.) ovvero ad un fenomeno normale (come nel caso dell’imputato dichiarante sul fatto altrui, in quanto soggetto titolare di una generica facoltà di non rispondere a norma dell’art. 210 comma 4o c.p.p.). E ciò perché, in quest’ultima ipotesi, essendo previsto in capo all’imputato dichiarante un vero e proprio diritto al silenzio, e quindi essendo escluso qualunque strumento di sollecitazione giuridica (nemmeno nella forma di una pur modesta sanzione penale, come quella prevista in capo al testimone) o morale a rispondere in sede di esame, potrà diffondersi una sorta di costume, da parte dei suddetti imputati, ad avvalersi normalmente della facoltà di non rispondere, anche con riferimento alle domande concernenti il fatto altrui. Senonché dev’essere chiaro che, ogni qualvolta l’imputato dichiarante si rifiuti di rispondere sull’oggetto delle sue precedenti dichiarazioni contra alios, ne risulta correlativamente pregiudicato (in termini di parzialità e di incompletezza) il diritto al contraddittorio dell’imputato verso cui le suddette dichiarazioni siano rivolte, con evidenti ricadute negative sullo stesso principio di formazione dialettica della prova. Un pregiudizio del genere potrebbe essere ragionevolmente tollerato, nel contesto generale del sistema, quale ipotesi marginale, in quanto frutto ‘‘patologico’’ di
— 840 — un comportamento illecito, come accade per l’appunto nell’ipotesi del testimone che si rifiuti di rispondere, determinando così gli effetti previsti dall’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. Al contrario, quando è lo stesso sistema a considerare ‘‘fisiologico’’ il rifiuto di rispondere, fino ad elevarlo al rango di diritto, come accade nei confronti dell’imputato dichiarante sul fatto altrui, senza che a tale diritto corrisponda alcuna reale esigenza di garanzia contro il rischio dell’autoincriminazione, il pregiudizio per il diritto al contraddittorio dell’imputato coinvolto dalle dichiarazioni accusatorie rischia di diventare anch’esso ‘‘fisiologico’’, sicché il rischio di squilibrio che ne deriva a danno di quest’ultimo nell’ordinario funzionamento dei congegni di formazione dialettica della prova non può non apparire preoccupante. 11. È difficile, dunque, concordare con la linea seguita dalla Corte costituzionale, là dove ha ritenuto di circoscrivere le conseguenze derivanti dalla riconosciuta assimilabilità tra la posizione del testimone e quella dell’imputato dichiarante contra alios. Specialmente evitando di svilupparle — come sarebbe stato coerente rispetto alla premessa — fino ad escludere la legittimità della permanenza in capo al suddetto imputato di una facoltà di non rispondere anche rispetto al fatto altrui, almeno nei limiti dell’oggetto delle sue precedenti dichiarazioni. Si possono pure comprendere le ragioni che, sul piano della concreta praticabilità in sede giurisprudenziale, hanno verosimilmente trattenuto la Corte dal pervenire ad una siffatta pronuncia di illegittimità, a causa della difficoltà (se non della impossibilità), attraverso gli strumenti offerti dalle sentenze additive, di colmare le lacune normative che si sarebbero prodotte in forza di una pronuncia del genere: lacune bisognose di essere compensate, tra l’altro, anche attraverso una corrispondente disciplina di diritto penale sostanziale, correlata allo status testimoniale in tal modo riconosciuto all’imputato dichiarante, con l’ovvio corollario relativo all’obbligo di deporre secondo verità. E tuttavia non sembra che queste ragioni possano di per sé giustificare la scelta di palese self-restraint operata dalla Corte, rispetto ad una conclusione che sarebbe stata imposta da pressoché tutta l’argomentazione fino a quel momento elaborata dalla sentenza di cui si tratta. Dopo di che, se qualche lacuna fosse rimasta aperta nel tessuto normativo, nonostante le opportunità ricostruttive consentite da un corretto uso della giurisprudenza costituzionale, sul punto sarebbe senza dubbio potuto intervenire entro tempi brevi il legislatore ordinario, come del resto già altre volte è accaduto. Ma, in ogni caso, il sistema, alla luce degli insegnamenti forniti dalla Corte, sarebbe stato ricondotto ad un quadro di coerenza. Si è già detto dell’evidente disagio che trapela dal passo della sentenza dedicato a ‘‘salvare’’ la disposizione dell’art. 210 comma 4o c.p.p.,
— 841 — desumibile tra l’altro dalla non casuale insistenza nel far risaltare come oggetto del sindacato di costituzionalità fosse « l’attuale disciplina del diritto al silenzio » risultante dalla suddetta disposizione. Nella quale, del resto — come si ricordava poco sopra — si riconosce il riflesso della fisionomia ibrida di un regime normativo al cui interno, per quel che qui importa, la posizione dell’imputato dichiarante sottoposto ad esame sul fatto altrui viene ritenuta « non identificabile » con quella del testimone. A questo proposito, una osservazione merita di essere prospettata. Se da un canto, infatti, la Corte rischia manifestamente di entrare in contrasto con se stessa, nel momento in cui continua a tollerare le ripercussioni proiettate sul sistema processuale penale, in chiave di irragionevolezza, dalla pur lamentata fisionomia ibrida della disciplina ex art. 210 c.p.p., dall’altro non sembra azzardato ravvisare nei meandri faticosi della motivazione relativa a questo delicato profilo una sorta di messaggio indiretto (cauto, ma non equivoco) lanciato dalla medesima Corte al legislatore. In particolare, nel senso di rimarcare la preferibilità di una soluzione che — pur nel quadro di un generale ripensamento sulla disciplina di formazione della prova dichiarativa nel contraddittorio tra le parti — si qualifichi per l’esclusione del diritto al silenzio quale prerogativa dell’imputato chiamato a deporre di fronte al giudice nelle ipotesi descritte, in quanto dichiarante contra alios: con la conseguente imposizione al medesimo dell’obbligo di rispondere, in veste testimoniale, almeno nei limiti dell’oggetto delle sue precedenti dichiarazioni sul tema dell’altrui responsabilità. Al riguardo non c’è dubbio che la strada ideale sarebbe quella rappresentata da un intervento riformatore idoneo ad affrontare globalmente, in modo equilibrato ed organico, la tematica del contraddittorio nell’itinerario formativo della prova. Ciò non toglie però che, una volta dichiarata l’illegittimità dell’art. 513 comma 2o c.p.p., nei termini che si sono precisati, l’epilogo più coerente della medesima sentenza — a partire dal suo stesso presupposto argomentativo — sarebbe dovuto essere la successiva declaratoria di illegittimità dell’art. 210 comma 4o c.p.p. E questo è vero non solo sul piano della coerenza logica rispetto alle premesse, ma anche in relazione alla intrinseca plausibilità del ragionamento svolto in sentenza per legittimare il meccanismo della ‘‘contestazione acquisitiva’’, quale congegno di recupero al processo delle dichiarazioni precedentemente rese dall’imputato sul fatto altrui, nonostante il rifiuto di rispondere all’esame, in conformità a quanto previsto in analoghe circostanze per il testimone a norma dell’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. A ben vedere, infatti, in tanto ha senso estendere all’imputato dichiarante sul fatto altrui, in ipotesi del genere, il meccanismo desumibile da queste ultime disposizioni, in quanto il medesimo imputato venga a trovarsi, durante l’esame, in una situazione corrispondente a quella del testimone (atteso che proprio la assimilabilità delle posizioni processuali del-
— 842 — l’uno e dell’altro giustifica l’estensione al primo della disciplina dettata ex art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p. per il secondo) anche sotto il profilo dell’obbligo di rispondere secondo verità. Altrimenti, come si è già constatato, la permanenza in capo al suddetto imputato della facoltà di non rispondere, ai sensi dell’art. 210 comma 4o c.p.p., rendendo nella pratica normale (o almeno non patologico) l’esercizio della suddetta facoltà, finisce per indebolire di molto il grado di effettività del meccanismo di formazione dialettica della prova che in tal modo si vorrebbe assicurare. Sicché, da questo punto di vista, non sembra dubbio che la Corte costituzionale, nel momento in cui si è fermata a metà strada lungo l’itinerario di equiparazione al testimone dell’imputato dichiarante sul fatto altrui, arrestandosi inopinatamente di fronte alle pur robuste censure di illegittimità dell’art. 210 comma 4o c.p.p., abbia di fatto indebolito la stessa solidità dell’argomentazione che — per effetto del già ricordato parallelismo tra posizioni processuali assimilabili — l’aveva condotta, nel pieno rispetto delle simmetrie interne al sistema, a dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 513 comma 2o c.p.p. 12. Invece di impegnarsi nel realizzare al più presto quell’intervento complessivo di riforma sulle modalità di formazione della prova nel contraddittorio dibattimentale, verso il quale avrebbe dovuto spingerlo la sentenza costituzionale n. 361 del 1998 (alla luce dei suggerimenti, espliciti ed impliciti, ricavabili dalla medesima sentenza), nei mesi conseguenti a tale pronuncia il Parlamento ha mostrato di voler puntare soprattutto su una prospettiva di revisione costituzionale. In particolare, allo scopo di propiziare l’inserimento nella Costituzione di una serie di princìpi legati alla tematica probatoria, alcuni dei quali piuttosto antitetici rispetto a quelli enunciati nella predetta sentenza. Ci si riferisce al disegno di legge costituzionale che, manifestando in rubrica il proposito di inserire i « princìpi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione », è stato approvato in prima lettura dal Senato il 24 febbraio 1999, sulla base di un testo risultante dalla unificazione di cinque diversi disegni di varia provenienza, tutti presentati dal 4 al 24 novembre 1998, cioè nelle settimane immediatamente successive al deposito di tale sentenza. E già questa circostanza, in quanto espressiva di un rapporto di stretta consequenzialità, anche cronologica, tra la decisione della Corte costituzionale e le iniziative legislative appena ricordate (rapporto del resto non sottaciuto tra i motivi addotti a corredo delle stesse), appare sintomatica di un orientamento politico diretto a contrastare ‘‘a caldo’’, più che ad integrare od a razionalizzare all’interno del sistema, l’impostazione e le affermazioni fatte proprie dalla Corte. Come dimostrano, all’evidenza, i contenuti del suddetto disegno di legge — successivamente approvato in prima lettura anche dalla Camera, senza variazioni, il 27 luglio
— 843 — 1999 — e, soprattutto, le sue novità rispetto alla corrispondente previsione ex art. 130 del progetto varato nell’autunno 1997 dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali. A fronte di quest’ultimo testo, infatti, l’odierno disegno di legge per un verso riprende, sia pure con alcune notevoli differenze, le previsioni concernenti l’enunciazione dei caratteri del « giusto processo », nonché il correlativo catalogo dei diritti da assicurarsi alla « persona accusata » nel processo penale (secondo un elenco ricalcato, almeno in parte, sull’art. 6 comma 3o Conv. eur. diritti uomo e sull’art. 14 comma 3o Patto int. diritti civ. e pol.), mentre, per altro verso, introduce alcune significative innovazioni in materia di contraddittorio nella formazione della prova e di regole probatorie. E qui, per l’appunto, si avverte più manifesto l’atteggiamento politico-legislativo volto a modificare la Carta costituzionale proprio in rapporto ai temi su cui si era pronunciata pochi mesi prima, facendo leva specialmente sull’art. 24 comma 2o Cost., la sentenza che aveva dichiarato la parziale illegittimità degli artt. 210, 238 comma 4o e 513 comma 2o c.p.p. In altri termini, per usare il linguaggio di un osservatore riflessivo come l’ex guardasigilli Martinazzoli, si ha l’impressione che venga « corretta la Costituzione contro la Corte costituzionale ». Questo è vero non tanto con riferimento alla prevista enunciazione nel futuro 4o comma del predetto art. 111 Cost. del « principio del contraddittorio nella formazione della prova » come canone regolatore del processo penale (dinanzi al quale, semmai, deve porsi il problema di una qualche ‘‘valvola di sfogo’’ rispetto alla assolutezza del principio così formulato), bensì con riferimento alla regola probatoria che a tale principio si vorrebbe affiancare, in chiave di trasparente (e spesso dichiarata) polemica con l’interpretazione accolta dalla Corte costituzionale sulla scorta degli odierni princìpi. Proclamando, infatti, che la colpevolezza dell’imputato « non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio » da parte dell’imputato o del suo difensore, il disegno di legge in questione manifestamente capovolge, sia pure nella peculiare ottica di una regola sulla ‘‘prova della colpevolezza’’, l’insegnamento offerto dalla Corte circa la possibilità di utilizzare sul piano probatorio, attraverso il meccanismo della ‘‘contestazione acquisitiva’’, anche le dichiarazioni precedentemente rese da soggetti che si siano poi rifiutati di rispondere in sede di esame di fronte al giudice. Col che, nella sostanza, un simile progetto di revisione dell’art. 111 Cost. finisce per spingersi molto al di là dell’affermazione (peraltro recepita, nel medesimo testo, tra le garanzie soggettive riconducibili agli standards del « giusto processo ») concernente il diritto dell’accusato « di interrogare o di far interrogare » davanti al giudice « le persone che rendono dichiarazioni a suo carico ». 13. Più precisamente, per quanto riguarda il progettato inserimento nell’art. 111 comma 4o Cost. della espressa previsione per cui « il pro-
— 844 — cesso penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova », si tratta senza dubbio di un enunciato di notevole risalto sul piano della civiltà giuridica, e di ineccepibile collocazione nel quadro costituzionale, giacché tale principio (da intendersi quale specificazione del più generale principio, destinato ad essere inserito nello stesso art. 111 Cost., secondo cui « ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti ») riflette il metodo epistemologico oggi più accreditato per conseguire l’accertamento dei fatti e delle responsabilità: cioè il risultato cui istituzionalmente tende il processo. Siamo di fronte, dunque, ad una scelta politico-legislativa meritevole del più ampio consenso ideologico, che si traduce in un principio di largo respiro e di forte carica espansiva sul piano sistematico: uno di quei grandi princìpi cui a livello costituzionale è demandata la funzione di definire la fisionomia strutturale del processo penale, nella specie ispirandola al criterio della elaborazione dialettica della prova (in particolare, della prova dichiarativa) dinanzi al giudice. Senonché, proprio perché si tratta di un grande principio, di per sé dotato di una robusta potenzialità di incidenza sulle linee portanti del sistema, sarebbe opportuno che la sua introduzione nel contesto costituzionale avvenisse attraverso modalità tali da riservarne al legislatore ordinario la concretizzazione nell’ambito codicistico, anche alla luce di eventuali esigenze di coordinamento con altri valori costituzionalmente tutelati. Allo scopo sarebbe stato sufficiente, per esempio, che all’affermazione del principio del contraddittorio ‘‘per’’ la prova venisse fatta seguire una qualche formula (del tipo « nei modi previsti dalla legge », ovvero « salvi i casi previsti dalla legge ») idonea a demandare, per l’appunto, alla disciplina legislativa ordinaria il compito della concreta modulazione di quel principio. È infatti realisticamente da escludere che il medesimo possa sempre trovare realizzazione — nelle identiche forme ed in termini di pienezza — con riferimento alle più diverse situazioni processuali, e comunque in rapporto ad ogni tipo di processo, ivi compresi quelli per reati di natura assolutamente bagatellare: si pensi, ma non solo, alla futura competenza penale del giudice di pace. Non è stata questa, tuttavia, la strada seguita dal disegno di legge in esame, che ha invece preferito definire nello stesso testo del previsto nuovo 5o comma dell’art. 111 Cost. l’ambito delle possibili deroghe rispetto al principio del contraddittorio, così come enunciato nel comma precedente. In tal modo, evidentemente, è stata operata una scelta che, se per un verso prende atto della pratica impossibilità di vincolare il legislatore ordinario all’osservanza senza eccezioni del contraddittorio nel momento formativo della prova (dunque riconoscendone il carattere di principio non inderogabile), dall’altro mira a predeterminare a livello costituzionale il catalogo delle fattispecie derogatorie da rimettersi alla discrezionalità legislativa, con ciò inevitabilmente scontando il rischio di un ecces-
— 845 — sivo (ed assai controproducente) irrigidimento del sistema: sia con riferimento alla gamma delle ipotesi ivi descritte, sia anche con riferimento ad eventuali difficoltà di interpretazione delle formule impiegate per individuare tali ipotesi. Cominciamo, per esempio, dalla previsione del medesimo 5o comma, là dove riserva alla legge il compito di regolare « i casi » nei quali « la formazione della prova » può aver luogo senza contraddittorio « per consenso dell’imputato ». A parte il rilievo che, al riguardo, sarebbe stato forse più corretto parlare (oltreché di formazione) anche di acquisizione della prova formata fuori contraddittorio, è facile cogliere in tale formula il riflesso dell’esigenza di ammettere che l’imputato, come accade tipicamente nei procedimenti speciali ‘‘a definizione anticipata’’, possa consentire affinché il suddetto principio venga derogato nell’ambito del procedimento probatorio: cioè, in sostanza, possa rinunciare alla garanzia del contraddittorio, così affievolita al rango di garanzia disponibile ad opera della parte interessata. Senonché, anche prescindendo dalle ripercussioni che l’apertura di una simile ‘‘breccia’’, su base consensualistica, fatalmente determina nel rigore della configurazione del contraddittorio ‘‘per’’ la prova come canone oggettivo imprescindibile di regolarità del giudizio, si pone subito un delicato problema interpretativo. Occorre, infatti, domandarsi se l’ipotesi derogatoria in questione si riferisca soltanto ai modelli processuali (quali sono, per esempio, quelli del giudizio abbreviato e dell’applicazione della pena a richiesta) in cui il consenso dell’imputato precede il momento dell’acquisizione al processo e, quindi, dell’utilizzazione in sentenza della prova raccolta inaudita altera parte, ovvero anche ai modelli caratterizzati da un consenso soltanto successivo, in chiave di acquiescenza, rispetto ad una decisione adottata sulla scorta di prove acquisite in via unilaterale (qual è, in particolare, il procedimento per decreto). Non sembra dubbio che, alla luce della formula testuale della previsione in esame, dove, nonostante la già rilevata improprietà linguistica, si pone innegabilmente l’accento su un consenso dell’imputato destinato ad investire il momento di formazione della prova (o, meglio, di acquisizione come prova di elementi in precedenza raccolti) senza contraddittorio, la risposta dovrebbe essere nel senso di riferire la sfera di operatività della deroga soltanto ai modelli processuali nei quali l’imputato manifesti prima della decisione il suo consenso ad essere giudicato in virtù di prove formate al di fuori del contraddittorio. Ma è chiaro che, per questa via, finirebbe per restare estranea all’ambito della fattispecie derogatoria, e, quindi, rischierebbe di risultare illegittima, la corrispondente disciplina del procedimento per decreto, là dove ammette che si pervenga alla pronuncia di un provvedimento di condanna, senza il previo consenso dell’imputato, facendo leva su prove non acquisite attraverso la dialettica del
— 846 — contraddittorio. Che è una conclusione paradossale, probabilmente non voluta nemmeno dallo stesso disegno di legge, e tuttavia difficile da escludere a fronte di una rigorosa interpretazione della formula normativa che vi è impiegata. 14. Analoghi problemi interpretativi, dal punto di vista in esame, potrebbe sollevare il riferimento alla « accertata impossibilità di natura oggettiva » quale ulteriore « caso » di possibile deroga rispetto al principio della formazione della prova in contraddittorio. Qui senza dubbio si è voluto alludere, anzitutto, alle situazioni nelle quali risulti in concreto impossibile realizzare tale principio per cause indipendenti dalla volontà delle parti (su cui ricade, ovviamente, l’onere di compiere con diligenza tutti gli adempimenti necessari all’assunzione probatoria) o dei soggetti fonti di prova (si pensi alle classiche ipotesi della morte, della infermità o della irreperibilità degli stessi), mentre più incerta parrebbe la riconducibilità a quell’ambito delle altre situazioni di mancata comparizione, non altrimenti rimediabile, del soggetto dichiarante regolarmente citato (ed a maggior ragione ciò vale nell’eventualità di omessa citazione del medesimo, come peraltro è previsto, nei riguardi degli stranieri residenti all’estero, dall’odierno art. 512-bis c.p.p.). Sembra invece da escludere, in ogni caso, che nella configurazione della suddetta ipotesi di « impossibilità » possa assumere rilievo qualificante anche il connotato della non prevedibilità della relativa causa, dal momento che nessuna indicazione del genere emerge dal testo in esame, sicché nessun corrispondente vincolo potrebbe comunque derivarne al legislatore ordinario (salva ovviamente al medesimo la scelta di caratterizzare secondo tale criterio, in fattispecie particolari, il presupposto della « sopravvenuta impossibilità », sulla scorta del modello già delineato nell’art. 512 c.p.p.). Altro discorso è se nelle ipotesi di « impossibilità di natura oggettiva » possano farsi rientrare anche le situazioni in cui la impossibilità non derivi da inerzia o da negligenza della parte interessata alla formazione della prova (alla quale, pertanto, non potrebbe farsi risalire la responsabilità del mancato contraddittorio), bensì dalla scelta del soggetto fonte di prova di sottrarsi alla procedura acquisitiva, o comunque di rifiutarsi di rispondere, nell’ambito di un rapporto dialettico dinanzi al giudice, magari dopo avere reso ampie dichiarazioni all’autorità inquirente. Qualora si profilino simili eventualità, infatti, appare fuori discussione che, dal punto di vista della parte interessata, si realizzi una situazione di impossibilità oggettiva rispetto alla formazione della prova in contraddittorio, evidentemente non essendo addebitabile alla stessa il diniego opposto dal soggetto fonte di prova, tanto più se espressivo dell’esercizio di un diritto. In questi termini, del resto, si è più d’una volta pronunciata la Corte costituzionale, riconoscendo il verificarsi di una situazione di « oggettiva e
— 847 — non prevedibile impossibilità » di formazione della prova dichiarativa in contraddittorio nelle situazioni di « indisponibilità » all’esame del dichiarante: sia con riguardo all’imputato nell’esercizio del proprio diritto al silenzio, a norma della previgente versione dell’art. 513 c.p.p. (sentenza n. 254 del 1992); sia con riguardo al testimone prossimo congiunto nell’esercizio della facoltà di astensione a norma dell’art. 199 c.p.p. (sentenza n. 179 del 1994). Nell’uno e nell’altro caso, ed in altre analoghe ipotesi, tuttavia, il problema finirebbe per essere in larga parte assorbito — all’interno del testo in esame — dalla regola probatoria che si vorrebbe introdurre nell’art. 111 comma 4o Cost., la quale assumerebbe valore prevalente, per quel che qui importa, dinanzi alla fattispecie derogatoria radicata sull’ipotesi della « impossibilità di natura oggettiva ». Nel senso, cioè, di escludere che a quest’ultima formula possano venire ricondotte anche le situazioni (come sono quelle in cui il dichiarante decida, per « libera scelta », di sottrarsi al confronto dialettico), con riferimento alle quali la suddetta regola probatoria sancisce expressis verbis la non utilizzabilità a carico dell’imputato delle dichiarazioni precedentemente acquisite in assenza di contraddittorio. Mentre, a rigore — dato il diverso ambito di operatività di tale regola rispetto alle ipotesi di deroga al principio del contraddittorio — nulla vieterebbe l’opposta conclusione, nel caso di dichiarazioni utili a provare la non colpevolezza dell’imputato. 15. Ancora più forti sono le perplessità di fronte al progettato inserimento nell’art. 111 comma 5o Cost. di un’ipotesi di deroga al principio del contraddittorio ivi sancito quale « effetto di provata condotta illecita ». A parte ogni possibile rilievo sulla scarsa linearità sintattica della frase, sotto il profilo del rapporto causa-effetto che vi è presupposto, è chiaro che, attraverso quest’ultima locuzione, si vorrebbe fare riferimento all’ampia gamma di situazioni diversamente configurabili (ora attraverso violenze o minacce, ora attraverso offerte o promesse di denaro o di altra utilità, ora attraverso ulteriori forme di pressione psicologica) idonee a condizionare la serenità della fonte di prova, o comunque a compromettere la regolarità della procedura probatoria, pregiudicando così la corretta attuazione del contraddittorio. In armonia, del resto, con l’ormai ben nota raccomandazione R(97)13 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che ha invitato gli Stati membri ad ammettere l’utilizzabilità processuale delle dichiarazioni acquisite in via unilaterale dall’autorità giudiziaria, allorché l’impossibilità di formare la prova nel contraddittorio dibattimentale sia riconducibile a gravi forme di intimidazione a carico del soggetto dichiarante. Deve subito osservarsi, tuttavia, che una formula del tipo di quella prospettata appare idonea a ‘‘coprire’’ un’area di esigenze molto più ristretta di quelle che ci si proporrebbe di tutelare a garanzia di genuinità
— 848 — della prova (e nemmeno corrispondente, tra l’altro, alle varie situazioni cui oggi allude l’art. 500 comma 5o c.p.p.). Anzitutto, nell’ottica più strettamente processuale, un primo limite è rappresentato dalla previsione che la « condotta illecita » inquinante debba venire « provata », in quanto l’uso di una terminologia così tecnica nel testo costituzionale (dove, tra l’altro, nel precedente 4o comma del suddetto art. 111 Cost. il medesimo termine risulta testualmente impiegato con riferimento all’accertamento della colpevolezza dell’imputato) potrebbe far subito pensare alla esigenza di un accertamento giurisdizionale completo circa la condotta in questione. Si vuol dire allora che, in ipotesi del genere, al fine di verificare il presupposto della deroga rispetto al principio del contraddittorio, la legge ordinaria dovrebbe sempre imporre al giudice procedente di trasmettere gli atti al pubblico ministero per l’avvio di un procedimento diretto all’accertamento della suddetta « condotta illecita », e quindi di sospendere il processo principale in attesa della definizione del corrispondente procedimento, a causa di questo particolare aspetto di pregiudizialità? Probabilmente è da escludere che tale sia stata l’intenzione posta alla base del testo in esame, tuttavia deve riconoscersi che la formula normativa impiegata ben potrebbe accreditare una simile interpretazione. Perché, in realtà, essa sembra esigere un livello probatorio più rigido e formalizzato di quello richiesto (anche ai sensi dell’odierno art. 500 comma 5o c.p.p.) per l’accertamento incidentale di un fatto, qual è la condotta inquinante di cui si tratta, dal quale verrebbe fatta dipendere ex art. 187 comma 2o c.p.p. l’applicazione di una disciplina processuale derogatoria rispetto a quella operante, di regola, in tema di formazione e di acquisizione della prova. Un ulteriore cospicuo limite implicito nella previsione de qua è rappresentato, infine, dalla circostanza che l’effetto di deroga al principio del contraddittorio verrebbe collegato all’accertamento di una « condotta illecita » (senza nulla precisare, peraltro, circa la natura, e nemmeno circa la provenienza di tale condotta), cioè ad un comportamento idoneo ad essere ricondotto ad una figura tipica di illecito, e come tale suscettibile di essere « provato ». Ne sarebbero quindi esclusi tutti quegli atteggiamenti che, pur presentando una concreta attitudine ad alterare il corretto svolgimento della procedura di formazione della prova in contraddittorio, allo stato della odierna legislazione non risultano di per sé riconducibili al paradigma di una condotta illecita: o per la mancata integrazione di qualche elemento del modello corrispondente, o per la impossibilità di far rientrare nell’ambito di una fattispecie illecita una cospicua serie di situazioni, pur sintomatiche di una strategia di condizionamento della genuinità delle fonti di prova, od ancora per la esistenza di lacune legislative con riferimento a condotte che, in altre analoghe circostanze, vengono senza dubbio considerate illecite.
— 849 — Così capita, per esempio, a causa dell’assenza nel sistema di una previsione che sanzioni penalmente le condotte di offerta e di promessa di denaro o di altra utilità, in quanto rivolte nei confronti delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., già sentite nella fase preliminare, affinché esercitino la facoltà di non rispondere rispetto all’oggetto delle proprie precedenti dichiarazioni (ovvero, addirittura, affinché ritrattino quanto già dichiarato) in sede di esame dibattimentale sul fatto altrui, essendo comunque fuori discussione l’inapplicabilità a tali persone dell’art. 377 c.p. in rapporto all’art. 372 c.p., nonostante la manifesta potenzialità inquinante di simili condotte. Ma, se questo è vero, a maggior ragione ci si rende conto della gravità della restrizione che ne deriverebbe al legislatore ordinario (al quale, ovviamente, non potrebbe richiedersi di tipicizzare come illecite tutte le condotte cui si è fatto cenno), ove davvero gli venisse imposto a livello costituzionale di circoscrivere le fattispecie derogatorie di cui si tratta alle sole ipotesi di « provata condotta illecita ». In ogni caso dev’essere chiaro che, al di là dell’ambito di possibile incidenza dei casi di deroga appena ricordati (e prescindendo dai riflessi della regola probatoria di cui si dirà tra breve), la rigida enunciazione del principio del contraddittorio « nella formazione della prova » in sede processuale penale, quale si vorrebbe consacrare nel futuro 4o comma dell’art. 111 Cost., dovrebbe di per sé condurre a ritenere fortemente sospetta di illegittimità un’ampia serie di disposizioni, nelle quali è dettata una normativa non compatibile con la perentorietà della suddetta enunciazione. Tali sono, per esempio, le varie disposizioni che prevedono forme di acquisizione, mediante lettura o mediante contestazione, di dichiarazioni rese nella fase preliminare (artt. 500, 503, 512-bis e, naturalmente, 513 c.p.p., nella versione rimodellata dalla Corte costituzionale), ovvero rese in altro procedimento (artt. 238 e 511-bis c.p.p.), nonché, tra le altre, le disposizioni relative alla testimonianza indiretta, nelle parti in cui oggi consentono, attraverso le diverse articolazioni previste dall’art. 195 c.p.p., che si possa tener conto del contenuto della deposizione de relato. 16. La previsione di una regola probatoria come quella di cui si propone l’inserimento nella seconda parte dell’art. 111 comma 4o Cost. rappresenta quanto di più inedito (ed anche, sotto il profilo metodologico, di più sorprendente) emerge dal disegno di legge costituzionale qui considerato. Quanto al merito nulla del genere, infatti, era mai stato proposto in precedenti progetti di revisione costituzionale, nemmeno nell’ambito della Commissione bicamerale per le riforme, che pure aveva molto insistito sulla tematica del « giusto processo ». E, quanto al metodo, appare manifesta la netta estraneità di una previsione così concepita rispetto al contesto in cui verrebbe calata, a causa della sua evidente natura di ‘‘rego-
— 850 — la’’ (e per di più assai ricca di dettagli negli svolgimenti definitori) che mal si concilia, come tale, con il complesso dei ‘‘princìpi’’ propri del quadro costituzionale. In realtà si tratta di una vera e propria regola di inutilizzabilità probatoria di tipo relativo (in quanto il divieto investe, testualmente, soltanto la prova della « colpevolezza dell’imputato » e non anche, quindi, quella della innocenza), che nelle sue stesse movenze linguistiche denuncia con chiarezza una oggettiva fisionomia di stampo codicistico. Anche perché il suo contenuto non si discosta nella sostanza da quello di una comune disposizione volta ad attuare, sul terreno delle regole di utilizzabilità probatoria (salva la già ricordata limitazione al tema della colpevolezza), il principio del contraddittorio « nella formazione della prova », enunciato poco prima dallo stesso comma. Proprio perciò, di fronte a questa palese eccentricità della previsione in esame rispetto al circostante tessuto normativo, a maggior ragione emergono forti riserve per un indirizzo di revisione costituzionale che, sul piano politico-legislativo, appare a prima vista antinomico rispetto alla più recente interpretazione fornita dalla Corte costituzionale circa l’osservanza del principio del contraddittorio nell’art. 513 c.p.p. In altri termini, si punta a ‘‘costituzionalizzare’’, con malcelato intento polemico verso la suddetta giurisprudenza costituzionale, una regola probatoria per sua natura altrimenti destinata a trovare sede adeguata soltanto nel codice, senza rendersi conto del pericolo di ‘‘codicizzare’’, per questa via, la Carta costituzionale, con l’inevitabile corollario rappresentato dall’esigenza di ulteriori specificazioni, peraltro non sempre prefigurabili all’interno della stessa Carta: ad esempio per quanto riguarda il non chiaro rapporto tra tale regola (operante in chiave di inutilizzabilità) e le ipotesi costituzionalmente ammesse di possibili deroghe al principio del contraddittorio (con la conseguente possibilità di acquisizione delle prove formate in deroga a quel principio). E soprattutto senza rendersi conto che, così facendo, non solo si accentua il rischio di restringere sempre più gli spazi di discrezionalità legislativa in rapporto a situazioni particolari, non previste a livello costituzionale, che soltanto nel codice potrebbero trovare la loro specifica disciplina, ma si finisce altresì per precostituire ulteriori vincoli alle eventuali future opzioni del legislatore ordinario nella delicata materia del diritto al silenzio sul fatto altrui. A parte ogni altro eventuale rilievo sulla formulazione testuale della regola probatoria in esame (sui cui contenuti, in linea di principio, non vi è ovviamente nulla da eccepire, trattandosi di un naturale sviluppo del canone del contraddittorio nella formazione della prova), non è azzardato affermare, infatti, che il recepimento nell’art. 111 comma 4o Cost. di una regola del genere si presterebbe in sostanza a fornire una sorta di ‘‘copertura’’, di rango costituzionale, per le condotte processuali che la stessa re-
— 851 — gola presuppone, disciplinandone le conseguenze sul versante probatorio. Più precisamente, se si stabilisce in una norma costituzionale una regola di inutilizzabilità contra reum delle dichiarazioni rese in precedenza da soggetti che, in seguito, « volontariamente » e « per libera scelta » si siano sottratti all’« interrogatorio » (parola probabilmente usata in senso atecnico, come già nel precedente comma 3o, benché non priva di un suo preciso significato nel lessico processualistico) da parte dell’imputato o del suo difensore, si finisce in sostanza per accreditare al massimo livello la legittimità del modello di condotta dei medesimi soggetti: quasi che il loro sottrarsi al contraddittorio sul fatto altrui corrispondesse all’esercizio di una facoltà (si parla, infatti, di « libera scelta ») riconosciuta, se non addirittura ritenuta meritevole di tutela, sul terreno costituzionale. Quasi che, in definitiva, dovesse ritenersi perfettamente compatibile con il complesso dei valori tutelati nella Carta costituzionale la situazione di un soggetto che — dopo aver reso dichiarazioni a carico di un altro soggetto di fronte agli organi inquirenti — potesse poi rifiutare di sottoporsi alla necessaria confrontation con l’accusato o con il suo difensore, in virtù di una opzione del tutto discrezionale ed insindacabile: per esempio invocando il diritto al silenzio sul tema dell’altrui responsabilità. 17. Tutto ciò condurrebbe a conseguenze paradossali, tanto più a fronte della genericità della formula normativa, esclusivamente imperniata sulla figura di un soggetto ‘‘dichiarante’’, senza ulteriori specificazioni, e quindi in astratto riferibile anche alla posizione del testimone: oltre che, beninteso, a quella dell’imputato nello stesso o in separato procedimento connesso. A meno di non ritenere che, usando la parola interrogatorio, ci si sia voluti riferire (secondo l’accezione propria del codice di procedura penale) solo a soggetti aventi la qualità di imputato, o ad essi assimilati. Anche in questo caso si tratterebbe, comunque, di conseguenze inaccettabili. Come se, ragionando in controluce, nel disegno costituzionale la decisione del dichiarante sul fatto altrui di sottrarsi al contraddittorio con l’accusato dovesse esprimere una delle possibili alternative affidate alla sua « libera scelta », anziché costituire in molti casi la violazione di un preciso dovere di servitus iustitiae: del tipo di quello che, invece, grava tipicamente sul testimone. Come se, più in particolare, per quanto riguarda la posizione dell’imputato dichiarante contra alios (alla quale soprattutto devono aver pensato i fautori del progetto di revisione costituzionale) la sua eventuale decisione di sottrarsi al successivo esame in contraddittorio dovesse sempre ricondursi all’ambito di esercizio del diritto al silenzio, senza potersi distinguere a seconda che le suddette dichiarazioni si riferissero anche al fatto proprio, ovvero soltanto al fatto altrui (laddove è perfino superfluo ribadire come, sul terreno costituzionale, la garanzia del diritto al silenzio dell’imputato trovi fondamento esclusivamente nell’esigenza di evitare il rischio dell’autoincriminazione).
— 852 — A questa stregua, in sostanza, una volta che un soggetto avesse reso determinate dichiarazioni accusatorie agli organi inquirenti, la successiva attività di collaborazione processuale del dichiarante (nel senso di sottoporsi, ove richiesto, all’« interrogatorio da parte dell’imputato ») verrebbe ad inquadrarsi, in virtù del predetto art. 111 comma 4o Cost., nel modulo di una decisione praticamente affidata alla buona volontà del medesimo soggetto. Al quale, pertanto, finirebbe per essere riconosciuta (per il solo fatto di esserne menzionata la possibilità, in chiave obiettiva e senza limitazioni, all’interno di una norma costituzionale) una intangibile facoltà di sottrarsi ‘‘sempre’’ al contraddittorio sull’oggetto delle proprie precedenti dichiarazioni, ancorché riferite al fatto altrui. In altre parole, ne risulterebbe delineato uno scenario nel quale la collaborazione processuale dei soggetti fonti di prova sul fatto altrui non potrebbe configurarsi come la ‘‘regola’’, in quanto espressione di un dovere giuridico (salvo il limite rappresentato dal rischio dell’autoincriminazione), bensì come una sorta di optional, caso per caso rimesso alle più diverse valutazioni personali e, di fatto, alla « libera scelta » di tali soggetti. È probabile che non fosse questo il risultato perseguito attraverso la proposta di inserimento nell’art. 111 comma 4o Cost. della previsione in parola. Tuttavia bisogna riconoscere che la formula impiegata — rivelando una sorta di indifferenza costituzionale verso atteggiamenti del soggetto dichiarante decisamente antitetici al dovere di sottoporsi alla verifica dibattimentale — offrirebbe spazio per essere interpretata come diretta a consacrare una situazione di grave squilibrio tra gli interessi in gioco nel processo penale rispetto al valore del contraddittorio. Più precisamente, non sembra dubbio che la costituzionalizzazione della regola probatoria qui esaminata, nella misura in cui essa farebbe dipendere la sorte delle precedenti dichiarazioni contra reum dalla « libera scelta » del dichiarante di fronte all’« interrogatorio » richiesto dall’imputato, invece di condurre ad un rafforzamento del principio del contraddittorio, in realtà ne provocherebbe un obiettivo indebolimento. Per tale via, infatti, lungi dall’incoraggiare una seria assunzione di responsabilità da parte di chi abbia reso dichiarazioni a carico di altri, si finirebbe per assecondare l’idea, già oggi piuttosto diffusa, che in ipotesi del genere l’imputato dichiarante possa impunemente sottrarsi a qualunque contraddittorio dibattimentale, ben oltre i confini segnati dalla esigenza di tutela del « nemo tenetur se detegere ». Col risultato, quindi, di ridurre (affidandola all’arbitrio dello stesso dichiarante), anziché di allargare (come accadrebbe, ad esempio, ove per legge si sancisse sul suo capo un preciso obbligo processuale di rispondere all’esame), l’area di effettiva esplicazione del contraddittorio tra l’imputato ed il soggetto che avesse reso dichiarazioni accusatorie nei suoi confronti. Appare fin troppo evidente, in definitiva, come la regola probatoria
— 853 — che si vorrebbe introdurre nell’art. 111 comma 4o Cost. rischi di ottenere effetti addirittura controproducenti per quanto riguarda la concreta realizzazione del metodo dialettico nella formazione della prova. Perché, se da un canto essa mira giustamente a tutelare l’imputato che non abbia potuto ‘‘confrontarsi’’ con il soggetto fonte delle dichiarazioni accusatorie a suo carico, dall’altro ne risultano interamente addebitati al passivo delle esigenze di accertamento giurisdizionale i costi della « libera scelta » riconosciuta al dichiarante, nel senso di autorizzarlo a sottrarsi al contraddittorio dibattimentale sul fatto altrui, senza che tale scelta venga in alcun modo circoscritta all’insegna della garanzia contro il rischio della self-incrimination. Ne deriva che, qualora una regola del genere venisse davvero costituzionalizzata, oltre alle prevedibili ripercussioni negative sulla attuazione del contraddittorio tra dichiarante ed imputato (quale effetto della libertà, implicitamente riconosciuta al primo, di sottrarsi « all’interrogatorio » ad opera del secondo), ne scaturirebbe altresì un serio limite per eventuali futuri interventi del legislatore ordinario. In particolare, per quanto riguarda l’eventualità di una modifica legislativa che, traendo spunto dai ben noti insegnamenti della Corte costituzionale, prescrivesse all’imputato, il quale avesse reso dichiarazioni nella fase preliminare sul fatto altrui, l’obbligo di rispondere in sede di esame dibattimentale almeno nell’ambito dell’oggetto di tali precedenti dichiarazioni, precludendogli così qualunque libera opzione al riguardo. Ed è perfino superfluo aggiungere che, fin quando una prescrizione del genere non sarà imposta per legge anche all’imputato dichiarante (ovviamente dopo averlo informato, al momento delle suddette dichiarazioni, degli obblighi di natura testimoniale che gliene sarebbero derivati, sempre in rapporto al fatto altrui), difficilmente potrà concretizzarsi l’obiettivo di una piena attuazione del contraddittorio tra l’imputato autore delle dichiarazioni accusatorie e l’imputato destinatario delle medesime dichiarazioni. Presupposto essenziale affinché questo obiettivo riesca a realizzarsi è, infatti, che il dichiarante non possa legittimamente sottrarsi all’esame da parte del coimputato coinvolto dalle dichiarazioni accusatorie, e quindi che non gli venga riconosciuta alcuna facoltà di non rispondere sull’oggetto delle medesime, con il solo limite delle ipotesi in cui possa profilarsi il rischio dell’autoincriminazione. In ultima analisi, se si vuole promuovere il contraddittorio, occorre predisporre un quadro normativo nel quale i soggetti fonti di prova siano incoraggiati — anzi, in linea di massima, obbligati — a rendere tutte le informazioni di cui vengano richiesti con riguardo al fatto altrui, ed a rispondere alle correlative domande; nel quale, cioè, la scelta di parlare di fronte al giudice diventi la regola, e la scelta del silenzio si riduca, com’è giusto, ad una eccezione riconducibile esclusivamente all’esigenza di evitare che il dichiarante possa essere co-
— 854 — stretto ad edere contra se. Se ciò è vero, tuttavia, appare manifesto che si muove in una direzione diametralmente opposta (rispetto a quella appena delineata) l’idea di inserire nell’art. 111 comma 4o Cost. una disposizione la quale, preoccupandosi soprattutto di stabilire una regola di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese senza contraddittorio, finisce in realtà per riconoscere al dichiarante la facoltà di sottrarsi al confronto dialettico con l’imputato o con il suo difensore, indipendentemente da qualunque esigenza di tutela del diritto al silenzio sul fatto proprio. 18. Da un diverso punto di vista non si può fare a meno di rilevare, infine, come la previsione a livello costituzionale della regola probatoria che si propone di inserire nell’art. 111 comma 4o Cost. potrebbe aprire la strada a forti interrogativi circa la ‘‘sopravvivenza’’ di tutte le sentenze di condanna — sebbene già passate in giudicato — che siano state pronunciate in forza di dichiarazioni del tipo di quelle di cui la stessa regola proclama l’inutilizzabilità. Più in particolare, se si ritiene strettamente coessenziale ai princìpi del « giusto processo » che nessuno possa essere condannato (questa, del resto, era la formula accolta in una precedente versione del medesimo disegno di legge, non a caso all’interno dell’art. 25 Cost.) sulla base di dichiarazioni acquisite inaudita altera parte, ne discende che dovrebbe ritenersi « ingiusto » un processo caratterizzato, sia pur nel rispetto delle disposizioni vigenti all’epoca del giudizio, dall’uso processuale delle dichiarazioni rese da chi in dibattimento si sia avvalso della facoltà di non rispondere (vien subito da pensare, per esempio, alla disciplina ex art. 513 comma 2o c.p.p.). E, a maggior ragione, che dovrebbe ritenersi obiettivamente « ingiusta » la conseguente sentenza di condanna, in quanto fondata sulla scorta di prove di cui la stessa Costituzione in termini espressi vieterebbe l’utilizzabilità contra reum. Ma allora sarebbe difficile, a tacer d’altro, escludere l’illegittimità della vigente disciplina della revisione ex art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede che — nelle ipotesi descritte — il relativo procedimento di impugnazione possa investire anche le sentenze di condanna viziate ab origine da una simile ‘‘ingiustizia’’, sebbene divenute irrevocabili prima della modifica costituzionale di cui si tratta: con intuibili conseguenze devastanti sugli equilibri del sistema in rapporto al principio della intangibilità del giudicato. E ciò senza dire delle ripercussioni, non meno destabilizzanti, che ne deriverebbero anche nei procedimenti non ancora conclusi. Probabilmente proprio per prevenire un pericolo del genere il disegno di legge in esame prevede una singolare disposizione transitoria, volta ad affidare alla legge ordinaria la disciplina dell’applicazione ai procedimenti penali in corso dei princìpi così inseriti ex novo nella Carta costituzionale. Una disposizione singolare, non tanto perché riserva alla legge ordinaria il
— 855 — compito di stabilire (sia pure con riguardo ai soli procedimenti pendenti) i limiti temporali e l’ambito di incidenza di princìpi aventi rango costituzionale. Quanto soprattutto perché, trattandosi in linea di massima di princìpi costituzionali di garanzia, che nella prospettazione dei fautori della riforma definiscono caratteri imprescindibili del sistema processuale (senza i quali, cioè, il processo non potrebbe qualificarsi « giusto »), sembra piuttosto strano che la loro portata generale ed assoluta possa venire circoscritta nel tempo, sulla base di criteri di mera opportunità, attraverso semplici disposizioni di legge di natura transitoria. Come se si trattasse, in sostanza — anziché di princìpi fondamentali — di comuni regole concernenti la dinamica dei rapporti processuali, in ordine alle quali sarebbe ovviamente più che opportuna la previsione di una disciplina concernente il rispettivo regime di applicabilità nei procedimenti in corso. La verità è, forse, che proprio una disposizione transitoria come quella in parola svela una sorta di retroterra non dichiarato della proposta di modifica costituzionale di cui si discute, facendo affiorare una più o meno precisa consapevolezza della circostanza che, in realtà, nella disciplina costituzionale che si vorrebbe consacrare nell’art. 111 Cost., accanto ai veri e propri ‘‘princìpi’’, vi sono anche diverse previsioni aventi natura di semplici ‘‘regole’’ processuali, come tali destinate a soggiacere al dettato di una ragionevole disciplina intertemporale. Tra queste previsioni vi è senza dubbio anche quella concernente la inutilizzabilità a carico dell’imputato delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio, secondo il canone ormai più volte ricordato. A conferma — se pur ce ne fosse bisogno — della fisionomia codicistica di una simile previsione: non solo decisamente eterogenea nell’ambito del contesto costituzionale, ma addirittura per certi aspetti controproducente, in vista della effettiva attuazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova. È questa una ragione di più per riflettere, prima di introdurre nella Costituzione una ‘‘regola’’, che solo apparentemente risulta funzionale all’obiettivo della formazione dialettica della prova dinanzi al giudice. Per conseguire tale scopo sarebbe evidentemente necessario che i soggetti fonti di prova, i quali abbiano già reso dichiarazioni nelle precedenti fasi del procedimento a carico dell’imputato, non si sottraessero (e quindi, in primo luogo, non potessero legittimamente sottrarsi) al contraddittorio con l’imputato stesso: sicché occorrerebbe, in ipotesi del genere, ridurre al minimo l’area del loro diritto al silenzio, circoscrivendone l’oggetto agli stretti confini del fatto proprio. Come si diceva, infatti, in tanto il contraddittorio può esplicarsi nella sua pienezza, in quanto tutti i soggetti protagonisti del procedimento di formazione della prova vi partecipino con il preciso dovere di contribuire, attraverso il loro sapere probatorio, all’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Per converso, se già a livello costituzionale, in luogo di incentivare la
— 856 — partecipazione di tali soggetti alla dialettica probatoria (salvo, ovviamente, il limite espresso dal principio « nemo tenetur se detegere »), se ne agevola il silenzio, o comunque si prevedono come possibili atteggiamenti di non collaborazione, anche al di là della sfera del fatto proprio (ad esempio scontando la legittimità di una « libera scelta » del dichiarante di sottrarsi all’« interrogatorio », e preoccupandosi soltanto di stabilire la conseguente sanzione processuale), si finisce in realtà per mortificare, anziché favorire, la realizzazione del contraddittorio, col risultato di farne gravare esclusivamente sul processo i costi in termini di mancata formazione della prova. Non è questo, naturalmente, il risultato cui tende la proposta in discorso, ma è questo, nella sostanza, l’esito che si rischia di ottenere sul piano della concreta realtà processuale. In definitiva, come si è già accennato, il contraddittorio presuppone la presenza di soggetti disposti a ‘‘parlare’’ (meglio se obbligati a farlo, dicendo la verità, anche quando si tratti di imputati che abbiano già in precedenza reso dichiarazioni sul fatto altrui), ragion per cui un sistema processuale penale coerente con questa premessa non può non essere orientato nel senso di propiziare con ogni mezzo la loro partecipazione attiva. Se invece si ammette, ed addirittura si legittima, attraverso una previsione costituzionale piuttosto esplicita, che tali soggetti (e, in particolare, gli imputati dichiaranti sul fatto altrui) possano in totale libertà autoesonerarsi dalla dialettica processuale, scegliendo la strada del silenzio, allora è inevitabile che ne venga pregiudicata l’attuazione, e prima ancora la stessa cultura (intesa come complesso di valori su cui deve radicarsi l’adempimento di un dovere civico), del contraddittorio. Ecco perché suscita molte perplessità la prospettiva di una modifica costituzionale — come quella relativa alla regola di inutilizzabilità di cui si è fin qui discusso — che mira a soddisfare soltanto l’esigenza di garanzia dell’imputato raggiunto da dichiarazioni accusatorie acquisite in via unilaterale, senza farsi carico di assicurare l’intervento dialettico del dichiarante nel momento del contraddittorio, ed addirittura riconoscendogli la « libera scelta » di sottrarvisi. Per concludere, ne risulta ribadito che una disposizione del genere, al di là delle intenzioni che l’hanno ispirata, sicuramente non si colloca nell’ambito di quelle destinate ad assecondare il contraddittorio, ed anzi semmai cristallizza, nel contesto costituzionale, l’assurdo meccanismo che riservava all’imputato dichiarante la facoltà di decidere — con il proprio silenzio in sede di esame — la sorte di un processo costruito, in tutto o in ampia misura, sul contenuto delle dichiarazioni accusatorie precedentemente rese dallo stesso dichiarante. Un meccanismo la cui palese irragionevolezza era stata messa bene in luce dalla Corte costituzionale attraverso la sentenza n. 361 del 1998; ma, evidentemente, sulla base di argomentazioni che una (troppo) larga parte del nostro Parlamento non ritiene di dover condividere. VITTORIO GREVI
LE MISURE ALTERNATIVE OGGI: ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE O ALTERNATIVE ALLA PENA?
SOMMARIO: 1. Gli obiettivi della legge Simeone. — 2. La nuova procedura per l’accesso alle misure alternative dallo stato di libertà. — 3. I recenti interventi legislativi sulla disciplina sostanziale: a) dell’affidamento in prova al servizio sociale. — 4. (Segue): b) della semilibertà. — 5. (Segue): c) della detenzione domiciliare. — 6. Le misure alternative come sanzioni simboliche applicabili anche a reati di rilevante gravità. — 7. I costi sul piano della prevenzione generale. — 8. Il fallimento degli scopi ‘perequativi’ della riforma del 1998.
1. Operando una serie di interventi sulla disciplina delle misure alternative, volti a renderle più facilmente e più largamente accessibili al condannato, la legge 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. legge Simeone) si proponeva due obiettivi. In primo luogo, quello di ridimensionare la popolazione carceraria, che, dopo una flessione verificatasi nella seconda metà del 1995, appariva in costante, e preoccupante, crescita (1). Questa finalità è particolarmente evidenziata in un passo della Relazione che accompagna la proposta di legge d’iniziativa dell’on. Simeone, presentata alla Camera dei Deputati il 9 maggio 1996: ‘‘Tra le molteplici disfunzioni che caratterizzano la grave condizione in cui versa il sistema penitenziario italiano, va senz’altro segnalato il fenomeno del sovraffollamento degli istituti di pena. Senza entrare nel merito del problema, ci si limita a sottolineare l’indispensabilità di un intervento legislativo finalizzato ad agevolare un decremento del numero dei detenuti e a limitare il ricorso ai provvedimenti limitativi della libertà personale’’ (2). Il secondo obiettivo del legislatore del 1998 era quello di eliminare talune sperequazioni che l’originaria disciplina processuale (3) compor(1) Cfr. DELLA CASA, ‘‘Democratizzazione’’ dell’accesso alle misure alternative e contenimento della popolazione carceraria: le due linee-guida della nuova legge sull’esecuzione della pena detentiva, in LP, 1998, p. 755. (2) Il testo della Relazione Simeone può leggersi in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie (l. 27 maggio 1998, n. 165), 1998, p. 271 s. Per il richiamo ad altri momenti dei lavori preparatori della legge, che evidenziano le finalità di sfollamento degli istituti penitenziari perseguite dal legislatore, cfr. DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in questa Rivista, 1999, p. 28, nt. 62. (3) L’art. 47 comma 4 ord. penit., nella versione in vigore sino alla legge Simeone,
— 858 — tava a danno dei soggetti più deboli, spesso sprovvisti di una efficace difesa tecnica e quindi non in grado di accedere alle misure alternative a causa dell’inerzia o della disattenzione del difensore. Così si esprime, infatti, la Relazione dell’on. Saraceni che accompagna il testo del progetto elaborato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati: ‘‘L’esperienza pratica ha rivelato gravi difficoltà relative all’attivazione del condannato per ottenere l’applicazione della misura alternativa; per ragioni... prevalentemente connesse alle condizioni sociali, culturali ed economiche degli interessati che non possono disporre di un’efficace assistenza difensiva, l’istanza non viene presentata tempestivamente, nello stato di libertà, ma solo dopo l’esecuzione dell’ordine di carcerazione; con la iniqua conseguenza che, per questi soggetti deboli, la concessione della misura alternativa interviene quando la pena detentiva è stata già, in tutto o in parte, scontata’’ (4). Anche a seguito delle profonde modifiche intervenute nel corso dell’iter parlamentare (5) — tra l’altro, si è abbandonata la soluzione che prevedeva l’attivazione d’ufficio della procedura per la concessione delle misure alternative (6) —, la legge Simeone ha però finito con il privilegiare prevedeva che, per le pene detentive non superiori a tre anni, il pubblico ministero sospendesse l’emissione o l’esecuzione dell’ordine di carcerazione solo nel caso in cui prima dell’emissione o dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione venisse presentata istanza di ammissione ‘anticipata’ all’affidamento in prova; in tal caso gli atti venivano trasmessi al Tribunale di sorveglianza, che doveva decidere entro quarantacinque giorni dalla presentazione dell’istanza. Su questa disciplina, cfr. CATELANI, Le novità della legge Simeone. a) Uno sguardo d’assieme: più pregi o difetti?, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 812; DELLA CASA, Commento all’art. 1 l. 27 maggio 1998, n. 165, in LP, 1998, p. 765 ss.; PRESUTTI, in GREVI-GIOSTRADELLA CASA, Ordinamento penitenziario, 1997, sub art. 47, p. 351 (ove si sottolinea che ‘‘la possibilità di bloccare l’inizio dell’esecuzione e quindi di evitare l’ingresso in carcere dipende[va] dalla tempestività dimostrata dal condannato nel contrastare l’iniziativa del p.m., a sua volta legata alla conoscenza dell’emissione dell’ordine di carcerazione’’). (4) Cfr. PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 273. V. altresì DELLA CASA, ‘‘Democratizzazione’’, cit., p. 757, il quale rileva che la sperequazione a danno dei condannati ‘deboli’ era ulteriormente accentuata dalla circostanza che ‘‘all’altro estremo... — da parte, cioè, del condannato assistito da un buon difensore di fiducia — era relativamente agevole, ‘centellinando’ e proponendo in stretta sequenza le varie richieste di misura alternativa, paralizzare strumentalmente l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e rinviare, anche per lungo tempo, la sottoposizione alla pena detentiva’’. (5) Per una puntuale illustrazione dei lavori preparatori, cfr. DALIA, in AA.VV., Sospensione della pena ed espiazione extra moenia. Commento alla l. 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. legge Simeone), 1998, p. 371 ss. (6) Tale soluzione era prevista nell’art. 656 comma 5 c.p.p., nella versione di cui all’art. 1 del testo della Commissione Giustizia della Camera: cfr. PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 279. Sulle ragioni che hanno suggerito di rinunciare all’attivazione ex officio della procedura per l’applicazione delle misure alternative, cfr. CANEVELLI, Le novità della legge Simeone. b) L’analisi delle singole norme, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 815; DELLA CASA, Commento all’art. 1 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 779 s.; KALB, in AA.VV., Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, cit., p. 33; IOVINO,
— 859 — nettamente le esigenze di sfoltimento della popolazione carceraria: e ha perseguito tale effetto attribuendo alle misure alternative spazi crescenti in fasce di criminalità media, e medio-alta. All’entrata in vigore della legge, i mezzi di comunicazione di massa hanno lanciato grida di allarme, sino a parlare di ‘abolizione della pena detentiva fino a tre anni’ e ad annunciare che ‘i condannati fino a tre anni non vanno più in carcere’. Non si trattava propriamente di questo; forse c’è un pizzico di esagerazione anche in una recente affermazione di un illustre penalista, secondo il quale ‘‘in futuro, le pene detentive inferiori a quattro anni eccezionalmente verranno espiate nella istituzione totale’’ (7). In ogni caso, l’effetto di sfoltimento della popolazione carceraria promesso dalla riforma si è accompagnato, a mio avviso, all’introduzione di ulteriori elementi di irrazionalità nell’apparato sanzionatorio penale (8). 2. Si presta ad una doppia chiave di lettura — tutela dei condannati più deboli, incentivazione del ricorso alle misure alternative a scapito della pena detentiva — la nuova formulazione dell’art. 656 c.p.p., ove in particolare si prevede, al comma 5, che il pubblico ministero, contestualmente all’emanazione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino a tre anni (quattro, trattandosi di condannato tossicodipendente) (9), ne disponga la sospensione; copia dell’uno e dell’altro provvedimento deve essere ‘consegnata’ al condannato — cioè depositata nelle sue mani (10) —, insieme all’avviso che entro trenta giorni egli potrà proporre istanza di ammissione a una misura alternativa (11). Questo meccanismo processuale — del quale non possono benefiivi, p. 193; PRESUTTI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 34 s. (7) Così PALIERO, Commento all’art. 4 l. 27 maggio 1998, n. 165, in LP, 1998, p. 821. (8) Ravvisa invece nella riforma del 1998 un contributo alla ‘‘complessiva razionalizzazione’’ del sistema penitenziario il sen. Fassone, presidente della Commissione Giustizia del Senato, intervenendo nella seduta della Commissione del 12 maggio 1998, nel corso della quale viene approvato il progetto di legge. Cfr. DALIA, Sintesi dei lavori parlamentari, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 529. (9) Più precisamente, quando la pena detentiva sia stata inflitta per reati commessi in relazione a uno stato di tossicodipendenza e la persona si sia sottoposta a un programma terapeutico e socio-riabilitativo, ovvero abbia in corso un tale programma, o ad esso intenda sottoporsi (artt. 90 e 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, T.u. stupefacenti). (10) Conf. CANEVELLI, Le novità della legge Simeone. b) L’analisi delle singole norme, cit., p. 818; CATELANI, Le novità della legge Simeone. a) Uno sguardo d’assieme, cit., p. 812; KALB, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 49 s.; MACCORA, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 78 s. (11) Cfr. MACCORA, op. cit., p. 77, la quale sottolinea che i tre provvedimenti del pubblico ministero — l’ordine di esecuzione, il decreto di sospensione e l’avviso — potranno, per ragioni di speditezza e di economia, essere racchiusi in un unico atto.
— 860 — ciare soltanto i condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit. (art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p.), ‘‘coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva’’ (art. 656 comma 9 lett. b) c.p.p.), nonché coloro che abbiano già fruito della sospensione dell’esecuzione per la stessa condanna (art. 656 comma 7 c.p.p.) (12) — proietta però gravissime incertezze sull’esecuzione della pena (13): sul quomodo, sui tempi e addirittura sull’an dell’esecuzione. Spesso risulterà problematica, infatti, la consegna al condannato delle copie dei provvedimenti del pubblico ministero (14) (non potendosi applicare il regime delle notificazioni nei confronti dei soggetti irreperibili) (15). La mancata consegna impedirà il decorso del termine iniziale per la proposizione dell’istanza di ammissione alla misura alternativa; con la conseguenza che l’impossibilità di avvisare il condannato della facoltà di chiedere l’applicazione della misura renderà impossibile la stessa esecuzione della pena (16). Si è osservato in dottrina che la sospensione dell’esecuzione rappresenta una situazione ideale perché condannati ‘eccellenti’, che abbiano fatto perdere le loro tracce alla vigilia della formazione del giudicato, possano attendere nei loro dorati rifugi all’estero la prescrizione della pena (17): un risvolto paradossale di una riforma che, mentre si propo(12) Per un’analisi di queste ipotesi, cfr. MACCORA, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 84 ss.; NORMANDO, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 71 ss. (13) Conf. BERNASCONI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 122. Sotto questo profilo, d’altra parte, la legge Simeone ha soltanto aggravato un male endemico nel sistema sanzionatorio penale italiano: v. per tutti GIUNTA, L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1998, p. 416 ss. (14) Cfr. VAUDANO, Con un intervento frettoloso e approssimativo si amplia il ricorso alla detenzione domiciliare, in Guida dir., 1998, n. 23, p. 28. (15) Conf. CANEVELLI, L’analisi delle singole norme, cit., p. 818; CATELANI, Uno sguardo d’assieme, cit., p. 812; KALB, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 22 s. e p. 50; PRESUTTI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 37. V. però MACCORA, ivi, p. 79 s. (16) Conf. MACCORA, ibidem. In un’intervista apparsa sul Corriere della sera del 17 agosto 1999 il Procuratore capo della Repubblica di Milano, Gerardo D’Ambrosio, segnalava che a Milano giacevano in quella data — ‘‘emessi ma non eseguiti per l’impossibilità di essere consegnati’’ — 2.358 ordini di carcerazione e proponeva di sostituire nel testo dell’art. 656 comma 5 c.p.p., come riformulato dalla legge Simeone, alla parola ‘‘consegna’’ la parola ‘‘notifica’’. Per una critica radicale alla legge Simeone, cfr. altresì GROSSO, Giustizia virtuale, in La Repubblica, 15 agosto 1999, pp. 1-12: l’illustre A. parla di ‘‘riforma sicuramente sbagliata’’, imputandole di aver ‘‘di fatto bloccato la possibilità di eseguire senza ostacoli le condanne definitive alle pene detentive’’. (17) Cfr. VAUDANO, Con un intervento frettoloso, cit., p. 29, il quale lamenta, fra l’altro, la mancata previsione ‘‘di una qualche forma di ‘sospensione della prescrizione della pe-
— 861 — neva di favorire i soggetti più disagiati, rischierebbe invece di creare nuovi privilegi — di fatto — a favore degli appartenenti alle classi più elevate. A ben vedere, però, il rischio parrebbe soltanto quello della mancata esecuzione della pena, e non anche quello della prescrizione. L’esecuzione della pena è infatti subordinata ex art. 656 comma 5 c.p.p. al verificarsi di una condizione (la consegna al condannato dell’ordine di esecuzione, del decreto di sospensione e dell’ ‘avviso’), nonché al decorso di un termine (trenta giorni dall’avvenuta consegna); ne segue che, a norma dell’art. 172 comma 5 c.p., il tempo necessario per l’estinzione della pena non potrà decorrere se non una volta che si sia verificata quella condizione e che si sia compiuto quel termine: dunque, solo dopo trenta giorni dalla consegna (18). D’altra parte, la consegna delle copie dei provvedimenti del pubblico ministero potrà incontrare ostacoli insuperabili anche nei confronti di condannati in condizione di emarginazione sociale, magari stranieri o tossicodipendenti (19): ma il carattere ubiquitario dell’impunità non deve essere motivo di consolazione per un legislatore malaccorto. Si consideri poi il carattere meramente ordinatorio (20) del termine di quarantacinque giorni dal ricevimento dell’istanza che l’art. 656 comma 6 c.p.p. prevede per la decisione del Tribunale di sorveglianza; tale decisione potrà seguire, e normalmente seguirà, in tempi assai più lunghi (21), durante i quali l’esecuzione della pena rimarrà sospesa: è significativo, in proposito, che già prima della riforma i tempi di attesa per le decisioni del Tribunale di sorveglianza in materia di misure alternative nei grandi distretti si aggirassero intorno a due anni (22). 3.
Le innovazioni non riguardano, d’altra parte, la sola normativa
na’, in caso di latitanza o di irreperibilità volontaria’’. Cfr. altresì DI GENNARO, Giudicato penale ed esecuzione flessibile, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 254. (18) Cfr. MACCORA, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 79. (19) Conf. CATELANI, Uno sguardo d’assieme, cit., p. 812. (20) Cfr. CANEVELLI, L’analisi delle singole norme, cit., p. 815. (21) Cfr. VAUDANO, op. cit., p. 30: l’A. sottolinea che il termine di quarantacinque giorni è ‘‘impossibile da rispettare’’. (22) Cfr. MACCORA, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 114. Per una critica nei confronti della riforma Simeone, per aver imposto nuovi e gravosi adempimenti al Tribunale di sorveglianza, cfr. CATELANI, Uno sguardo d’assieme, cit., p. 813. Dalla citata intervista a Gerardo D’Ambrosio, pubblicata sul Corriere della sera, risulta che ad agosto 1999, in attesa del vaglio delle domande di affidamento in prova al servizio sociale da parte del Tribunale di sorveglianza di Milano, si trovavano in libertà 4.000 condannati definitivi, una metà dei quali doveva scontare residui di pena inferiori ad un anno, mentre l’altra metà doveva scontare pene detentive comprese fra uno e tre anni.
— 862 — processuale: la legge Simeone ha inciso, profondamente, anche sulla disciplina sostanziale delle misure alternative. 3.1. Quanto all’affidamento in prova al servizio sociale, la riforma del 1998 segna il punto di approdo di un’evoluzione in atto da tempo, che ha tanto dilatato — e alterato — l’ambito applicativo della misura, da farne qualcosa di sostanzialmente diverso rispetto a ciò che era stato concepito dal legislatore del 1975: con la conseguenza che oggi l’affidamento in prova conserva ben poco della sua originaria fisionomia, di misura di controllo e sostegno indirizzata verso la criminalità medio-piccola dell’emarginato sociale (23). Tappe fondamentali di questa trasformazione sono state segnate: a) dal progressivo ampliamento dei limiti di pena concreta per l’applicabilità della misura: sotto questo profilo, rileva non solo l’innalzamento di tale limite da due anni e sei mesi a tre anni, operato dalla legge Gozzini (art. 11 l. 10 ottobre 1986, n. 663), ma anche, e soprattutto, la lettura ‘correttiva’ della formula ‘‘pena inflitta’’ nell’art. 47 comma 1 ord. penit. fornita prima dalla giurisprudenza e poi consolidata dalla norma di interpretazione autentica contenuta nella legge n. 356 del 1992, ove si è stabilito, una volta per tutte, che ‘‘pena inflitta’’ deve intendersi come ‘‘pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive’’ (art. 14-bis l. 7 agosto 1992, n. 356) (24); b) dai ripensamenti del legislatore in materia di esclusioni oggettive, che risultano attualmente circoscritte a poche, gravissime manifestazioni di criminalità organizzata (cfr. art. 4-bis ord. penit.); c) dal progressivo venir meno dell’osservazione della personalità in istituto, originariamente prevista quale presupposto indefettibile per l’affidamento in prova (25); d) dal vanifi(23) Cfr. MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma, in AA.VV., Le risposte penali all’illegalità, Atti dei Convegni Lincei, Tavola rotonda nell’ambito della Conferenza annuale sulla Ricerca (Roma, 2 aprile 1998), 1999, p. 48. A proposito della fisionomia del destinatario dell’affidamento in prova, come ridefinita dalla riforma Gozzini del 1986, cfr. BERNASCONI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 127 s., e ivi ulteriore bibliografia. Per l’auspicio di una riforma dell’affidamento in prova che lo riporti alla sua originaria destinazione, limitata ai condannati a pene medio-brevi con ‘carriera criminale’ modesta, cfr. — prima della legge Simeone — PISA, Effettività della pena: una ipotesi, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 667. (24) A proposito di tali vicende, cfr. DI RONZA, Manuale di diritto dell’esecuzione penale, 3a ed., 1998, p. 163 ss.; IOVINO, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 203 ss., nonché, anche per un accurato quadro della giurisprudenza formatasi successivamente all’entrata in vigore della norma definitoria del 1992, PRESUTTI, in GREVI-GIOSTRA-DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, cit., sub art. 47, p. 342 s. (25) Mentre la l. 26 luglio 1975, n. 354 subordinava l’affidamento in prova ai risultati dell’osservazione della personalità del condannato in istituto — condotta per un periodo minimo di tre mesi, ridotto a un mese nel 1985 —, la l. 10 ottobre 1986, n. 663 ha previsto una forma di affidamento dallo stato di libertà senza osservazione della personalità in istituto, riservata peraltro a chi avesse trascorso un periodo in carcere a titolo di custodia caute-
— 863 — carsi nella prassi dei contenuti di sostegno della misura, per effetto sia dell’inadeguatezza strutturale del servizio sociale, sia della frequente applicazione dell’affidamento a soggetti perfettamente integrati nella società, che dunque non hanno affatto bisogno di essere aiutati ‘‘a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale’’ (26); e) dalla rarefazione delle stesse componenti di controllo della misura, un fenomeno, questo, integralmente riconducibile all’impossibilità per il servizio sociale di esercitare una vigilanza incisiva su un numero consistente di destinatari (a Milano, nel 1998, ogni assistente sociale seguiva in media 200 condannati ammessi a una misura alternativa!) (27). Ora, come si inserisce la legge Simeone in questo processo evolutivo, o, più propriamente, involutivo, attraverso il quale l’affidamento in prova ‘‘è andato perdendo contenuti e invadendo i tessuti sanzionatori più vasti ed improbabili’’ (28)? Da un lato, la riforma del 1998 suggella la possibilità che la misura sia applicata indipendentemente dall’osservazione della personalità in istituto: una soluzione anticipata già dalla Corte costituzionale, che nel 1989 (29) aveva dichiarato l’illegittimità della disciplina introdotta dalla legge Gozzini, nella parte in cui non consentiva l’accesso alla misura dallo stato di libertà a chi non avesse precedentemente trascorso un periodo di custodia cautelare in carcere (la Corte ha opportunamente sottolineato che ‘‘l’elemento della custodia cautelare, che dovrebbe giustificare il diverso e sfavorevole trattamento usato a chi non ha avuto la ventura di incadervi, è assolutamente privo di significato ai fini del giudizio di idoneità del soggetto alla rieducazione’’). Per il resto, il legislatore del 1998 interviene sul versante processuale. Attraverso il meccanismo delineato nel nuovo art. 656 commi 5 ss. c.p.p., la legge Simeone facilita l’ammissione all’affidamento in prova dallo stato di libertà per i condannati a pene detentive fino a tre anni (a quattro anni, quando si tratti di tossicodipendenti, in presenza delle condizioni di cui lare (art. 47 commi 3 e 4 ord. penit., nella versione della legge n. 663 del 1986). Quest’ultima condizione è stata successivamente rimossa dalla Corte costituzionale: cfr. infra, nt. 29. (26) Cfr. MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio, cit., p. 50, il quale segnala come destinatari della misura siano spesso ‘‘corruttori e corrotti, concussori, autori e correi di falsi in bilancio, bancarottieri, etc.’’, rammentando fra l’altro che una delle applicazioni-pilota dell’affidamento in prova, nell’ambito dello scandalo Lockheed, riguardò ‘‘un ministro e un brillante finanziere condannati per corruzione’’. (27) Cfr. MACCORA, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 115. (28) Così PALIERO, Commento all’art. 4 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 814. (29) Cfr. Corte cost. 22 dicembre 1989, n. 569, in Giur. cost., 1989, I, p. 2619 ss., nonché in Cass. pen., 1990, p. 1442 ss., con nota di DELLA CASA, Corte costituzionale e affidamento ‘anticipato’: perfezionamento e rilancio del più recente modello di probation.
— 864 — agli artt. 90 e 94 T.u. stupefacenti) (30); inoltre, prevede la possibilità della sospensione dell’esecuzione della pena detentiva anche nell’ipotesi in cui l’istanza di ammissione alla misura alternativa sia proposta a esecuzione già iniziata: secondo il disposto dell’art. 47 comma 4 ord. penit., nella versione della legge n. 165 del 1998, ‘‘il magistrato di sorveglianza, ...cui l’istanza deve essere rivolta, può sospendere l’esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato, quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova e al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga’’ (31). 3.2. Successivamente alla legge Simeone, la legge 12 luglio 1999, n. 231, recante ‘‘Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave’’, ha ancora una volta, ulteriormente dilatato gli spazi applicativi dell’affidamento in prova. In primo luogo, il legislatore del 1999 ha previsto infatti che tale misura — in alternativa alla detenzione domiciliare o al rinvio dell’esecuzione — possa essere disposta anche nei confronti del condannato a pena detentiva — qualunque sia l’ammontare della pena da eseguire e qualunque sia il reato per il quale è stata pronunciata la condanna — che sia affetto da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria e abbia in corso o intenda intraprendere un programma di cura e assistenza (art. 47quater ord. penit., introdotto dall’art. 5 legge n. 231 del 1999) (32). Una novità ancora più rilevante — dirompente, anzi, sul piano sistematico — si annida poi nell’ultimo comma dello stesso art. 47-quater ord. penit., il quale stabilisce che ‘‘le disposizioni’’ contenute nei commi precedenti ‘‘si applicano anche alle persone internate’’. Potenziale destinatario dell’affidamento in prova (e della detenzione domiciliare) diventa dunque anche chi, affetto da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, debba scontare, o stia scontando, una misura di sicurezza detentiva, secondo una linea di equiparazione tra pene detentive e misure di sicurezza (30) Cfr. supra, nt. 9. (31) Cfr. BERNASCONI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 155 ss.; MACCORA, ivi, p. 100 ss. (32) A proposito di tale disciplina, cfr. infra, 5.2. Quanto al numero dei soggetti che potrebbero essere interessati dalle disposizioni della legge n. 231 del 1999, le statistiche ufficiali segnalavano al 31 dicembre 1998 la presenza negli istituti penitenziari italiani di 118 detenuti affetti da AIDS conclamata, su un totale di 1.334 soggetti sieropositivi; va peraltro tenuto conto che l’entrata in vigore di questa legge potrebbe far emergere un cospicuo numero di casi in cui il detenuto ha sin qui tenuto nascosto il proprio stato di salute. Cfr. VAUDANO, La terapia per le persone colpite da HIV è incompatibile con la pena detentiva, in Guida dir., 1999, n. 30, p. 30.
— 865 — personali che il legislatore del 1999 ha ulteriormente evidenziato estendendo alle misure di sicurezza personali gli artt. 146 e 147 c.p.: in questo senso dispone infatti il nuovo art. 211-bis c.p., introdotto dall’art. 7 l. 12 luglio 1999, n. 231. La corsa dell’affidamento in prova (e della detenzione domiciliare) verso la conquista di una ‘clientela’ sempre più vasta continua dunque a ritmo frenetico. 3.3. Quale effetto complessivo di tali interventi sulla disciplina dell’affidamento in prova, si può attendere, evidentemente, un utilizzo sempre più ampio di tale misura alternativa: una misura, d’altra parte, applicata con una certa larghezza già prima delle recenti riforme (nel primo semestre del 1998 i condannati in affidamento erano complessivamente 20.989, dei quali 8.835 erano stati ammessi alla misura nel corso del semestre). 4. Modifiche significative sono state apportate dalla legge Simeone anche alla disciplina della semilibertà. Oltre a facilitare sul piano processuale l’accesso a questa misura alternativa, il legislatore del 1998 ha riformulato l’art. 50 ord. penit. allo scopo, parrebbe, di armonizzarne i contenuti con la nuova disciplina dell’affidamento in prova. Come è noto, sino alla riforma del 1998 la semilibertà poteva essere applicata in tre distinte ipotesi (33) (purché la condanna fosse stata pronunciata per reati diversi da quelli contemplati dall’art. 4-bis ord. penit.): a) prima dell’inizio dell’espiazione della pena detentiva, nei confronti dei condannati all’arresto e dei condannati alla reclusione fino a sei mesi (art. 50 comma 1 ord. penit.) (34); b) una volta espiata almeno metà della pena, nei confronti dei condannati alla reclusione in misura superiore a sei mesi (art. 50 comma 2 pt. I ord. penit.) — dopo vent’anni, in caso di condanna all’ergastolo (art. 50 comma 5 ord. penit.) —; c) ancora nel corso dell’esecuzione, ma anche prima dell’espiazione di metà della pena, nei confronti dei condannati alla reclusione non superiore a tre anni, allorché i risultati dell’osservazione della personalità in istituto non consentissero l’affidamento in prova, ma rivelassero condizioni idonee per un graduale reinserimento nella società (art. 50 comma 2 pt. III ord. penit., nella versione della legge n. 663 del 1986). In applicazione di tale articolata disciplina, i soggetti in semilibertà (33) Cfr. per tutti PALAZZO, La disciplina della semilibertà: evoluzione normativa e ampiezza funzionale di un ‘buon’ istituto, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, 1994, p. 387 ss. (34) Sui problemi interpretativi sollevati dall’art. 50 comma 1 ord. penit., e in particolare sulla questione della riferibilità del limite di sei mesi alla sola pena della reclusione ovvero anche alla pena dell’arresto, può vedersi DOLCINI, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve del codice penale, 3a ed., 1999, sub art. 18, p. 75.
— 866 — alla metà del 1998 ammontavano a 3.184; di questi, 1.194 erano stati ammessi alla misura nel corso del primo semestre dell’anno. Prevista in via generale — entro il limite di tre anni di pena ‘inflitta’ — la possibilità di applicare l’affidamento in prova indipendentemente dall’osservazione della personalità in istituto, il legislatore del 1998 ha soppresso anche nell’art. 50 comma 2 pt. III ord. penit. il riferimento a tale condizione per l’accesso alla semilibertà nei casi in cui ‘‘la pena detentiva inflitta non superi tre anni’’. Il tenore della nuova norma risulta peraltro oscuro: rimane l’esigenza che l’esecuzione della pena sia almeno iniziata, o, viceversa, alla misura alternativa si potrà ora accedere direttamente dallo stato di libertà, come accade per l’affidamento in prova? Due argomenti testuali fanno preferire, a mio avviso, la soluzione che, per l’applicazione dell’art. 50 comma 2 pt. III ord. penit., postula tuttora l’inizio dell’esecuzione della pena detentiva (35): da un lato, il tenore della formula ‘‘anche prima dell’espiazione di metà della pena’’ (art. 50 comma 2 pt. III ord. penit.), che mal si adatta a ricomprendere ipotesi in cui l’espiazione non sia neppure iniziata (36); d’altro lato, l’espresso riferimento, nell’art. 656 comma 5 c.p.p., alla sola ipotesi di semilibertà di cui all’art. 50 comma 1 ord. penit., che interessa i condannati all’arresto e i condannati alla reclusione non superiore a sei mesi (37). Ove si accolga questa interpretazione, risulta difficile comprendere perché il condannato a tre anni di reclusione dallo stato di libertà possa essere ammesso all’affidamento in prova, ma non alla più gravosa misura della semilibertà (38). La coerenza sistematica, peraltro, non è propriamente un punto di forza del legislatore del 1998. 5. La misura alternativa la cui disciplina sostanziale è stata più profondamente modificata negli ultimi anni è, d’altra parte, con tutta evidenza, la detenzione domiciliare (39). (35) Conf. DELLA CASA, Commento all’art. 5 l. 27 maggio 1998, n. 165, in LP, 1998, p. 825 s. (al quale si rinvia anche per l’illustrazione dell’orientamento giurisprudenziale che, in aperto contrasto con la disciplina legislativa, già prima della riforma Simeone ammetteva che la semilibertà ‘surrogatoria’ dell’affidamento in prova fosse applicata dallo stato di libertà). Contra, BERNASCONI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 178 ss. e PRESUTTI, ivi, p. 55. (36) In questo senso v. già Corte cost. 18 aprile 1997, n. 100, in Giur. cost., 1997, p. 984 ss.; in dottrina CASAROLI, La semilibertà, in FLORA (a cura di), Le nuove norme sull’ordinamento penitenziario, 1987, p. 316. (37) Conf. MASSARO, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 353. (38) Proprio su un rilievo di questo tipo, argomentando a fortiori, fa leva chi in dottrina ritiene invece applicabile in via anticipata la semilibertà surrogatoria dell’affidamento in prova: ‘‘La sospensione dell’esecuzione (comma 5 dell’art. 656 c.p.p.), finalizzata a permettere la presentazione dell’istanza per la concessione del beneficio ‘maggiore’, non può — una volta rilevata l’insussistenza delle condizioni per l’affidamento — non aprire le porte alla opportunità di accedere alla semilibertà’’. Così BERNASCONI, op. cit., p. 180. (39) Conf. PITTARO, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 254.
— 867 — Originariamente orientata in via esclusiva ad evitare la detenzione in carcere in ipotesi in cui ne sarebbero derivati gravi pregiudizi per beni diversi dalla libertà personale (la salute, la formazione della personalità) o addirittura per soggetti diversi dal condannato (i figli in giovanissima età) (40), la detenzione domiciliare trovava applicazione, alla metà del 1998, nei confronti di 1.605 condannati, mentre i provvedimenti di ammissione alla misura nel corso del primo semestre dell’anno erano stati 688. 5.1. Con la legge Simeone la detenzione domiciliare scopre però nuove vocazioni. Il legislatore del 1998 non manca — è quasi ovvio — di dilatare i limiti per l’applicabilità della misura nei confronti dei suoi destinatari ‘naturali’: l’ammontare massimo di pena ‘concreta’ — a proposito del quale già il legislatore del 1986 opportunamente precisava ‘‘anche se costituente parte residua di maggior pena’’ — viene innalzato da tre a quattro anni di reclusione (art. 47-ter comma 1 ord. penit.); l’età massima del figlio convivente che legittima l’ammissione del genitore alla misura alternativa viene portata da cinque a dieci anni (art. 47-ter comma 1 lett. a) e b) ord. penit.) (41); tra i beneficiari della misura fa la sua comparsa — secondo le indicazioni della Corte costituzionale (42) — anche il padre di prole convivente, quando la madre sia deceduta o sia altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole (art. 47-ter comma 1 lett. b) ord. penit.). D’altra parte, le innovazioni si spingono ben oltre. Si prevede che la detenzione domiciliare possa essere disposta, qualunque sia l’ammontare di pena, in tutti i casi in cui gli artt. 146 e 147 c.p. prevedono il rinvio dell’esecuzione della pena detentiva (art. 47-ter comma 1-ter ord. penit.). Soprattutto, si consente l’ammissione alla detenzione domiciliare di qualsiasi condannato — per reati diversi da quelli di cui all’art. 4-bis ord. penit. — che debba scontare una pena detentiva non superiore a due anni, ‘‘anche se costituente parte residua di maggior pena’’, quando non ricorrano i presupposti per l’affidamento in prova e sempre che la detenzione domiciliare ‘‘sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta nuovi reati’’ (art. 47-ter comma 1-bis ord. penit.). Anche la detenzione domiciliare si propone dunque come misura ‘ad ampio spettro’, a disposizione del Tribunale di sorveglianza — accanto all’affidamento in prova e alla semilibertà — per sottrarre alla pena deten(40) Cfr. CESARIS, La detenzione domiciliare come modalità alternativa dell’esecuzione penitenziaria, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, cit., p. 348. (41) Per una critica sul punto, v. PRESUTTI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 58 s. (42) Cfr. Corte cost. 13 aprile 1990, n. 215, in Giur. cost., 1990, p. 1206 ss. V. in proposito CESARIS, La detenzione domiciliare, cit., p. 349 ss.
— 868 — tiva soggetti non pericolosi: per i quali cioè il divieto di allontanarsi dall’abitazione, integrato da eventuali altre prescrizioni dettate secondo quanto previsto dall’art. 284 c.p.p. in materia di arresti domiciliari, sembrino in grado di fronteggiare il pericolo della commissione di nuovi reati. E, in effetti, già nella seconda metà del 1998 le applicazioni della detenzione domiciliare conoscono una vera e propria esplosione (anche a scapito dell’affidamento in prova e della semilibertà): i nuovi provvedimenti adottati nel semestre ammontano a 3.151 (sono dunque più del quadruplo di quelli del semestre precedente!), mentre i condannati in esecuzione della detenzione domiciliare salgono a 4.225. Da misura di carattere eccezionale, ispirata ad una logica umanitaria (43), la detenzione domiciliare viene dunque trasformata in un ulteriore strumento di deflazione della popolazione carceraria (44). E il legislatore del 1998 sembra attento a sfruttare ogni spiraglio in questa direzione — imboccando, in questo caso, una strada sconosciuta alle altre legislazioni europee (45) — più che a soddisfare esigenze di coerenza sistematica, che pure parrebbero imprescindibili (46). Così, la riforma lascia nell’incertezza il rapporto in cui la ‘nuova’ detenzione domiciliare si collocherà rispetto alle altre misure alternative. È vero, infatti, che l’art. 47-ter comma 1-bis ord. penit. prevede che la detenzione domiciliare possa essere disposta ‘‘quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale’’, attribuendo così alla detenzione domiciliare una funzione ‘surrogatoria’ dell’affidamento in prova, nel senso che la detenzione domiciliare non potrà essere applicata ove il condannato possa essere ammesso all’affidamento (47). Tuttavia, da un lato, va tenuto presente che la stessa funzione ‘surrogatoria’ dell’affidamento in prova compete, ex art. 50 comma 2 pt. III ord. penit., alla semilibertà: con la conseguenza che rimane da chiarire, quanto meno, quando, non potendosi disporre l’affidamento in prova, dovrà applicarsi (43) In questo senso, in dottrina, v. CESARIS, La detenzione domiciliare come modalità alternativa dell’esecuzione penitenziaria, cit., p. 341 e p. 378 ss.; COMUCCI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 184; DELLA CASA, ‘‘Democratizzazione’’, cit., p. 757; A. MAMBRIANI, La detenzione domiciliare: primi spunti sistematici, in Giust. pen., 1988, III, c. 421; PALIERO, Commento all’art. 4 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 814. (44) Cfr. PIERRO, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 313. Spunti in questo senso già nella disciplina della detenzione domiciliare introdotta dal d.l. 14 giugno 1993, n. 187, convertito dalla l. 12 agosto 1993, n. 296, sono segnalati da CESARIS, La detenzione domiciliare, cit., p. 382. (45) Cfr. PALIERO, Commento all’art. 4 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 821 s. (46) Per una critica di questo tenore alla normativa del 1998 in tema di detenzione domiciliare, e per la denuncia dello scoordinamento tra la disciplina sostanziale di tale misura alternativa e la disciplina processuale di cui al nuovo art. 656 comma 5 c.p.p., cfr. PIERRO, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 313. (47) Cfr. IOVINO, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 226 s.
— 869 — la detenzione domiciliare e quando la semilibertà. D’altro lato, a far luce sui rapporti sistematici tra detenzione domiciliare e restanti misure alternative non giova affatto la previsione per l’accesso alla detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-bis ord. penit. di un limite di pena più basso — due anni — di quello — tre anni — previsto sia per l’affidamento in prova (i cui contenuti sanzionatori parrebbero più blandi rispetto a quelli della detenzione domiciliare), sia per la semilibertà (che con la detenzione domiciliare si pone invece in una relazione inversa, quale sanzione più afflittiva e densa di contenuti). 5.2. Un nuovo capitolo nella farraginosa storia della detenzione domiciliare è poi segnato dalla l. 12 luglio 1999, n. 231. Già si è accennato al profilo più eccentrico di questa riforma, che riguarda l’ingresso della misura alternativa nella sfera delle misure di sicurezza personali (art. 47-quater comma 10 ord. penit., nella versione di cui all’art. 5 legge n. 231 del 1999), allorché la misura di sicurezza dovrebbe eseguirsi nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria. La l. 12 luglio 1999, n. 231 dedica inoltre un’autonoma previsione al condannato a pena detentiva affetto da tali patologie, consentendogli l’accesso sia alla detenzione domiciliare, sia all’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47-quater, comma 1 ord. penit., introdotto dall’art. 5 legge n. 231 del 1999). Mentre la previsione dell’affidamento in prova rappresenta una autentica novità — una novità probabilmente in grado di dare un ulteriore contributo al dissesto di tale misura alternativa —, il disposto dell’art. 47-quater comma 1 ord. penit. parrebbe tuttavia superfluo quanto alla detenzione domiciliare, che già risultava applicabile nei casi qui contemplati a norma dell’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit.: addirittura, sorge il sospetto che il legislatore del 1999, in stretta osservanza del precetto evangelico ‘non sappia la mano destra quello che fa la mano sinistra’, abbia formulato il nuovo art. 47-quater ord. penit. ignorando il tenore dell’art. 47-ter, così come riformato nel 1998 (48). Il nuovo art. 47quater ord. penit. sembra dunque incidere sulla detenzione domiciliare per il condannato affetto da AIDS soltanto sotto il profilo della disciplina: fra l’altro, vietando la reiterazione delle misure — detenzione domiciliare e affidamento in prova —, qualora l’interessato ne abbia già fruito in passato e la misura sia stata revocata da meno di un anno (art. 47-quater comma 5 ord. penit.), nonché esplicitandone l’applicabilità anche nel caso in cui la condanna sia stata pronunciata per uno dei delitti di cui all’art. 4bis ord. penit. (art. 47-quater comma 9 ord. penit.) (49). (48) Di modifica tardiva, e non coordinata con la disciplina della detenzione domiciliare introdotta nel 1998, parla VAUDANO, La terapia per le persone colpite da HIV, cit., p. 30. (49) Nel silenzio della legge Simeone, già prima della riforma del 1999 si pronun-
— 870 — L’art. 6 legge n. 231 del 1999 riformula infine l’art. 146 comma 1 n. 3 c.p., prevedendo il rinvio — obbligatorio — dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti non solo della persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, ma anche di chi soffre di ‘‘altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più... ai trattamenti disponibili e alle terapie curative’’. Anche il malato terminale, affetto da infermità diversa dall’infezione HIV, deve dunque ora essere ammesso al differimento dell’esecuzione ex art. 146 c.p., oppure, in forza dell’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit., alla detenzione domiciliare; prima della riforma del 1999, nei suoi confronti poteva essere adottato l’uno o l’altro provvedimento, riconducendosi le sue condizioni alla previsione dell’art. 147 comma 1 n. 2 c.p., che contempla il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena nei confronti di chi si trovi in ‘‘condizioni di grave infermità fisica’’. 6. Complessivamente, il legislatore del 1998 e quello del 1999 hanno dunque operato una cospicua apertura di credito alle misure alternative alla detenzione, che, in effetti, già nel secondo semestre del 1998 giungono ad interessare, complessivamente, 27.615 condannati, un numero mai raggiunto in passato (50). Le forme di criminalità attratte nella sfera delle misure alternative, d’altra parte, sono sempre più frequentemente connotate da una rilevante gravità (51). Mai — nemmeno in passato — concentrate sulle bagatelle (52), le misure alternative si propongono ormai a chiare lettere come risposta sanzionatoria non sporadica per forme di criminalità mediograve, selezionate attraverso il filtro della magistratura di sorveglianza. ciava a favore dell’applicabilità della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. anche ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. CANEVELLI, Le novità della legge Simeone. b) L’analisi delle singole norme, cit., p. 821. Sulla questione, cfr. altresì PIERRO, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 315 s. (50) Un’indagine disposta dall’Ufficio del Casellario Giudiziale Centrale relativa alle condanne a pena detentiva — ergastolo, reclusione e arresto — passate in giudicato fra il 1993 e il 1997 ha evidenziato che l’applicazione di misure alternative in quell’arco di tempo aveva riguardato il 4,12% del totale delle condanne; in oltre l’82% dei casi, la misura applicata era l’affidamento in prova al servizio sociale, mentre la semilibertà e la detenzione domiciliare avevano interessato rispettivamente l’11% e il 7% dei casi. (51) Cfr. MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio, cit., p. 51 ss.; PALIERO, Commento all’art. 4 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 821. (52) Quanto all’affidamento in prova, alla sua applicazione nei confronti dei condannati a pene inferiori a tre mesi si opponeva la previsione dell’osservazione della personalità in istituto, destinata di fatto a protrarsi anche oltre il tempo minimo — appunto, tre mesi — previsto dalla versione originaria dell’art. 47 ord. penit. Tra le voci critiche levatesi contro questa scelta legislativa, tanto più discutibile in un contesto che ancora non conosceva le sanzioni sostitutive della pena detentiva breve, che sarebbero state introdotte soltanto nel
— 871 — A orientare le misure alternative verso una fascia di criminalità tutt’altro che bagatellare contribuiscono anche i cospicui ‘premi’ previsti dal codice di procedura penale per i riti speciali (53): benché oggi, su questo versante, le misure alternative soffrano della soffocante concorrenza della sospensione condizionale della pena (54). D’altra parte, la forte incentivazione del ricorso alle misure alternative in relazione alle condanne a pene detentive fino a tre anni, realizzata dalla legge Simeone, era stata sul punto di saldarsi con una riforma dei riti speciali (55), che prospettava per chi avesse rinunciato al dibattimento ancor più rilevanti riduzioni della pena principale — precisamente, un ulteriore ‘sconto’ fino ad un terzo a seguito della ‘‘riparazione pecuniaria dell’offesa all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata’’ —, individuava in tre anni di pena detentiva il limite per l’applicabilità di una nuova forma di ‘giustizia contrattata’, la ‘‘condanna a pena concordata’’, e inoltre prevedeva che l’imputato potesse subordinare la richiesta di ammissione al rito speciale alla sostituzione della pena detentiva con l’affidamento in prova o con la detenzione domiciliare: se la riforma fosse giunta in porto — un rischio che sembrerebbe ora scongiurato (56) —, ne sa1981, cfr. BRICOLA, L’affidamento in prova: ‘‘fiore all’occhiello’’ della riforma penitenziaria, in Quest. crim., 1976, p. 398. (53) Per un’analitica illustrazione dello svuotamento del trattamento sanzionatorio prodotto in particolare dal c.d. patteggiamento, ben al di là della riduzione fino ad un terzo della pena principale, cfr. MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio, cit., p. 50 ss. (54) Non disponendo di dati statistici relativi all’applicazione della sospensione condizionale della pena nell’ambito dei riti speciali, si può segnalare che nel quinquennio 19931997, a fronte di un totale di 1.149.848 condanne definitive a pena detentiva — pronunciate sia con rito ordinario, sia con uno dei riti speciali —, la sospensione condizionale è stata applicata in 525.530 casi (pari al 45,70%), mentre le misure alternative in 47.692 casi (pari, come si è anticipato, al 4,12% del totale delle condanne a pena detentiva). Questi dati emergono dall’indagine disposta dall’Ufficio del Casellario Giudiziale Centrale citata supra, alla nt. 50. (55) Mi riferisco al Disegno di legge n. 2968, intitolato ‘‘Modifiche al Codice di procedura penale’’, approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 gennaio 1997, il cui testo è pubblicato in Documenti giustizia, 1997, 3, p. 607 ss. Per un’analisi di questo testo, cfr. VIGONI, in PISANI (a cura di), I procedimenti speciali in materia penale, 1997, p. 335 ss., e ivi ulteriore bibliografia. (56) Le prospettive per un’approvazione da parte del Parlamento del citato Disegno di legge n. 2968 sembrano infatti definitivamente tramontate. Né il c.d. patteggiamento allargato è previsto nel ‘‘Testo unificato dei disegni di legge 411 e abbinati’’ (Disegno di legge n. 3807, intitolato ‘‘Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente e di indennità spettante al giudice di pace. Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale’’), che è stato approvato dalla Camera dei Deputati il 10 febbraio 1999 e trasmesso alla Presidenza del Senato il 12 febbraio 1999. A modifica della disciplina vigente del patteggiamento, quest’ultimo Disegno di legge (art. 35) si limita infatti a prevedere la possibilità per l’imputato di subordinare la richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. ‘‘alla sostituzione della pena detentiva da eseguire con i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, ove applicabili’’. Alla domanda di deflazione processuale il Disegno di legge risponde invece de-
— 872 — rebbe venuta un’ulteriore, rilevantissima valorizzazione delle misure alternative quali sanzioni per reati di notevole gravità. È doveroso a questo punto domandarsi: sono in grado le misure alternative di assolvere i compiti sempre più onerosi proposti dal legislatore? Destinate a fronteggiare reati sempre più gravi, le misure alternative presentano contenuti sanzionatori reali, o tendono invece a ridursi a sanzioni simboliche (57), dietro le quali si cela una sostanziale rinuncia a punire? La verità è che al crescere delle funzioni di controllo e di sostegno alle quali sono chiamati gli organi di polizia e del servizio sociale, per effetto di un’applicazione delle misure alternative sempre più vasta, si accompagna un progressivo svuotamento di contenuti delle misure (58): con effetti dirompenti sulla tenuta complessiva del sistema penale. L’ineffettività di singoli modelli sanzionatori, se utilizzati ampiamente, finisce inevitabilmente col compromettere l’effettività dell’intero sistema sanzionatorio (59). Già prima delle recenti riforme si registrava un coro unanime di denunce della totale inadeguatezza sia dei Centri di servizio sociale, sia degli organi di polizia ad adempiere alle rispettive funzioni in relazione ai condannati ammessi alle misure alternative. Per comune constatazione, l’affidamento in prova si era pressocché ridotto ad una variante nominalistica della sospensione condizionale della pena (60), utile soltanto a consentire l’aggiramento degli ultimi, vacillanti limiti all’applicazione della sospensione condizionale (61): i limiti relativi all’ammontare della pena e il divieto di una terza concessione (art. 164 comma 4 c.p.) — anche se quest’ultimo divieto non incide granché sulla prassi giurisprudenziale: risulta infatti che tra il 1993 e il 1997 ben 160.930 condannati abbiano fruito della sospensione condizionale per tre lineando un ampliamento dell’area applicativa dell’oblazione — estesa ai delitti puniti con la sola multa e a quelli puniti in alternativa con la multa o con la reclusione (art. 9, che riformula l’art. 162-bis c.p.) — e di quella della sospensione condizionale (art. 10, che modifica l’art. 163 c.p., abbattendo qualsiasi tetto per la sospendibilità della pena pecuniaria). (57) Su tale nozione, cfr. DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, 1989, p. 170. (58) Lascia perplessi l’affermazione di un Autore, il quale, dopo aver sottolineato che la riforma del 1998 ha ampliato l’ambito applicativo dell’affidamento in prova, ritiene che proprio per questa ragione la legge vada ascritta a ‘‘quell’ampio progetto legislativo finalizzato al recupero della funzione della pena’’ (?) e della ‘‘effettività della sanzione’’ (!): così IOVINO, in AA.VV., Sospensione della pena, cit., p. 184, nt. 15. (59) Per una compiuta elaborazione del principio di effettività, inquadrato tra i principi fondamentali che dovrebbero orientare la moderna politica criminale, cfr. PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in questa Rivista, 1990, p. 430 ss. (60) V. per tutti PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, p. 537. (61) Cfr. GIUNTA, L’effettività della pena, cit., p. 417.
— 873 — o più volte e che sfiori le 400 unità il numero dei soggetti ammessi alla sospensione condizionale per oltre dieci volte (62)! Quanto alla detenzione domiciliare, si rilevava che ‘‘le funzioni di vigilanza..., affidate alle forze di polizia, finiscono per essere evanescenti’’ e che ‘‘l’elemento di dissuasione dal compimento di altri reati... consiste nel deterrente psicologico derivante dalla prospettiva di una nuova incarcerazione’’ (63). Detto diversamente, anche la detenzione domiciliare, nella sostanza, presentava (e presenta) i connotati di una misura puramente sospensiva. Le esperienze straniere avvalorano, d’altra parte, le prognosi più infauste circa l’effettività delle misure alternative dopo le ultime riforme: proprio negli Stati Uniti d’America — patria del probation, archetipo di tutte le misure di controllo e sostegno in libertà — si è dovuto toccare con mano che, applicato su ampia scala, il probation si riduce a una misura né controllata, né assistita (64). E nemmeno incoraggia all’ottimismo la previsione, nella legge n. 165 del 1998 (art. 6), di un potenziamento delle strutture del Servizio sociale penitenziario (65): un potenziamento così esiguo, da essere definito ‘‘risibile’’ dai primi commentatori della legge (66). Appare dunque sempre più attuale il rilievo che ‘‘nel sistema sanzionatorio penale italiano prosperano, soltanto, quelle figure — vecchie e nuove — che mostrano come caratteristica essenziale di essere, nella sostanza..., delle non-sanzioni’’ (67). La dottrina auspica che la riforma del sistema sanzionatorio muova dalla eliminazione delle sanzioni che la prassi segnala come vuote di contenuti (68): il legislatore, viceversa, ri(62) Circa la fonte di questi dati, cfr. supra, nt. 50. La causa principale del fenomeno risiede nel ritardo con il quale viene aggiornato il casellario giudiziale; un ruolo non trascurabile rivestono inoltre le difficoltà che i giudici incontrano nell’accertare l’identità dei condannati extracomunitari, i quali spesso riescono ad ottenere più volte la sospensione condizionale della pena semplicemente fornendo false generalità. (63) Così COMUCCI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 245. V. anche VAUDANO, Con un intervento frettoloso e approssimativo si amplia il ricorso alla detenzione domiciliare, cit., p. 30, che denuncia la ‘‘pratica impossibilità di controllo’’ da parte delle forze di polizia sui condannati in regime di detenzione domiciliare. (64) Cfr. DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, cit., p. 28. (65) A proposito dell’organizzazione e delle funzioni del Servizio sociale penitenziario, v. da ultimo GRAZIOSO, Commento all’art. 6 l. 27 maggio 1998, n. 165, in LP, 1998, p. 828 ss. (66) L’espressione è di PRESUTTI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 36. Nello stesso senso, v. anche COMUCCI, ivi, p. 244 e PITTARO, ivi, p. 263. (67) PALIERO, Metodologie de lege ferenda, cit., p. 537. (68) PALIERO, Metodologie, cit., p. 559.
— 874 — sponde attribuendo a misure di questo tipo spazi sempre più ampi e disinteressandosi della loro ineffettività. 7. Poggia su equilibri fragilissimi un sistema penale che minaccia severe pene detentive; irroga pene che conservano il nome di reclusione o di arresto, ma sono il più delle volte enormemente lontane, già nell’ammontare, da quelle prefigurate dalla comminatoria legale, per effetto di riduzioni di pena correlate soltanto alle scelte di strategia processuale dell’imputato, e non alla gravità del reato, né alla personalità del suo autore; normalmente rinuncia, infine, ad eseguire le pene disposte dal giudice all’atto della condanna, spesso affidando ad un altro giudice il compito di commutare la pena detentiva, di cui nemmeno si inizia l’esecuzione, in misure sospensive prive di qualsiasi contenuto. La costante divaricazione tra pena legale, pena inflitta e pena eseguita (69) — delineata forse in ossequio a malintese istanze di prevenzione generale — in realtà contraddice radicalmente tali istanze (70). Compromette le esigenze della cosiddetta prevenzione generale positiva, cioè della stabilizzazione sociale: pene minacciate ‘a vuoto’ generano disorientamento tra i cittadini, senso di insicurezza, sfiducia nelle istituzioni e provocano, ben presto, concitate e irrazionali domande di ‘legge e ordine’ (71). D’altra parte, inevitabilmente viene meno anche qualsiasi effetto di intimidazione (la cosiddetta prevenzione generale negativa): se il primo fattore di deterrenza è la certezza della punizione, esiti disastrosi si devono attendere da un sistema che, all’opposto, produce nei destinatari una convinzione prossima alla certezza che le pene minacciate non saranno eseguite. (69) Cfr., fra gli altri, PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, p. 419 ss.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, ivi, 1995, p. 325 s.; GIUNTA, L’effettività della pena, cit., p. 418; nonché, da ultimo, PITTARO, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 264. Sull’attuale esigenza politico-criminale di ‘‘rendere più seria’’ la minaccia della pena detentiva, cfr. inoltre PISA, Effettività della pena, cit., p. 667. (70) Cfr. MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio, cit., p. 55. (71) Cfr. MARINUCCI, ibidem. Un processo di questo tipo parrebbe essersi innescato in Italia a seguito di alcuni gravi episodi di criminalità, verificatisi nel luglio di quest’anno, che hanno avuto tra i loro protagonisti soggetti che stavano scontando precedenti condanne in forma extrapenitenziaria. Sull’onda delle emozioni provocate da questi delitti, l’opinione pubblica, sollecitata soprattutto dalla stampa quotidiana, si è improvvisamente concentrata sul problema dell’effettività della pena nel nostro Paese. Ne è seguito un dibattito che rischia di suggerire al cittadino, come ultimo approdo, una acritica e generale rivalutazione della pena detentiva. Assai più feconda appare invece la sensibilizzazione dell’opinione pubblica al problema dei controlli sui condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione: anche se l’individuazione di un problema reale, e serissimo, è stata talora seguita dalla proposta di soluzioni nient’affatto persuasive, come quella, avanzata dal Ministro dell’Interno, di utilizzare l’esercito per i controlli sui condannati.
— 875 — Nessuno può prendere sul serio un legislatore che, sempre e indiscriminatamente, fa la voce grossa, ma subito aggiunge, strizzando l’occhio: scherzavo. 8. Un’ultima riflessione. Si è osservato in precedenza che uno degli obiettivi perseguiti dal legislatore del 1998 era quello di consentire l’accesso alle misure alternative anche ai soggetti ‘deboli’: si muoveva dal rilievo — più che fondato — che gli emarginati sociali, per i quali era stato originariamente concepito il prototipo delle misure alternative, l’affidamento in prova al servizio sociale, già per effetto dei meccanismi procedurali che regolavano l’applicazione delle misure risultavano spesso esclusi da qualsiasi possibilità di fruirne. In realtà, accanto a fattori processuali, anche precise ragioni sostanziali contribuiscono a far sì che le misure alternative si indirizzino prevalentemente, nella prassi, nei confronti di soggetti ben integrati nella società. Quanto all’affidamento in prova, il Tribunale di sorveglianza deve decidere sull’istanza di ammissione alla misura in base ad un duplice criterio: in quanto, cioè, ritenga che la misura possa contribuire alla rieducazione di quel singolo condannato e, inoltre, sia in grado di prevenire il pericolo della commissione di nuovi reati (art. 47 comma 2 ord. penit.). Ora, è evidente che ad una prognosi siffatta l’emarginato sociale — si tratti di delinquente per bisogno, per effetto dell’inserimento in gruppi devianti, per abitudine, etc. — si presenta, di per sè, in una situazione assai meno favorevole rispetto a chi sia ben integrato nella società: sarà più facile accordare fiducia a una persona ‘per bene’, accreditandola di una momentanea e solo occasionale deroga a consuetudini di vita almeno in apparenza ‘rispettose delle regole’. A tacere poi del carattere intrinsecamente ‘diseguale’ della detenzione domiciliare (72), che esclude a priori dalla propria area applicativa un’ampia fascia di emarginati, che non dispongono né di una casa d’abitazione, né di ‘‘un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza’’ (art. 47-ter comma 1 ord. penit.) nel quale scontare la pena (73): una ragione in più per prevedere che fruitori per eccellenza della misura saranno ‘‘i condannati per reati di criminalità economica, ...e comunque i soggetti più abbienti, che troveranno nell’espiazione in regime domiciliare un vero e proprio affrancamento dalla sanzione penale’’ (74). (72) A proposito di alcuni profili di disparità relativi all’attuazione della misura, cfr. A. MAMBRIANI, La detenzione domiciliare, cit., c. 388 ss. (73) Cfr. MACCORA, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 115. (74) Così COMUCCI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 248.
— 876 — Ora, questa situazione di squilibrio, che rende di per sé improbabile l’ammissione dell’emarginato sociale alle misure alternative, è solo destinata ad accentuarsi nel momento in cui le misure vedono ulteriormente assottigliarsi i loro contenuti, di sostegno e di controllo. La consapevolezza che il servizio sociale non potrà fornire nessun aiuto al condannato lascerà ovviamente intatte le prospettive di affidamento per il delinquente ‘dal colletto bianco’, ma potrà pregiudicare — e, aggiungo, è in un certo senso ragionevole che ciò accada — le sorti del condannato che viva ai margini della società: se poi le stesse possibilità di esercitare un serio controllo sul comportamento del condannato in stato di libertà risulteranno prossime allo zero, sarà inevitabile che per lui si aprano le porte del carcere, ovvero che l’affidamento gli venga negato anche a espiazione iniziata. In breve: misure alternative prive di contenuti reali sono votate, a dispetto di qualsiasi riforma delle procedure di accesso, a rimanere privilegio delle classi più forti. E se è vero che le recenti riforme rischiano di accentuare lo svuotamento di contenuti delle misure alternative, se ne può attendere soltanto una ulteriore sperequazione a seconda dello strato sociale di appartenenza del condannato (75). Si è affermato — e l’affermazione era carica di apprezzamento — che la legge Simeone si inscrive in una ‘‘strategia rivolta... verso un diritto penale minimo’’ (76). In altra occasione, Giorgio Marinucci ed io (77) abbiamo analizzato le proposte dei diversi fautori del c.d. diritto penale minimo, mettendone in luce le profonde contraddizioni: in particolare, si è cercato di dimostrare che proposte programmaticamente ispirate a una visione liberale e garantistica dei rapporti tra individuo e autorità approdano in realtà alla restaurazione di uno stereotipo del delinquente ritagliato sulle ‘classi pericolose’. Ebbene, proprio in questo senso le riforme delle misure alternative varate nel 1998 e nel 1999 rischiano di segnare un passo nella direzione indicata dai teorici del c.d. diritto penale minimo: assecondando ulteriormente la vocazione della pena detentiva a indirizzarsi quasi esclusivamente agli strati sociali più deboli. EMILIO DOLCINI
(75) Per ulteriori rilievi critici nei confronti della riforma del 1998, alla quale si imputa di ‘‘introdurre nuove, odiose sperequazioni proprio a carico di quei soggetti che apparentemente intendeva tutelare’’, cfr. BERNASCONI, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 121 s. (76) Così si è espresso il sen. Fassone, nella Relazione presso la Commissione Giustizia del Senato: cfr. Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, XIII Legislatura, seduta del 18 settembre 1997, resoconto sommario, p. 18, cit. in PRESUTTI, op. ult. cit., p. 36. (77) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale ‘minimo’ e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, 802 ss.
SCAMBIO ELETTORALE POLITICO MAFIOSO: DEFICIT DI CORAGGIO O QUESTIONE IRRISOLVIBILE?
SOMMARIO: 1. Premessa: oggetto dell’indagine. — 2. Il raffronto tra l’art. 416-ter ed i reati di corruzione elettorale. - 2.1. (Segue): soluzione di un concorso apparente. — 3. Il momento consumativo del delitto di scambio elettorale politico-mafioso. — 4. I rapporti col delitto di associazione mafiosa. - 4.1. (Segue): la determinazione della condotta di partecipazione all’associazione mafiosa. - 4.2. (Segue): il concorso eventuale nell’associazione mafiosa. - 4.3. (Segue): il riconoscimento dell’ammissibilità di una differenziazione tra partecipe e concorrente esterno nell’associazione mafiosa. - 4.4. (Segue): brevi osservazioni sui delitti ‘‘collaterali’’ al fenomeno mafioso. — 5. Scambio elettorale politico-mafioso: ipotesi tipizzata di concorso esterno in associazione mafiosa?. — 6. Il politico colluso con la mafia: ancora sulle dovute differenziazioni. — 7. Considerazioni conclusive sulle sorti delle condotte contigue al fenomeno mafioso.
1. Premessa: oggetto dell’indagine. — Il connubio mafia-politica desta da lungo tempo l’interesse di giuristi e di sociologi oltre che, naturalmente, dell’opinione pubblica (1). Con l’intento di colmare quel « deficit di coraggio », rimproverato da autorevole dottrina (2) al legislatore del 1982 (3), per non aver previsto espressamente la punibilità di tale connessione, è stato emanato il d.l. n. 306/1992, contenente provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata. E, in particolare, è stato (1) Sul processo evolutivo della legislazione antimafia e sugli inevitabili legami con la mutata percezione sociale del fenomeno mafioso vedi, per tutti, FIANDACA, Riflessi penalistici del rapporto mafia-politica, in Foro it., 1993, V, c. 137. (2) BRICOLA, Premessa al commento della legge 13 settembre 1982, n. 646, in Leg. pen., 1983, p. 240. (3) Il riferimento è alla nota legge Rognoni-La Torre del 13 settembre 1982, n. 646, che ha introdotto l’art. 416-bis del codice penale, sul quale esiste, com’è noto, un’amplissima bibliografia: cfr. soprattutto INSOLERA, Considerazioni sulla nuova legge antimafia, in Pol. dir., 1982, p. 686; ID., Diritto penale e criminalità organizzata, 1996; FIANDACA, Commento all’art. 1, legge 13 settembre 1982, n. 646, in Leg. pen., 1983, p. 257; NEPPI MODONA, Il reato di associazione mafiosa, in Dem. dir., 1983, p. 61; TURONE, Le associazioni di tipo mafioso, 1984, nonché la più recente rielaborazione, Il delitto di associazione mafiosa, 1995; DE FRANCESCO, voce Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. disc. pen., I, 1987, p. 289; INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, 1993; ID., voce Associazione di tipo mafioso, in Enc. dir., 1997, vol. I, appendice; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p.te sp., I, 1997, p. 357; SPAGNOLO, L’associazione mafiosa, 1997; AA.VV., I reati associativi (Atti del Convegno svoltosi a Courmayeur, 10-12 ottobre 1997), 1998; ALEO, Sistema penale e criminalità organizzata. Le figure delittuose associative, 1999.
— 878 — inserito al terzo comma dell’art. 416-bis c.p., fra i fini dell’associazione di tipo mafioso, anche quello volto ad « impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali »; inoltre è stata introdotta una nuova fattispecie incriminatrice, l’art. 416-ter c.p. che prevede l’applicazione della « pena stabilita dal primo comma dell’art. 416-bis... anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo art. 416-bis in cambio dell’erogazione di denaro » (4). Si tratta, come è noto, di un intervento normativo generato in un clima di acuta emergenza, segnato dalle stragi in cui persero la vita due giudici in prima linea nella lotta alla mafia (5). Avvertendo la delicatezza del momento si sono precorse le tappe nell’iter deliberativo dell’intervento normativo. Era inevitabile, pertanto, che la mancanza della dovuta e attenta ponderazione di politica criminale, che la delicatezza della materia trattata avrebbe imposto, si traducesse in una palese deficienza di tecnica legislativa: ‘‘formulazione letterale ambigua’’, ‘‘infelice’’, ‘‘gravi difetti tecnici’’ sono soltanto alcune delle qualifiche negative con cui sono state etichettate le nuove disposizioni (6). Non meno significative le riserve circa la reale incidenza applicativa delle norme in questione. Più in particolare, non si è mancato di tacciare di ‘‘inutilità’’ (7) la modifica apportata all’art. 416-bis, sul rilievo che le fi(4) Tali modifiche sono state previste dagli artt. 11-bis ed 11-ter del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con qualche modifica, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356. Per un commento di tali innovazioni, vedi FORLENZA, I nuovi reati elettorali e contro l’amministrazione della giustizia nella legge n. 356/1992, in Riv. pen. econ., 1992, p. 530; ALBAMONTE, Le modifiche apportate all’art. 416-bis c.p. e la « mafia politica », in Cass. pen., 1992, p. 3165; DE FRANCESCO, Commento agli artt. 11-bis e 11-ter del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (antimafia), in Leg. pen., 1993, p. 122; DI NARDO, Le innovazioni di diritto penale della legge n. 356/1992, in Riv. pen., 1993, p. 259; DE ROSE, La criminalità organizzata fra prevenzione e repressione, in Riv. pen. econ., 1993, p. 260; LI VECCHI, Mafia, politica, pentitismo, tangentopoli e loro trattamento processuale e penale, in Riv. pen., 1993, II, p. 1187. Riferimenti, per un’ottica più generale, in INSOLERA, Diritto penale, cit., p. 78 ss. e 85 s.; SPAGNOLO, L’associazione, cit. p. 77 ss. e 144 ss.; VISCONTI, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Ind. pen., 1993, p. 280. (5) Appare indiscutibile che la recente normativa rappresenti una fondamentale presa di posizione del legislatore contro lo strapotere mafioso nel momento in cui due stragi, quella di Capaci, in cui morì il giudice Falcone, avvenuta il 23 maggio 1992, e quella di via D’Amelio, che costò la vita al giudice Borsellino, verificatasi il 17 luglio 1992, sembravano aver messo in ginocchio lo Stato irrimediabilmente. L’intera innovazione legislativa si è, di fatto, animata della carica emotiva suscitata da quei tragici eventi ed ha finito per rappresentare una dimostrazione esemplare di forza ed un irrinunciabile tentativo di continuità nella lotta alla mafia. (6) In tal senso si esprimono, fra gli altri, FIANDACA, Riflessi penalistici, cit., c. 138; ID., Accordo elettorale politico-mafioso e concorso esterno in associazione mafiosa: una espansione incontrollata del concorso criminoso, in Foro. it., 1996, V, c. 127; LI VECCHI, Mafia, cit., p. 1192; VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 280. (7) INGROIA, L’associazione, cit., p. 84 ss.; in senso conforme DE FRANCESCO, Gli
— 879 — nalità legate all’esercizio del voto, ora aggiunte, erano già riconducibili nell’ambito dei « profitti o vantaggi ingiusti » costituenti la preesistente formula di chiusura al terzo comma dello stesso articolo. Dall’accusa di superfluità non è stato risparmiato neppure l’art. 416ter, giudicato talora (8) assolutamente coincidente con l’art. 96, d.P.R. n. 361/1957, relativo alle elezioni amministrative, nella parte in cui, anche quest’ultimo, si riferisce alla promessa di voto ottenuta mediante l’erogazione di denaro (9). Per di più il nuovo art. 416-ter c.p., rispetto al preesistente reato elettorale, ha una portata applicativa eccessivamente restrittiva (10), limitando la rilevanza penale dello scambio elettorale tra il politico e l’associazione mafiosa al caso marginale d’erogazione di denaro dal primo alla seconda. Rimangono fuori dall’operatività della nuova norma le più realistiche ipotesi in cui il corrispettivo del voto è costituito da promesse o somministrazioni di « valori o qualsiasi altra utilità », per contro espressamente richiamate dal suindicato art. 96. Né si tratta di un’involontaria dimenticanza del legislatore, giustificabile dall’urgenza dell’iter deliberativo, poiché durante gli esagitati lavori preparatori l’originario emendamento, proponente l’introduzione dell’art. 416-ter (11), aveva espresso una norma di largo respiro che fu poi respinta. Accanto al propinamento di denaro, quale corrispettivo della promessa di voti, figurava anche quella « di agevolare l’acquisizione di concessioni, autorizzazioni, appalti, contributi, finanziamenti pubblici o, comunque, della realizzazione di profitti » (12). artt. 416-bis, 416-ter, 417, 418 c.p., in CORSO-INSOLERA-STORTONI (a cura di), Mafia e criminalità organizzata, 1996, p. 58 ss.; INSOLERA, Diritto penale, cit., p. 80. Allo stesso risultato, anche se per altra via, giunge SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 79; cfr. inoltre, FORLENZA, I nuovi reati, cit., p. 534, per il quale le tre condotte di impedimento, di ostacolo del diritto di voto ovvero di procacciamento dei suffragi rientrano nella generale previsione dell’art. 294 c.p. (Attentato contro i diritti politici del cittadino) e della normativa in materia elettorale. (8) In questo senso vedi FORLENZA, op. ult. cit., p. 535. (9) L’articolo dispone per la parte che qui ci interessa, che « chiunque, appartenendo all’Ufficio elettorale, per ottenere a proprio od altrui vantaggio... il voto elettorale o l’astensione, offre, promette o somministra denaro, valori o qualsiasi utilità... ad uno o a più elettori o, per accordo con essi, ad altre persone, è punito... ». Il testo è stato modificato quanto ai limiti edittali della pena dall’art. 11-quater della legge n. 356/1992. Per le elezioni comunali vedi i corrispondenti artt. 86 e 87 del d.P.R. n. 750/1960. Sui reati elettorali si rinvia a BERTOLINI, voce Elezioni (reati elettorali), in Enc. giur. Treccani, 1989, XII, p. 2 ss.; GARAVELLI, voce Elezioni (reati elettorali), in Dig. disc. pen., 1990, IV, p. 225. (10) Cfr. DE FRANCESCO, Gli artt. 416-bis, cit., p. 76; SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 147; DI NARDO, Le innovazioni, p. 260. (11) Per un’attenta analisi dei lavori preparatori dell’art. 416-ter si rimanda a VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 276 ss., il quale parla, significativamente, di « disordinato ma graduale depotenziamento delle proposte iniziali », nonché di progetti normativi con obiettivi asimmetrici e non sorretti da presupposti politico-criminali univoci, bensì « frutto di mediazioni compromissorie dell’ultima ora ». (12) Recita così l’emendamento elaborato dal comitato ristretto della Commissione
— 880 — Sennonché, sulle esigenze repressive prevalsero « controvertibili » (13) preoccupazioni di certezza del diritto sul presupposto che la norma, così ampiamente formulata, avrebbe potuto dare adito ad interpretazioni diverse ed, eventualmente, ad arbitri sul piano applicativo (14). Quale, dunque, l’esito di tale impegno legislativo? Quale il reale valore applicativo delle innovazioni normative rispetto al loro intento simbolico-espressivo (15)? La risposta a codesto interrogativo presuppone, in realtà, il chiarimento di due aspetti che complicano ulteriormente la nostra analisi: da un lato il rapporto con i reati elettorali preesistenti; dall’altro il confronto con il delitto di associazione mafiosa e con l’annosa questione dell’ammissibilità del concorso criminoso esterno nei reati associativi. La portata applicativa del delitto di scambio elettorale politico-mafioso va delimitata da queste diverse situazioni normative con cui lo stesso potrebbe essere confuso. 2. Il raffronto tra l’art. 416-ter c.p. ed i reati di corruzione elettorale. — L’analisi delle modifiche della legge n. 356/1992, particolarmente di quella relativa all’introduzione del delitto di scambio elettorale politicomafioso, esige primariamente un raffronto con la preesistente disciplina della ‘‘corruzione elettorale’’ (16). La parte dell’art. 96, T.U. n. 361/1957, ritenuta dai più già comprensiva della nuova disposizione normativa, riguarda la condotta di « chiunque, per ottenere a proprio od alGiustizia al fine di far ritirare l’emendamento Galasso-Palermo, proposto dall’opposizione, che prevedeva l’applicazione della pena stabilita dai primi due commi dell’art. 416-bis « anche a chi, per ottenere a proprio od ad altrui vantaggio il voto elettorale, si avvale, anche indirettamente, della forza di intimidazione del vincolo associativo di cui all’art. 416-bis accettando la promessa di sostegno elettorale da persone sottoposte a procedimento di prevenzione o a procedimento penale per il delitto di associazione mafiosa in cambio della somministrazione di denaro o della promessa di agevolare l’acquisizione di concessioni, autorizzazioni, appalti, contributi, finanziamenti pubblici o, comunque, la realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti ». (13) Usa questo aggettivo VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 278, in nota, sottolineando come diametralmente opposta fosse l’opinione dell’on. Palermo, della Rete, per il quale proprio la mancata previsione di tali ipotesi nell’art. 416-ter, avrebbe comportato una maggiore espansione applicativa dell’art. 416-bis da parte dei giudici che avessero voluto attaccare determinati politici. (14) Tali preoccupazioni, sollevate dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia on. Martelli, vennero recepite dall’assemblea della Camera che approvò a larga maggioranza solo la prima parte dell’emendamento, fino alle parole « ... somministrazione di denaro ». (15) Di un impatto simbolico inversamente proporzionale alla efficacia repressiva dei nuovi articoli parla, in particolare, FIANDACA, Riflessi penalistici, cit., c. 141. (16) Si tratta, come già accennato, delle fattispecie disciplinate dagli artt. 96 e 97 del d.P.R. n. 361/1957 sulle elezioni della Camera dei deputati, nonché dei corrispondenti artt. 86 e 87 del d.P.R. n. 570/1960 sulle elezioni amministrative.
— 881 — trui vantaggio... il voto elettorale... offre, promette o somministra denaro... ad uno o più elettori o, per accordo con essi, ad altre persone... ». Il disposto dell’art. 416-ter punisce, invece, « chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo art. 416-bis in cambio dell’erogazione di denaro ». Contro la tesi della completa coincidenza delle due norme (17) milita, in realtà, più di un elemento. Nella preesistente disposizione normativa il soggetto agente mira, attraverso l’offerta, la promessa o la somministrazione di denaro, ad estorcere il voto del singolo o dei diversi elettori cui si rivolge. Tale obiettivo dell’autore del reato vale pure nei casi, previsti dalla stessa norma, in cui l’utilità promessa venga indirizzata, per accordo con chi promette il voto, ad altre persone. La condotta che viene punita dall’art. 96 è, dunque, la compravendita del singolo o dei singoli voti elettorali. Nella previsione dell’art. 416-ter il contratto illecito, stipulato dai contraenti, diventa più complesso già a partire dai soggetti attivi del reato. Posto che in entrambe le disposizioni richiamate uno di questi è l’esponente del potere politico (o chi per lui), muta in questo caso il referente: non più un elettore qualsiasi, così come accade nell’ipotesi di corruzione elettorale, bensì l’associazione mafiosa (18). Nonostante la formula della disposizione sia in merito poco chiara, è ugualmente possibile giungere al suddetto risultato ermeneutico indirettamente. A riprova di ciò valgono, tra l’altro, la collocazione sistematica dell’art. 416-ter, la sua rubrica e, soprattutto, il rinvio all’articolo precedente, tanto per la individuazione dei limiti edittali di pena, quanto per la determinazione del corrispettivo dell’erogazione di denaro (19). Più precisamente, proprio in quanto la condotta incriminata consiste in uno scambio, le parti attive del reato de quo sono due: da un lato l’esponente del potere politico, la cui condotta risulta delineata interamente dall’art. 416-ter, laddove si fa riferimento all’ottenimento della promessa di voti in cambio dell’erogazione di denaro; dall’altro l’associazione criminale, la cui attività censurata è in questo caso delineata dal combinato disposto fra la stessa norma e l’articolo precedente, così come attualmente modificato. L’art. 416-ter, fa riferimento in merito alla « promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo art. 416-bis », donde la plausibilità della ipotesi che ad assumerla sia proprio l’associazione mafiosa (20). (17) Si esprime in questi termini ad es. FORLENZA, I nuovi reati elettorali, cit., p. 535. (18) Contra FORLENZA, op. ult. cit., p. 535, per il quale il reato di cui all’art. 416-ter si configurerebbe tra soggetti operanti uti singuli; « il delitto de quo — scrive l’A. — può essere commesso da chiunque (non solo dai candidati, non solo dai mafiosi) ». (19) In questo senso anche DE FRANCESCO, Gli artt. 416-bis, cit., p. 73; GARGANI, Commento all’art. 416-ter, in PADOVANI (a cura di), Codice penale, 1997, p. 1588. (20) Il rinvio all’art. 416-bis, in altri termini, vale ad attribuire la promessa di voti a
— 882 — La differenza con la disciplina del voto di scambio emerge anche guardando alla condotta. Occorre al riguardo chiarire se ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 416-ter l’erogazione di denaro deve risultare già effettuata al momento della ricezione della promessa dei voti. Ebbene, a differenza della previsione dell’art. 96 del d.P.R. n. 361/1957 in cui il riferimento alla « offerta, promessa o somministrazione di denaro » manifesta chiaramente l’intenzione del legislatore di punire sia la dazione contestuale all’ottenimento della promessa, sia quella futura di denaro, il termine ‘‘erogare’’ non è contenutisticamente altrettanto univoco. Una prima lettura della disposizione sembrerebbe indurre, in realtà, verso la soluzione più restrittiva, facente leva sulla concreta dazione di denaro. Sennonché, secondo un orientamento, s’imporrebbe in contrario una considerazione ricavabile dai lavori preparatori. Un emendamento precedente alla formulazione della norma definitivamente approvata, riportava il verbo ‘‘somministrare’’. Prima della votazione finale, tuttavia, esso venne sostituito col termine ‘‘erogare’’, l’impiego del quale potrebbe, allora, palesare la voluntas legis di ricomprendere tra le condotte penalmente rilevanti pure la dazione non effettiva di denaro (21). Anche la prestazione dell’esponente del potere politico, in buona sostanza, potrebbe limitarsi ad una promessa: l’erogazione futura di denaro in cambio dei voti ottenuti dalla controparte. Sotto quest’aspetto, peraltro, si rimuoverebbero i problemi di accertamento processuale che la necessità di un effettivo riscontro del denaro per la consumazione del reato comporterebbe. L’argomento esegetico richiamato non appare però decisivo, poiché il termine ‘‘erogare’’, nel senso comune, equivale sostanzialmente a quello di ‘‘somministrare’’. Non sussistendo attualmente parametri giurisprudenziali di riferimento (22), sarà significativo considerare l’applicazione futura della norma in questione anche sul punto. Ancora meno determinata risulta la condotta della controparte dell’esponente del potere politico. L’art. 416-ter c.p. allude, come già visto, ad « coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione », che è di tipo mafioso se gli stessi « si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva », fra le altre cose, anche « al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali ». È bene, tuttavia, rilevare come per l’operatività dell’art. 416-ter sia sufficiente un accertamento di fatto di appartenenza alla mafia; sul punto cfr. VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 295 ss. (21) In questo senso VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 298. (22) Per una pronuncia giurisprudenziale sull’art. 416-ter, resa però in un procedimento de libertate, vedi l’ordinanza del Tribunale di Palermo del 2 giugno 1997, in Foro it., 1998, II, c. 125 ss. Questa tuttavia non affronta lo specifico problema, trattando di una ipotesi di effettiva erogazione di denaro.
— 883 — una « promessa di voti di cui al terzo comma dell’art. 416-bis », ma andando poi a leggere la norma cui si rinvia non si trova accenno ad alcuna promessa. La condotta ivi descritta è, infatti, quella di « impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali ». Una formulazione più precisa della fattispecie incriminatrice, pertanto, avrebbe potuto richiedere, in cambio dell’erogazione del denaro, ‘‘la promessa di procurare voti da parte dei soggetti di cui all’art. 416bis » (23). Se, invece, una promessa si volesse riscontrare nell’attuale formulazione dell’art. 416-bis, occorrerebbe ricorrere ad un elemento di carattere sistematico. Una promessa, cioè, si potrebbe rinvenire nell’attività sottesa al « procurare voti... ad altri in occasione di consultazioni elettorali », cui la norma farebbe implicito riferimento. Agire a questo fine, in pratica, presuppone, da parte degli esponenti dell’associazione mafiosa, un preventivo accordo (e quindi una promessa) con quanti ne richiedono i voti. Così ragionando, nel termine generico ‘‘altri’’, contenuto nel terzo comma dell’art. 416-bis, andrebbe ricompreso anche il soggetto attivo del reato punito nell’articolo successivo, qualora abbia ottenuto la promessa di voti verso l’erogazione di denaro. L’attribuzione anche a costui della medesima pena prevista dall’art. 416-bis, costituisce riprova ulteriore della necessità di individuare il referente del potere politico direttamente nell’associazione mafiosa (24), oltre a significare, naturalmente, che le condotte di entrambe le parti dell’accordo illecito (25) hanno il medesimo disvalore penale. Le modifiche apportate dal d.l. n. 306/1992, in altre parole, vanno interpretate in stretta correlazione reciproca, sì da poterne cogliere appieno significato e portata applicativa. L’autonomia del reato di scambio elettorale politico-mafioso dalla fattispecie di cui agli artt. 96 e 97 del T.U. su citato, emerge, in definitiva, proprio per la qualità rivestita dalla controparte del potere politico. Il ricorso all’associazione criminale, anziché ad un singolo potenziale elettore, garantisce all’esponente politico un’alta probabilità di esito positivo del ri(23) In un ottica parzialmente differente, in quanto contraria alla natura associativa della fattispecie, VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 295, auspica, in una prospettiva de iure condendo, che la disposizione normativa venga modificata in tal modo: « ... chiunque ottiene la promessa del procacciamento di voti da soggetti che si avvalgono dei modi previsti nel terzo comma dell’art. 416-bis... ». Il rinvio alla norma sull’associazione mafiosa servirebbe, in questo modo, ad esigere che la controparte del potere politico si avvalga dei metodi mafiosi, senza che ciò comporti la necessità che la stessa sia effettivamente un’associazione mafiosa. (24) Così anche GARGANI, Commento all’art. 416-ter, cit., p. 1588; DE FRANCESCO, Commento agli artt. 11-bis, cit., p. 134; ID., Gli artt. 416-bis, cit., p. 73 s. (25) Riconduce l’art. 416-ter alla categoria dei ‘‘reati contratto’’, VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 299. Su tali reati vedi amplius LEONCINI, I rapporti tra contratto, reati-contratto e reati in contratto, IN Riv. it. dir. proc. pen., 1990, p. 997 ss.
— 884 — sultato elettorale. L’associazione, infatti, a differenza del singolo elettore che promette il suo voto nell’art. 96, dispone di una organizzazione stabile (26), oltre che di metodi intimidatori, sicuramente determinanti nel raggiungimento del risultato sperato dal candidato. È allora logico dedurre che, proprio alla luce di queste determinanti, il soggetto agente della fattispecie di cui all’art. 416-ter decida di rivolgersi all’organizzazione criminale anziché di corrompere il singolo o i singoli elettori. Lo guiderebbe nella scelta non tanto la volontà di pretenderne i voti degli esponenti, quanto quella di farne fonte procuratrice di voti altrui (27). Rimanendo legati ad una terminologia prettamente civilistica, e che pertanto vuole essere qui solo indicativa, mentre nell’ipotesi di voto di scambio è punita la compravendita del singolo voto, nel caso di cui all’art. 416-ter ad essere incriminato è, invece, un contratto d’opera. L’associazione mafiosa, in effetti, promette, verso un corrispettivo, un servizio: il procacciamento di voti attraverso i metodi che la caratterizzano. Il richiamo all’art. 416-bis allora non vale, come pure è stato detto (28), a ritenere che sia l’esponente del potere politico ad avvalersi dei metodi intimidatori tipici dell’associazione mafiosa per ottenere la promessa di voti, (26) Sulla necessità di inserire l’organizzazione fra gli elementi strutturali dell’associazione mafiosa, anche nel silenzio della norma, insiste la dottrina maggioritaria, vedi, DE FRANCESCO, Associazione per delinquere, cit., p. 289 ss.; ID., Societas sceleris, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 107 s.; GROSSO, Le fattispecie associative: problemi dommatici e di politica criminale, in AA.VV., Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, a cura di Moccia, 1999, p. 135 ss. In un’ottica de jure condendo, l’opportunità di inserire espressamente nella norma che le associazioni abbiano una struttura organizzativa oltre che ‘‘stabile’’ anche ‘‘adeguata’’ a realizzare il programma criminoso (adeguatezza però come limite negativo) viene espressa anche da SPAGNOLO, Reati associativi, prospettive di riforma, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 269; conf. MARINUCCI, Relazione di sintesi, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 293 s., lamentandosi per la posizione assunta dalla giurisprudenza a riguardo. Ritenendo sufficiente ‘‘un’organizzazione anche rudimentale’’, la giurisprudenza, infatti, nega di fatto il requisito della organizzazione, finendo per equiparare l’associazione criminosa al semplice ‘‘accordo’’ e per applicare, in definitiva, la tanto criticata norma di common law sulla conspiracy. Per colmare questo deficit di precisione legislativa l’A. suggerisce oltre il modello della recente legislazione svizzera anche quello incarnato dalla norma di un recente progetto di un nucleo di legislazione europea sotto la direzione di M. DELMAS, il Corpus juris introducing penal provisions for the purpose of the financial interests of the European Union, che è, appunto, imperneata sull’idea di organizzazione. Sulla problematica generale dell’organizzazione v. ALEO, Sistema penale, cit., p. 13 ss. (27) La congruità di interpretare la ‘‘promessa di voti’’, di cui all’art. 416-ter, più nel senso di promessa di far votare, anziché di votare, è evidenziata, tra gli altri, da DE FRANCESCO, Mafia e criminalità organizzata, in Giurisprudenza sistematica, I, p. 75; INGROIA, L’associazione, cit., p. 87; VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 302, per il quale, in particolare, nell’art. 96 si richiede un rapporto diretto tra chi vuole ottenere il voto e il singolo elettore che lo promette, mentre nell’art. 416-ter la promessa di voti va al di là del singolo e personale voto dell’elettore corrotto. (28) Così BOVIO-SINISCALCHI, Lo Stato mostra i muscoli e inasprisce le pene, in Sole24 Ore - Guida normativa, 11 agosto 1992, p. 57.
— 885 — bensì ad individuare il referente dell’accordo sinallagmatico di cui al 416ter nell’organizzazione criminale. Del resto le modalità dell’organizzazione mafiosa non sembrano compatibili con il carattere sinallagmatico dell’accordo: scambio di voti-denaro. La libera manifestazione del diritto di voto è difatti violata non con l’intimidazione dell’uomo politico, bensì con un atto di corruzione. Sarà, semmai, l’associazione ad avvalersi delle proprie caratteristiche strutturali e metodiche al fine di procurare i voti. L’autonomia dall’ipotesi di corruzione elettorale è, infine, comprovata dalla elevazione della pena prevista dall’art. 96 del T.U. n. 361/1957 apportata dallo stesso provvedimento che ha introdotto il delitto di scambio elettorale politico-mafioso. Così operando, il legislatore del 1992 ha presumibilmente inteso dirimere ogni possibile equivoco in merito; evidenziando che la normativa precedente rimane in vigore, per di più con un aggravamento dei limiti edittali, è conseguenziale, per il principio di conservazione del diritto, la necessità di differenziarla dalla nuova (29). La ratio perseguita dal legislatore è, allora, quella di colpire, più gravemente di quanto consentano le fattispecie preesistenti, il mercato di voti con le organizzazioni mafiose, tenuto conto delle peculiari ripercussioni che il connubio mafia-politica potenzialmente comporta. Dopo aver dirimesso i dubbi sulla possibilità che fra i fini perseguiti dall’associazione mafiosa possa esservi anche quello di « impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali », si è voluto sottolineare che pari disvalore penale è rinvenibile nella condotta di chi possa trarre giovamento da quest’attività. I fenomeni repressi dalle due norme sono, dunque, di natura diversa: la situazione prevista dal T.U. n. 361/1957 è espressione di rapporti riconducibili al clientelismo politico, già denunciato negli anni cinquanta; mentre la nuova ipotesi dell’art. 416-ter è manifestazione di meccanismi più complessi e pericolosi di procacciamento di voti, affermatisi più di recente (30). 2.1. (Segue): soluzione di un concorso apparente. — Alla luce delle precedenti puntualizzazioni è legittimo ritenere che la vecchia ipotesi di corruzione elettorale e quella più recente di scambio elettorale politicomafioso siano formalmente diverse. Ciononostante non sembra configurabile un concorso formale di reati, bensì un concorso apparente di norme (31), anche se per risolverlo (29) In questa prospettiva vedi anche DE FRANCESCO, Commento agli artt. 11-bis, cit., p. 132; SPAGNOLO, L’associazione, cit. p. 145. (30) Cfr. sul punto anche VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 302 s. (31) Conforme VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 304. In senso opposto, indivi-
— 886 — non è possibile ricorrere al criterio logico-formale di specialità (32). Le due situazioni, per i motivi già esposti, non sono riconducibili ad una medesima situazione di fatto (33). Per risolvere il conflitto diventa allora necessario utilizzare criteri di tipo normativo-sociale, ben espressi nel principio di consunzione (34). Solo in base ad una simile valutazione, che prescinde dall’analisi formale delle norme per trascendere in giudizi di valore, il reato di cui all’art. 96 risulta già assorbito nel fatto previsto dall’art. 416-ter. Si tratta, in effetti, di azioni criminose, ancorché formalmente diverse, espressive di un disvalore penale omogeneo. Premesso, dunque, che nel caso in cui un affiliato prometta al politico il singolo voto in cambio di denaro si rimane nell’ambito di operatività dell’art. 96, quando, invece, oltre al proprio voto egli prometta il procacciamento di voti altrui, avvalendosi dei metodi tipici dell’associazione di cui fa parte, si applicherà solo il più grave reato di cui all’art. 416ter (35). 3. Il momento consumativo del delitto di scambio elettorale politico-mafioso. — Si è detto come, nonostante le incertezze sollevabili, sia presumibile, per la integrazione del delitto di cui all’art. 416-ter, che l’erogazione di denaro debba essere effettiva, mentre risulta chiaramente dal disposto normativo che i voti in cambio siano solo promessi. Il reato de duando un concorso reale fra l’art. 416-ter e l’art. 96 del T.U. n. 361/1957, ALBAMONTE, Le modifiche apportate, cit., p. 3169. (32) Così, invece, VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 303, il quale parla di specialità reciproca bilaterale per specificazione « per modo tale che ad un elemento ulteriore di una norma corrisponde l’omologo elemento specifico nell’altra e viceversa ». Contro questo modo di vedere valgono le stesse critiche riservabili alla plausibilità stessa di una forma di specialità reciproca. Risulta, infatti difficile per questa via ricavare, di volta in volta, quale norma applicare al caso concreto. La individuazione di una specialità reciproca fra due norme, inoltre, è segno tangibile che questa non ha più ragion d’essere. Per le critiche a questo modo d’intendere il rapporto di specialità vedi FROSALI, Concorso di norme e concorso di reati, 1937, p. 290; PAGLIARO, Relazioni logiche ed apprezzamenti di valore nel concorso di norme penali, in Ind. pen., 1976, p. 217; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p.te gen., 1995, p. 507; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 1995, Art. 15/15. (33) Il concetto di ‘‘stessa materia’’, contenuto nella definizione del principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., è individuato in ‘‘una medesima situazione di fatto’’ tra fattispecie astratte da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p.te gen., cit., p. 618. (34) Su tale principio vedi per tutti ROMANO, Commentario sistematico, cit., Art. 15/32 ss. (35) VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 305 reputa la previsione di cui al secondo comma dell’art. 96 un’autonoma disposizione incriminatrice. Nel caso in cui « il procacciatore mafioso — scrive l’A. — abbia non solo promesso voti altrui (e quindi sia applicabile l’art. 416-ter al politico o a chi ha negoziato per lui), ma anche il proprio, egli sarà incriminabile ai sensi del secondo comma dell’art. 96, T.U. n. 361/1957 ».
— 887 — quo, di conseguenza, si consuma nel momento in cui alla dazione del denaro corrisponda la promessa dei voti. L’apporto concreto dei voti da parte degli esponenti dell’organizzazione criminale, costituisce invece soltanto un ‘‘postfatto’’ rispetto alla situazione prevista dalla norma. In particolare, il concreto attivarsi con metodi intimidatori e violenti al procacciamento di voti da parte dell’associazione mafiosa è ora reatoscopo del delitto di cui all’art. 416-bis. Non deve pertanto confondersi con questo l’attività punita dalla norma successiva che è logicamente e temporalmente anticipata al momento del relativo accordo (36). Se così è, tuttavia, va evidenziata un’incongruenza del legislatore del 1992 per non aver esplicitamente previsto, nell’autonomo reato di cui all’art. 416-ter, la punizione per l’associato promittente (37). Il reato di scambio elettorale politico-mafioso mira, dunque, a colpire i risultati deplorevoli che potrebbero scaturire da un connubio mafia-politica incidendo nella fase preventiva in cui lo stesso si salda. Senza dover attendere la realizzazione di eventuali affari illeciti successivi, si punisce l’intesa originaria che altro non è se non la prima di tali operazioni. 4. I rapporti col delitto di associazione mafiosa. — Precisata l’autonomia formale del reato di scambio elettorale politico-mafioso dall’ipotesi di voto di scambio, importa osservarne il rapporto col delitto di associazione mafiosa. L’esplicitazione operata nel 1992 che fra i delitti-scopo di quest’ultima possa esservi anche quello di « impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali » può essere letta come un incentivo per la giurisprudenza restia alla criminalizzazione dei rapporti mafia-politica (38). Per quanto (36)
Così anche ZANOTTI, voce Reato plurisoggettivo, in Dig. disc. pen., 1996, XI, p.
335. (37) Più preciso, invece, l’art. 96 del d.P.R. n. 361/1957 che prevede al secondo comma « La stessa pena si applica all’elettore che, per apporre la firma ad una dichiarazione di presentazione di candidatura, o per dare o negare il voto elettorale o per astenersi dal firmare una dichiarazione di presentazione di candidatura o dal votare, ha accettato offerte o promesse o ha ricevuto denaro o altre utilità ». Sul problema della punibilità del ‘‘promittente’’ di cui all’art. 416-ter attraverso il ricorso all’art. 110 c.p., vedi ancora VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 297 ss., il quale segue l’orientamento della dottrina tradizionale, negante l’operatività delle norme sul concorso eventuale ai reati plurisoggettivi; ZANOTTI, voce Reato plurisoggettivo, cit., p. 334 s., per il quale, invece, il legislatore del 1992 « ha ritenuto assorbito nella fattispecie di partecipazione all’associazione (art. 416-bis) il ruolo di concorrente necessario svolto dallo stesso soggetto nel quadro del reato di scambio elettorale ». L’art. 416-ter, più in particolare, menzionerebbe la punibilità del solo soggetto ‘‘contiguo’’ e non anche quella del soggetto ‘‘intraneo’’ all’associazione, già contemplata dall’art. 416-bis, non volendo confondere concettualmente le due condotte. (38) In questo senso anche FIANDACA, Riflessi penalistici, cit., c. 138, per il quale
— 888 — plausibile non è, infatti, per nulla assodato che tale circostanza potesse già essere ricondotta ai « profitti ingiusti », costituenti la pregressa formula di chiusura del terzo comma dell’art. 416-bis (39). Sotto quest’aspetto la modifica legislativa è encomiabile. Ben vengano, cioè, nel rispetto del principio di tassatività, le esplicite tipizzazioni di condotte criminose allorquando, in mancanza, siano riconducibili solo forzosamente ad altre già formalizzate. Nell’ambito dei legami individuabili tra potere politico e mafia occorre, in realtà, operare chiarificazioni e delimitazioni. 4.1. (Segue): la determinazione della condotta di partecipazione all’associazione mafiosa. — Sono direttamente riconducibili nell’ambito di operatività dell’art. 416-bis e non nel nuovo art. 416-ter, sia il caso in cui l’esponente del potere politico è già formalmente membro dell’organizzazione criminale, sia l’ipotesi in cui egli lo sia soltanto di fatto. Foriero di interpretazioni diverse (40), il concetto di partecipazione all’associazione mafiosa è preferibilmente individuabile ‘‘nell’assunzione di un ruolo obiettivo in seno all’organizzazione’’ (41), indipendentemente dall’affilial’intervento del legislatore del 1992 è finalizzato proprio a combattere l’« eccesso di self restraint giudiziale » davanti ai casi di « alta mafia » o di « mafia in guanti gialli ». (39) Così, invece, INGROIA, L’associazione, cit., p. 84 ss. A conferma della portata innovatrice della modifica sul punto, vedi TAORMINA, Principio di legalità e condizionamento mafioso delle consultazioni elettorali, in Giust. pen., 1992, p. 394, il quale in un commento di una sentenza precedente alla riforma, manifestava le sue perplessità a ricomprendere nel fine dei profitti ingiusti anche il condizionamento mafioso nelle operazioni di voto, e concludeva auspicando proprio la formulazione di una specifica fattispecie o, in alternativa, una opportuna integrazione dell’art. 416-bis. (40) Sottolinea, giustamente, VISCONTI, Il reato di scambio, cit., p. 282 s., come la difficoltà di una univoca interpretazione nasca dalla scelta legislativa di concentrare la « tipizzazione del reato associativo sulla descrizione della dimensione collettiva dell’associazione mafiosa affidando per converso l’elaborazione dei modelli delle singole condotte delittuose alla prassi giurisprudenziale e alle speculazioni ermeneutiche ». (41) Anche se con diverse articolazioni, individuano la condotta partecipativa in presenza della sola ‘‘assunzione di un ruolo’’ in seno all’organizzazione (per alcuni anche generico, per altri arricchito dalla circostanza del riconoscimento di tale qualità da parte dell’associazione stessa), ad es. INGROIA, L’associazione, cit., p. 40 ss.; SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 85 ss.; MUSCATIELLO, Il concorso, cit., 141; TURONE, Il delitto di associazione, cit., p. 301; DE FRANCESCO, Paradigmi generali e concrete scelte repressive nella risposta penale alle forme di cooperazione in attività mafiosa, in Cass. pen., 1996, p. 3503; DE LIGUORI, Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, 1996, p. 65. Un indirizzo minoritario, diversamente, fonda l’elemento di specificità della condotta di partecipazione nella mera adesione psicologica all’ente, contravvenendo così al principio di materialità del diritto penale, in tal senso ad es. CONTENTO, Il Concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi, contributo alla ricerca per il CNPDS e il CNR, dattiloscritto, 1983, p. 8 ss. Secondo un terzo orientamento, infine, la partecipazione richiederebbe, oltre all’elemento psicologico di adesione all’organizzazione, specifiche attività materiali finalizzate alla sopravvivenza dell’associazione ed al perseguimento dei suoi fini. In questo senso FIANDACA-
— 889 — zione formale (42). Avvalersi pedissequamente di questa in uno stabile rapporto di reciproci favori, anche senza una consacrazione rituale, è cioè direttamente espressione di una partecipazione interna al sodalizio mafioso. Le regole giuridiche della rilevanza penale dei comportamenti, del resto, non devono essere asservite a quelle socio-criminali, pena il ribaltamento del principio di autonomia del diritto penale. Ciò posto, l’atteggiamento dell’uomo politico che magari si professa ‘‘estraneo’’ all’organizzazione criminale, ma che di fatto instaura un legame stabile con essa, sì da divenirne punto di riferimento per la relazione di reciproci affari, è penalmente rilevante già ai sensi dell’art. 416-bis. Nella individuazione della partecipazione interna all’associazione mafiosa non è neppure necessaria la riprova della indispensabilità dell’intervento del soggetto agente ai fini dell’esistenza della stessa (43). Stando alla lettera dell’art. 416-bis, difatti, la tipizzazione della partecipazione non solo ruota attorno all’assunzione di un ruolo all’interno dell’organizzazione criminale, ma si esaurisce in essa (44). La condotta di partecipazione si connota, innanzitutto, per un particolare atteggiamento mentale, consistente nell’adesione e condivisione incondizionata e totale dei fini e delle metodiche dell’associazione. Ma ‘‘l’assunzione di un ruolo’’ è anche e primariamente militanza obiettiva: inserimento nel sodalizio, qualificato da una collaborazione, anche solo potenzialmente, duratura e reciproca per la realizzazione del programma criminoso. Se, dunque, in nome di una ricercata materialità ed offensività delle condotte punibili, c’è chi richiede per tale configurazione un quid pluris, MUSCO, Diritto penale, p.te sp., cit., p. 28; FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro it., II, 1991, c. 472 ss.; IACOVIELLO, Il concorso, cit., p. 861; in giurisprudenza vedi Cass., 21 marzo 1988, in Cass. pen., 1991, p. 223; Cass., 25 febbraio 1991, ivi, 1992, p. 2725. Così facendo, tuttavia, si corre il rischio di confondere il disvalore dell’organizzazione criminosa con quello dell’attività svolta consistente nel perseguimento degli scopi. In altri termini, non si riesce a spiegare la differenza tra l’attività concreta ‘‘dell’associazione’’ e quella ‘‘di associazione’’ che, contrariamente alla prima, ha carattere permanente. Di conseguenza, potrebbe considerarsi partecipe non solo il concorrente meramente eventuale al reato associativo, bensì anche quello nel singolo delittoscopo. (42) Contra, richiedendo una formale affiliazione alla mafia con apposito rito, invece, Cass., 30 gennaio 1992, in Foro it., 1993, II, c. 15; Cass., 18 novembre 1996, in Mass. pen., 1997, p. 417. (43) Così, invece, per coloro che seguono il terzo orientamento richiamato nella nota n. 41. (44) Anche se diversamente, fanno leva sull’espressione ‘‘far parte’’ contenuta nell’art. 416-bis, per esigere che la condotta partecipativa richieda solo la presenza dell’‘‘assunzione di un ruolo’’ in seno all’organizzazione, ad es. CONTENTO, Il concorso, cit., p. 1 ss.; INGROIA, L’associazione, cit., p. 40 ss.; SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 85 ss.; MUSCATIELLO, Il concorso, cit., 141; TURONE, Il delitto di associazione, cit., p. 301; DE FRANCESCO, Paradigmi generali, cit., p. 3503; DE LIGUORI, Concorso e contiguità, cit., p. 65.
— 890 — consistente in un contributo effettivo alla conservazione o al rafforzamento, se non addirittura al mantenimento in vita, dell’organismo collettivo, è bene ricordare come l’adesione concreta (oltre che psicologica) allo stesso è di per sé un dato sufficientemente oggettivo (45). Occorre cioè distinguere l’essenza dell’associazione dalla sua operatività. Richiedere, dunque, un contributo alla conservazione ed al rafforzamento dell’associazione sembra esatto solo se con ciò s’intenda una qualunque condotta manifestante l’adesione al sodalizio criminale, mentre non lo sarebbe più qualora si volesse esigere la realizzazione di almeno uno degli illeciti programmati. Seguendo la soluzione qui criticata, del resto, si corre il rischio di confondere il piano del perfezionamento del reato associativo con quello avulso della realizzazione di uno dei reati inerenti al programma criminoso. Per questa via è possibile ottenere una migliore graduazione della pena a seconda del ruolo effettivamente assunto dai membri dell’organizzazione criminale. Il partecipe che rimanga tale soltanto potenzialmente, essendosi messo a disposizione del sodalizio ma non avendo ancora realizzato nessuno dei delitti-scopo, sarebbe punito con la sola sanzione prevista dal primo comma dell’art. 416-bis. Non così, invece, per colui che abbia dato esecuzione al piano criminoso, il quale dovrebbe essere incriminato anche dei singoli delitti-scopo. Il reato di associazione è già perfezionato prima ed indipendentemente dalla commissione dei reati fine (46), nel momento in cui l’organizzazione criminale viene in esistenza, perché è allora che sorge il pericolo per l’ordine pubblico (47). Le caratteristiche di pericolosità del fenomeno associativo sono tra l’altro del tutto peculiari rispetto a quelle scaturenti dai reati monosoggettivi (48). Va da sé che l’attività materiale del parte(45) Un atteggiamento di adesione potrà ad es. riscontrarsi già nella partecipazione alle riunioni dell’organizzazione in cui se ne determinano le modalità d’azione, anziché doverne attendere la realizzazione. Occorre, infatti, tenere distinti il momento dell’essenza dell’associazione da quello dell’esecuzione del suo programma criminoso. (46) A favore di questa interpretazione, convergono, del resto, anche le allocuzioni « per ciò solo » o « per il solo fatto », ricorrenti nella disposizione normativa del reato in questione. Per i riflessi legati alle clausole suddette vedi GARGANI, Commento agli artt. 416 e 416-bis, cit., p. 1572 s. (47) Per una ricostruzione del reato di associazione per delinquere quale reato di danno vedi, tuttavia, PATALANO, L’associazione per delinquere, Napoli, 1971. Nel senso del testo, invece, PALAZZO, Associazioni illecite ed illeciti delle associazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, p. 423 ss.; PALERMO FABRIS, Il delitto di associazione e sue problematiche costituzionali, in Giust. pen., 1980, II, p. 374 ss.; NEPPI MODONA, Criminalità organizzata e reati associativi, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, 1987, p. 117 ss.; DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, 1988, p. 107 ss.; DE FRANCESCO, Associazione per delinquere, cit., p. 309 ss.; FIANDACA MUSCO, Diritto penale, p.te sp., cit., p. 472. (48) Scrive FIANDACA, Associazioni per delinquere « qualificate », in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 67, che « la peculiare pericolosità dell’associazione rispetto agli interessi
— 891 — cipe deve essere valutata in quello stesso momento, rappresentando l’‘‘adesione obiettiva’’ all’organizzazione criminosa un elemento di pericolosità in più della stessa. Viceversa, se in concreto si compiano i singoli reati-fine, non per questo i partecipi all’associazione ne risponderebbero automaticamente in concorso. Per quanto ancora dibattuto, quest’ultimo aspetto è, difatti, prevalentemente risolto nel senso ora esposto (49), sul rilievo che non vanno confusi gli ‘‘atti di essenza’’ dell’associazione con l’‘‘attività esecutiva’’ dei vari delitti. I primi sono al massimo, ma non necessariamente (50), atti preparatori dei secondi, ed è solo in relazione a tali atti di essenza, allora, che va individuata la dimensione oggettiva e soggettiva della condotta partecipativa. Ciò posto, il politico che allacci un collegamento diretto con l’organizzazione criminale, assumendo al suo interno un ruolo ed una funzione determinata, ne diventa concretamente membro, anche prima e indipendentemente dall’esecuzione materiale di un contributo decisivo addirittura finali protetti deriva dal fatto che l’associazione rappresenta un potenziale criminoso stabile, capace di infliggere offese ripetute in forma seriale a un insieme indefinito di esemplari del medesimo bene: in questo senso, la pericolosità di una ‘‘industria’’ del crimine è molto più ad ampio raggio della pericolosità di uno dei singoli atti criminosi che ne concretizzano l’attività ». (49) Sull’argomento, con diversità nelle conclusioni, cfr. GALLO, Concorso di persone nel reato e reati associativi (rapporti fra la partecipazione alla condotta criminosa e il concorso nei reati oggetto del programma), in Rass. giust. pen. milit., 1983; CONTENTO, Corso di diritto penale, II, 1996, p. 499 ss.; BRONZINI, Concorso morale e reati associativi, in AA.VV., Il delitto politico dalla fine dell’ottocento ai giorni nostri, 1984, p. 331; DE FRANCESCO, Riflessioni sulla struttura della banda armata nei suoi rapporti con gli altri reati politici di associazione e sui limiti alla responsabilità dei componenti la banda per la commissione dei delitti-scopo, in Cass. pen., 1986, p. 710; GAMBERINI, Responsabilità per reato associativo e concorso nei reati fine, in Foro it., 1986, II, c. 150; DE MAGLIE, Teoria e prassi nei rapporti tra reati associativi e concorso di persone nei reati-fine, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 924; PADOVANI, Il concorso dell’associato nei delitti-scopo, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 89 ss. Per alcuni esempi di sentenze che, soprattutto in passato, individuavano in questi casi una sorta di responsabilità di posizione nei capi, vedi Ass. Roma 24 gennaio 1983, in Foro it., 1983, II, p. 187; addirittura anche in caso di dissenso rispetto al reato realizzato, Ass. Genova, 26 febbraio 1983, ivi, 1983, II, p. 187. Per l’orientamento contrario, oggi prevalente, vedi, invece, Cass., 14 febbraio 1986, in Foro it., 1986, II, c. 150; Cass., sez. un., 22 febbraio 1993, in Cass. pen., 1993, p. 1939; Cass., 11 marzo 1993, ivi, 1994, p. 1497; Cass., 13 ottobre 1998, in Guida al diritto, n. 4, 1999 p. 110; Cass., 23 ottobre 1998, ivi, n. 2, 1999, p. 133. (50) In una visione particolarmente lucida, DE FRANCESCO, Societas sceleris, cit., p. 105 ss., insiste sulla riduttività di identificare la fase dell’associazione anteriore alla concreta attuazione del programma criminoso tout court con una attività meramente preparatoria dei delitti-scopo, « ... il requisito fondamentale dell’‘‘organizzazione’’ che deve caratterizzarne la struttura », precisa l’A., « sottintende, infatti, l’esistenza di un disvalore penale autonomo e distinto rispetto a quello ricollegabile alle fattispecie di tali delitti, e che spiega le ragioni per le quali essa meriti tuttora di essere incriminata in maniera del tutto indipendente dalle singole fasi di attuazione del progetto criminoso concordato ».
— 892 — per l’esistenza dell’ente. Vanno tenuti distinti l’aspetto della costruzione dogmatica della fattispecie con quello penal-processuale attinente alla prova della sua consumazione. A rigor di logica, dunque, nel quadro delle recenti tendenze interpretative, volte ad una rilettura costituzionalmente orientata dei reati di pericolo astratto (51), cui l’art. 416-bis è formalmente riconducibile, può pure apparire legittimo interpretativamente per la configurazione della partecipazione all’associazione mafiosa richiedere un contributo effettivo, idoneo cioè a mettere in pericolo il bene tutelato. Ma ad una più attenta analisi ci si accorge che è già tale l’avvenuto inserimento nell’organizzazione attraverso l’assunzione di un ruolo che potenzi la pericolosità della struttura. È chiaro, tuttavia, che la valutazione della relativa pericolosità della condotta non dovrà avere come punto di riferimento la stessa, singolarmente considerata, bensì la sua incidenza nel contesto associativo globalmente considerato (52). Il segno tangibile dell’avvenuto inserimento sarà, a sua volta, oggettivamente rintracciabile nella manifestazione di un impegno stabile e funzionale rispetto alla struttura ed all’attività dell’associazione. Meno convincente appare, invece, per la qualificazione del soggetto come ‘‘parte’’ dell’associazione, il riferimento alla sua accettazione da parte dell’organizzazione criminale (53). Per questa via si corre il rischio di subordinare le regole della rilevanza giuridica a quelle interne alla stessa organizzazione criminosa (54). Né tale impegno dovrà rivelarsi addirittura decisivo per il mantenimento in vita dell’associazione, ben potendo servire, più semplicemente, ad un suo rafforzamento. 4.2. (Segue): il concorso eventuale nell’associazione mafiosa. — Situazione ancora diversa è quella in cui il legame tra il politico e l’organizzazione mafiosa non abbia radici stabili, sì che i membri non possano farvi affidamento, né il primo agisca condividendo metodi e fini della seconda. L’esiguità qualitativa oltre che quantitativa dello spessore del rapporto, in altre parole, è tale da dover escludere l’assunzione, anche per facta concludentia, di un ruolo dell’uomo politico all’interno dell’associazione criminale. Ciononostante, l’apporto del primo può rivelarsi per la seconda causalmente determinante, sia pure nei termini che vedremo. Una (51) In merito vedi MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 2a ed., 1999, p. 416 ss. (52) Su come la condotta individuale riceva qualificazione nella relazione di carattere generale con il modello organizzativo, nonché sulle particolarità di tale relazione, vedi ALEO, Sistema penale, cit., p. 13 ss. (53) Così, invece, SPAGNOLO, L’associazione, cit., 87 ss. (54) Analogamente ALEO, Sistema penale, cit., p. 242 s.
— 893 — siffatta situazione è configurabile quale ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa (55). Si sa che l’ammissibilità di tale configurazione nei reati associativi è tutt’altro che pacifica (56). Oltre che al centro di vivaci dibattiti culturali (57), il tema del concorso esterno è sempre più spesso alla ribalta delle cronache giudiziarie (58), anche per la notorietà dei personaggi che (55) Sul tema del concorso esterno la bibliografia è sempre più ampia. Appare utile pertanto distinguere. Nell’ambito della manualistica sostengono la sua ammissibilità nei reati associativi MANTOVANI, Diritto penale, p.te gen., 1992, p. 553; PAGLIARO, Principi di diritto penale, p.te gen., 1996, p. 574 s.; in dottrina, fra gli altri, ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, 1996, Art. 110/94 ss.; DE LIGUORI, Concorso eventuale e reati associativi, in Cass. pen., 1989, p. 55; ID., Concorso e contiguità, cit.; GROSSO, Le contiguità alla mafia tra la partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 1185; ID., Accordo elettorale politico-mafioso e concorso esterno in associazione mafiosa: una configurazione possibile, in Foro it., 1996, c. 121; VISCONTI, Il tormentato cammino del concorso ‘‘esterno’’ nel reato associativo, in Foro it., 1994, II, c. 561; ID., Il concorso ‘‘esterno’’ nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico-criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, II, p. 1304. Sostanzialmente contrari, anche se con diverse motivazioni, nella manualistica CONTENTO, Corso di diritto penale, cit., p. 499 ss.; FIORE, Diritto penale, II, 1995, p. 128 ss.; RIZ, Lineamenti di diritto penale, 1998, p. 394 ss.; CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, p.te gen., 1998, p. 655 ss., in dottrina ancora MANNA, L’ammissibilità di un concorso ‘‘esterno’’ nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e concorso eventuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 1187; F. SIRACUSANO, Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, p. 1870; INSOLERA, Diritto penale, cit., p. 103 ss.; MUSCATIELLO, Il concorso esterno nelle fattispecie associative, 1995, che ne ammette, tuttavia, la configurabilità alla altrui partecipazione; ID., Sul concorso ‘‘esterno’’ nei reati associativi, in Ind. pen., 1996, p. 75; ID., Per una caratterizzazione semantica del concorso esterno, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 221 ss. Ammettono, infine, in astratto la configurazione del concorso esterno, ma riducendone il reale spazio operativo, anche se con diversità nei risultati, TURONE, Il delitto di associazione, cit., p. 337 ss.; DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persona ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 1285 ss.; ID., Paradigmi generali, cit., p. 3487; FIANDACA-ALBEGGIANI, Struttura della mafia e riflessi penal-processuali, in Foro it., 1989, II, c. 77; FIANDACA, La contiguità mafiosa, cit., c. 472; ID., Accordo elettorale, cit., c. 127. Per una rassegna critica delle varie ricostruzioni sul concorso esterno, vedi, di recente SESSA, Associazione di tipo mafioso e contiguità delittuosa, in AA.VV., Criminalità organizzata, cit, p. 191 ss. (56) Discussa in passato, l’operatività delle norme sul concorso di persone nell’ambito dei reati plurisoggettivi, è riconosciuta dalla dottrina più recente, ma non vi è concordia di opinioni sull’applicabilità di tali norme anche ai reati associativi. Questi sono considerati nella categoria dei reati pluirisoggettivi un genus particolare per la loro formulazione normativa generalmente ampia e strutturata in maniera tale da rendere punibili tutte le condotte penalmente rilevanti. Sul punto vedi, tuttavia, più diffusamente postea a p. 22 ss. (57) A titolo esemplificativo si pensi al convegno di Courmayeur sui reati associativi, tenutosi nell’ottobre del 1997, in cui il tema del concorso esterno in associazione mafiosa ha interessato diverse relazioni. (58) Da ultimo, sottolinea con disappunto « l’enfasi insopportabile dei giornali e dei telegiornali » sull’argomento, FIANDACA, Il ‘‘concorso esterno’’ agli onori della cronaca, in Foro it., 1997, V, c. 1, auspicando che la discussione possa essere ricondotta nelle riviste giuridiche, « sempre che non sia ormai troppo tardi ».
— 894 — ne sono stati accusati (59). Sebbene il fermento culturale suscitato dall’argomento, definito un vero e proprio « Leitmotiv » (60) nei processi concernenti le manifestazioni d’appoggio alla mafia, non può dirsene ancora compiuta una chiara ricostruzione in termini di teoria generale del reato. Le esigenze di politica criminale qui in evidenza del resto rendono il compito particolarmente arduo (61). È indubbio che il riconoscimento dell’ammissibilità del concorso esterno si rivela utile strumento per sussumere al controllo penale i comportamenti di ‘‘contiguità’’, costituenti altrimenti una zona grigia nella rilevanza penale (62). Da qui la tentazione irresistibile di ricorrervi nell’intento di superare le lacune di tutela in materia (63). In generale, accade spesso che nell’ammettere la configurabilità del concorso eventuale nei reati associativi si segua, ad usum Delphini, una logica di tipo deduttivo (64), volta a risalire alle regole giuridiche dall’analisi dei comportamenti. Un simile modo di procedere, tuttavia, comporta il rischio di trasformare le esigenze di politica criminale in « precomprensioni ideologiche » (65) e di piegare a queste l’impostazione dogmatica. Ai fini dell’ammissione del concorso esterno, più confacente alla metodologia scientifica penalistica sembra, al contrario, adottare un processo di tipo induttivo. Occorre, in altri termini, predeterminare le regole giuridiche da rispettare nell’invenzione dei nuovi meccanismi sanzionatori (66). Con ciò non s’intende negare l’importanza della valutazione di poli(59) Si pensi ad Andreotti, Mannino, Mancini, Dell’Utri, Contrada, Sgarbi, Maiolo, Carnevale, Musotto, ecc. (60) DE FRANCESCO, Paradigmi generali, cit., p. 3495. (61) Che la costruzione dogmatica della fattispecie in questione non possa essere assolutamente sganciata da scelte di politica criminale, è sostenuto, tra gli altri, da VISCONTI, Il concorso ‘‘esterno’’, cit., p. 1305 ss. (62) A ciò si giunge attraverso il ricorso ad istituti estensivi della tipicità come quello fornito dall’art. 110 c.p. Si consente, così, l’incriminazione di condotte atipiche sotto il profilo della disposizione incriminatrice di parte speciale, bensì rilevanti sul piano eziologico. (63) La funzione politico-criminale assolta dal concorso eventuale è sottolineata anche da TAMPIERI, Il concorso ‘‘esterno’’ nell’associazione per delinquere, in Dir. pen. proc., 1996, p. 335. (64) Emblematica, sotto questo aspetto, la pronunzia della Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, per un commento della quale cfr. SICILIANO, Il concorso eventuale nel reato associativo dopo la sentenza della Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, in Giust. pen., 1995, II, c. 522; IACOVIELLO, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen., 1995, p. 858; INSOLERA, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di Stato e gli inganni della dogmatica, in Foro it., 1995, II, c. 423. (65) L’espressione è di DE LIGUORI, Concorso e contiguità, cit., p. 125. (66) Su come, tuttavia, davanti agli intrecci profondi tra diritto punitivo e processo penale, sempre più di rado si avverta l’esigenza di cercare una immagine teoricamente più unitaria e politicamente congruente di tutta la realtà penale, vedi, anche se in un ottica generale, DONINI, Teoria del reato, 1996, p. 1 ss.
— 895 — tica criminale nella costruzione delle fattispecie criminose, ma la necessità di reprimere nuovi fenomeni trasgressivi non può essere soddisfatta senza una precomprensione dogmatica degli stessi. Sinteticamente, la configurabilità del concorrente esterno in associazione mafiosa è spesso negata sul rilievo della sua indistinguibilità psicologica e materiale dalla condotta del partecipe. S’aggiungano le più generiche critiche di violazione del principio di legalità e di necessaria offensività (67) che un simile riconoscimento comporterebbe. Il concorso esterno si fonda, infatti, sulla combinazione d’una norma estensiva della punibilità in caso di realizzazione plurisoggettiva del reato, qual è l’art. 110 c.p., con la fattispecie d’associazione, laconica di per sé in termini di tipicità, donde l’alto tasso di indeterminatezza che caratterizza il fenomeno. Se già il reato di associazione consiste in un ‘‘partecipare’’, l’attività del concorrente sarebbe ‘‘una partecipazione alla partecipazione’’, con ciò determinando un’anticipazione della soglia di tutela penale tale da sollevare seri dubbi di costituzionalità (68). Nella valutazione del concorso esterno nel reato associativo, dunque, le esigenze di repressione penale si combinano con altrettanto importanti necessità di garanzia. Nel tentativo di fare luce su un argomento che sembra il più delle volte destinato a rifrangerla, va preliminarmente posto l’accento sulle regole proprie del modello concorsuale di reato che lo distaccano da quello realizzato in chiave monosoggettiva. Peculiare è innanzitutto l’elemento soggettivo del reato, non essendo necessario che ogni concorrente abbia una perfetta conoscenza e volontà degli elementi costitutivi del reato. Per di più, nelle fattispecie a dolo specifico, come nel caso di specie, è sufficiente che questo animi anche uno soltanto dei concorrenti, posto che gli altri ne abbiano la consapevolezza (69). Ma altrettanto peculiare è la stessa tipicità del reato non essendo necessario che tutti gli elementi di esso siano compiuti da ciascun partecipe. (67) Anche su questi aspetti INSOLERA, Il concorso esterno, cit., p. 429; MANNA, L’ammissibilità, cit., p. 1187 ss.; MUSCATIELLO, Sul concorso, cit., p. 78. (68) Il reato di associazione di stampo mafioso, come tutti i reati a dolo specifico, viene da alcuni fatto rientrare nei c.d. ‘‘reati a consumazione anticipata’’. Per una assimilazione di tali reati al tentativo si rinvia a MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto, cit., p. 435 ss. Di recente il Tribunale di Taranto con sent. dell’11 giugno 1997, in Dir. pen. proc., 1998, p. 751 ss., con nota di VISCONTI, Il concorso esterno tra aspetti di costituzionalità e prospettive di riforma legislativa, ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di costituzionalità in ordine al concorso esterno in associazione mafiosa per violazione dei principi di uguaglianza, di determinatezza e tassatività delle fattispecie incriminatrici, oltre che di personalità della responsabilità penale sanciti rispettivamente dagli artt. 3, 25 e 27 Cost. Si tratta di una conferma di come sia ormai prevalso nella giurisprudenza l’orientamento favorevole all’istituto. (69) Sulla sufficienza del dolo specifico ad integrare la condotta del concorrente esterno all’associazione mafiosa sotto il profilo psicologico vedi nota n. 76.
— 896 — Essi sono realizzati dalla sommatoria delle attività dei singoli concorrenti, il che da spazio alla rilevanza penale anche di contributi minimi, ma che, unitariamente considerati, risultano determinanti del risultato complessivo (70). In particolare importa segnalare come, in tale valutazione, il secondo termine della relazione causale non potrà essere individuato nell’evento, così come avviene per il reato monosoggettivo, bensì nel « fatto tipico considerato nel suo complesso » (71). Attraverso un’applicazione rigida delle regole sul concorso di persone si viene, così, a realizzare sul piano del contributo obiettivo un arretramento della soglia di punibilità (72), giustificabile dalla maggiore pericolosità sociale dell’agire collettivo rispetto a quello del singolo (73). Occorre, però, tener conto che, nel caso di specie, il reato di parte speciale da affiancare all’art. 110 c.p. è strutturato in chiave plurisoggettiva. Per di più, si tratta di un reato associativo, considerato nella categoria degli illeciti plurisoggettivi un genus a parte per l’ampia formulazione normativa che solitamente lo caratterizza. Quelle particolarità di tipizzazione, poc’anzi richiamate, provocate dall’applicazione delle norme sul concorso di persone, che emergono facilmente se rapportate alla disciplina del reato monosoggettivo, sono qui destinate a sfumare, poiché già il (70) Da qui i diversi tentativi di ricostruzione dogmatica che sono stati prospettati in dottrina, miranti all’individuazione della determinazione della soglia minima di rilevanza del contributo punibile. Si pensi alla teoria della ‘‘fattispecie plurisoggettiva eventuale’’ o ancora a quella dell’‘‘accessorietà’’, le quali, pur non riuscendo poi a rispondere a tale esigenza, palesano, in ogni caso, la necessità di dover conformare al modello concorsuale di reato le regole dettate dal legislatore per il reato monosoggettivo. Le tesi suddette, infatti, spiegano il problema della ‘‘natura’’ della partecipazione, del fondamento giuridico della disciplina concorsuale, ma non individuano poi i criteri minimi del contributo punibile che costituiscono il vero nodo della questione. Su tali teorie vedi per tutti ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, cit., Pre-Art. 110/26 ss. (71) ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., Art. 110/41, in senso conforme SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, 1988, p. 36; DE LIGUORI, Concorso e contiguità, cit., p. 141 ss., il quale insiste sulla necessità di utilizzare la ‘‘causalità’’ in maniera ‘‘relativa’’, non avendo ad « oggetto sempre e dovunque gli stessi termini di relazione ». Fra coloro i quali sganciano la valutazione del contributo del singolo dal paradigma causale incentrato sull’evento, vedi anche INSOLERA, Problemi di struttura del concorso criminoso nel reato, 1986, p. 16 ss., il quale, in particolare, individua il secondo termine della relazione causale nell’« organizzazione del reato ». (72) Rientrano così tra le condotte potenzialmente punibili anche, ad es., quella del ‘‘palo’’, dell’istigatore, ecc., posto che, naturalmente, se ne riesca a provare in sede processuale una ‘‘effettiva’’ rilevanza causale nell’ambito dell’agire collettivo. Non appaiono, invece, persuasivi quegli orientamenti che, alla stregua di un pericoloso giudizio di prognosi postuma, giungono alla rilevanza tout court di tali condotte. (73) Del resto, proprio l’attenzione prestata dal legislatore del 1930, sul piano politico-criminale, alle esigenze di difesa sociale, sottende all’intera disciplina del concorso di persone. Sul punto si rinvia a ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, cit., Pre-Art. 110/10; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 510 ss.; FIANDACA MUSCO, Diritto penale, p.te gen., cit., p. 439.
— 897 — reato plurisoggettivo si innesta in una realtà dai contorni poco definiti. La possibilità di una distinzione logica fra la condotta del partecipe e quella del concorrente esterno non è, tuttavia, da scartare, specie considerando che non esistono limiti espliciti per l’operatività dell’art. 110 al reato associativo (74). Seguendo i principi di logica che devono sottendere ad ogni ragionamento, sembra preferibile partire dal riconoscimento in via astratta dell’operatività di un simile meccanismo sanzionatorio anche per i reati associativi. Del resto non esiste alcun dato positivo da cui evincere il contrario. Solo in seconda istanza, infine, occorrerebbe esaminare quali potrebbero essere le conseguenze pratiche di tale riconoscimento, vagliando l’eventuale esistenza di controinteressi in merito (75). 4.3. (Segue): il riconoscimento dell’ammissibilità di una differenziazione tra partecipe e concorrente eventuale nell’associazione mafiosa. — Tenendo ferme queste determinanti, una differenziazione tra partecipe e concorrente esterno in associazione mafiosa è possibile. Innanzitutto è superabile l’obiezione dell’indistinguibilità tra soggetto intraneus ed extraneus sul piano dell’elemento soggettivo. Si ritiene, in sintesi, che nel concorso esterno, ai fini della punibilità, debba ravvisarsi necessariamente un profilo soggettivo inquadrabile entro il dolo specifico. Sia il partecipe che il concorrente eventuale, dunque, per essere puniti dovrebbero essere animati dal perseguimento dei fini e delle metodiche dell’associazione. Mentre di fronte a soggetti non intenzionati, anzi disinteressati, al raggiungimento delle finalità dell’ente criminale non si potrebbe applicare il reato associativo (76). (74) In senso conforme DE LIGUORI, Concorso e contiguità, cit., p. 182 ss. Del resto, il concorso esterno viene pacificamente ammesso in altri reati plurisoggettivi come, ad es., nella rissa, nonostante che in quest’ultima il fatto collettivo risulti descritto ancora meno specificamente che non nell’associazione mafiosa. L’art. 588 c.p., parla esclusivamente di ‘‘rissa’’, lasciando all’interprete l’individuazione e la valutazione delle modalità concrete di realizzazione. Per la stessa obiezione vedi anche VISCONTI, Il concorso ‘‘esterno’’, cit., p. 1325 s. (75) Si tratta dello stesso metodo cui è legittimo ricorrere anche davanti a ricostruzioni di analoga problematicità, quali ad es. il tentativo nei reati di pericolo o nei delitti di attentato e, in genere, tutti i casi in cui i dubbi di ammissibilità sono dettati dal pericolo di un’anticipazione eccessiva della soglia di punibilità. (76) In questo senso, esigendo che la condotta del concorrente esterno sia animata dallo stesso animus del partecipe, sì da escluderne l’autonomia concettuale dalla partecipazione a pieno titolo, CONTENTO, Il concorso, cit., p. 8; MANNA, L’ammissibilità, cit., p. 1190 ss. In giurisprudenza Cass., 30 giugno 1994, in Riv. pen. (o Foro it.), 1994, p. 1114, con nota adesiva di TENCATI, Fiancheggiamento e partecipazione nell’art. 416-bis c.p., pubblicata pure in Giur. it., 1995, II, p. 283, con nota di STEMPERINI, In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che « il presunto concorrente esterno, nel porre in essere la condotta oggettivamente vantaggiosa per il sodalizio criminoso, è animato anche dal dolo specifico proprio di chi voglia consapevol-
— 898 — Si è visto, tuttavia, come la dottrina più moderna (peraltro anche quella di parte avversa al concorso esterno), ma anche la giurisprudenza prevalente (77), ritengano in generale possibile che l’extraneus in un reato a dolo specifico, quale i più ritengono che sia l’associazione di stampo mafioso (78), possa avere anche un dolo generico, purché almeno uno dei concorrenti sia animato dal fine ulteriore. Nel caso di specie trattandosi di reato associativo occorre che siano animati dal dolo specifico i soci dell’organizzazione criminale. Basta, dunque, che il concorrente esterno, pur non perseguendo e anzi disinteressandosi dei fini dell’associazione, si rappresenti psicologicamente il nesso tra la sua condotta e l’associazione illecita volta al perseguimento dei fini oggetto del programma criminoso (79). mente contribuire a realizzare i fini per i quali il detto sodalizio è stato costituito ed opera, e allora egli non potrà in alcun modo distinguersi dal partecipante a pieno titolo, ovvero, mancando in lui quel dolo specifico, la condotta favoreggiatrice o agevolatrice da lui posta in essere dovrà essere necessariamente riguardata come strutturalmente e concettualmente distinta dal reato associativo ». Conf. Cass., 18 maggio 1994, in Foro it., 1994, II, c. 560, con nota contraria di VISCONTI, Il tormentato cammino, cit.; Cass. 14 ottobre 1994, in Cass. pen., 1996, p. 2177 con osservazione di ROSA. (77) L’ammissibilità di un concorso con questa forma di dolo in un reato a dolo specifico è, del resto, riconosciuta dalla dottrina maggioritaria, anche quella contraria alla configurabilità del concorso esterno nei reati associativi. Cfr. INSOLERA, Concorso di persone, voce, Dig. disc. pen., 1988, II, p. 476; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 533; FIANDACA MUSCO, Diritto penale, p.te gen., cit., p. 457; PICOTTI, Il dolo specifico, 1993, p. 620; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, cit., Art. 110/105. In giurisprudenza vedi Cass., 27 marzo 1995, in Cass. pen., 1997, p. 584, con breve osservazione di CERASE; nonché Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, cit., e ancora Cass., sez. un., 14 dicembre 1995, in Riv. pen., 1996, p. 632; Cass., 21 dicembre 1998, in Guida al diritto, n. 6, 1999, p. 83. Per un’articolata rassegna giurisprudenziale sul tema del concorso esterno vedi LATTANZI, Partecipazione all’associazione e concorso esterno, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 71 ss. (78) Il reato di associazione mafiosa è ritenuto dai più a dolo specifico, sul rilievo che l’inciso contenuto al terzo comma dell’art. 416-bis « quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione... per commettere delitti... » indichi il contenuto della condotta dei singoli associati; per cui questi agirebbero con le dette modalità al fine di conseguire gli scopi previsti. Non manca, tuttavia, la tesi contraria che ricostruisce l’elemento psicologico del delitto in termini di dolo generico: FLICK, L’associazione a delinquere di tipo mafioso: interrogativi e riflessioni sui problemi proposti dall’art. 416-bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 863 s. Seguendo questo opposto modo di vedere la condotta incriminata consiste solo nel ‘‘far parte’’, così come indicato al primo comma dell’art. 416-bis, mentre il terzo comma indicherebbe quale sia l’associazione di tipo mafioso e non la condotta dei singoli associati. (79) Questo argomento, relativo alla differenziazione del concorrente esterno dal partecipe sul piano psicologico, è stato ulteriormente sviluppato dalle sezioni unite del 5 ottobre 1994, cit., che hanno consacrato l’ammissibilità del concorso esterno in associazione mafiosa. La Suprema Corte ha ritenuto che, a parte la possibilità che si risponda con dolo generico in un reato a dolo specifico, sia parimenti possibile che l’extraneus abbia un dolo specifico e ciò nonostante continui a differenziarsi dal partecipe. In particolare, al dire della Corte, il concorrente esterno potrebbe avere solo una parte del dolo specifico del partecipe e cioè la volontà di perseguire i fini propri dell’associazione, ma non anche quella di ‘‘far par-
— 899 — Addirittura per alcuni, ai fini dell’integrazione dell’elemento psicologico della condotta dell’estraneo, sarebbe sufficiente il dolo eventuale (80). La tesi che ricava il discrimen tra partecipazione interna e concorso esterno in associazione mafiosa prevalentemente nell’elemento psicologico non trova, però, grande seguito. Il piano soggettivo non può valere però come criterio discriminante esclusivo, ma solo come elemento da affiancare a quello oggettivo (81). Una differenziazione tra concorrente esterno e partecipe all’associazione mafiosa deve dunque essere ricercata anche sul piano del fatto tipico. Anche sotto questo profilo l’orientamento contrario all’ammissibilità delle due condotte, presupponendo la medesima dinamica di tipizzazione causale per entrambe, sottolinea come qualunque contributo significativo rispetto alla struttura organizzativa dell’associazione è per se stesso una forma di partecipazione o, mancando di tale connotazione, degenera inevitabilmente nel giuridicamente irrilevante (82). Errato, tuttavia, sembra proprio il presupposto di un simile ragionamento: l’idea di una medesima dinamica di tipizzazione causale tra la condotta del partecipe e quella del concorrente esterno. Proseguendo nel ragionamento, infatti, si arriverebbe ad una considerazione estrema, cioè all’inoperatività dell’art. 110 con funzione incriminatrice in tutti i reati causalmente orientati e a forma libera. Basterebbe, in altri termini, ripercorrerre il processo causale per ricomprendere entro le fattispecie di parte speciale tutte le condotte che fanno riferimento al fatto collettivo e che siano meritevoli di pena (83). te’’ dell’organizzazione. Si tratta, tuttavia, di una ricostruzione dell’elemento psicologico forse eccessivamente artificiosa e sicuramente poco afferrabile negli accertamenti processuali. (80) In tal senso GROSSO, La contiguità alla mafia, cit., p. 1192; contra, invece, CERASE, Osservazione, cit., p. 984, preoccupato dall’eccessivo arbitrio della magistratura cui si esporrebbe l’accertamento del concorso esterno in questo caso. Nello stesso senso SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 239. (81) Così, fra gli altri, anche MILITELLO, Agevolazione e concorso di persone nel progetto 1992, in Ind. pen., 1993, p. 583; DE FRANCESCO, Associazione per delinquere, cit., p. 305. In giurisprudenza, tuttavia, un orientamento minoritario valorizza come criterio idoneo a differenziare l’ipotesi partecipativa da quella concorsuale nell’associazione mafiosa proprio l’elemento psicologico, in tal senso Trib. Palmi, 23 marzo 1996, in Foro it., 1997, II, c. 441 ss., con nota critica di VISCONTI, Patto politico-mafioso e i problematici confini del concorso esterno. (82) In questo senso vedi, INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, 1986, p. 148 ss.; ID., Diritto penale, cit., p. 103 ss.; CONTENTO, Il concorso, cit.; MANNA, L’ammissibilità, cit., p. 1189. (83) In tal modo si dovrebbe, ad es., imputare direttamente di omicidio e non di concorso in omicidio colui che ha fornito la pistola al soggetto che ha sparato mortalmente contro un altro, ovvero si avrebbe una imputazione per rissa, reato plurisoggettivo necessario, e non per concorso in rissa, nel caso in cui un soggetto procuri un bastone ad uno dei rissanti, ma non partecipi alla rissa materialmente. In entrambi i casi, quindi, l’art. 110 c.p. non svolgerebbe alcuna funzione incriminatrice.
— 900 — A ben guardare è già intuitivamente riscontrabile nell’intero svolgersi della condotta punita una diversa efficacia causale degli atti posti in essere (84). Posto, dunque, che a quel ‘‘far parte’’ dell’associazione, che qualifica la condotta del partecipe, non può attribuirsi il solo significato di condivisione meramente psicologica del programma criminoso e delle relative metodiche, bensì anche quello, più pregnante, di una ‘‘concreta assunzione di un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa, manifestata da un impegno reciproco e stabile, funzionalmente orientato alla struttura ed all’attività dell’organizzazione criminosa’’, proprio insistendo sull’aspetto oggettivo occorre verificare la possibilità di una differenziazione con la condotta dell’extraneus tramite il ricorso all’art. 110 c.p. Oltre all’affectio societatis, in definitiva, mancherebbe nel concorrente esterno la ‘‘militanza’’: l’inserimento strutturale a tutti gli effetti nell’organizzazione criminosa. Sotto il profilo della rilevanza obiettiva della condotta punibile, dunque, una volta circoscritta quella del partecipe agli atteggiamenti ‘‘tipici’’, palesanti l’avvenuto inserimento organico nel sodalizio criminoso (85), il ruolo del concorrente eventuale risulta già delineato in negativo: come il comportamento atipico proprio di chi entra in contatto con l’organizzazione criminale pur non facendone parte. Contro quanti ritengono in astratto non concepibili condotte atipiche afferenti ai reati associativi, può replicarsi che questa limitazione non ha alcuna giustificazione, a meno di escluderla per tutti i reati plurisoggettivi, ciò che è invece oggi negato dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritaria (86). Salvo a ritenere che non sia necessario per la qualifica di partecipe che il vincolo associativo si instauri in prospettiva di una sua futura permanenza (e che siano pertanto concepibili forme di partecipazione ab origine a durata limitata nel tempo e miranti al perseguimento solo di interessi personali) (87), una differenziazione è dunque possibile. Il concor(84) Ritornando agli esempi della nota che precede, è chiaro, infatti, che l’atto di chi fornisce l’arma ha una efficacia causale diversa da quello di realizzazione materiale della condotta punita dal reato di parte speciale. (85) Un indice di probabile organicità dell’agente consiste nell’accertamento di avvenute procedure rituali di ‘‘iniziazione’’. Si tratta, però, di un indice di prova, né esclusivo, né sufficiente. Da un lato, infatti, l’arruolamento può essere desunto anche da facta concludentia (vedi a riguardo SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 134 ss.); dall’altro, l’affiliazione formale vale ad ottenere la qualifica di ‘‘uomo d’onore’’ in seno all’organizzazione, ma per rilevare penalmente deve, in ogni caso, accertarsi l’assunzione di ben determinate funzioni in capo allo stesso. (86) La possibilità di un concorso eventuale nei reati plurisoggettivi necessari, sì da punire chi arrechi un contributo di partecipazione atipico rispetto alla condotta dichiarata punibile, è ammessa ad es. da Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, cit.; in dottrina vedi ROMANOGRASSO, Commentario sistematico, cit., Pre-Art. 110/35; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 551 s. (87) Così Cass. 31 maggio 1995, in Riv. pen., 1996, p. 96. È bene, però, sottolineare come si finirebbe, per questa via, con lo stravolgere il significato stesso della partecipazione.
— 901 — rente eventuale, infatti, è colui che fornirebbe un apporto all’associazione che o perché instabile, sì che i membri non possano farvi affidamento, o perché privo dell’affectio societatis non può considerarsi tipico ai sensi dell’art. 416-bis. Nel caso di specie si pensi al politico che, pur non condividendo i fini e le metodiche dell’organizzazione criminale, ne abbia consapevolezza e stipuli con questa un affare illecito. In effetti, tale rilievo non è ancora da solo sufficiente a determinare la punibilità per concorso eventuale in associazione mafiosa. Potrebbe configurarsi anche solo una ipotesi di concorso in un singolo o in determinati delitti-scopo dell’associazione. Determinante, allora, diventa osservare se la condotta del soggetto agente si inserisca, in qualche misura, nel compimento del ‘‘fatto collettivo’’. Solo nel caso limite in cui il contributo dell’extraneus incida direttamente sul fatto associativo e non esaurisca la sua forza causale sul singolo delitto-scopo si avrà, in definitiva, concorso esterno in associazione mafiosa. Preme a questo punto precisare che l’assunzione di un ruolo (partecipe) o meno (concorrente esterno) all’interno dell’associazione, va distaccata, come già anticipato, dall’affiliazione formale alla stessa. Non convince, per questo, quella linea di pensiero che riconosce la possibilità del ricorso al concorso esterno ex art. 110 nell’associazione mafiosa solo nel caso, frequente in giurisprudenza (88), di identificazione della partecipazione interna con l’affiliazione esplicita (89). Una volta che sul piano dogmatico si stabilisca, in modo definitivo, che è partecipe chi assume un ruolo determinato all’interno dell’associazione, indipendentemente dall’affiliazione formale alla stessa (che può costituirne mero indizio), occorre poi valutare se ci sia spazio per l’operatività di un concorso esterno, sganciandosi dalle esigenze che possono scaturire dal consolidamento di una determinata prassi applicativa. Delle due l’una: o si riconosce che la condotta del concorrente eventuale verrebbe a coincidere in tutto e per tutto con quella del partecipe e allora va escluso ogni spazio di operatività del fenomeno, oppure se ne individuano e puntualizzano le differenze (e ben poca cosa sarebbe la mancata affiliazione formale nell’associazione (90) ) per ammetterne, da un punto di vista teorico, la configurabilità (91). L’assunzione o la mancata assunzione di un ruolo in seno all’organiz(88) Su questa tendenza giurisprudenziale, vedi VISCONTI, Il tormentato cammino, cit. p. 573 ss.; PACI, Osservazioni, cit., p. 545 s. (89) In questo senso FIANDACA, Riflessi penalistici, cit., c. 139 s. (90) Peraltro, prevale, ormai anche nella giurisprudenza contraria all’ammissibilità del concorso esterno, l’orientamento che ammette la partecipazione per facta concludentia. Vedi, per tutte, Cass., 18 maggio 1994, cit.; contra, invece, Cass., 18 novembre 1996, in Mass. pen., p. 418. (91) La obiezione è destinata a ridimensionarsi qualora FIANDACA, Riflessi penalistici, cit. c. 139 s., abbia con ciò inteso solo evidenziare l’utilità pratica che il concorso
— 902 — zazione può quindi risultare anche da facta concludentia, ed è proprio nella valutazione della loro rilevanza penale che si registra un dato positivo nella ricostruzione della condotta del concorrente esterno. Il ricorso alle norme sul concorso di persone farebbe emergere una tipicità se non nuova (come vorrebbe la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale) quantomeno ‘‘ritoccata’’; sia, nei termini già chiariti, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sia sul piano del contributo causale che, in questo caso, incide direttamente sull’intero fatto tipico. La configurabilità del concorrente esterno, pertanto, emergerebbe oltre che in negativo, come condotta di chi non risulta affiliato neanche di fatto all’associazione, anche in positivo, poiché il ricorso alle norme sul concorso fa emergere comportamenti atipici, rispetto a quelli delineati nella fattispecie di parte speciale, ma che si pongono in relazione causale con quest’ultima (92). La condotta del concorrente eventuale non va vagliata alla luce della dimensione dell’associazione, né a quella dei suoi fini, bensì in rapporto alla ‘‘ritoccata situazione tipica’’ (93), scaturente dalla combinazione dell’art. 110 c.p. con l’art. 416-bis di parte speciale. È in questo senso che attraverso un’applicazione rigida di tale meccanismo sanzionatorio, può rilevare anche una condotta non necessariamente implicante l’organicità all’associazione, né fondamentale per preservare la vita di questa, purché s’inserisca, in qualche misura, nel compimento del ‘‘fatto collettivo’’. In questo caso, cioè, il contributo esterno inciderebbe direttamente nel fatto associativo, anziché in un singolo delitto-scopo. Quando dunque il nesso causale con l’organizzazione criminale viene ravvisato in una condotta che però non presenta gli estremi soggettivi ed oggettivi di una di quelle tipizzate nell’art. 416-bis, entra in campo l’ordinaria funzione incriminatrice svolta nel sistema penale dall’art. 110 c.p. Ritornando al nostro esempio si ipotizzi che l’affare concluso dall’uomo politico, pur nei termini già chiariti, si riveli ‘‘utile’’ all’associazione, collocandosi in uno dei momenti della sua operatività. Tale utilità, inoltre, può, astrattamente manifestarsi in qualunque fase dell’attività dell’organizzazione criminale. Non appare condivisibile, pertanto, limitare ‘‘a priori’’ l’ammissibilità del concorso eventuale ai soli esterno ha rappresentato nel superamento di concezioni sulle organizzazioni mafiose ancora legate ad un’impronta socio-criminologica del fenomeno. In altri termini, attribuire la qualifica di concorrente esterno, anziché direttamente di partecipe, ai ‘‘colletti bianchi’’, potrebbe costituire un deterrente contro ogni remora di una loro incriminazione. (92) In questo senso vedi Cass., 4 febbraio 1988, in Cass. pen., 1989, p. 1988. (93) Il corsivo è il nostro. Preme ancora una volta sottolineare come non si intenda con questa espressione necessariamente aderire alla teoria della fattispecie eventuale, bensì solo evidenziare l’esigenza che i principi generali del sistema penale, previsti per il reato monosoggettivo, vengano adeguati alla modalità concorsuale di reato.
— 903 — momenti patologici o dell’emergenza nella vita dell’associazione (94) o, ancora, alla fase ‘‘embrionale’’ di questa (95). Come già sottolineato, proprio il meccanismo predisposto dall’art. 110 c.p., norma di portata generalissima, rende in astratto possibile l’operatività del concorso eventuale senza limite alcuno. L’art. 110 s’affianca, nel caso di specie, ad un reato permanente, donde la prospettabilità che l’agevolazione esterna possa verificarsi durante tutte le fasi della vita dell’associazione e non soltanto in alcuni momenti particolari (96). Altra cosa è, semmai, riconoscere che le ipotesi in cui l’apporto esterno possa assumere questa forza causale di fatto s’accrescono durante i momenti particolarmente critici dell’associazione, o ancora nella sua fase di formazione e di consolidamento (97). Né più convincente appare la circoscrizione dell’operatività del concorso esterno alla sola condotta di partecipazione (98) o, ancora, a quella d’organizzazione dell’associazione mafiosa (99). Tale orientamento, ammettendo il concorso esterno non nell’organizzazione nel suo complesso, bensì nelle singole condotte associative, sul presupposto che si risolverebbero per questa via le problematiche attinenti al nesso di causalità, trascura due dati fondamentali. Il più delle volte le attività tenute dall’esterno per agevolare il singolo partecipe sono idonee a configurare un concorso solo di natura ‘‘morale’’ (100). In secondo luogo, anche volendo ammettere la possibilità di un concorso (94) Così, invece, la già citata sent. della Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, che stabilisce come « il concorrente eventuale è per definizione colui che non vuol far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a far parte, ma al quale si rivolge sia ad es. per colmare vuoti di un determinato ruolo, sia soprattutto, nel momento in cui la ‘‘fisiologia’’ dell’associazione entra in fibrillazione ». (95) DE FRANCESCO, da ultimo in Paradigmi generali, cit., p. 3496, sottolineando come in una organizzazione già fortemente strutturata il contributo atipico dovrebbe avere un consistente grado di efficienza causale cosa che sarebbe possibile solo davanti ad una reiterazione massiccia di comportamenti. È bene, tuttavia, rilevare come in realtà anche un atto unico di sostegno possa in concreto sprigionare una efficacia causale di gran lunga superiore anche ad interventi ripetuti nel tempo, ma posti in essere da un soggetto di minore spessore. (96) Non è necessario, al contempo, però, che tale apporto perduri per l’intera permanenza dell’associazione. Non va, infatti, confuso l’aspetto del potenziale riconoscimento dell’agevolazione esterna in qualsiasi momento della vita dell’organizzazione, con quello della sua concreta durata. (97) Nello stesso senso DE LIGUORI, Concorso e contiguità, cit., p. 170 ss. (98) Così, invece, MUSCATIELLO, Il concorso esterno, cit., p. 76 ss. e p. 140 ss.; IACOVIELLO, Il concorso eventuale, cit., p. 863 ss.; CIANI, Osservazioni a Cass. pen., 1998, p. 1076 s. (99) TURONE, Il delitto di associazione, cit., p. 333 ss. (100) Per un’obiezione analoga DE FRANCESCO, Paradigmi generali, cit., p. 3501, secondo il quale « anche la fornitura di strumenti materiali (ad es. la prestazione di denaro o mezzi di finanziamento, volti a far sì che il destinatario si convinca ad entrare nell’organizzazione o che i membri di quest’ultima si convincano ad accettarlo) vedrebbe subordinata la
— 904 — esterno materiale (101), la polarizzazione della volontà sulla partecipazione anziché sull’associazione, farebbe venir meno il discrimine fra tali condotte e quella di favoreggiamento o di assistenza agli associati (102), come pure con i casi di concorso nei singoli reati-scopo. Quanto allo spessore del contributo del concorrente esterno appare eccessivo pretendere che si riveli decisivo addirittura per il mantenimento in vita dell’associazione (103). Attraverso lo strumento dell’art. 110 c.p. rilevano anche comportamenti minimali, ma che unitariamente considerati sprigionino una forza causale sul fatto associativo (104). Certamente però l’esigenza che l’apporto dell’extraneus debba rivelarsi utile per l’associazione nel suo insieme fa sì che, nella maggioranza dei casi, tale contributo debba denotare un certo spessore. Va ribadito, tuttavia, che la differenza con la condotta del partecipe, sul piano materiale, non si fonda, sulla qualità del contributo (105), bensì sulla particolare dinamica di tipizzazione causale che si viene a creare. Affiancando la norma sul concorso di persone a quella di parte speciale, rimangono, sul piano logico, identificabili comportamenti atipici altrimenti non sanzionabili. In verità, ammessa la configurabilità del concorso esterno, la riduzione del suo spazio operativo, patrocinata dalle impostazioni suddette, nasce dalla innegabile difficoltà di individuare condotte eventuali determinanti nella realizzazione del fatto associativo (106). Una possibile chiave di volta, nel tentativo di facilitare la loro individuazione potrebbe, però, essere quella di considerarne la rilevanza causale anziché in relazione al « mega-evento » associazione, in base ad « entità dotate di sostrato empirico maggiormente afferrabili e, soprattutto, comsua efficacia sotto il profilo causale al riscontro dei presupposti necessari per il riconoscimento di una partecipazione ‘‘psichica’’ ». (101) Occorre in tal caso accertarsi se non sia, semmai, configurabile un concorso nel singolo delitto-scopo, o ancora, se non si prefiguri la realizzazione di un reato ad hoc, quale ad es., quello di favoreggiamento, di corruzione, ecc. (102) In questo senso anche PACI, Osservazioni sull’ammissibilità del concorso eventuale nel reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, in Cass. pen., 1995, p. 547 s. (103) Del resto, come già detto, tale requisito non è richiesto neppure al partecipe, essendo sufficiente che il suo apporto evidenzi l’avvenuto inserimento nella vita dell’associazione con l’assunzione di determinate funzioni. (104) Sebbene negato da alcuni, è preferibile ritenere che possa operare in questi casi la attenuante di cui al n. 1 dell’art. 114 relativa al contributo di minima importanza. (105) Così invece GROSSO, La contiguità alla mafia, cit., p. 1191 ss. Il contributo del terzo, invece, va tenuto in considerazione soltanto per capire se possa essere sussunto o meno nella rilevanza penale. (106) Secondo GROSSO, Le fattispecie associative: problemi dommatici e di politica criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 421, le difficoltà di un simile accertamento non vanno, però, sovradimensionate, non comportando « una discrezionalità maggiore di quanto può comportarla ad esempio... la realizzazione di una condotta idonea ed univoca agli effetti del tentativo... ».
— 905 — parabili con la singola condotta » (107), in cui il primo può e deve scomporsi (108). Questo modo di procedere può essere utilizzato, da chi osserva il fenomeno, durante tutti i momenti della vita dell’associazione. L’importante, in definitiva, è che si evidenzi un consapevole contributo, ab origine di durata limitata (109) (donde evincere la non organicità all’associazione), ma ‘‘utile anche solo ad una parte’’ dell’organizzazione (110). 4.4. (Segue): brevi osservazioni sui delitti ‘‘collaterali’’ al fenomeno mafioso. — Un ultimo aspetto resta da chiarire prima di ritornare alla valutazione del reato di scambio elettorale politico-mafioso da cui siamo partiti: il rapporto tra il concorso esterno ed alcuni illeciti ‘‘collaterali’’ al fenomeno mafioso, perché è fra questi che va collocato anche l’art. 416ter c.p. Si pensi all’aggravante del delitto di favoreggiamento, di cui al se(107) Cfr. VISCONTI, Il concorso ‘‘esterno’’, cit., p. 1328, il quale pone l’accento sulla necessità di distinguere tra nesso di causalità come strumento di imputazione dell’evento ad un soggetto e nesso di causalità come metodo di tipizzazione del contributo concorsuale punibile. Sotto il primo aspetto l’interprete dovrà verificare l’esistenza dei requisiti minimi necessari per aversi associazione, rapportabili ai concorrenti necessari. Sotto il secondo aspetto, una volta risolta positivamente la prima indagine, occorrerà accertare il nesso causale tra la singola condotta di un soggetto (concorrente eventuale) e una ‘‘parte’’ del « macro-evento associazione ». (108) Del resto, a questa stessa soluzione si ricorre in presenza dei reati offensivi dell’amministrazione della giustizia, della personalità dello Stato, ecc., di beni giuridici collettivi che presentano, cioè, una struttura tale da non poter essere offesi da una singola condotta. Sulla necessità di una concretizzazione dei beni collettivi vedi MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto, cit., p. 398 ss. (109) Richiede questa caratteristica anche la sent. della Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, cit., pretendendo, in più la circostanza che il « contributo serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore onde poter perseguire i propri scopi ». Su come, però, appaia eccessivo richiedere che l’apporto del concorrente esterno risulti determinante addirittura per il mantenimento in vita della organizzazione criminale, vedi antea p. 33. (110) Sotto il profilo teorico, non appare, al contrario, condivisibile quella tendenza che lega la rilevanza penale del concorso esterno alla ‘‘stabilità’’ con cui sarebbe fornito l’apporto all’associazione mafiosa. Pur riconoscendo legittima la preoccupazione di circoscrizione dei comportamenti penalmente rilevanti che ne è alla base, non possono tacersi due rilievi fondamentali. Da un lato è lo stesso strumento dell’art. 110 c.p. a legittimare la rilevanza anche di una singola condotta, purché se ne accerti il legame causale con l’organizzazione; dall’altro la stabilità con cui sarebbero forniti tali contributi è tangibile manifestazione dell’assunzione di un vero e proprio ruolo all’interno della stessa, indipendentemente da una consacrazione rituale. Il criterio della stabilità del contributo esplica, dunque, il suo valore solo sul piano penal-processuale come strumento indiziante della presenza di una condotta partecipativa. In dottrina insiste su questo punto tra gli altri DE FRANCESCO, Paradigmi generali, cit. p. 3496 s., sottolineando l’incongruenza di un simile presupposto quando invece col concorso esterno si mira a punire condotte che pur non macroscopiche, se considerate complessivamente, agevolano l’associazione. Si tratta di attività collaterali, scrive l’A., che come « piccole scialuppe di salvataggio » stese intorno a questo transatlantico, costituiscono punti d’appoggio « ... che non possono essere considerati del tutto privi di significato... ».
— 906 — condo comma dell’art. 378 o a quella prevista dall’art. 7 della legge n. 203/1991, o ancora ad autonome fattispecie quali ad es. il delitto di assistenza agli associati ex art. 418 c.p. Di fronte ad ipotesi di tal fatta rinvigorisce il dubbio sull’esistenza di un effettivo spazio per l’operatività del concorso esterno. Appare plausibile, in altre parole, l’interrogativo se con tali interventi capillari il legislatore abbia inteso circoscrivere tutti i possibili comportamenti rilevanti, sì da rendere di fatto impraticabile l’applicazione del concorso di persone ai reati associativi (111). Ad un’osservazione più attenta non potrà sfuggire come le ipotesi richiamate non valgano a coprire tutte quante le manifestazioni di contiguità socialmente rilevanti. Certo, non è sufficiente l’individuazione di condotte riprovevoli sul piano etico-sociale per desumerne automaticamente la rilevanza anche sotto il profilo penale, ma, una volta constatatane, appunto, la dissonanza pregiuridica, sarà bene interrogarsi sull’utilizzabilità degli strumenti di parte speciale disponibili. La sussidiarietà e l’insufficienza delle previsioni legislative suindicate è segnalata da molti (112), persino da parte di coloro che sono sfavorevoli all’ammissibilità del concorso esterno (113). Senza necessariamente dover avvalorare la tesi di quanti fanno leva sull’inciso « fuori dei casi di concorso nel reato », con cui si apre proprio l’art. 418 c.p., per ammettere addirittura un riconoscimento esplicito del concorso esterno nel reato associativo già da parte del legislatore del 1930 (114), non sembra comunque che le suddette ipotesi possano ostacolare l’autonomia di un concorso eventuale. È innanzitutto innegabile l’arcaicità della fattispecie di assistenza agli (111) Risponde affermativamente F. SIRACUSANO, Il concorso, cit., p. 1870 ss. In giurisprudenza nello stesso senso vedi tre sentenze emesse in data 18 maggio 1994 di cui una inedita. Le altre due vedile in Foro it., II, 1994, p. 562 ed in Cass. pen., 1994, p. 2685 con nota rispettivamente di VISCONTI, Il tormentato cammino, cit. e di CERASE, Brevi note sul concorso eventuale nei reati associativi, p. 71. In esse si osserva come sarebbe stata superflua l’emanazione di disposizioni del tipo suddetto se l’ordinamento vigente avesse consentito la ipotizzabilità del concorso dell’estraneo nel reato associativo. (112) Cfr. VISCONTI, Il concorso ‘‘esterno’’, cit., p. 1310 ss.; DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale, cit., p. 1297. (113) INSOLERA, Diritto penale e criminalità, cit., p. 101 s. (114) In tal senso SAGLIA, Osservazioni in tema di concorso eventuale nel reato associativo, cit., p. 310; GROSSO, La contiguità alla mafia, cit., p. 1190; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., Art. 110/103; CERASE, Brevi note, cit., p. 2684 s., per i quali dall’espressione contenuta negli artt. 307 e 418 c.p. « fuori dei casi di concorso nel reato » in un delitto la cui condotta tipica è descritta come ‘‘partecipazione’’ (persone che partecipano all’associazione) emergerebbero due realtà diverse: « ... concorso nel reato... » significherebbe concorso eventuale esterno, altrimenti l’espressione contenuta nella stessa norma, « persone che partecipano all’associazione », non avrebbe senso in quanto ripetitiva di uno stesso fenomeno. Da qui l’individuazione di un riferimento indiretto da parte del legislatore ad un concorso eventuale nei reati associativi. Si tratta, tuttavia, di un argomento non decisivo a favore dell’ammissibilità del fenomeno poiché tale inciso potrebbe anche solo riferirsi al concorso necessario; in questo senso anche INSOLERA, Diritto penale e criminalità, cit., p. 11 ss.
— 907 — associati. In una visione diacronica dell’organizzazione criminale, certamente poco determinante appare il dare « rifugio o fornire il vitto a talune delle persone che partecipano all’associazione » (115). Ma uno scarso spazio di operatività ha anche l’ipotesi di favoreggiamento nei confronti di associati mafiosi ex art. 378, secondo comma, c.p. (116). Così come il reato previsto dall’art. 418 c.p., tale figura trova applicazione solo se rivolta ad uno o a determinati associati e non all’organizzazione nel suo complesso (117). Entrambe le fattispecie criminose non intaccano, dunque, il campo di operatività del concorso esterno. È l’aggravante di cui all’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203 (118), però, a sollevare maggiori dubbi di compatibilità con la configurabilità autonoma del concorso esterno nel reato associativo. La punizione espressa di attività d’agevolazione delle associazioni mafiose, allorquando le stesse sono realizzate attraverso la commissione di un altro reato, in sostanza, impedisce, per alcuni (119), la punibilità a titolo di concorso eventuale; tanto più che per questa via si (115) A riprova della scarsa rilevanza di una simile ipotesi, basti pensare al limitato materiale giurisprudenziale e dottrinale sull’argomento. Più numerose sono, invece, le pronunce della Cassazione vertenti sulla sussidiarietà dell’art. 418 rispetto al delitto di favoreggiamento. (116) Per una sentenza in cui emerge chiaramente la distinzione tra delitto di favoreggiamento aggravato ai sensi dell’art. 7, d.l. n. 152/1991 e l’ipotesi di concorso nel reato associativo vedi Cass., 10 settembre 1996, in Cass. pen., 1997, p. 2706 ss., con osservazioni di ROSA. Quanto alle differenze tra i due delitti, nella stessa sentenza si fa leva sulla diversa natura dell’aiuto prestato, che qualora sia rivolto « al partecipe dell’associazione di stampo mafioso e in capo all’agente non sia riscontrabile una qualsiasi forma di collegamento con l’associazione », integra il reato di favoreggiamento; se, invece, l’agente operi non più in rapporto « alla singola attività, ma nell’attività dell’associazione sarà configurabile il reato di concorso esterno (se non di partecipazione interna) ». (117) Affermano tale differenza in relazione all’art. 418 c.p. Cass., 17 giugno 1987, in Riv. pen., 1988, p. 1195; Cass., 13 giugno 1987, ivi, 1989, p. 794, in dottrina vedi anche DE FRANCESCO, Gli artt. 416-bis, cit., p. 81; SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 153; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p.te sp., cit., p. 362. (118) In base a tale articolo la pena è aumentata da un terzo alla metà « per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo ». Sull’argomento vedi FONDAROLI, Profili sostanziali dei dd.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertiti con modifiche nella legge 12 luglio 1992, n. 203 e 31 dicembre 1991, n. 346, convertito nella legge 18 febbraio 1992, n. 172, in CORSO-INSOLERA-STORTONI, Mafia, cit., p. 664 ss.; nonché di recente DE VERO, La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 42 ss. (119) Così F. SIRACUSANO, Il concorso, cit., p. 1876, per il quale dalla subordinazione operata dal legislatore della rilevanza della circostanza alla realizzazione di un delitto, deve desumersi l’intenzione dello stesso di escludere l’ammissibilità del concorso esterno nel reato associativo. Nel panorama giurisprudenziale cfr., oltre alle tre sentenze riportate in nota n. 103, anche Cass., 27 giugno 1994, in Cass. pen., 1994, p. 2680; Cass. 30 giugno 1994, cit., p. 1114.
— 908 — giungerebbe alla « contraddizione... evidente » d’avere un semplice aggravamento di pena per chi ha tenuto un comportamento illecito agevolatore dell’associazione, mentre addirittura la punizione a titolo di concorso, con una sanzione pari a quella dell’associato, per chi tenga « un comportamento lecito atto a contribuire alla vita associativa » (120). Si tratta, ancora una volta, di un’obiezione superabile posto che l’aggravante in questione è subordinata alla commissione di un delitto e strutturata come dolo specifico, per cui è possibile che il crimine o il « fine di agevolare l’associazione di cui all’art. 416-bis » di fatto non si realizzino. L’autonomia del concorso esterno riemergerebbe nel caso in cui la condotta agevolatrice tenuta, indipendentemente dall’assumere i connotati di uno specifico delitto, si realizzi effettivamente inserendosi causalmente nell’associazione. Quanto poi al riscontrato paradosso di politica criminale, va ribadito come il presunto comportamento lecito, ad una visione più ponderata, non è in realtà tale dal momento in cui riveli il suo legame causale col reato associativo (121). Ed è proprio davanti a queste ipotesi che il concorso esterno assolve ad una funzione incriminatrice e non di mera disciplina, posto che in tutti gli altri casi le norme esistenti, sebbene con i limiti ora visti, consentirebbero un certo margine di tutela penale. La previsione dell’aggravante di cui all’art. 7, d.l. n. 152/1991, quindi, al pari delle altre ipotesi cui si è accennato, non limita in alcun modo la configurabilità del concorso esterno (122). 5. Scambio elettorale politico-mafioso: ipotesi tipizzata di concorso esterno in associazione mafiosa? — Sulla base delle valutazioni che precedono occorre a questo punto esaminare quale sia la situazione delineata dall’art. 416-ter, e quali gli eventuali rapporti con i casi descritti nei paragrafi precedenti. In uno dei primi commenti della nuova norma se ne ribadisce la superfluità, poiché allo stesso risultato si sarebbe pervenuti già attraverso il ricorso alle disposizioni sul concorso di persone (123). Seguendo una visione parzialmente diversa, in quanto opposto è il giudizio sull’opportunità della previsione legislativa, il delitto di scambio elettorale politico-mafioso altro non sarebbe se non una ipotesi espressamente tipizzata di concorso esterno. Più in particolare, muovendo dalla problematicità dell’applicazione delle norme sul concorso di persone nei (120) F. SIRACUSANO, Il concorso, cit., p. 1876. (121) Cfr. VISCONTI, Il tormentato cammino, cit., p. 573; ID., Il concorso ‘‘esterno’’, cit., p. 1312 s. (122) Così anche DE VERO, La circostanza, cit., p. 53 s., il quale conclude però per l’inopportunità del ricorso al concorso esterno nel rispetto dei principi del diritto penale ‘‘classico’’. (123) PLOTINO, Legge Martelli antimafia, Roma, 1992, p. 57.
— 909 — reati associativi, si constata l’utilità della nuova fattispecie in quanto ne consentirebbe il superamento (124). Secondo un opposto modo di vedere, invece, l’art. 416-ter andrebbe sganciato dal concorso esterno, per essere inquadrato fra le situazioni in cui il contributo del terzo, nel perseguimento di un interesse proprio, è rivolto a singole operazioni delittuose, senza alcuna relazione con le finalità associative (125). In mancanza della disciplina autonoma dell’art. 416-ter, dunque, il politico che avesse tenuto la condotta ora espressamente punita, non avrebbe potuto essere chiamato a rispondere di concorso nel reato associativo, bensì solamente degli « eventuali delitti di attentato contro i diritti del cittadino commessi dagli associati » (126). Egli, infatti, pagando l’associazione, non mirerebbe ad aiutarla, bensì a ricavarne solo un proprio interesse. Il peculiare atteggiamento psicologico del soggetto politico evidenzierebbe pertanto la responsabilità solo per il singolo eventuale delitto e non anche il concorso nel reato associativo. Altri giungono alla stessa conclusione, ma attraverso un diverso ragionamento che, anziché sull’elemento psicologico, fa leva, più correttamente, sulla qualità del contributo. Si precisa che la difficoltà di individuare, nel caso di specie, una ipotesi di concorso esterno risiede nel fatto che solo raramente l’erogazione di denaro, operata dal candidato, può essere considerata un contributo significativo alla vita delle associazioni mafiose, specie se di notevoli dimensioni, « stante la grande disponibilità di denaro di cui esse godono normalmente » (127). Più drasticamente, un’altra tesi configura direttamente una ipotesi di partecipazione nell’associazione di tipo mafioso nel caso in cui un politico stringa un accordo elettorale con l’organizzazione criminale, ma solo ad elezione avvenuta. Tale condotta paleserebbe una ‘‘disponibilità’’ permanente a favorire politicamente l’associazione illecita durante il mandato (128). La possibilità di evidenziare nella fattispecie di cui all’art. 416-ter una ipotesi tipizzata di concorso esterno nell’associazione mafiosa è, invece, negata in radice da quanti ritengono che un mero accordo e, quindi, qualcosa di meramente potenziale, non possa causalmente contribuire al rafforzamento dell’organizzazione criminale. Secondo questo modo di vedere, presupposti per un simile inquadramento sarebbero, semmai, il suc(124) In questo senso DE FRANCESCO, Gli artt. 416-bis, cit., p. 74 ss. (125) Così SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 143. (126) Ibidem, p. 147. (127) GROSSO, Accordo elettorale, cit., c. 122. (128) TURONE, Il delitto di associazione, cit., p. 347; neppure richiede il presupposto della elezione CORDOVA, Il voto di mafia, in Micromega, 1992, n. 47, poiché, precisa l’A., la disponibilità del candidato a favorire il sodalizio criminoso si perfezionerebbe sin dal patto di scambio elettorale.
— 910 — cesso elettorale e la circostanza che alla prestazione promessa « faccia riscontro (almeno) una parziale esecuzione » (129). A ben vedere, le diverse interpretazioni sulla natura del delitto di scambio elettorale politico-mafioso sono espressione della difficoltà pratica di accertamento probatorio dei casi di concorso esterno. La validità delle riflessioni di carattere dogmatico sulla sua ammissibilità è messa a dura prova davanti ai casi concreti. Quand’anche, in altri termini, si riescano a fornire sufficienti appigli per il riconoscimento teorico dell’istituto, resta l’insuperabile problematicità di un suo accertamento. Le trasformazioni che l’applicazione delle norme sul concorso di persone ai reati associativi comporterebbe sotto il profilo della causalità sono difficilmente valutabili. La situazione diviene allora paradossale: allorquando si prende atto che per integrare la partecipazione all’associazione mafiosa è sufficiente l’assunzione di un ruolo al suo interno, per quanto non consacrato da un rituale di affiliazione, il concorso esterno andrebbe limitato ai casi in cui il contributo non è tale da manifestare l’avvenuto inserimento organico, ma in ogni modo si riveli causalmente orientato ad agevolare l’associazione. Quando poi, per facilitare l’individuazione della rilevanza causale del contributo dell’extraneus, si propone di scomporre il mega-evento associazione in entità dotate di sostrato empirico maggiormente afferrabili, si riduce inevitabilmente il distacco dalle ipotesi di concorso nei singoli delitti-scopo e dai reati collaterali al fenomeno mafioso (130). Come interpretare allora la condotta di cui all’art. 416-ter? Può il politico estraneo all’associazione, erogandovi denaro per ottenerne il procacciamento di voti, contribuire causalmente al perfezionamento del reato associativo? La situazione normativa, ora prevista, potrebbe prestarsi ad una risposta affermativa, qualora le circostanze del caso specifico delineino tale determinazione causale del fatto. Anche la dazione di denaro in cambio della promessa di voti sarebbe cioè sufficiente ad integrare una ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, sempreché se ne dimostri l’effettivo, e non solo potenziale, contributo rafforzativo dell’organizzazione criminosa (131). Né l’agire del politico per un interesse proprio escluderebbe la mede(129) VISCONTI, Patto politico-mafioso, cit., c. 446; analogamente FIANDACA, Accordo elettorale, cit., c. 129. (130) I quali peraltro possono essere aggravati se finalizzati ad agevolare l’associazione mafiosa. (131) Tutto dipenderebbe in definitiva dal tipo di promessa e dall’importanza dell’uomo politico; così anche GROSSO, Accordo elettorale, cit., c. 122. In giurisprudenza Trib. Palmi, 25 marzo 1996, cit., c. 441; Trib. Palermo, 4 aprile 1998, in Foro it., 1999, c. 44 ss., con osservazione di VISCONTI; contra, invece, come si è visto, FIANDACA, Accordo elettorale, cit. c. 129.
— 911 — sima soluzione, posto che questi risponderebbe con dolo generico di un reato a dolo specifico, allorché abbia consapevolezza dei metodi e degli scopi degli associati, nonché del nesso esistente tra la sua condotta e l’associazione illecita volta al perseguimento dei fini oggetto del programma criminoso (132). Ma se l’accordo non avesse tale efficacia causale non si potrebbe far operare il combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p. In assenza di una norma ad hoc, qual è l’art. 416-ter, tale condotta non causalmente orientata al rafforzamento dell’associazione mafiosa, quindi, non potrebbe essere punita. In effetti, l’accordo sinallagmatico tra politico e organizzazione criminale è punito di per sé dalla fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso; indipendentemente, cioè, dall’impatto causale sul fatto associativo. Ma in ogni modo la previsione nell’art. 416-ter della medesima pena applicabile ricorrendo all’art. 110 rende inutile l’interrogativo. Altre volte, però, la distinzione tra queste situazioni, specie se la soluzione comporti un differente margine sanzionatorio, facendo perno su dati poco afferrabili, può diventare un pericoloso strumento discrezionale nelle mani del giudice (133). Inoltre, quand’anche si ritenesse la fattispecie di cui all’art. 416-ter un’espressa tipizzazione di concorso esterno, sì da consentire al giudice di non imbattersi in problemi di operatività dell’art. 110 c.p. (134), esulerebbero comunque i casi lasciati scoperti dalla norma di parte speciale. Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso è punito nel solo caso in cui il corrispettivo dei voti sia il denaro. Restano comunque fuori, di conseguenza, proprio le situazioni, maggiormente verificabili, in cui in cambio dei voti vengano promesse agevolazioni di varia natura (135). Di fronte a (132) SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 148, in nota, esclude, nell’ipotesi di cui all’art. 416-ter, il concorso esterno per l’atteggiamento psicologico dell’agente. Egli, scrive l’autore, « persegue solo il proprio interesse e cercherà di erogare all’associazione la minore somma possibile », non considerando, però, che anche in questo caso la consapevolezza di collaborare con i membri dell’associazione e dei fini da loro perseguiti è sufficiente ad integrare la condotta del concorrente esterno sul piano soggettivo. (133) Di recente, ribadiscono il rischio di conferire al giudice un potere discrezionale nella determinazione di volta in volta degli estremi del concorso esterno, tra gli altri, CIANI, Osservazioni, cit., p. 1078; FIANDACA, Associazioni per delinquere « qualificate », cit., p. 61, scrive incisivamente l’A. che « l’impiego del modello causale in sede di accertamento processuale del concorso esterno rischia di scadere in una ‘‘metafora’’ o in un espediente retorico, che in realtà sottende un giudizio di tipo intuitivo-impressionistico sulla meritevolezza della pena di determinate forme di contiguità: un giudizio che rimane, inevitabilmente, aperto a una eccessiva discrezionalità da caso a caso ». (134) Tale è l’impostazione di DE FRANCESCO, op. ult. cit. (135) Si tratta, peraltro, di ipotesi espressamente punite dall’art. 96, d.P.R. n. 361/1957 nel caso in cui, come già visto, referente dell’esponente politico sia un singolo elettore che promette il suo voto.
— 912 — queste ipotesi è naturale che il problema dell’ammissibilità del concorso esterno tornerebbe a ripresentarsi (136). La espressa previsione della fattispecie criminosa di cui all’art. 416-ter, quand’anche potesse considerarsi come ipotesi tipizzata di concorso esterno, dunque, non risolve i problemi, ma è destinata solo a spostarli. 6. Il politico colluso con la mafia: ancora sulle dovute differenziazioni. — Ricapitolando, relativamente ai rapporti mafia-politica sono enucleabili almeno cinque tipi di comportamento. Se l’azione descritta dall’art. 416-ter sia tenuta da chi abbia già assunto un ruolo, anche di fatto, all’interno dell’organizzazione di cui all’art. 416-bis si configurerebbe direttamente il reato di partecipazione ad associazione mafiosa. Lo stesso accadrebbe qualora la promessa dei voti venga richiesta dall’affiliato in cambio di favori di varia natura (137). Qualora, invece, il politico non affiliato, stipuli con l’organizzazione criminale uno scambio di favori con altra utilità, valutata positivamente l’efficacia causale sul fatto associativo, saremmo di fronte ad una ipotesi di concorso esterno (138). Del tutto peculiare, investendo problematiche di altra natura, al momento solo accennabili, è l’ipotesi in cui il pactum sceleris contempli da un lato il procacciamento dei voti e dall’altro prestazioni di attività che costituiscono oggetto di prerogative parlamentari. In questo caso è bene distinguere tra attività costituenti esercizio o adempimento delle funzioni parlamentari, coperte dalle immunità parlamentari (139) e, come tali, insindacabili penalmente, e fatti antecedenti o susseguenti rispetto ai voti dati o alle opinioni espresse, per contro penalmente sindacabili. Pertanto, rimanendo nel settore che qui interessa, sarebbe ad esempio contestabile (136) Lo stesso DE FRANCESCO, op. ult. cit., del resto, che individua la soluzione migliore al problema nella puntuale tipizzazione espressa delle fattispecie di agevolazione rilevanti, ritiene che per queste ipotesi torni ad operare lo strumento dell’art. 110 c.p. Contra FIANDACA, Accordo elettorale, cit., c. 129, sul rilievo che si aggirerebbero in questo modo i « precisi confini entro i quali lo stesso legislatore ha considerato penalmente rilevante un accordo politico-mafioso... con conseguente violazione del principio di stretta legalità ». Parimenti VISCONTI, Patto politico-mafioso, cit., c. 446 ritiene una simile conclusione contraria alla volontà del legislatore storico. (137) In questo senso cfr. Cass., 8 giugno 1992, in Foro it., 1993, II, c. 133. (138) Senza che lo si debba pretendere categoricamente, con maggiore probabilità ciò sarà riscontrabile ove il sinallagma trovi realizzazione bilaterale. Ciò che conta, comunque, è che non un qualsiasi accordo in base al quale un candidato si assicuri il sostegno elettorale di un’organizzazione mafiosa, in cambio di favorirla una volta eletto, è sufficiente a configurare una ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, ma solo quello la cui concreta idoneità ad agevolare l’organizzazione criminale, o una sua parte, risulti comprovata. Cfr. Trib. Palermo, 4 aprile 1998, cit., c. 46. (139) L’art. 68, primo comma, Cost. dispone, infatti, che « il parlamentare non può essere perseguito per i voti dati e per le opinioni espresse nell’ambito del suo mandato ».
— 913 — il reato di corruzione al parlamentare che prima della votazione riceva la somma di denaro per votare in un determinato modo (140). Proseguendo, se lo scambio denaro-voti avviene tra il politico ed un esponente dell’associazione mafiosa uti singulus considerato, si configura il reato di corruzione elettorale. Solo, infine, qualora il politico scambi l’erogazione del denaro con la promessa di voti da parte del sodalizio mafioso, indipendentemente dall’impatto che tale accordo può avere sul fatto associativo, opera l’art. 416ter. La situazione incriminata dalla nuova norma ha dunque un’operatività alquanto ristretta. In verità, qualunque intervento legislativo volto a incriminare ‘‘fenomeni’’ di criminalità così macroscopici, come l’associazione mafiosa, è destinata a lasciare irrimediabilmente spazi vuoti di tutela. Volendo inseguire situazioni in inafferrabile evoluzione, è naturale che nei tempi fisiologicamente necessari per sussumerle al controllo penale, esse hanno già mutato il loro aspetto (141). È altrettanto vero, tuttavia, che la ragione di tutto questo è da ricercare nell’insufficienza di una risposta solo sanzionatoria al problema. Per arginare fenomeni di questa portata, in effetti, la risposta non deve e non può venire solo dal legislatore, né tantomeno dal giudice. 7. Considerazioni conclusive sulle sorti delle condotte ‘‘contigue’’ al fenomeno mafioso. — Posta questa necessaria premessa, al giurista resta il compito di suggerire le strade normativamente percorribili per una migliore tipizzazione dei comportamenti penalmente rilevanti. In una prospettiva de iure condendo due vie si appalesano, in particolare, come possibili soluzioni, entrambe fondatamente prospettabili anche se una, forse, in definitiva preferibile. La prima strada potrebbe essere quella di una puntuale tipizzazione legislativa delle varie condotte di agevolazione penalmente rilevanti. Se le condotte di collaborazione dall’esterno all’associazione mafiosa devono essere punite, sarebbe bene, cioè, che il legislatore lo chiarisca di volta in volta in appositi reati. Si tratta, d’altra parte, di seguire la scia segnata dal legislatore del 1992 che, per quanto in modo incompleto, ha previsto (140) Su queste tematiche vedi amplius FIANDACA, Accordo elettorale, cit., c. 128; VISCONTI, Patto politico-mafioso, cit., c. 447, il quale, tuttavia, avverte sulla possibilità che i ‘‘costi’’ di un intervento della giurisdizione penale, in una materia tanto delicata come quella dei meccanismi della democrazia parlamentare, possano rivelarsi più dei benefici. La tendenza a distinguere le condotte antecedenti o susseguenti alle opinioni espresse e ai voti dati dalle attività costituenti adempimento delle funzioni parlamentari sotto il profilo della insindacabilità penale, è confermata dalla Cass. sent. n. 432/1994, in Foro it., 1995, I, c. 1076. (141) Di fronte ad una mafia imprenditrice o ‘‘quotata in borsa’’ è chiaro che fattispecie come ad es. quella dell’art. 418 c.p., ma probabilmente anche come quella dell’art. 416-ter, appaiono oggi poco incisive.
— 914 — espressamente la punibilità del politico che allacci rapporti con l’associazione mafiosa nei termini già visti (142). Creare specifiche fattispecie incriminatrici che riescano a tipizzare la varietà degli apporti esterni all’associazione mafiosa è la soluzione che senz’altro meglio risponde alle esigenze di tassatività ed, a quelle collegate, di certezza e frammentarietà del diritto penale (143). Si è visto come l’atteggiamento di chi ottiene la promessa di voti dagli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio dell’erogazione di denaro potrebbe integrare, in assenza di una espressa previsione normativa ora una ipotesi di partecipazione, ora una di concorso esterno, a seconda se siano riscontrabili nel caso concreto i presupposti dell’una o dell’altra. Il problema di una distinzione tra le due ipotesi però verrebbe meno proprio se il comportamento venisse tipizzato in una apposita previsione normativa indipendentemente da quei presupposti. Così è avvenuto ad esempio per la fattispecie di cui all’art. 416-ter. Ad una più attenta analisi, tuttavia, ci si accorge che questa strada ha in sé un limite. Basta, infatti, richiamare le osservazioni fatte in merito alla previsione del delitto di scambio elettorale politico-mafioso per rendersi conto di un disagio inevitabile. La puntualizzazione delle condotte rilevanti tramite ennesime norme ad hoc è destinata a lasciare fisiologici vuoti di tutela. Il richiamo ad una norma estensiva della punibilità qual è l’art. 110 c.p. ritornerebbe, cioè, inesorabile nei casi lasciati scoperti dalla norma specifica. Si pensi, ancora una volta, allo stesso art. 416-ter c.p. che punisce lo scambio della promessa di voti solo con l’erogazione di denaro lasciando scoperte le ipotesi, senz’altro più frequenti, in cui oggetto di scambio sia qualcosa diversa dal denaro. Sembra preferibile, pertanto, prospettare una soluzione normativa unitaria, concentrata a incriminare ogni contributo doloso al mantenimento ed al rafforzamento delle organizzazioni criminali da chiunque fornito (144). (142)
È questa la strada prospettata fra gli altri da DE FRANCESCO, op. ult. cit.; SPA-
GNOLO, L’associazione, cit., p. 152; VINCIGUERRA, I reati associativi nell’esperienza giuridica
europeo continentale, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 101 ss.; ed ora anche da VISCONTI, Il concorso esterno tra aspetti, cit., p. 759. (143) Specie per quanti come VINCIGUERRA, I reati associativi, cit., p. 114, sono convinti che « non siamo bravi come i tedeschi i quali riescono a far funzionare bene un sistema penale in cui la tassatività lascia largo spazio alle clausole generali ». (144) Così adesso, dopo un vaglio critico della fattispecie del concorso esterno, anche DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 41, il quale parla di una sorta di fattispecie autonoma di agevolazione dolosa che incrimini chi contribuisce al mantenimento ed al rafforzamento dell’associazione criminale « anche nell’esercizio legittimo di attività economico-imprenditoriali, professionali e di rappresentanza politica »; parimenti SPAGNOLO, voce Reati associativi, in Enc. giur. Treccani, V aggiornamento, p. 12 richiede de lege ferenda che accanto alla fattispecie partecipativa figuri
— 915 — La scelta della tipizzazione di una condotta di questo tipo trova peraltro conforto nell’esperienza giuridica europea (145). Si pensi ad es. al § 129, primo comma, Strafgesetzbuch che configura il reato di associazione criminale punendo oltre i costituenti ed i partecipanti come membri all’organizzazione anche chi « für sie wirbt oder sie unterstützt ». È dunque prevista espressamente la punibilità della propaganda o del sostegno all’associazione da parte di chi non vi partecipa (146), dall’esterno. Parimenti va ricordato anche l’art. 299, secondo comma, del codice penale portoghese, riformato sul punto nel 1995, che punisce per associazione per delinquere, oltre i partecipi, anche coloro i quali l’appoggiano (147). Nello stesso senso il nuovo codice penale spagnolo del 1995 che all’art. 518 punisce come i « membri attivi » dell’associazione, puniti dall’art. 517, anche « coloro che con i loro aiuti economici o di qualsiasi altro tipo, comunque rilevante, favoriscono la fondazione, l’organizzazione o l’attività delle associazioni... » (148). L’escamotage offerto da un’espressa previsione di questo tipo consentirebbe un duplice vantaggio: oltre ad essere ugualmente rispettosa del principio di tassatività permetterebbe di adeguare a tali condotte, consacrate estranee all’associazione criminale, un’adeguata sanzione penale. un’ulteriore condotta punibile caratterizzata dal fatto che il soggetto sostiene l’organizzazione criminale pur rimanendo estraneo ad essa. A favore, comunque, di un intervento legislativo che sottragga lo spinoso tema della configurabilità del concorso esterno nel reato associativo al monopolio della giurisprudenza e che preveda, eventualmente, un trattamento sanzionatorio meno rigoroso di quello previsto per l’associazione mafiosa vedi, fra gli altri, FIANDACA, Mafia e « concorso esterno », ragioni il Parlamento, su L’Unità del 22 novembre 1996; ID., Associazioni per delinquere « qualificate », cit., p. 61; LATTANZI, Partecipazione all’associazione, cit., p. 87. (145) Per una indagine storica e comparatistica della disciplina dei delitti associativi, vedi diffusamente ALEO, Sistema penale, cit., p. 55 ss. (146) Dispone precisamente il § 129, primo comma, StGB « Chiunque fonda un’associazione i cui scopi o le cui attività siano diretti a commettere reati o partecipa ad una tale associazione come membro, la propaganda o la sostiene, è punito con la pena detentiva fino a cinque anni o con la pena pecuniaria », Il codice penale tedesco, traduzione a cura di DE SIMONE, FOFFANI, FORNASARI, 1994. Vedi sull’argomento VINCIGUERRA, I reati associativi, cit.; SPAGNOLO, voce Reati associativi, cit., p. 12; VISCONTI, Il tormentato cammino, cit., c. 565, nota 13; ID., Difesa di mafia, cit., c. 622 s. (147) In base all’art. 299, secondo comma, del codice penale portoghese « È punito con la stessa pena di chi fa parte di tali gruppi, organizzazioni o associazioni chi li appoggia, in particolare fornendo armi, munizioni e strumenti del delitto, protezione o locali per le riunioni, o qualsiasi aiuto al fine del reclutamento di nuovi elementi », Il codice penale portoghese, traduzione di G. TORRE, 1997. (148) Il codice penale spagnolo, traduzione di NARONTE, 1997. Sul punto ancora VINCIGUERRA, I reati associativi, cit., p. 114, il quale si compiace maggiormente per lo sforzo di tassatività compiuto dal legislatore spagnolo manifestato nella redazione dell’art. 576, primo comma, in materia di terrorismo politico. Secondo VISCONTI, Il concorso esterno tra aspetti, cit., p. 758, nell’art. 576, primo comma, a differenza delle altre norme richiamate su nel testo, andrebbe individuato un secondo modello di tipizzazione del fiancheggiatore, basato sulla descrizione delle modalità di condotta, anziché sul ruolo assunto.
— 916 — A quest’ultimo proposito, invero, si potrebbe facilmente dubitare della legittimità di orientare la pena per l’agevolatore esterno sempre e comunque in bonam partem rispetto a quella per il partecipe di associazione mafiosa, posto che non se ne capirebbe sempre il fondamento. Basti pensare, ad es., alla condotta di un avvocato o di un magistrato che agevoli l’associazione « aggiustando » un processo a carico dei suoi membri, rispetto a quella di chi, in seno all’organizzazione criminale, svolge semplicemente il ruolo di autista di un boss mafioso (149). A ben vedere, l’osservazione sembra nascere da un equivoco. La distinzione dogmatica fra la condotta del concorrente esterno e quella del partecipe, come si è più volte ribadito, non poggia tanto sull’entità del contributo, rilevante solo per determinare l’impatto sul fatto associativo, quanto sull’inserimento o meno del soggetto agente nell’organizzazione mafiosa. Semmai tali dubbi attengono all’opportunità di continuare a punire i partecipi dell’associazione mafiosa indistintamente ‘‘per ciò solo’’. In altre parole, l’esigenza di una prospettiva riformistica della materia non può non investire la stessa previsione del reato di associazione mafiosa (150), se non addirittura interi connotati strutturali del concorso di persone nel reato (151). Parzialmente in questa direzione si muove, inoltre, una recente proposta di legge, volta ad inserire nel codice penale vigente un art. 416-quater dalla rubrica ‘‘Sostegno esterno ad associazione di tipo mafioso’’ (152). Essa punirebbe con la reclusione da due a cinque anni « chiunque, al di fuori dei casi di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso, realizza in maniera non episodica condotte di sostegno ad una associazione di tipo mafioso o arreca un contributo di tale rilevanza da avvantaggiare l’associazione nel suo complesso ». (149) È l’esempio mosso da MARINUCCI, nella Relazione di sintesi del Convegno di Courmayeur, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 300, per sostenere tali dubbi. (150) Vedi a riguardo le interessanti prospettive di SPAGNOLO, voce Reati associativi, cit., p. 12, il quale auspica una riforma della fattispecie partecipativa richiedendo per la punibilità sia l’affiliazione all’associazione, sia il contributo materiale. Sui vantaggi di questa soluzione, ma anche sui rischi che essa comporta vedi, tuttavia, retro a p. 16 ss. (151) Già nel senso di un’attenuazione del deficit di determinatezza che caratterizza strutturalmente la disciplina del concorso di persone si muove il Progetto di legge delega per un nuovo codice penale, del 1992, cfr. Relazione allo schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, parte generale, in Documenti della giustizia, 1992, n. 3, p. 306 ss. (152) Si tratta della proposta di legge n. 3598, presentata alla Camera dei deputati il 17 aprile 1997 dall’on. Li Calzi ed altri, in Atti parlamentari della Camera dei deputati, XIII legislatura, riferimenti in ROSA, Osservazioni, cit., p. 2711; VISCONTI, Il concorso esterno tra aspetti, cit., p. 759, il quale nel sottolinearne la tecnica di tipizzazione legislativa la definisce ambivalente: « da un lato, infatti, viene posto l’accento sull’estraneità (e quindi in negativo sull’assenza di un ruolo) all’organigramma dell’associazione di colui che sostiene l’associazione, mentre dall’altro, si cerca di fissare un duplice e alternativo presupposto di punibilità... ».
— 917 — Sicuramente encomiabile per lo sforzo di chiarezza compiuto, tale proposta non si rileva ancora pienamente soddisfacente. Non sembra che i criteri utilizzati per l’individuazione del sostegno esterno possano dirimere tutti i problemi. In particolare, non convince il duplice ed alternativo presupposto di punibilità individuato nel carattere di non episodicità, e quindi duraturo, della condotta di sostegno o nella forza causale del contributo arrecato, « tale da avvantaggiare l’associazione nel suo complesso ». Come si è visto, posto che la partecipazione è desumibile anche da facta concludentia, la stabilità dei contributi arrecati all’organizzazione potrebbe essere indice dell’assunzione di un ruolo al suo interno. Per di più, la circostanza che i due presupposti siano richiesti in via alternativa lascerebbe il dubbio sulla rilevanza di un unico contributo avente da solo efficacia causale. In effetti, proprio la previsione in via alternativa e non aggiuntiva del secondo presupposto militerebbe a favore della rilevanza del contributo unico, ma, se così è, si dimostrerebbe sicuramente inutile il requisito del « sostegno non episodico », per suo conto, poi, probabilmente fuorviante ai fini della distinguibilità della figura del partecipe. MARIA TERESA COLLICA Università di Messina
L’ARTICOLO 513 C.P.P. FRA CONFLITTI IDEOLOGICI E PROBLEMI DI STRUTTURA
SOMMARIO: 1. Le ragioni dei contrasti sulla disciplina dell’art. 513 c.p.p. — 2. Incostituzionalità dell’art. 513 comma 2 c.p.p. — 3. Illegittimità costituzionale dell’art. 210 c.p.p. — 4. Illegittimità costituzionale dell’art. 238 comma 4 c.p.p. — 5. Una possibile conclusione.
1. Le ragioni dei contrasti sulla disciplina dell’art. 513 c.p.p. — All’indomani dell’entrata in vigore della legge 7 agosto 1997, n. 267 si comprese subito che le vicende travagliate della disciplina prevista dall’art. 513 c.p.p. non erano giunte certamente alla fine e che, quindi, l’intervento della Corte costituzionale rappresentava un’evenienza annunciata (1). Ed oggi, immediatamente dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998 (2), anche sulla base di un’informazione spesso approssimativa e niente affatto approfondita, sembra essersi scatenata una nuova ‘‘guerra di religioni’’ combattuta sull’onda emotiva di affermazioni che — forse con una certa superficialità e talvolta con una visione preconcetta se non addirittura faziosa — tirano in ballo i principali diritti civili o l’esito della ‘‘guerra alla mafia’’ (3). Tutto ciò induce a rite(1) RICCIO, Nuove letture dibattimentali e forme ‘‘alternative’’ di acquisizione probatoria, in Diritto penale e processo, 1997, n. 10, p. 1176, già parlava chiaramente di ‘‘un coro di voci emotive — anche quelle favorevoli all’avvenuta riforma — che hanno provocato l’affrettato annunzio di una pronta riforma della riforma testé pubblicata, che lascia trasparire la cattiva coscienza e la mancanza di radici culturali di quanti ragionano ancora secondo filosofie emergenziali’’. (2) In verità le dispute sono iniziate ancor prima che il 2 novembre 1998 fosse depositata la motivazione della sentenza. Infatti già da tempo erano sfuggite indiscrezioni, spesso confuse e contraddittorie, che avevano generato allarme e, addirittura, programmi conflittuali. (3) A prescindere dai primi commenti ‘‘giornalistici’’ rilasciati, forse con eccessiva precipitazione, non solo dagli operatori (magistrati ed avvocati) ma anche da eminenti personalità scientifiche, le prime osservazioni ‘‘tecniche’’ sembrano improntate a toni di forte polemica e conflittualità: per BRICCHETTI, Il meccanismo individuato dalla Corte lascia l’accusato senza un’effettiva tutela, in Guida al diritto, 1998, n. 44, p. 55, la Corte costituzionale avrebbe previsto un ‘‘simulacro delle contestazioni’’ destinato ad annullare completamente il diritto al contraddittorio; per FRIGO, Un’involuzione dell’impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, ivi, p. 61, la decisione della Corte sarebbe di portata ben più ampia, perché, in virtù del principio enunciato nella sentenza, tutto l’impianto del codice del
— 919 — nere che in tempi non lunghi il Parlamento sarà chiamato nuovamente ad affrontare la questione. In effetti, la disciplina dell’art. 513 c.p.p. (4) ha rappresentato un costante campo di battaglia fra le forze politiche e fra i sostenitori delle varie culture e ‘‘filosofie’’ poste a base dei modelli processuali, fin dall’entrata in vigore del codice del 1988, così richiamando l’attenzione della dottrina che si è variamente applicata alla sua interpretazione (5). Basti pensare che la norma, nei primi nove anni di applicazione del codice del 1988, ha operato con ben quattro formulazioni diverse, espressioni dei vari modelli che di volta in volta si sono affermati: l’originaria impostazione del codice del 1988; la sostanziale modifica apportata dagli interventi della Corte costituzionale del 1992 (6); la novella della legge n. 267/97; la previsione, sostanzialmente innovativa, apportata della sentenza ‘‘manipolativa’’ della 1988 sarebbe incostituzionale. Su posizione diametralmente opposta si schierano: RIVELLO, La possibilità di procedere al controesame salva il principio del contraddittorio, ivi, p. 65, plaude alla decisione della Corte, autrice di ‘‘un’operazione di apprezzabile ingegneria normativa; su un orientamento analogo si pone anche il commento di GIORDANO, Una scelta coerente con il sistema processuale che elimina le incongruenze della riforma, ivi, p. 70. In chiave problematica, NAPPI, La decisione della Corte costituzionale sull’art. 513 c.p.p.: un’importante innovazione che lascia aperti molti problemi, in Gaz. giur., 1998, n. 40, p. 1 s., rileva l’inadeguatezza della disposizione del comma 5 dell’art. 503 c.p.p. — a cui la Corte ha fatto rinvio — ‘‘rispetto ai problemi che pone una dichiarazione accusatoria acquisita ed utilizzata ai fini della decisione benché sia stata rilasciata senza la garanzia, anche oggettiva, del contraddittorio’’. (4) L’articolo è stato definito ‘‘tra i meno lineari dell’intero codice’’ da NOBILI, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, V, Torino 1991, p. 438. (5) BARGIS, L’esame di persona imputata in procedimento connesso nel nuovo codice di procedura penale, in Giur. it., 1990, p. 44; MURONE, Deformazione della prova dibattimentale e lettura di interrogatori resi da imputati dello stesso reato o di reato connesso, in Giust. pen., 1992, I, c. 327; D’AMBROSIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, II, Torino, 1990, p. 523; PETRILLO, L’utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese dall’imputato ‘‘connesso’’, in Cass. pen., 1991, p. 539; SANNA, Il contributo dell’imputato in un diverso procedimento: forme acquisitive e garanzie di attendibilità, in questa Rivista, 1995, p. 490; NOBILI, Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, ora in Foro. it., 1989, p. 278. (6) Ci riferiamo al ‘‘pacchetto’’ di sentenze di quell’anno: la n. 24, relativa all’art. 195 c.p.p.; la n. 255, relativa all’art. 500 c.p.p., seguita dalla conforme modifica dell’articolo apportata dal d.l. n. 306/92, convertito nella legge n. 356/92; la n. 254, relativa all’art. 513 c.p.p., che a dire di RICCIO, Ragioni del processo penale e resistenze eversive, tra novellazioni e prassi, ora in Ideologie e modelli del processo penale, Napoli, 1995, p. 201, avrebbe ‘‘aperto una falla inquisitoria che appariva non arginabile e — quel che è peggio — che esasperava lo squilibrio dei poteri tra le parti’’. La critica al ‘‘pacchetto giurisprudenziale del 1992’’, fonte di abiura dell’obiettivo originario del codice, ha costituito un coro unanime: cfr. FERRAIOLI, Dubbi sull’acquisibilità delle dichiarazioni in precedenza rese dall’imputato — o coimputato — che rifiuti l’esame in dibattimento, in Giust. cost., 1992, p. 1949; GREVI, Facoltà di non rispondere delle persone esaminate ex art. 210 e lettura dei verbali di precedenti dichiarazioni, in questa Rivista, 1992, p. 1124; MURONE, Deformazione della prova, loc. cit., p. 325.
— 920 — Corte costituzionale del 1998. Il che la dice lunga sulle inevitabili disparità di trattamento — verificatesi e che si continueranno a verificare — fra coloro che sono stati giudicati in virtù di una o di altra delle discipline succedutesi nel tempo, in ossequio al principio del tempus regit actum operante in materia processuale. Così come appare del tutto giustificato il senso di sfiducia nella giustizia e di disorientamento che un fenomeno siffatto ha prodotto e produce nell’immaginario collettivo. Tutto ciò era già chiaro quando, appena emanata, la legge n. 267/97 fu letta in chiave diversa dai vari commentatori (7) e fu salutata da una parte della magistratura come una sconfitta per coloro che erano impegnati nella lotta alle mafie mentre la giurisprudenza ha via via assunto posizioni del tutto contrastanti, da un lato con la pronuncia di ordinanze di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale (8) e, dall’altro, con decisioni sorrette da motivazioni di apprezzamento culminate in due recentissime sentenze delle sezioni unite della Corte di cassazione (la motivazione dell’ultima è stata depositata praticamente contestualmente a quella della Corte costituzionale) che riconoscevano ampi meriti al legislatore del 1997 per l’operata rivalutazione del fondamentale principio del contraddittorio ed affermavano la legittimità costituzionale della nuova normativa introdotta all’art. 513 c.p.p. (9). (7) RICCIO, Nuove letture dibattimentali, cit., loc. cit., p. 1194, escludeva che con la legge n. 267/97, che pure faceva cadere ‘‘il mito della centralità del dibattimento’’ fosse autorizzata l’opinione di una controriforma dal sapore di processo misto’’ ed affermava che il complesso delle modifiche normative appariva idoneo al ‘‘recupero della parità delle armi nei momenti di formazione della prova’’. Su posizione analoga, cfr. FERRUA, Un errore di diritto della Suprema Corte, in Gaz. giur., 1998, n. 17, p. 1, il quale definisce meritoria l’opera di ricostituzione del contraddittorio realizzatasi con la riforma dell’art. 513 c.p.p. da parte del legislatore del 1997, lamentando altresì la parzialità dell’intervento che non avrebbe inciso anche sulle altre norme (artt. 195 e 500 c.p.p.) colpite dalla ‘‘svolta inquisitoria’’ del 1992. In chiave problematica si pone ZAPPALÀ, Processo penale ancora in bilico tra sistema accusatorio e sistema inquisitorio, in Diritto penale e processo, 1998, n. 7, p. 892. (8) Le ordinanze alle quali ha fatto riferimento la Corte nella sentenza n. 361/98 sono solo una piccola parte di quelle trasmesse. (9) Cass., Sez. un., 25 febbraio 1998, Gerina, in Guida al diritto, n. 15/1998, p. 46. La Corte afferma che ‘‘Le Sezioni unite sono ben consapevoli che il nuovo equilibrio perseguito dal legislatore del 1997 e il conseguente ripudio dei precedenti assetti processuali, nei quali restava pressoché vanificata la regola del contaddittorio, possono costituire un fattore di allungamento dei tempi di trattazione dei processi, ancor più rilevante con l’applicazione della disciplina transitoria in sede di legittimità. Una siffatta incidenza, però, non è stata affatto ignorata nel corso dei lavori preparatori... Ne consegue che paventare il ‘dirompente sconvolgimento dei processi in corso’... significa prospettare un argomento che, oltre ad essere dotato di una soggettività sfornita di documentati dati obiettivi che lo rendano plausibile, è inidoneo ad alterare le consapevoli e meditate scelte adottate dal legislatore nell’esercizio della propria discrezionalità politica: scelte che neppure il giudice delle leggi può sindacare quando risultino compiute in sintonia con il principio di uguaglianza con i precetti costituzionali’’. Nello stesso senso Cass., Sez. un., 13 luglio 1998, Citaristi, in Guida al diritto, n.
— 921 — Le ragioni di tanti e così accaniti contrasti in ordine alla disciplina della specifica materia — che hanno coinvolto i massimi organi istituzionali dello Stato, oltre che gli operatori del settore giustizia e l’opinione pubblica — sembrano risiedere non tanto e non soltanto nella diversità delle matrici culturali di un popolo, arrivato da breve tempo a vivere in una realtà democratica, senza avere ancora maturato intimamente una profonda coscienza dei valori fondamentali, quanto piuttosto nella situazione di ‘‘continua emergenza’’ sociale ed economica (forse essa, sì, espressione della giovinezza della democrazia italiana) che ha affidato all’intervento giudiziario, in via di supplenza, il compito di risolvere i problemi che di volta in volta si affacciano, spesso drammaticamente. Nel senso che, in mancanza di misure e strumenti idonei a prevenire l’insorgere dei fenomeni delinquenziali, si è finito per confidare nel solo intervento giudiziario, in chiave repressiva, quantomeno per arginarli. In questa logica si spiega l’ampio e diffuso ricorso allo strumento dei c.d. ‘‘pentiti’’ (10) o ‘‘collaboranti di giustizia’’, che già aveva trovato largo ed efficace impiego nella lotta al terrorismo all’inizio degli anni ’80. Ci si è, cioè, affidati ad esso, anche successivamente, nella ‘‘guerra alla mafia’’ (mediante la promulgazione di incentivanti legislazioni premiali, analoghe a quelle usate per i terroristi) e per combattere il fenomeno della corruzione dilagante nei settori della politica e della pubblica amministra39/98, p. 61, con note di BRICCHETTI e RIVELLO; ‘‘tutta l’organica riforma dell’art. 513 c.p.p. si è ispirata all’esigenza di allargare il campo delle garanzie sulla giusta premessa che la prova penale, per poter acquisire un apprezzabile tasso di affidabilità, deve essere assunta in dibattimento, nel pieno rispetto della regola del contraddittorio. Ogni altra possibilità, arcaico residuo di una cultura inquisitoria che deprime il ruolo della difesa e mortifica la terzietà del giudice, finirebbe per accreditare una deroga illiberale rispetto a quella regola, alla cui applicazione, in tutti i procedimenti in corso, non vanno opposti irrazionali rifiuti, causa fra l’altro di aberranti disparità di trattamento. In argomento non è del tutto superfluo ricordare — stante anche le non sempre limpide polemiche suscitate dalla riforma del 1997 — che la reintrodotta regola di giudizio, oltre ad essere connaturata ad un processo di tipo accusatorio, risponde a un così elementare senso di giustizia da trovare riscontro persino nel diritto romano, di cui è pur nota, in materia penale, la dura impronta autoritaria non certo sospetta di inclinazioni garantistiche ante litteram. Se ne trova infatti luminoso esempio in un episodio riferito da attendibili fonti storiche, dove si legge quale fu la risposta data da Festo, procuratore di Roma in Giudea, a quanti, sulla base di accuse formulate contro Paolo di Tarso, ne reclamavano la consegna per la condanna: ‘Io risposi — dice il Procuratore — che i Romani non usano consegnare una persona, prima che l’accusato sia stato messo a confronto con i suoi accusatori e possa aver modo di difendersi dall’accusa’’. (10) L’espressione ‘‘pentiti’’ nacque con riferimento al fenomeno del terrorismo ed in quel contesto sembrava appropriata, tenuto conto delle spinte essenzialmente ideologiche che avevano determinato tanti giovani a scegliere la strada della lotta armata prima e della revisione critica poi. Più adeguata sembra essere la definizione di ‘‘collaboranti di giustizia’’, attribuita ai dissociati dalla mafia ed a coloro che hanno confessato ed operato chiamate di correità nei processi c.d. di ‘‘tangentopoli’’, prestandosi, con tale espressione, più risalto alle modalità comportamentali ed agli effetti, rispetto alle spinte interiori, sovente di natura meramente utilitaristica.
— 922 — zione (in questi ultimi casi, in mancanza di apposite disposizioni di legge, la premialità è stata realizzata, di fatto, con l’uso discrezionale degli istituti processuali in materia di libertà personale e di giudizi differenziati). In un siffatto contesto, venuto a coincidere — per ragioni storiche — con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ispirato a criteri di stampo tipicamente accusatorio, il contrasto di esigenze non poteva che essere lacerante. E, soprattutto, era inevitabilmente destinato a concentrarsi su quelle disposizioni di legge che disciplinavano la materia della ‘‘collaborazione’’ dei chiamanti in correità. Inoltre, a differenza di quanto si è verificato con i terroristi che, spinti come erano da forze squisitamente ideologiche, una volta scelta la strada della revisione critica, la portavano avanti con coerenza, i ‘‘pentiti’’ di mafia e quelli di ‘‘tangentopoli’’ — che per lo più hanno scelto di collaborare esclusivamente in ragione di valutazioni opportunistiche — non hanno dimostrato di essere affidabili. Infatti, una volta risolto il proprio problema giudiziario, spesso hanno preferito non acuire ulteriormente i conflitti con le persone da loro in precedenza accusate, ovvero, addirittura, hanno cercato di ‘‘ricucire gli strappi’’ con quel mondo e quella cultura che, intimamente, non avevano mai abbandonato, ma solo momentaneamente ‘‘tradito’’, spinti dalla ‘‘forza maggiore’’ rappresentata dall’attuata o prospettata privazione della libertà personale, mediante l’emissione di provvedimenti applicativi della custodia cautelare. Ciò ha portato alla conseguenza che, nella stragrande maggioranza dei casi, costoro al dibattimento si sono avvalsi della facoltà di non rispondere (11). Inoltre, il problema è diventato realmente allarmante e sostanzialmente ingiusto nella prima fase di applicazione della legge n. 267/97, in quanto le disposizioni transitorie previste hanno creato un totale sbilanciamento a favore della difesa, lasciando il pubblico ministero nella totale impossibilità di sostenere in giudizio l’accusa mossa (12). (11) In verità il fenomeno ha riguardato essenzialmente i processi per reati contro la P.A. Infatti, il ricorso alla facoltà di non rispondere ha rappresentato una condotta pressoché costante per coloro che, dopo avere confessato e chiamato in correità altri nella fase delle indagini preliminari, avevano definito le proprie pendenze giudiziarie con sentenze di applicazione di pena su richiesta (in limiti compatibili con la concessione della sospensione condizionale della pena) passate in cosa giudicata. Viceversa, nei processi di criminalità organizzata, per lo più i ‘‘collaboranti’’ non si sono astenuti dal reiterare in dibattimento le proprie accuse. Ciò innanzitutto perché la gravità dei reati confessati non consentiva una definizione ‘‘patteggiabile’’ in limiti di pena nella misura di quanto già scontato ovvero compatibili con l’applicazione della sospensione condizionale. Per altro verso, i ‘‘mafiosi pentiti’’ rischiavano e rischiano continuamente le ritorsioni nei confronti loro e dei congiunti da parte dell’organizzazione criminale tradita. Pertanto non possono deludere le aspettative degli inquirenti — avvalendosi della facoltà di non rispondere al dibattimento — e perdere i vantaggi del programma di protezione che, solo, consente loro di difendere l’incolumità fisica propria e dei familiari. (12) Ciò essenzialmente nei giudizi di primo grado, poiché per quelli di impugna-
— 923 — Infatti, lo spirito della riforma del 1997 era quello di pretendere che la prova si formasse nel rispetto della giurisdizione e del contraddittorio. In tale prospettiva si sacrificavano i principi di immediatezza, oralità, pubblicità e concentrazione — consentendo che le prove potessero formarsi anche nella fase delle indagini preliminari (art. 392 c.p.p.) o all’udienza preliminare (artt. 422 e 514 c.p.p.) o anche in diverso processo (art. 238 c.p.p.) — purché fossero raccolte alla presenza del giudice e con la partecipazione dei difensori delle persone nei cui confronti si intendesse utilizzarle (13). Il vero problema, però, si è creato per quei processi per i quali, al momento dell’entrata in vigore della legge n. 267/97, era già stato emesso il decreto che disponeva il giudizio, con la conseguenza che al pubblico ministero non era più consentito di far ricorso alle procedure predisposte per la formazione anticipata della prova ed in tal modo raccogliere in contraddittorio ed innanzi al giudice le dichiarazioni di coimputati o di imputati in procedimento connesso; né aveva avuto precedentemente l’opportunità di farlo, sia perché non poteva prevedere la modifica legislativa che sarebbe intervenuta sul punto sia perché la possibilità stessa di procedere in quel modo non era prevista prima dell’entrata in vigore della legge. Una siffatta situazione, in maniera del tutto irragionevole, faceva, così, dipendere l’esito della singola controversia giudiziaria dalle scelte che, a propria totale discrezione, le persone indicate nell’art. 210 c.p.p. intendessero compiere di volta in volta nei processi a carico delle persone che in precedenza avevano accusato (14). Di qui l’inevitabile ricorso alla Corte costituzionale affinché intervenisse dichiarando l’illegittimità delle norme che consentivano l’ingiustificata dispersione della prova e la palese disparità di trattamento fra gli imputati, nei cui confronti fossero o meno utilizzabili le dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso, a secondo delle scelte da questi ultimi operate discrezionalmente (15). zione i commi 3, 4 e 5 dell’art. 6 della legge n. 267/97 consentivano, sia pure a certe condizioni — regole di comportamento e regole di giudizio — il recupero delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. (13) Per un’approfondita analisi delle disposizioni della legge n. 267/97 e delle finalità che il legislatore intendeva perseguire, cfr. RICCIO e FURGIUELE, Nuove letture dibattimentali e forme ‘‘alternative’’ di acquisizione probatoria, in Diritto penale e processo, 1997, n. 10, p. 1176 s. Sulla stessa linea, cfr. anche FERRUA, Un errore di diritto, cit., loc. cit., p. 1. (14) Si può dire che il problema si è ulteriormente acuito a seguito del tenore delle due sentenze delle Sezioni unite della cassazione (indicate retro alla nota n. 9) che hanno ribadito l’efficacia della disciplina prevista dalla legge n. 267/97 anche in via transitoria. (15) Le difficili questioni di diritto transitorio poste dalle disposizioni previste dalla legge n. 267/97 sono state affrontate già due volte dalla Corte di cassazione a Sezioni unite, nelle citate sentenze del 25 febbraio 1998, ric. Gerina e del 13 luglio 1998, ric. Citaristi (cfr. retro anche per i riferimenti dottrinari di commento alla precedente nota n. 9). In merito si vedano anche i commenti di CARCANO, Una sentenza ‘‘manipolativa’’ delle Sezioni unite, in Cass. pen., 1998, p. 1115; FERRUA, Un errore di diritto, cit., loc. cit., p. 1; GREVI, Sull’appli-
— 924 — È alla luce delle considerazioni che precedono che si può tentare di comprendere i criteri ispiratori della sentenza n. 361/98 della Corte costituzionale, sottoponendo ad un esame obiettivo — scevro da suggestioni emozionali — il contenuto delle singole dichiarazioni di illegittimità. 2. Incostituzionalità dell’art. 513 comma 2 c.p.p. — La Corte è stata chiamata a ricercare e trovare un contemperamento fra i tre interessi costituzionalmente garantiti, di volta in volta sacrificati o privilegiati nelle diverse formulazioni dell’art. 513 c.p.p. come succedutesi nel tempo. Tali interessi vengono identificati in: 1) diritto di difesa (art. 24 Cost.) del dichiarante imputato (nello stesso o in un procedimento connesso) che abbia accusato un’altra persona, di scegliere di non rispondere in dibattimento, in virtù del principio del ‘‘nemo tenetur se detegere’’; 2) diritto di difesa (art. 24 Cost.) dell’imputato accusato dalle dichiarazioni rese nella fase delle indagini dal coimputato (o imputato in procedimento connesso), che consiste nella possibilità di sottoporre al vaglio del contraddittorio (formazione dialettica della prova) le dichiarazioni stesse; 3) principio generale di ‘‘ragionevolezza’’ e di ‘‘non dispersione della prova’’ a tutela del fine tipico del processo, non affidato alla ‘‘disponibilità’’ delle parti, rappresentato dall’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità. Principio al quale era già stata riconosciuta rilevanza costituzionale con le sentenze nn. 254 e 255 del 1992. Nel senso che non si potrebbe far discendere la concreta possibilità di accertare la verità dalla scelta — discrezionale e ‘‘potestativa’’ — di un imputato di avvalersi della facoltà di non rispondere al dibattimento, così precludendo al giudice la conoscenza delle sue precedenti dichiarazioni e la possibilità di valutarle. Al fine di individuare un giusto criterio di contemperamento fra tali esigenze, la Corte ha riaffermato la correttezza costituzionale del principio ispiratore della legge n. 267/97, che intendeva impedire l’acquisizione di prove ‘‘raccolte in un contesto in cui non era assicurata la garanzia del contraddittorio’’. Ha ribadito, cioè, che, per la valida acquisizione di una prova, è indispensabile che nella fase di formazione sia assicurato all’imputato il diritto di confrontarsi con la fonte delle accuse a lui rivolte. Nel senso che, non è ammissibile l’acquisizione ‘‘meramente cartolare’’ delle dichiarazioni precedentemente rese sul fatto altrui dall’imputato di reato connesso o collegato che in dibattimento rifiuti di rispondere. Ciò in cabilità del nuovo art. 513 c.p.p. nei processi in corso, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1505 s.; MAZZA, La perdurante applicazione del vecchio art. 513 c.p.p. ai processi ormai giunti in Cassazione, in Cass. pen., 1998, p. 141; NAPPI, Commento alle nuove norme sulla valutazione delle prove, in Gaz. giur., 1997, n. 33, I, p. 1.
— 925 — quanto ‘‘la tutela del diritto di difesa impone che l’ingresso di tali elementi nel patrimonio di conoscenze del giudice sia subordinato alla possibilità di instaurare il contraddittorio tra il dichiarante e il destinatario delle dichiarazioni’’. Viceversa, ha affermato che la disciplina introdotta dalla legge n. 267/97 era priva di ragionevole giustificazione allorché prevedeva che l’utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni fosse fatta dipendere dalla scelta meramente discrezionale dell’imputato in procedimento connesso di rispondere o meno in dibattimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, ‘‘dopo che il medesimo imputato, pur avendo la facoltà di non rispondere a norma dell’art. 210 comma 4 c.p.p., si era in precedenza consapevolmente risolto a rendere dichiarazioni erga alios’’. L’enunciazione di tali principi lasciava pensare che la Corte intendesse stabilire che le persone indicate nell’art. 210 c.p.p., una volta che si fossero ‘‘consapevolmente risolte a rendere dichiarazioni erga alios’’, non potessero più rivedere la scelta operata e fossero tenute a sottoporsi all’esame dibattimentale. Convincimento ancor più fondato con riferimento all’espressa precisazione secondo la quale tale obbligo trovasse un limite solo nell’ipotesi in cui le dichiarazioni sul fatto altrui non risultassero ‘‘inscindibilmente connesse con profili di responsabilità sul fatto proprio’’, tanto da far scattare nuovamente il diritto del dichiarante ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Ciò soltanto, però, quando l’andamento dell’esame in contraddittorio possa concretamente esporre l’imputato in procedimento connesso ‘‘a nuovi e più gravi profili di responsabilità, diversi e ulteriori rispetto a quelli risultanti dalle sue precedenti dichiarazioni’’. Nonostante una siffatta premessa coerente e sistematica, la Corte non ha tuttavia tratto le conclusioni consequenziali. Infatti, non ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 4 dell’art. 210 c.p.p. nella parte in cui non limita, per gli imputati in procedimento connesso, il diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere ai soli casi in cui dall’esame dibattimentale possano emergere profili di responsabilità ‘‘diversi e ulteriori’’ rispetto a quelli risultanti dalle precedenti dichiarazioni. Viceversa, ha giudicato soddisfatto e non violato il diritto di difesa dell’accusato dalle dichiarazioni in questione, mediante il rinvio alla procedura delle contestazioni prevista dall’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p. In quanto attraverso le letture ‘‘in contraddittorio’’, si formerebbe una ‘‘prova dialettica’’ alla presenza del giudice. Quindi, ad ulteriore tutela del diritto di difesa dell’accusato, ha rivolto un invito al legislatore a ridimensionare — evidentemente più di quanto già la Corte abbia fatto mediante il richiamo al comma 4 dell’art. 500 ed all’art. 192 comma 3 c.p.p. — la valenza probatoria delle dichiarazioni precedentemente rese, attraverso la previsione di una nuova ‘‘formula normativa’’ che tenga conto delle pecu-
— 926 — liarità della provenienza delle dichiarazioni, che devono indurre a particolare ‘‘cautela’’ e ‘‘rigore’’. La soluzione adottata appare non priva di forzature e sembra porsi in contrasto con i principi affermati nella stessa sentenza. Infatti, sul piano concreto, finisce per risolversi in una sostanziale lesione del diritto di difesa — inteso come diritto al contraddittorio — per l’imputato chiamato in reità dalle dichiarazioni delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. Inoltre, rispetto al regime successivo alla sentenza n. 254/92 ed anteriore all’entrata in vigore della legge n. 267/97, risultano limitati i poteri del giudice finalizzati all’accertamento della verità. In quanto, come meglio sarà chiarito in seguito, nel tentativo di rivalutare l’accusatorietà della disciplina, si fa ricorso al meccanismo delle contestazioni che, salvaguardando il potere dispositivo delle parti in tema di ‘‘allegazione’’ probatoria, riduce il potere — ‘‘inquisitorio’’ — del giudice di conoscere e valutare globalmente il contenuto dei verbali utilizzati dalle parti per le contestazioni. In effetti, l’equivocità della decisione della Corte sembra risiedere in una sostanziale contraddizione: da un lato si equipara la disciplina prevista per l’esame dell’imputato in procedimento connesso a quella del testimone e ciò sulla base di una serie di analogie e rinvii già operati dall’ordinamento vigente (in tema di citazioni, accompagnamento coattivo, inserimento nella lista testi) (16); dall’altro non si pone alcun limite al diritto dell’imputato in procedimento connesso di avvalersi della facoltà di non rispondere, senza tenere conto che, invece, il testimone il quale rifiuti di rispondere commette il delitto di reticenza (17). Si trascura, cioè, che indipendentemente da alcune analogie di disciplina, il presupposto stesso perché si possa procedere alle ‘‘contestazioni’’ di cui all’art. 500 c.p.p. è rappresentato dal dovere — esistente per il solo teste — di rispondere alle domande e di fornire spiegazioni all’esito delle eventuali contestazioni, mentre per le persone indicate nell’art. 210 c.p.p. continua ad essere previsto che, prima ancora di procedere al loro esame, esse siano informate del loro diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere. (16) Sul punto, RICCIO, Nuove letture dibattimentali, cit., loc. cit., p. 1185, ha richiamato l’attenzione sul distinguo che va operato — nella costruzione della disciplina dei soggetti indicati nell’art. 210 c.p.p. — fra ‘‘tecnica di chiamata’’, che li assimila alla figura dei testimoni e ‘‘garanzie’’ che li equiparano agli imputati. (17) In ordine all’ibrida figura di ‘‘imputato-teste’’ riconoscibile nella posizione in cui si vengono a trovare le persone indicate nell’art. 210 c.p.p., si è molto discusso, segnalandosi anche la possibilità di distinguere il caso della chiamata di correità, che coinvolge direttamente la responsabilità del dichiarante, da quello delle accuse rivolte solo verso terzi, in relazione alle quali la posizione del dichiarante finisce per essere sostanzialmente finitima a quella del testimone. Sul tema cfr. RICCIO, Politica penale dell’emergenza e Costituzione, Napoli, 1982, p. 213 s.; D’AMBROSIO, cit., loc. cit., p. 514; GREVI, Facoltà di non rispondere, cit., loc. cit., p. 1124.
— 927 — Sotto tale profilo, dunque, non può dirsi che l’eventualità che il coimputato o imputato in procedimento connesso si avvalga della facoltà di non rispondere sia da considerare come un caso di ‘‘irripetibilità sopravvenuta’’ (18) al pari di quello del testimone che si risolva a commettere il delitto di reticenza. Viceversa, è del tutto prevedibile che la persona indicata nell’art. 210 c.p.p., spinta dalla garantita esigenza di difesa, possa scegliere di avvalersi della facoltà di non rispondere (19): proprio in considerazione di ciò, il legislatore del ’97 aveva previsto la possibilità del ri(18) Quello della ‘‘irripetibilità’’ è un concetto assai controverso, in quanto non appare corretto parlarne a proposito della prova orale, giacché in linea di principio essa è sempre ripetibile fin tanto che non si verifichi un fatto che non lo consenta più: in tal senso, si deve condividere l’orientamento della Corte che considera l’avvenuto esercizio della facoltà di non rispondere come una delle possibili ipotesi di irripetibilità. Tuttavia, si deve tenere presente che il legislatore prevede ipotesi di formazione anticipata della prova collegate ad una ‘‘irripetibilità originaria’’ (rectius ‘‘non rinviabilità’’) con riferimento, cioè, a situazioni che, per motivi fisici naturali, sono soggette ad un mutamento irreversibile: artt. 360 e 392 c.p.p. (con riferimento alle perizie ed alle ricognizioni). A cui, però, equipara situazioni per le quali, anche se astrattamente non può sin dall’inizio escludersi la ripetibilità, vi sono ragionevoli motivi per temere che in futuro possano determinarsi le condizioni per impedirne la ripetizione. Pertanto, sembra che si debba concludere che mentre la previsione dell’art. 512 c.p.p. si riferisce ai casi di irripetibilità ‘‘sopravvenuta, in quanto ‘imprevedibile’ ’’, vi sono altre diverse disposizioni che consentono l’anticipazione della formazione della prova quando originariamente sia prevedibile la loro irripetibilità. In questi ultimi casi, la parte interessata, in mancanza di attivazione delle procedure previste per la formazione anticipata della prova, perde il diritto al recupero degli atti compiuti senza la partecipazione del giudice e senza il rispetto di quel contraddittorio che pure era possibile originariamente. Sul tema, cfr. RICCIO, Nuove letture dibattimentali, cit., loc. cit., p. 1183 s.; FERRAIOLI, Dubbi sull’acquisibilità, cit., loc. cit., p. 1953. (19) La situazione giuridica soggettiva presenta molte analogie con quella dei testimoni-prossimi congiunti, che pure, ai sensi dell’art. 199 c.p.p., sono titolari del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere nei processi a carico di loro parenti. In proposito è interessante notare che la giurisprudenza della cassazione si è orientata nel senso di escludere la possibilità di utilizzare (ai sensi dell’art. 512 o anche dell’art. 195 c.p.p.) in dibattimento le dichiarazioni precedentemente rese dai prossimi congiunti che solo successivamente si siano avvalsi della facoltà di non rispondere, in quanto la previsione dell’art. 512 c.p.p. si riferisce a verbali di una prova che ‘‘sia divenuta impossibile per fatti imprevedibili e non già per l’esercizio di una facoltà debitamente prevista e garantita dalla legge’’: cfr. Cass., Sez. VI, 16 febbraio 1994, Grandinetti e Cass., Sez I, 23 ottobre 1996, Mauro. Tale orientamento giurisprudenziale della cassazione si è formato nonostante la Corte costituzionale avesse, già un precedenza, affermato l’esatto contrario con la sentenza ‘‘interpretativa’’ n. 179 del 16 maggio 1994, Marchesi ed altri, in G.U., 1a serie speciale, n. 22 del 25 maggio 1994 ed in Cass. pen., 1994, p. 2389. In tale sentenza si affermano due principi: a) che ‘‘ove il prossimo congiunto accetti di deporre, egli assume la qualità di teste al pari di qualsiasi altro soggetto, con tutti gli obblighi che a tale qualità l’art. 198 c.p.p. ricollega, essendo cessate, per scelta dello stesso interessato, le ragioni che giustificavano la tutela della sua particolare posizione’’; così affermando il principio che il diritto di astensione si esaurisce una volta effettuata la scelta di non esercitarlo; b) che il caso di tardivo esercizio del diritto di astensione da parte del testimone-prossimo congiunto — al pari di quanto stabilito con la precedente sentenza della stessa Corte costituzionale n. 254/92 con riferimento al diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere concesso alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. — confi-
— 928 — corso alla procedura dell’incidente probatorio per l’esame delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., anche in assenza di particolari condizioni che facessero sospettare una futura ‘‘irripetibilità’’ al dibattimento (ricorrenza delle condizioni previste dalle lettere a) e b) dell’art. 392 c.p.p.). In altri termini, la Corte prevede l’applicazione della medesima disciplina a due situazioni giuridiche totalmente diverse: quella del testimone che ‘‘rifiutando’’ di rispondere si sottrae ad un preciso obbligo giuridico, commettendo addirittura un reato e quella dell’imputato che, avvalendosi della facoltà di non rispondere, esercita un diritto costituzionale, sostanzialmente, riconosciutogli dalla stessa Corte nella sentenza in questione. Conseguentemente, il meccanismo delle contestazioni ha una valenza ed una funzione se utilizzato nei confronti del testimone reticente, mentre non ha alcun senso in presenza di un imputato (in procedimento connesso) che si avvalga della facoltà di non rispondere. Nel primo caso, infatti, la lettura delle dichiarazioni in precedenza rese serve ad indurre il testimone a desistere dalla sua condotta antigiuridica ed adempiere, così, al suo dovere di deporre. Viceversa, nei confronti di colui che, avvalendosi della facoltà di non rispondere, esercita un proprio diritto, la lettura delle precedenti dichiarazioni equivale alla pura e semplice acquisizione dei relativi verbali al fascicolo del dibattimento, non essendo possibile considerarla come una sorta di coartazione (o anche solo stimolo) a rinunciare all’esercizio di un proprio diritto soggettivo inviolabile. Il vero problema, dunque, resta quello — già in precedenza accennato — di stabilire la reale situazione giuridica soggettiva degli imputati in procedimento connesso. Problema che non sembra affatto risolto dalla sentenza della Corte, che non traendo le logiche conclusioni dall’impostazione metodologica formulata, non ha ritenuto necessario incidere sulla disciplina prevista dal comma 4 dell’art. 210 c.p.p. ed ha così sostanzialmente finito per ribadire il diritto delle persone ivi indicate di avvalersi preventivamente della facoltà di non rispondere, indipendentemente dal contenuto e dal tipo delle dichiarazioni accusatorie già rese e dallo stato del procedimento penale a loro carico. Non si comprende il motivo per il quale la Corte non abbia approfondito l’esame della situazione giuridica soggettiva degli imputati in procedimento connesso, laddove molteplici erano le considerazioni che si potevano operare proprio sulla base degli importanti spunti segnalati nella motivazione della sentenza. Si pensi, innanzitutto, alla possibilità di scindere il contenuto delle dichiarazioni, indipendentemente dalla veste nella quale esse siano state gura un’ipotesi di ‘‘oggettiva e non prevedibile impossibilità di ripetizione dell’atto dichiarativo che, ai sensi dell’art. 512, consente di dare lettura degli atti assunti anteriormente al dibattimento’’.
— 929 — rese. Nel senso di attribuire al dichiarante il ruolo di imputato (riconoscendogli tutte le garanzie difensive, ivi compresa la facoltà di non rispondere) in relazione alle affermazioni che coinvolgono direttamente la propria responsabilità; mentre per quelle con le quali si siano riferiti fatti esclusivamente a carico di altri, si avrebbe una totale equiparazione di disciplina alla figura del testimone. In tale ultimo caso, ferma restando l’applicabilità della regola di valutazione stabilita dall’art. 192 comma 3 c.p.p. in ragione delle particolari condizioni soggettive nelle quali il dichiarante si sia deciso a formulare accuse nei confronti di terzi (quelle di un imputato che esercita il proprio diritto di difesa), vigerebbe l’obbligo di essere sottoposto all’esame dibattimentale al pari di un testimone. Non va sottaciuta, tuttavia, la concreta difficoltà pratica di trovare una netta linea di demarcazione a cui far riferimento per operare la distinzione dei ruoli, che andrebbe affidata alla prudente e motivata valutazione del giudice. Per altro verso, ma non in via alternativa, si dovrebbe operare un distinguo nell’ambito della previsione dell’art. 210 c.p.p. (da coordinarsi con la modifica del comma 1 lettera a) dell’art. 197 c.p.p. in tema di incompatibilità con l’ufficio di testimone) a seconda che le persone ivi indicate, al momento nel quale siano chiamate a deporre in un dibattimento a carico di altri, abbiano o meno definito la propria pendenza giudiziaria. Ciò in quanto l’art. 24 Cost. garantisce il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento (con ciò intendendosi quello a carico del destinatario della tutela costituzionale) e non oltre il suo esaurimento. D’altro canto, una volta conclusa la propria vicenda processuale, nel corso della quale siano state raccolte le dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri, non vi sarebbe più una reale esigenza difensiva per colui che sia stato ‘‘imputato in procedimento connesso’’, neanche sotto un profilo squisitamente sostanziale. Anche in questo caso, sempre in considerazione delle particolari condizioni soggettive del dichiarante al momento dell’originaria verbalizzazione, sarebbe applicabile la generale disciplina valutativa prevista dall’art. 192 comma 3 c.p.p. In effetti, tale distinguo viene già espressamente affermato nella motivazione della sentenza della Corte, quando si chiarisce che il diritto di difesa del dichiarante andrebbe tutelato solo nel caso in cui l’imputato in procedimento connesso possa trovarsi esposto a ‘‘più gravi profili di responsabilità, diversi e ulteriori da quelli risultanti dalle sue precedenti dichiarazioni’’. Invero, non c’è ragione di escludere l’obbligo di sottoporsi ad esame nel caso in cui il dichiarante abbia definito il procedimento a proprio carico con una sentenza di condanna passata in cosa giudicata, anche eventualmente pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. Ciò in quanto, in relazione ai fatti per i quali sia intervenuta la condanna, il processo non può più essere in alcun modo riaperto con pregiudizio per il condannato. Nel senso che non può verificarsi una revoca della sentenza finalizzata all’ap-
— 930 — plicazione di una nuova decisione più gravosa per il condannato, in quanto l’unico istituto previsto dall’ordinamento per l’annullamento di una sentenza di condanna passata in giudicato è quello della revisione, al quale si può ricorrere esclusivamente in vista di una possibile assoluzione del condannato. In ultima analisi, si deve prestare attenzione all’esigenza, sentita e segnalata dalla stessa Corte, di ridimensionare la portata della facoltà di non rispondere, nel senso di non consentire all’imputato in procedimento connesso, che si sia ‘‘in precedenza consapevolmente risolto a rendere dichiarazioni erga omnes’’, un vero e proprio diritto potestativo di influire sul quadro conoscitivo del giudice ovvero sul diritto di difesa delle persone da lui accusate. Inserendosi, quindi, nel solco tracciato dall’enunciazione di principio esposta dalla Corte, si potrebbe approfondire l’analogia esistente fra la situazione giuridica degli imputati in procedimento connesso e quella dei testimoni-prossimi congiunti dell’imputato. Anche a costoro, infatti, l’ordinamento riconosce il diritto di avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare che, sostanzialmente, corrisponde alla facoltà di non rispondere riconosciuta all’imputato in procedimento connesso (20). Ebbene, l’art. 199 c.p.p. — al comma 1 — esclude che il testimone-prossimo congiunto possa avvalersi della facoltà di astenersi dal deporre quando egli stesso abbia presentato la denuncia, la querela o l’istanza che abbiano dato luogo al procedimento. La norma, dunque, attribuisce alla facoltà processuale in questione il carattere dell’ ‘‘esauribilità’’; nel senso che, una volta manifestata la volontà di denunciare il prossimo congiunto mediante una precisa scelta che abbia avuto come destinataria l’autorità giudiziaria, si verifica una rinuncia tacita ed irrevocabile all’esercizio della facoltà di astensione dal deporre. Il principio affermato in tale norma appare in linea con l’intero sistema che prevede una molteplicità di ipotesi normative in virtù delle quali ai soggetti processuali è attribuito un vero e proprio potere dispositivo avente ad oggetto non i diritti sostanziali — anche indisponibili — dei quali siano titolari, ma le facoltà connesse al loro esercizio nell’ambito del processo (21). In siffatta prospettiva, si può affermare che la facoltà di non rispon(20) In proposito, l’analogia appare chiara se si presta attenzione alla motivazione delle sentenze della cassazione che si sono occupate dell’utilizzabilità delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini dai testimoni-prossimi congiunti che in dibattimento si siano avvalsi della facoltà di astenersi dal deporre, nonché al preciso riferimento, sempre in via analogica, operato alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 179/94: cfr. retro nota che precede. (21) L’esistenza, nel sistema processuale penale vigente, di un generale principio dispositivo riconosciuto alle parti, avente ad oggetto non i diritti soggettivi di cui esse siano titolari bensì i poteri e le facoltà meramente processuali, è stata da noi già affermata mediante
— 931 — dere riconosciuta alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. non si identifichi con il diritto costituzionale di difesa, ma ne rappresenti soltanto una delle possibili forme di manifestazione. Da ciò consegue che un soggetto il quale abbia operato la libera scelta — rientrante nel disegno della propria strategia difensiva — di non avvalersi della facoltà di non rispondere ed anzi abbia ritenuto utile per sè informare l’autorità giudiziaria delle responsabilità di altre persone, in tal modo abbia compiuto un atto dispositivo della facoltà — meramente processuale — riconosciutagli. In altri termini, in questa logica, la preclusione all’esercizio della facoltà di non rispondere, una volta operata la scelta di non avvalersene, non inciderebbe sul diritto di difesa — inteso come diritto sostanziale inviolabile — bensì solo sulle modalità di esercizio dello stesso nell’ambito del processo. In conclusione, si deve ritenere che le persone indicate nell’art. 210 c.p.p. — al pari di quanto è previsto per i prossimi congiunti degli imputati —, esauriscano la loro possibilità di avvalersi della facoltà di sottrarsi all’esame dibattimentale nel caso in cui, mediante un’espressa manifestazione di volontà, abbiano riferito all’autorità giudiziaria quanto a loro conoscenza, così determinando il sorgere di un nuovo procedimento penale (22) a carico di un altro soggetto. In virtù di una tale impostazione costoro, da quel momento ed in relazione alle accuse mosse nei confronti di altri, dovrebbero essere del tutto equiparati ai testimoni quanto all’obbligo di deporre in dibattimento (23). La Corte costituzionale, pur avendo inquadrato il problema in perfetta linea con le considerazioni che precedono, non intervenendo sugli artt. 197 e 210 c.p.p., ha finito per risolvere in maniera assai sbrigativa il problema della tutela del corrispondente e confliggente diritto di difesa dell’imputato nei cui confronti siano utilizzate le dichiarazioni rese nella fase delle indagini dall’imputato in procedimento connesso. Ha affermato, cioè, che nessun pregiudizio si verifica se si fa ricorso al meccanismo delle ‘‘contestazioni’’, che assicurerebbe a tutte le parti il diritto al contraddittorio nella dialettica dibattimentale. L’affermazione appare meramente formalistica, e finisce per creare una ricerca che ha abbracciato le più significative materie (connesse ai diritti soggettivi sostanziali indisponibili) disciplinate dal codice di procedura penale: cfr. FURGIUELE, Concetto e limiti dell’acquiescenza nel processo penale, Napoli, 1998. (22) I procedimenti penali sono tanti quanti sono gli imputati, indipendentemente dalla simultaneità o meno della loro trattazione. (23) Corrispondentemente, dovrebbe essere configurabile la responsabilità penale per il delitto di falsa testimonianza o di reticenza ovvero di un’analoga fattispecie incriminatrice specificamente riferita a tali categorie di persone. Prospettiva, questa, già avanzata in varie proposte di legge. Inoltre, con particolare riferimento ai c.d. ‘‘pentiti di mafia’’, un efficace strumento di disincentivazione ad avvalersi della facoltà di non rispondere al dibattimento dovrebbe essere rappresentato dalla perdita di tutti i benefici connessi al regime di ‘‘protezione’’ ed alla legislazione ‘‘premiale’’.
— 932 — una sostanziale confusione fra il momento della ‘‘formazione’’ della prova e quello della ‘‘acquisizione’’ (24). Infatti, l’istituto delle contestazioni presuppone l’obbligo giuridico di rispondere al dibattimento, in quanto, con riferimento all’esame del testimone, esse servono ad indurlo a chiarire i contrasti, ma la prova si forma, comunque, nel dibattimento come risultato della combinazione fra le dichiarazioni rese in quella sede e le altre utilizzate per le contestazioni. Diverso è il caso dell’imputato in procedimento connesso, perché se egli — rispondendo alla domanda espressamente postagli a norma del comma 4 dell’art. 210 c.p.p. — abbia dichiarato preventivamente di avvalersi della facoltà di non rispondere, la lettura delle dichiarazioni in precedenza rese si risolve in una pura formalità diretta esclusivamente a far entrare nel fascicolo del dibattimento i relativi verbali. Pertanto, ciò che risulta utilizzabile come prova non è un atto formatosi dialetticamente nel dibattimento, ma il contenuto di uno o più verbali formati in una fase precedente, in assenza del contributo del difensore di colui che, attraverso tali dichiarazioni, viene accusato. Né il meccanismo delle ‘‘contestazioni’’ vale in qualche modo ad attribuire carattere dialettico alla prova acquisita. Infatti, la nozione di ‘‘contestazioni’’ è solo quella normativa, prevista dall’art. 500 c.p.p., in virtù della quale esse consistono esclusivamente nella pura e semplice lettura di passi di verbali di precedenti dichiarazioni rese dalla persona sottoposta all’esame (25): ma quei verbali contengono le dichiarazioni e le risposte sollecitate dal solo pubblico ministero o dal giudice, in assenza del difensore dell’imputato nei cui confronti vengono utilizzate. Pertanto, appare sofistico parlare di formazione dialettica della prova nel rispetto del contraddittorio, se l’atto probatorio si è formato senza che al difensore della persona accusata dal dichiarante sia stato consentito di porre domande, chiedere precisazioni, insistere perché sia verbalizzata l’intera risposta, allargare il tema dell’esame, sollecitare il ricordo ed anche di verificare la correttezza del comportamento dell’inquirente che abbia condotto l’interrogatorio (26). (24) Per un’approfondita indagine sui rapporti fra acquisizione, utilizzazione e valutazione della prova, cfr. FERRUA, Un errore di diritto, cit., loc. cit., p. 3. (25) Non è possibile ‘‘contestare’’, ai sensi dell’art. 500 c.p.p., il contenuto di dichiarazioni rese da persone diverse da quella sottoposta all’esame, ovvero commentare le risposte fornite: tutto ciò è consentito solo in sede di discussioni finali. (26) È bene tenere presente che l’obbligo di procedere alla riproduzione fonografica dell’interrogatorio (a norma dell’art. 141-bis c.p.p., introdotto dall’art. 2 legge n. 332/95) riguarda esclusivamente quello effettuato nei confronti dell’imputato detenuto, mentre nulla impedisce che — come sovente avviene — le dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri siano rese da un imputato in stato di libertà. In tali casi, pertanto, le dichiarazioni sono contenute in verbali redatti in forma riassuntiva dal pubblico ministero. Manca, quindi, ogni possibilità di controllo circa la correttezza delle modalità con le quali sia stato condotto non-
— 933 — Se, dunque, tale possibilità è stata preclusa nella fase di formazione dei verbali destinati ad avere valore di prova, non è dato comprendere di quali letture possa avvalersi il difensore dell’imputato accusato per procedere alle contestazioni ad una persona che, nel dibattimento abbia dichiarato di intendere sottrarsi all’esame, se non solo ed esclusivamente del contenuto di quei verbali redatti su iniziativa della sola controparte (P.M.) ed in sua assenza. In siffatta situazione non può certo parlarsi di prova formatasi nel rispetto del contraddittorio, in quanto esso è mancato completamente sia nel momento in cui sono state rese le dichiarazioni (momento di formazione), per l’assenza del difensore dell’accusato, sia nel dibattimento (momento di mera acquisizione), a causa della scelta strategica del dichiarante di avvalersi della facoltà di non rispondere. Anche a volere seguire l’orientamento concettuale manifestato dalla Corte, per potersi parlare di una sorta di contraddittorio e di una formazione dialettica della prova mediante il sistema delle ‘‘contestazioni’’, si dovrebbe presupporre che alle parti, diverse dal pubblico ministero (e per esse ai loro difensori) sia stato consentito di esaminare precedentemente le persone indicate nell’art. 210 c.p.p. onde permettere di avvalersi della lettura dei relativi verbali per formulare le contestazioni nel caso che la persona da esaminare si sia avvalsa della facoltà di non rispondere. Ma una tale possibilità, allo stato, non è prevista dalla legge ed un’eventuale futura modifica del regime delle ‘‘investigazioni difensive’’ in tal senso, appare assai discutibile sul piano dell’opportunità e dell’effettiva realizzabilità (27). Pertanto, l’unico meccanismo idoneo ad evitare la lesione del diritto al contraddittorio nella fase di formazione della prova — è questa la principale espressione del diritto di difesa dell’imputato — sembra essere proprio quello previsto dalla legge n. 267/97 mediante il ricorso all’istituto dell’incidente probatorio. A meno che, come detto in precedenza, non si vada a limitare il diritto delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. di avvalersi della facoltà di non rispondere al dibattimento. Per altro verso, il tentativo operato dalla Corte di conferire un’apparenza di accusatorietà ad una disciplina che nella sostanza resta inquisitoria, sembra risolversi solo in una limitazione del materiale probatorio a conoscenza del giudice in vista dell’accertamento della verità e, quindi, ché circa la perfetta rispondenza fra quanto risultante dal testo del verbale e l’effettivo tenore delle dichiarazioni; in quanto, anche senza mettere in dubbio la buona fede dell’inquirente e la sua correttezza, inevitabilmente si deve tenere conto dell’operazione di ‘‘filtraggio’’ effettuata, che potrebbe avere determinato l’omessa trascrizione di passi di dichiarazioni erroneamente interpretati e ritenuti ininfluenti o ripetitivi ovvero il mancato uso di espressioni equivoche atte ad essere intese in modi completamente opposti ecc. (27) Cfr. gli atti del convegno svoltosi presso l’Università del Molise il 12 aprile 1997, pubblicati in Le indagini difensive, a cura di A. FURGIUELE, Napoli, 1998
— 934 — del suo potere di ‘‘supplenza’’ rispetto ad eventuali trascuratezze od omissioni delle parti. Infatti, l’estrapolazione di meri passi dai verbali di precedenti dichiarazioni, mediante la lettura degli stessi in sede di ‘‘contestazione’’, impedisce al giudice di conoscere l’intero contesto delle dichiarazioni ed il loro tenore complessivo finisce per essere di difficile comprensione e chiarezza a causa della frammentarietà delle letture e della mancanza di un filo conduttore che leghi un periodo ad un altro (28). In sintesi, dunque, il meccanismo prospettato dalla Corte, a completo dispetto dei principi espressamente esposti in via programmatica, sul piano pratico finisce per garantire ad oltranza il diritto di difesa delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., mentre si risolve in un manifesto pregiudizio proprio degli altri due interessi — forse preminenti — in gioco. Infatti: a) appare onestamente indiscutibile che venga leso il diritto della difesa dell’imputato di partecipare alla fase di formazione della prova usata a suo carico — formatasi in maniera unilaterale e senza il controllo del contraddittorio —; b) è del tutto verosimile che la funzione prioritaria del processo, rappresentata dal raggiungimento della verità, possa essere complicata dalla farraginosità del meccanismo acquisitivo (e non certo di formazione) delle dichiarazioni precedentemente rese, che vengono conosciute dal giudice non nella loro interezza, ma attraverso la lettura di singoli e slegati passi dei relativi verbali. La Corte, poi, evidentemente consapevole della caduta di garanzie per l’imputato generate dall’intervento operato sull’art. 513 c.p.p., ha rilevato che, proprio il richiamo alla disciplina prevista dai commi 2-bis e 4 dell’art. 500 c.p.p. consentirebbe un riequilibrio. Nel senso che a fronte di un sostanziale ‘‘affievolimento’’ del diritto al contraddittorio nella fase di formazione della prova, si verificherebbe un corrispondente ridimensionamento della valenza probatoria dei verbali di dichiarazioni rese al di fuori del dibattimento. Ciò in quanto, in virtù della combinazione delle previsioni del comma 4 dell’art. 500 c.p.p. e del comma 3 dell’art. 192 c.p.p., le dichiarazioni rese nella fase delle indagini dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. ed acquisite mediante le contestazioni al fascicolo del dibattimento non avrebbero il valore di prova piena, ma necessiterebbero sempre di riscontri obbiettivi. In questa prospettiva, quindi, la Corte segnala espressamente al legislatore la possibilità di ulteriori interventi di modifica normativa diretti a ridimensionare maggiormente — ovvero a meglio precisare — il criterio valutativo delle dichiarazioni accusatorie rese dagli imputati in procedimento connesso. (28) In proposito si segnala che l’acquisizione al fascicolo del dibattimento dei verbali di dichiarazioni (intesi come documenti) usati per le contestazioni non comporta l’ ‘‘utilizzabilità’’ integrale degli stessi. Infatti l’utilizzabilità in senso tecnico riguarda solo i passi letti in sede di contestazione dalle varie parti.
— 935 — Siffatto orientamento lascia molto perplessi per vari ordini di motivi (29). Innanzitutto, appare giustificata una certa diffidenza rispetto a quei criteri prestabiliti di valutazione della prova, che in qualche modo richiamano alla mente il meccanismo tipicamente inquisitorio delle prove legali a tutto discapito del libero convincimento del giudice. Il che rende ancor più fondata la preoccupazione che le soluzioni adottate dalla Corte siano destinate a ridurre sempre più il potere giurisdizionale, da un lato privato della conoscenza diretta degli elementi di prova, acquisiti in via cartolare in contrasto con il principio di immediatezza, dall’altro vincolato da regole valutative che poco spazio consentono ad una logica e critica ricostruzione dei fatti e delle responsabilità. Inoltre, il rinvio al disposto degli artt. 192 comma 3 e 500 comma 4 c.p.p. non sembra rappresentare una adeguata cautela idonea a controbilanciare l’affievolimento del diritto di difesa conseguente all’utilizzabilità di una prova formatasi in assenza di contraddittorio e senza il controllo giurisdizionale. Infatti, il comma 4 dell’art. 500 c.p.p. prevede un ridimensionamento della valenza probatoria delle dichiarazioni acquisite a seguito delle contestazioni, anche se — per le ragioni in precedenza esposte — comunque, nel corso del dibattimento per le parti è possibile porre domande ad un teste che, non essendo titolare del diritto al silenzio, è costretto a fornire qualche risposta o giustificazione che può formare oggetto di discussione e, quindi, valutazione per il giudice. Possibilità che, (29) La dottrina ha formulato ampie riserve in ordine alle regole di valutazione ed in particolare su quella contenuta nel comma 3 dell’art. 192 c.p.p., segnalando anche l’inopportunità di bilanciare attraverso di esse la mancanza di garanzia dovuta ad una formazione della prova realizzata senza il rispetto del contraddittorio. RICCIO, Nuove letture, cit., loc. cit., p. 1180, nel riaffermare la bontà delle scelte operate dal legislatore del 1997, ricorda ‘‘le ambiguità giudiziarie in fase di valutazione di questa prova e distorsioni legislative operanti sugli ambiti di circolazione degli atti’’; in senso conforme, SANNA, Il contributo dell’imputato, cit., loc. cit., p. 477 esprime la convinzione che non si possa restituire sul terreno della valutazione quanto è tolto sul piano della formazione della prova, tanto è vero che il legislatore ha costruito ‘‘regole capaci di salvaguardare sin dalla nascita della prova l’inscindibilità del nesso tra le dichiarazioni del correo sul fatto di un altro e il contraddittorio a tutela di quest’ultimo’’. Circa le ambiguità interpretative della regola di valutazione in sede giudiziaria, cfr. FASSONE, La valutazione delle dichiarazioni del coimputato, in Cass. pen., 1986, p. 1894. Con specifico riferimento alla sentenza n. 361/98 della Corte costituzionale ed al tentativo di bilanciamento mediante il rinvio al comma 4 dell’art. 500 c.p.p., NAPPI, La decisione della Corte costituzionale, cit., loc. cit., p. 4, precisa che ‘‘i divieti di acquisizione attengono alla legittimità dell’utilizzazione di una prova, mentre le regole di valutazione attengono alla persuasività ed attendibilità di una prova comunque legittimamente utilizzabile’’. Sempre in ordine al rapporto fra formazione e valutazione della prova cfr. FERRUA, Un errore di diritto, cit., loc. cit., p. 3, il quale parla anche dell’analogia fra la disposizione dell’art. 192 c.p.p. ed il modello delle ‘‘prove legali del processo inquisitorio’’; cfr. anche FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, p. 180, il quale denuncia le ambiguità della disposizione contenuta nell’art. 192 comma 3 c.p.p.
— 936 — invece, è totalmente preclusa in sede di esame di una persona (l’imputato in procedimento connesso) la quale, esercitando un proprio diritto, dichiari preventivamente di avvalersi della facoltà di non rispondere. A ciò si aggiunga che il criterio di valutazione stabilito dal comma 4 dell’art. 500 c.p.p. comporta, solo in conseguenza delle particolari modalità di formazione ed acquisizione, una riduzione della valenza probatoria di un elemento — quale la testimonianza — che, di regola, in quanto ‘‘mezzo di prova’’ tipico, avrebbe un valore di ‘‘prova piena’’. Viceversa, le dichiarazioni del coimputato o dell’imputato in procedimento connesso, anche se rese nel dibattimento (e, quindi, alla presenza del giudice con le garanzie del contraddittorio), non sono mai sufficienti, da sole, a costituire la prova di un fatto, essendo comunque sottoposte al particolare regime previsto dal comma 3 dell’art. 192 c.p.p. Probabilmente, proprio nella consapevolezza della mancanza di simmetria prodotta dall’applicazione della disciplina prevista dall’art. 500 c.p.p. per i testimoni, anche all’analoga — ma sostanzialmente diversa — ipotesi descritta nell’art. 513 c.p.p., la Corte ha segnalato l’opportunità che il legislatore intervenga per meglio disciplinare il regime di valenza probatoria delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. antecedentemente al dibattimento ed acquisite con il meccanismo delle letture (‘‘contestazioni’’) (30). L’invito della Corte sembrerebbe far riferimento alla particolare disciplina valutativa prevista in via transitoria per l’utilizzabilità, nel giudizio di appello, delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso già acquisite in primo grado, anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 267/97. Infatti, il comma 5 dell’art. 6 di tale legge prevedeva che queste dichiarazioni potessero essere valutate come prova dei fatti in esse affermati, solo se la loro attendibilità fosse confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari, di cui fosse stata data lettura ai sensi dell’art. 513 c.p.p. (30) Già nella fase preparatoria della legge n. 267/97 erano state avanzate proposte parlamentari tese ad incidere soprattutto sulla previsione dell’art. 192 comma 3 c.p.p., come ad es. quella di iniziativa del deputato Carrara ed altri, presentata alla Camera dei Deputati il 12 luglio 1996, col numero 1870 contenente, per l’appunto proposte di ‘‘modifiche degli artt. 192 e 503 del codice di procedura penale’’ mediante le quali si intendeva rinvigorire la regola di giudizio per la valutazione delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. Analoga esigenza fu segnalata anche dal relatore (della legge n. 267/97) Mantovano, il quale alla seduta del 17 luglio 1997 affermò: ‘‘avremmo dovuto trattare dell’articolo 513 del codice di procedura penale in un secondo momento dopo aver affrontato e definito il tema dei riscontri alla parola accusatoria di un chiamante in correità e saremmo dunque dovuti partire dalla riflessione sull’adeguatezza del comma 3 dell’art. 192’’, cfr. Atti parlamentari, XIII Legislatura, Discussioni, seduta del 17 luglio 1997, p. 54.
— 937 — Una siffatta disciplina potrebbe portare ad un più equilibrato bilanciamento della valenza probatoria delle dichiarazioni rese rispettivamente da testimoni e da coimputati o imputati in procedimento connesso, che tenga conto anche delle modalità di formazione degli atti. In altri termini, la graduazione sarebbe la seguente: 1) le testimonianze rese in dibattimento avrebbero valore di prova piena, così come quelle rese nel corso di un incidente probatorio (art. 431 c.p.p.) o all’udienza preliminare nel contraddittorio delle parti (art. 500 comma 6); 2) le dichiarazioni dei testimoni, rese nella fase delle indagini preliminari (in assenza di contraddittorio) ed acquisite al fascicolo del dibattimento a seguito delle contestazioni, avrebbero valore di prova solo se l’attendibilità fosse confermata da altri elementi di prova di qualsiasi natura e, quindi, anche da dichiarazioni di coimputati, acquisite ai sensi dell’art. 513 (art. 500 comma 4 c.p.p.); 3) le dichiarazioni dei coimputati o degli imputati in procedimento connesso, raccolte in dibattimento o nel corso di incidente probatorio — e, quindi, nel rispetto del contraddittorio — sarebbero soggette alla disciplina prevista dal comma 3 dell’art. 192 c.p.p.: cioè utilizzabili come prove, ma bisognose di conferma, anche di natura omologa; 4) le dichiarazioni dei coimputati o imputati in procedimento connesso acquisite ai sensi dell’art. 513 comma 2 (come sostanzialmente modificato dall’intervento della Corte costituzionale), richiederebbero, per la loro valenza probatoria, la conferma proveniente da prove da esse diverse per le modalità di formazione. 3. Illegittimità costituzionale dell’art. 210 c.p.p. — Attraverso tale dichiarazione di illegittimità costituzionale la Corte ha inteso incidere sostanzialmente ed indirettamente sulla disciplina dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 513 c.p.p. Appare convincente l’equiparazione operata fra la figura dell’imputato in procedimento connesso e quella del coimputato che abbia reso in precedenza dichiarazioni accusatorie nei confronti di altro imputato. Infatti, risulta del tutto irragionevole una differenza di disciplina dipendente dalla simultaneità o meno dei processi a carico dei due imputati. In linea, quindi, con la pronuncia di incostituzionalità del comma 2 dell’art. 513 c.p.p., è perfettamente coerente la previsione di un analogo regime di acquisizione ed utilizzazione delle dichiarazioni accusatorie in precedenza rese dal coimputato (nel medesimo procedimento) o dall’imputato in un separato procedimento connesso. Così come, sempre nel rispetto della simmetria di disciplina, è inevitabile che sia previsto il dovere di indicare preventivamente i verbali e le parti di essi, in ordine ai quali il richiedente intenda esaminare il coimputato al fine di accertare la responsabilità altrui. A tale ultimo proposito, non è chiaro se il richiedente debba inserire il nominativo del coimputato nella lista testi di cui all’art. 468 c.p.p., specificando in essa i passi dei verbali che intenda eventualmente utilizzare
— 938 — per le contestazioni ed i nomi degli imputati a carico dei quali chieda l’esame del coimputato, ovvero se tali precisazioni possano essere fatte direttamente in sede di richieste di prova avanzate al giudice ai sensi dell’art. 493 c.p.p. La Corte costituzionale in merito non fornisce spiegazioni, tuttavia l’assimilazione della figura del coimputato a quella delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., induce a ritenere necessario l’inserimento anche del nominativo del coimputato nella lista testimoniale, con tutte le precisazioni circa i temi sui quali si intenda articolare l’esame ed i nomi degli imputati a carico dei quali si voglia acquisire la prova. Alla luce dell’intervento additivo operato dalla Corte sull’art. 210 c.p.p., la disciplina del comma 1 dell’art. 513 c.p.p. risulta estremamente più articolata, pur non avendo subito modifiche dirette. In particolare, nel caso in cui un imputato si sottragga (perché contumace o assente o rifiuti di sottoporsi) all’esame, regolarmente richiesto ai sensi dell’art. 493 c.p.p. ed ammesso dal giudice, si possono verificare le seguenti conseguenze: 1) i verbali delle dichiarazioni precedentemente rese dall’imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria delegata o al giudice nella fase delle indagini preliminari o all’udienza preliminare, su richiesta di parte vengono acquisiti al fascicolo del dibattimento e sono totalmente dichiarati utilizzabili, attraverso la loro lettura, come elementi di prova a carico dell’imputato che si sia sottratto all’esame; 2) nel caso in cui tali verbali contengano dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri imputati, i relativi passi potranno essere utilizzati come prova a carico di questi ultimi solo se colui che abbia chiesto l’esame abbia preventivamente specificato che l’esame stesso sia destinato anche a costituire elemento di prova a carico di altri, fornendo tutte le necessarie precisazioni, e ciò in analogia con la previsione del comma 2 dell’art. 513 come modificato dall’intervento additivo della Corte. In tal caso, però, sempre in virtù della simmetria con il comma 2 dell’articolo, la valenza probatoria delle dichiarazioni sarà ridotta, applicandosi la previsione del comma 4 dell’art. 500 c.p.p.; 3) in mancanza dell’espressa richiesta di cui al punto precedente, continua ad essere applicabile la previsione dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 513 c.p.p. (come modificata dalla legge n. 267/97), nel senso che le dichiarazioni dei coimputati che si siano sottratti all’esame possono essere utilizzate ed avere valore di piena prova nei confronti dei coimputati, solo a condizione che ciascuno di loro vi presti il proprio consenso. Qualche perplessità interpretativa desta l’ipotesi prospettata dalla Corte, in virtù della quale l’esame sui fatti concernenti la responsabilità di altri coimputati, nel caso in cui nessuna delle parti abbia presentato specifica richiesta, possa essere disposto dal giudice a norma dell’art. 507 c.p.p. Infatti, non si comprende come possa il giudice disporre, di propria iniziativa, l’esame di un imputato in ordine alla responsabilità di un coim-
— 939 — putato, dal momento che egli, non disponendo dei verbali delle dichiarazioni rese nelle precedenti fasi, non è a conoscenza delle eventuali chiamate in reità o in correità operate nel corso degli interrogatori resi al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o all’udienza preliminare. Salvo che non si voglia far riferimento al caso dell’avvenuta acquisizione degli interi verbali, per la loro utilizzazione nei confronti dell’imputato che si sia avvalso della facoltà di non rispondere (art. 513 comma 1 c.p.p.), attraverso la quale il giudice del dibattimento sia venuto a conoscenza anche delle dichiarazioni, in essi contenute, con le quali si formulino accuse nei confronti di altri. Ma una tale ipotesi ripropone il problema del rapporto fra conoscenza reale e conoscenza legittima degli atti; nel senso che il giudice si avvarrebbe, per esercitare il proprio potere probatorio (art. 507 c.p.p.), della lettura di passi di verbali che egli non potrebbe conoscere, non essendo stato attivato dalla parte interessata il meccanismo predisposto per la loro lettura. L’unica possibilità realisticamente prospettabile è rappresentata dalla sollecitazione dei poteri di iniziativa probatoria del giudice proveniente dalla parte che abbia omesso di attivarsi tempestivamente ed abbia fatto decorrere il termine per chiedere l’esame del coimputato sui punti relativi ad accuse rivolte ad altri. Ma, in buona sostanza, una siffatta ipotesi si risolverebbe in una sorta di restituzione nel termine senza il ricorso delle tassative condizioni previste dal comma 1 dell’art. 175 c.p.p. (mancato rispetto del termine dovuto a forza maggiore o caso fortuito). Il che potrebbe anche essere apprezzabile se finalizzato all’accertamento della verità, ma sicuramente determinerebbe un’apertura di varchi allarmanti sul piano delle possibili incontrollabili discriminazioni di trattamento riservate alle parti nello stesso ed in diversi processi. 4. Illegittimità costituzionale dell’art. 238 comma 4 c.p.p. — L’intervento della Corte sul comma 4 dell’art. 238 c.p.p. presenta un carattere più interpretativo che additivo ed è dettato dall’esigenza di coordinamento con gli interventi operati sugli artt. 210 e 513 c.p.p. Infatti, la norma in questione già operava un rinvio alla disciplina degli artt. 500 e 503 c.p.p., in tema di contestazioni all’imputato in sede di esame, e si riferiva genericamente a tutti i verbali di dichiarazioni, ivi compresi, quindi, quelli delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. Pertanto, una volta effettuati gli interventi additivi sugli artt. 513 e 210 c.p.p., sarebbe stato possibile, già in via di interpretazione, ritenere applicabile la disciplina prevista dall’art. 500 commi 2-bis e 4 nel caso in cui l’imputato in procedimento connesso si fosse avvalso della facoltà di non rispondere. Tuttavia, la dichiarazione di incostituzionalità del comma 4 dell’art. 238 c.p.p., anche se non strettamente necessaria, vale a chiarire in maniera inequivoca la disciplina in una logica coerente con gli altri interventi additivi operati dalla Corte.
— 940 — Sul punto, però, resta da richiamare l’attenzione sul contributo interpretativo offerto dalla motivazione della sentenza in ordine all’individuazione delle tipologie di verbali di dichiarazioni rese in diverso procedimento, utilizzabili per le contestazioni nel caso in cui un coimputato o un imputato in procedimento connesso si avvalga della facoltà di non rispondere, così sottraendosi all’esame. La Corte, infatti, dissipa le perplessità interpretative che erano state poste dalla dottrina, sia prima che dopo la modifica apportata alla norma in questione (31). Viene affermato e spiegato, cioè, che il comma 4 dell’art. 238 c.p.p. si riferisce a tutti i verbali di dichiarazioni rese in diverso procedimento, al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria delegata, al giudice per le indagini preliminari (sia in fase di indagini, sia nel corso di un incidente probatorio, sia all’udienza preliminare) ed al giudice del dibattimento. Pertanto, riepilogando l’intera disciplina dell’art. 238 c.p.p. alla luce della pronuncia della Corte, si può dire che il regime di utilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie contenute in verbali di dichiarazioni di coimputati o imputati in procedimento connesso sia il seguente: 1) le dichiarazioni rese in diverso procedimento, in dibattimento, nel corso dell’incidente probatorio o all’udienza preliminare (se si sia proceduto all’esame nelle forme previste dagli artt. 498 e 499 c.p.p., come previsto dall’art. 514 comma 1 c.p.p. modificato dalla legge n. 267/97), sono automaticamente acquisite ed integralmente utilizzabili nei confronti di altro imputato se alla fase di formazione sia stato presente — e quindi nella qualità abbia potuto prendervi parte (32) — il difensore di quest’ultimo imputato (comma 2-bis); 2) tutte le dichiarazioni, indipendentemente dalla sede e dalle modalità con le quali siano state formate, sono acquisite ed integralmente utilizzabili nei confronti di colui che abbia espresso il proprio consenso in tal senso (comma 4); 3) tutte le dichiarazioni di cui al punto che precede, in mancanza di consenso del destinatario delle accuse, possono formare oggetto di ‘‘contestazione’’ al dichiarante che si sia avvalso della facoltà di non rispondere ed essere utilizzate limitatamente ai passi dei quali si sia data lettura (comma 4 come modificato dall’intervento additivo della Corte). Sotto il profilo del regime valutativo, poi, in tutti e tre i casi è necessario che le affermazioni accusatorie siano confermate da altri elementi di prova (artt. 192 comma 3 e 500 comma 4 c.p.p.). Infine, una volta che le dichiarazioni rese in altro procedimento sono (31) Cfr. FURGIUELE, Nuove letture dibattimentali, cit., loc. cit., p. 1193 e riferimenti ivi alla nota 109. (32) Circa la necessità di una presenza qualificata, cfr. FURGIUELE, Nuove letture dibattimentali, cit., loc. cit., p. 1192.
— 941 — state equiparate a quelle rese nel medesimo procedimento, perché si possa procedere alle contestazioni mediante lettura, è necessaria la preventiva specificazione da parte del richiedente in ordine alle dichiarazioni delle quali ci si intenda avvalere ed agli imputati nei cui confronti le si voglia rendere utilizzabili. Appare opportuno, infine, segnalare che, anche all’esito dell’intervento della Corte costituzionale, il regime di utilizzabilità dei verbali di dichiarazioni rese in altro processo resta profondamente diverso a seconda che le dichiarazioni stesse siano state rese da testimoni o da imputati in procedimento connesso. Infatti, i verbali delle dichiarazioni di testimoni sono sempre acquisibili ed integralmente utilizzabili con valore di prova, anche se non siano stati formati dialetticamente, cioè in contraddittorio con l’imputato nei cui confronti vengano usati. Purché la formazione degli stessi sia avvenuta alla presenza di un giudice, anche nell’ambito di un giudizio civile definito con sentenza passata in cosa giudicata (art. 238 commi 1 e 2 c.p.p.). Vi è, invece, una corrispondente riduzione della valenza probatoria (artt. 500 comma 4 e 192 comma 3 c.p.p.) quando si tratti di letture di dichiarazioni rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria delegata ed utilizzate per le contestazioni. Tale ultima considerazione vale a rilevare un orientamento di massima che, prima ancora dell’intervento della Corte costituzionale, aveva già ispirato le scelte del legislatore. Ed invero, come si evince dalle previsioni dei commi 1 e 2 dell’art. 238 c.p.p. (come modificato dalla legge n. 267/97), l’esigenza prioritaria per la valenza probatoria di una dichiarazione non era rappresentata tanto dalla sua formazione nel pieno rispetto del contraddittorio, quanto piuttosto dalla garanzia del controllo giurisdizionale, in mancanza del quale si verifica la minore valenza probatoria delle dichiarazioni. Con riferimento, poi, alle dichiarazioni delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., l’originaria diffidenza, già manifestata con la previsione del comma 3 dell’art. 192 c.p.p., ha indotto il legislatore prima e la Corte costituzionale poi ad escludere la loro utilizzabilità automatica — anche se rese alla presenza del giudice — se non siano state sottoposte al vaglio del contraddittorio, nella sua forma tipica e piena ovvero in quella presunta (33), rappresentata dal consenso successivo all’utilizzazione da parte dell’interessato ovvero, infine, in quella anomala, limitata alla fase della mera acquisizione, realizzabile con il meccanismo delle contestazioni mediante lettura. (33) La possibilità di attribuire al ‘‘consenso’’ — e cioè ad un comportamento volontario delle parti — la valenza di un contraddittorio sia pure successivo, è stata da noi approfondita: cfr. FURGIUELE, Concetto e limiti dell’acquiescenza, cit.
— 942 — 5. Una possibile conclusione. — La sentenza n. 361/98 della Corte costituzionale non sembra idonea a rappresentare un punto di arrivo della tormentata vicenda della disciplina riservata alle dichiarazioni accusatorie erga alios rese da coimputati o imputati in procedimento connesso. D’altro canto ciò costituisce l’inevitabile conseguenza degli interventi c.d. ‘‘manipolativi’’ o ‘‘additivi’’, attraverso i quali la Corte costituzionale, finendo per sostituirsi in maniera del tutto anomala al legislatore, modifica la disciplina contenuta in una norma ma non può comunque costruire un insieme sistematico e coerente di previsioni normative. Siffatti interventi, quindi, richiedono necessariamente che il legislatore si attivi per ridisegnare l’intera disciplina dell’istituto, in sintonia con i principi ispiratori della sentenza della Corte costituzionale che su di esso abbia inciso. E le iniziative del legislatore devono anche essere estremamente rapide in quanto, a causa della settorialità degli interventi immediatamente operativi della Corte costituzionale, si possono verificare disparità di trattamento in relazione a rami dell’ordinamento giuridico (quale quello processuale penale) regolati dal principio del tempus regit actum. Con specifico riferimento alla sentenza n. 361/98, si può concludere che la Corte costituzionale abbia affermato la validità di quei principi che erano stati posti a base della riforma operata con la legge n. 267/97, ribadendo la necessità che la prova si formi nel pieno rispetto del contraddittorio. In questo senso va inteso anche l’operato rinvio all’art. 500 c.p.p., sebbene possa determinare un’irragionevole lesione del diritto di difesa per coloro che si trovino ad essere giudicati nella fase transitoria, nella quale cioè è operativo il solo intervento della Corte, senza che l’intera materia sia stata disciplinata da una coerente riforma legislativa. Ciò in quanto come si è in precedenza dimostrato, il meccanismo delle ‘‘contestazioni’’ non è idoneo ad assicurare la formazione dialettica della prova fin tanto che sia rivolto a persone titolari del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere. Tale rinvio deve essere considerato solo come un espresso ed ulteriore invito rivolto al legislatore a riscrivere l’intera disciplina della situazione giuridica soggettiva delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. in maniera simmetrica rispetto a quella riservata ai testimoni. Il che, però, non significa identificare i due ruoli che, comunque, devono restare ben distinti. Infatti, non si può prescindere mai dalla differente veste nella quale sono state rese le dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri. Nel senso che le accuse formulate da una persona imputata o indiziata e, quindi, in uno stato soggettivo di particolare coinvolgimento e nell’ambito di una strategia difensiva non possono avere la stessa valenza probatoria di quelle formulate da un testimone. Ed è proprio per questo motivo che, indipendentemente dalle modalità di formazione ed acquisizione della prova, il legislatore ha previsto il criterio fissato nel comma 3 dell’art. 192 c.p.p.
— 943 — Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, la strada da seguire sembra essere proprio quella indicata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 361/98 operando, cioè, un ridimensionamento della facoltà di astenersi dal rispondere in dibattimento, facoltà attualmente riservata a coloro che nella qualità di indagati o imputati abbiano effettuato chiamate in reità o in correità. Tale diritto, quindi, andrebbe limitato ai soli casi nei quali concretamente si possa verificare un pregiudizio per la situazione processuale del dichiarante. Inoltre, incidendo sulla regola di valutazione riservata alle dichiarazioni di coimputati o imputati in procedimento connesso formatesi in assenza di contraddittorio ed acquisite al fascicolo del dibattimento con il meccanismo delle ‘‘contestazioni’’, è possibile creare un incentivo al ricorso alla procedura dell’incidente probatorio. Infatti, se si sminuisse ulteriormente il loro valore probatorio rispetto alla regola generale già prevista dall’art. 192 comma 3 c.p.p., si indurrebbe il pubblico ministero a preferire la procedura dell’incidente probatorio. Ciò in quanto, ogni qual volta vi fosse la preoccupazione circa il rifiuto del dichiarante di rispondere nel successivo dibattimento, ci si dovrebbe orientare verso l’ipotesi di formazione anticipata della prova consentita dall’art. 392 c.p.p. come modificato dalla legge n. 267/97. Quanto poi alla ventilata possibilità di creare fattispecie di reato per le persone indicate nell’art. 210 c.p.p., in simmetria con i delitti di reticenza e falsa testimonianza previsti per i testimoni, è opportuna una certa cautela. Infatti, non può trascurarsi il costante pericolo in cui si verrebbe a trovare il dichiarante che, in precedenza, sotto la spinta psicologica di difendere se stesso, abbia accusato in tutto o in parte falsamente altre persone. Costui, potrebbe avere di fronte a se la seguente alternativa: a) rispondere e rivedere quanto in precedenza riferito e così confessare la propria responsabilità per il delitto di calunnia; b) rifiutarsi di rispondere ed incorrere automaticamente nel nuovo reato di ‘‘reticenza’’. Una siffatta alternativa potrebbe solo nuocere all’interesse primario dell’accertamento della verità, pertanto sarebbe opportuna la previsione di una causa di non punibilità per il delitto di calunnia correlata all’ipotesi di ritrattazione al dibattimento; ciò in perfetta simmetria con quanto previsto per il reato di false informazioni al pubblico ministero (artt. 371-bis e 376 c.p.). ALFONSO FURGIUELE Avvocato
I REATI DI SOSPETTO DOPO LA PRONUNCIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 370 DEL 1996: ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA, DI PROPORZIONE E DI TASSATIVITÀ
PARTE II
SOMMARIO: PARTE II. — 4. La violazione del principio di ragionevolezza da parte dell’art. 708 c.p. e dell’art. 707 c.p. - 4.1. Il giudizio sulla ragionevolezza dell’art. 708 c.p. nella sentenza n. 370/96. - 4.2. L’irragionevolezza della discriminazione prevista dall’art. 708 e dall’art. 707 c.p. — 5. La violazione del principio di tassatività da parte dell’art. 708 c.p. - 5.1. La violazione del principio di tassatività in base alle argomentazioni della Corte costituzionale. - 5.2. Riflessioni sul principio di tassatività. - 5.3. La violazione del principio di tassatività da parte dell’art. 708 c.p. — 6. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 c.p. in relazione al principio di tassatività. — 7. La mancata giustificazione dell’origine dei valori o altre utilità. — 8. La compatibilità dei reati di sospetto con la presunzione d’innocenza. - 8.1. La presunzione d’innocenza come regola di giudizio. - 8.2. La presunzione d’innocenza come regola della dignità della prova. - 8.3. La presunzione d’innocenza come regola dell’esclusività del processo. — 9. Considerazioni conclusive.
4.1. Nella pronuncia n. 370/96 la Corte costituzionale sembra essersi limitata ad esprimere un mero giudizio di legittimità di carattere formale, rilevando una palese discriminazione, fondata su una condizione personale e sociale (la condizione di condannato), tra cittadini che si trovano nella medesima situazione (possesso ingiustificato di valori); tale discriminazione sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza, inteso come obbligo di garantire la parità di posizione di tutti i cittadini nella responsabilità per le azioni che la legge ordinaria con libertà di valutazione prevede come reato (187). Si può osservare, però, che anche la verifica della compatibilità della norma con il principio di uguaglianza, inteso con riferimento alla parità di posizione di tutti i cittadini nella responsabilità (187) Per tale definizione del principio di uguaglianza cfr. LATAGLIATA, Principio di eguaglianza davanti alla legge ed equiparazione di condotte ‘‘diverse’’ sotto un unico titolo di responsabilità, in Giur. mer., 1971, pp. 95-96; SORACE, op. cit. (nota 35), p. 158, auspica il ritorno ad una tale interpretazione dell’art. 3 Cost.
— 945 — penale, comporta una valutazione delle ragioni che, in base alla valutazione del legislatore, determinano una maggiore riprovevolezza di un determinato comportamento qualora venga realizzato da parte di un soggetto qualificato da determinate condizioni personali (ad esempio in relazione ai reati propri); anzi è proprio il carattere generico della formula ‘‘condizioni personali e sociali’’ — criterio espressamente previsto dall’art. 3, comma 1 —, che comporta necessariamente, nelle ipotesi in cui la Corte decide di farne applicazione, un’indagine sull’irragionevolezza delle differenziazioni normative (188). La sentenza in esame, in particolare, rientra tra quelle sentenze in cui il giudizio sulla ragionevolezza non attiene alla misura della pena, ma piuttosto si valuta, si potrebbe dire ‘‘in forma più radicale’’, la ragionevolezza dell’incriminazione di un determinato comportamento solo in relazione a determinati soggetti (189). Nella maggior parte delle sentenze della Corte costituzionale in tema di ragionevolezza delle fattispecie penali, invece, si è verificato se la discrezionalità del legislatore, nella determinazione della natura e della misura della sanzione penale, rispetti il limite della ragionevolezza, e cioè si è esaminata la ragionevolezza di una fattispecie, che prevedeva un’equiparazione di trattamento punitivo di ipotesi aventi palesemente un diverso disvalore (190); o, si è considerata irragionevole la previsione di un diverso trattamento punitivo di condotte equivalenti in termini di disvalore (188) Cfr. PALADIN, Corte costituzionale, in Scritti, op. cit. (nota 19), pp. 659-660; PIZZORUSSO, Lezioni di diritto costituzionale, op. cit. (nota 15), pp. 158-163 ss.; CARACCIOLI, Conversione della pena pecuniaria e principio di eguaglianza, op. cit. (nota 66), p. 1210, il quale rileva che nella sentenza n. 29 del 1962 si utilizza il parametro delle condizioni personali e sociali senza alcun riferimento alla ragionevolezza, anche se poi la sentenza nelle sue motivazioni valuta la ragionevolezza; sui giudizi della Corte costituzionale in relazione a norme penali discriminatorie ratione subiecti, cfr. INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), p. 268 ss. (189) Cfr. PULITANÒ, Bene giuridico, op. cit. (nota 30), p. 139; MICHELETTI, op. cit. (nota 9), p. 3380, il quale osserva che la Corte avrebbe fatto meglio a dichiarare incostituzionale la norma per l’uniforme trattamento riservato sempre a pregiudicati, ma appartenenti a forme di criminalità aventi diverso disvalore, conseguenza dell’ampio ambito di applicazione soggettivo della fattispecie (soggetti condannati ‘‘per delitti commessi per motivi di lucro’’ — espressione capace di ricomprendere anche le persone che svolgono professionalmente attività legate alla circolazione della ricchezza mobiliare, vedi infra PISA nota 199), piuttosto che compiere una ‘‘valutazione d’illegittimità per il trattamento sanzionatorio riservato solo ad alcune situazioni, a vantaggio di altre ‘‘sfuggite’’ all’attenzione del legislatore’’: il che vuol dire ‘‘sindacare la discrezionalità delle scelte del legislatore’’, generalmente sottratte al giudizio della Corte. (190) Cfr. tra le altre Corte cost. 25 giugno 1996, n. 220, in Giur. cost., 1996, p. 1911; Corte cost. (19 luglio) 25 luglio 1994, n. 341, ivi, 1994, II, p. 2802 nella quale si è dichiarata irragionevole, per eccesso, la differenza di trattamento sanzionatorio dell’oltraggio, art. 341, comma 1 c.p., in relazione all’ingiuria aggravata ex artt. 594 e 61, n. 10, c.p.; Corte cost. 24 giugno 1993, n. 288, in Foro amm., 1995, p. 9 in tema di ineleggibilità; Corte cost. 13 luglio 1987, n. 256, in Foro it., 1987, I, p. 2603, con nota di FORNASARI, (non fondata) in
— 946 — o la differenza di trattamento in relazione al diverso disvalore delle condotte (191), o della stessa condotta in relazione a soggetti diversamente qualificati (192). E in ogni caso, in molte ipotesi in cui la Corte costituzionale ha valutato la ragionevolezza della stessa incriminazione di una condotta, si è limitata a valutare tale ragionevolezza in relazione ad un tertium genus specifico (altri soggetti determinati in una situazione simile, o in rapporto ad un’altra condotta simile) (193). Nel caso in esame, invece, la Corte decide se sia ragionevole che la stessa condotta, il possesso ingiustificato, punito in relazione a determirelazione al minimo edittale dell’art. 20, lett. b), l. n. 47/85; Corte cost. (27 giugno) 9 luglio 1974, n. 218, in Giur. cost., 1974, p. 1753 in cui si riconosce l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, penultimo comma, del r.d. 5 giugno 1939, n. 1016, limitatamente alla parte in cui si riferisce al soggetto che, pur avendo l’assicurazione, è sorpreso a cacciare privo dei soli documenti dimostrativi. (191) Cfr. Corte cost. (25 marzo) 8 aprile 1997, n. 84, in Giur. cost., 1997, p. 837, con nota critica di RUOTOLO, op. cit. (nota 39), in cui si dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 93, d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, che punisce la sottoscrizione di più di una dichiarazione di presentazione di candidatura nelle elezioni comunali, in quanto non si ritiene sussista una disparità con il trattamento della stessa condotta previsto per le elezioni provinciali (la condotta non è punita) e politiche; Corte cost. (22 gennaio) 29 gennaio 1996, n. 13, in Giur. cost., 1996, p. 112 in cui si dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 41 Cost., dell’art. 705 c.p. e dell’art. 13 d.l. n. 480/94, nella parte in cui contempla tuttora la repressione penale del commercio non autorizzato di cose preziose ed il secondo ha corrispondentemente depenalizzato il solo art. 706 c.p. — relativo al commercio clandestino di cose antiche — e non anche l’art. 705 dello stesso codice; Corte cost. 10 febbraio 1994, n. 25, in Rass. Avv. Stato, 1994, I, p. 28, (non fondata) in relazione all’art. 2 della l. n. 898/86 in tema di frodi ai danni delle C.E.E., in confronto con la fattispecie di truffa ex art. 640 c.p.; Corte cost. (6 luglio) 18 luglio 1989, n. 409, in Giur. cost., 1989, I, p. 1906 in cui si dichiara eccessiva la pena edittale minima del rifiuto del servizio militare di leva in confronto con l’art. 151 c.p.m.p. riguardante la mancata risposta alla chiamata; Corte cost. 6 dicembre 1984, n. 270, in Cass. pen., 1985, p. 573, sentenza di rigetto in relazione al più grave trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 707 (possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli) in confronto con le fattispecie di furto o di danneggiamento, confermata dalla sentenza n. 370 in esame. Nella seconda direzione, da ultimo, cfr. Corte cost. (24 marzo) 3 aprile 1997, n. 78, in Giur. cost., 1997, p. 759 (con nota parzialmente critica di PAGLIARO, Sproporzione ‘‘irragionevole’’, op. cit. (nota 52)), in cui si dichiara irragionevole la mancata applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi ai delitti colposi contro la salute pubblica diversamente da quanto stabilito per più gravi figure criminose. (192) Cfr. Corte cost. (9 dicembre) 16 dicembre 1996, n. 396, in G.U., n. 51 del 18 dicembre 1996, 1 serie spec., p. 14 e in Giur. cost., 1996, p. 3639; Corte cost. 30 ottobre 1996, n. 368, in G.U., n. 45 del 6 novembre 1996, 1 serie speciale, p. 39; Corte cost. (20 maggio) 27 maggio 1982, n. 103, in Giur. cost., 1982, I, p. 1013; su questo tipo di giudizio della Corte vedi estesamente CORBETTA, op. cit. (nota 29), il quale critica l’atteggiamento di eccessivo self-restraint della Corte costituzionale. (193) Non solo, ma, comunque, pur riconoscendo talora l’irragionevolezza della discriminazione, si ritiene per lo più che questo non giustifichi la dichiarazione di incostituzionalità di una norma in sé ragionevole o, in ogni caso, si tende a far prevalere il timore di provocare lacune di tutela, vedi nota 110.
— 947 — nati soggetti qualificati, non venga incriminato in relazione alla generalità dei consociati (194). Si tratta, comunque, di valutare la ragionevolezza di una discriminazione, in quanto un determinato comportamento, legittimo per la generalità dei consociati, è incriminato solo in rapporto a determinati soggetti qualificati; si può dire anzi che il motivo della discriminazione rientra, come rilevato, tra quelli espressamente previsti dall’art. 3, comma 1, e cioè le condizioni personali e sociali; il giudizio rimane, quindi, un giudizio sulla ragionevolezza di una norma in relazione al principio di uguaglianza. Nel valutare la stessa ragionevolezza dell’an dell’incriminazione penale, la Corte costituzionale, allora, deve accertare se la scelta del legislatore, di criminalizzare un comportamento solo in relazione a determinati soggetti qualificati, sia giustificata in quanto il possesso della qualifica possa incidere sulla lesione o messa in pericolo dell’interesse tutelato (ad esempio perché proprio in virtù della qualifica il soggetto agente entra in rapporto con l’interesse). Come emerso dalle osservazioni circa il carattere valutativo del giudizio di ragionevolezza, il parametro, infatti, per stabilire se un elemento giustifica la differenziazione del trattamento di condotte uguali è dato dalla ratio legis, e cioè in materia penale dalla considerazione del bene giuridico che l’ordinamento intende tutelare (195); in tale direzione si sono pronunciate una pluralità di decisioni della Corte costituzionale (196), nelle quali emerge ‘‘il ruolo sostanziale del bene giuridico dentro la forma del principio d’uguaglianza’’ (197). (194) Anche se non sono mancate pronunce in cui si è affermata in assoluto l’irragionevolezza, in termini di scelta di punibilità, di una condotta; ad esempio Corte cost. 28 dicembre 1995, n. 519, in Giur. cost., 1995, fasc. 6, p. 4354, in cui si afferma l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., ‘‘dell’art. 670, comma 1, c.p., in quanto dalla mendicità non invasiva non può ritenersi in alcun modo necessitato il ricorso alla regola penale, né la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica e dell’ordine pubblico può dirsi seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità...’’; cfr. INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), pp. 285-286, il quale rileva come in questa sentenza la Corte aderisce ad una nozione di controllo di ragionevolezza capace di esaminare direttamente la corrispondenza del reato ad un modello definitorio di tipo sostanziale; anzi l’autore riconduce a tale tipo di controllo diretto sulla ragionevolezza intrinseca di una norma anche la pronuncia n. 370, sull’art. 708 c.p.; in questa direzione, critico nei confronti di un così esteso controllo di ragionevolezza, ID., Un deludente epilogo, in Giur. cost., 1996, p. 3368 ss. Cfr. Corte cost. (9 dicembre) 16 dicembre 1996, in Giur. cost., 1996, p. 3639; Corte cost. 12 settembre 1995, n. 427, in Cons. Stato, 1995, II, p. 1533 e Corte cost. 28 luglio 1995, n. 416, ivi, 1995, II, p. 1331, nelle quali è stata valutata in termini assoluti la ragionevolezza della non punibilità degli abusi edilizi in seguito a condono, dichiarando non fondata la questione perché si trattava di una normativa eccezionale in relazione ad esigenze di contestuale intervento sulla disciplina concessoria ed a contingenti e straordinarie ragioni finanziarie. (195) Cfr. LATAGLIATA, op. cit. (nota 187), p. 96; MANNA, op. cit. (nota 110), p. 1037. (196) Cfr. Corte cost. 29 gennaio 1996, n. 13, in Cass. pen., 1996, p. 1379; Corte
— 948 — Nella sentenza in esame la Corte costituzionale non spiega, però, perché la qualifica di ‘‘condannato’’ non fosse in grado di giustificare l’incriminazione della condotta contemplata dall’art. 708 c.p., ma piuttosto si limita a rilevare come siano venute meno le ragioni storiche sulle quali si fondava la punibilità del possesso ingiustificato solo in capo a determinati soggetti. Si sostiene, infatti, che dinanzi all’esistenza di preoccupanti fenomeni di arricchimento personale ottenuto mediante vie illecite e occulte e alla attuale complessità dei meccanismi di un mercato ormai internazionale, l’art. 708 c.p. costituirebbe un’ipotesi assolutamente marginale e ormai irragionevole nella sua esclusiva riferibilità ai predetti soggetti (198). Le attuali dimensioni dell’infiltrazione del denaro di provenienza illecita nel mercato lecito inducono, infatti, a ritenere che i suoi protagonisti vanno ben al di là degli autori di meri delitti o contravvenzioni contro il patrimonio e che, quindi, è irragionevole una delimitazione in tale direzione della punibilità del possesso ingiustificato. In questa pronuncia, quindi, sembra che la Corte costituzionale ritenga che la discriminazione imposta dall’art. 708 c.p. non è più giustificata dal fine perseguito, essendo divenuta la fattispecie in esame assolutamente inidonea a perseguire le finalità politico criminali originariamente assegnategli, come emerge dall’analisi di carattere storico sviluppata dalla stessa Corte (si tratterebbe di un’ipotesi di anacronismo legislativo (199) ). 4.2. Queste osservazioni della Corte costituzionale sono indubbiamente corrette, ma sembrano insufficienti se si considera che una più attenta riflessione avrebbe consentito non solo di ritenere che siano venute meno le ragioni storiche giustificatrici del differente trattamento del poscost. 28 dicembre 1995, n. 519, in Giur. cost., 1995, fasc. 6, p. 4354, vedi nota 194; Corte cost. 18 ottobre 1995, n. 438, in Cass. pen., 1996, 34, 2059; Corte cost. 28 luglio 1995, n. 416, in Cons. Stato, 1995, II, p. 1331; Corte cost. (16 dicembre) 19 dicembre 1991, n. 467, in Giur. cost., 1991, p. 3805; Corte cost. (5 maggio) 25 maggio 1979, n. 26, ivi, 1979, p. 288; le ordinanze citate alla nota 194 sulla non punibilità degli abusi edilizi in seguito a condono. (197) Così PULITANÒ, Bene giuridico, op. cit. (nota 30), p. 149. (198) Così Corte cost. n. 370, op. cit. (nota 1), p. 54. (199) Così VALENTI, Principi di materialità e offensività, in Introduzione al sistema penale, op. cit. (nota 39), p. 257; MARTINES, op. cit., 9a ed. (nota 18) p. 675; AMATO, Una fattispecie che contrastava l’azione dei pregiudicati per reati contro il patrimonio, in Guida al diritto, 1996, n. 48, p. 63; INSOLERA, Un deludente epilogo, op. cit. (nota 9), p. 3367; TRAMONTANO, op. cit. (nota 9), c. 1698, il quale ritiene che la Corte ha così compiuto una valutazione che spettava al legislatore; in tale direzione MICHETTI, op. cit. (nota), pp. 33783379; PISA, op. cit. (nota 67), p. 1479, il quale contesta il giudizio di irragionevolezza del presupposto soggettivo dell’art. 708 c.p., in quanto tale norma, essendo applicabile ai condannati per qualsiasi delitto determinato da motivi di lucro, rappresentava uno ‘‘strumento che ben poteva essere usato in prospettiva anche per la ‘nuova criminalità’ di cui si parla nella sentenza’’.
— 949 — sesso ingiustificato in relazione a determinati soggetti, ma di mettere in discussione in maniera più radicale la conformità della norma al principio di ragionevolezza, negando che tali presunte ‘‘ragioni’’ vi siano mai state o per lo meno siano mai state tali da giustificare la discriminazione in esame (200). Si può osservare, infatti, a tal proposito che, se la condizione soggettiva deve valere come fattore discriminatorio in conformità con l’art. 3 Cost., deve riuscire a distinguere le ipotesi in cui vi è da quelle in cui non vi è offesa al bene tutelato: ci si deve chiedere allora se la condizione soggettiva di ‘‘condannato per determinati reati contro il patrimonio’’ riesce a discriminare le ipotesi di possesso ingiustificato offensive del bene tutelato dalla norma in esame (il patrimonio) da quelle non offensive. Di per sé il fatto di possedere dei beni senza giustificarne l’origine non comporta alcuna lesione o messa in pericolo del bene patrimonio (e lo stesso vale per il possesso di chiavi alterate o grimaldelli) (201), a meno che non si ritenga che il soggetto non possa fornire alcuna spiegazione accettabile dell’origine dei beni perché essi provengano da precedenti reati (oppure in relazione all’art. 707 c.p. si ritenga che siano stati utilizzati per la consumazione di un reato o siano ad esso destinati — sussisterebbe insomma una ‘‘presunzione relativa d’illegittimità del possesso’’ (202) ); ma allora il fatto, che si punisca tale comportamento solo in relazione ai soggetti già condannati di reati contro il patrimonio, si spiegherebbe in quanto il sospetto circa la commissione di precedenti reati, dai quali deriverebbero i beni in questione, (o circa l’intenzione di commetterli) assume, agli occhi del legislatore, una maggiore consistenza nei confronti di un soggetto già condannato per reati contro il patrimonio: e questo è possibile perché tale soggetto, proprio per il fatto di essere stato già condannato, viene ritenuto autore potenziale di altri reati, e cioè pericoloso (203). Quest’interpretazione è confermata dal fatto che la Corte costituzionale nella sentenza n. 110 del 1968 ha dichiarato l’irragionevolezza delle norme in esame soltanto in relazione ai soggetti perseguiti per mendicità o che siano stati ammoniti, sottoposti a misura di sicurezza o a cauzione di buona condotta, in quanto solo queste condizioni personali non denotano alcuna specifica pericolosità verso il bene del patrimonio; e del resto la Suprema Corte ha affermato espressamente che la discriminazione operata dall’art. 707 c.p. non è censurabile ex art. 3 Cost. perché (200) Cfr. DOLSO, Bilanciamento tra principi e ‘‘strict scrutiny’’, op. cit.(nota 49), p. 4153, parla di anacronismo ab origine. (201) Cfr. FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 2), p. 19. (202) Cfr. SPASARI, Fatto e reato, op. cit. (nota 4), p. 1115. (203) Cfr. FIORELLA, op. cit. (nota 5), pp. 208-213; MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 2), p. 237; SABATINI, op. cit. (nota 3), p. 622 il quale parla di ‘‘probabilità, presunta dalla legge, in considerazione della capacità a delinquere del possessore per motivi di lucro, ...che gli strumenti siano stati o siano destinati a commettere un delitto’’.
— 950 — fondata su ‘‘una particolare pericolosità sociale, desunta da precedenti condanne divenute irrevocabili’’ (204). Ma si tratta, evidentemente, di una sorta di presunzione di pericolosità iuris et de iure (205) rivolta verso il passato: il condannato per determinati delitti viene ‘‘presunto’’ autore di altri delitti o, comunque, in essi coinvolto, al punto da trarne determinati vantaggi patrimoniali. La qualifica diventa allora indice probatorio della commissione di precedenti delitti (206). Una tale presunzione di pericolosità non solo non risulta differente dalle presunzioni di pericolosità precedentemente previste nel nostro ordinamento e dichiarate costituzionalmente illegittime dalla Corte costituzionale (207), ma anzi si rivela più grave perché più generica. Si deve, inoltre, considerare che anche qualora i beni ingiustificatamente posseduti provenissero effettivamente da reati contro il patrimonio (o le chiavi alterate, o i grimaldelli, fossero state utilizzate per la consumazione di reati), e quindi vi sia stata un’effettiva lesione di tale bene giuridico, tale lesione non sarebbe certamente più intensa perché l’autore del reato è un recidivo. Non solo, ma sembra inaccettabile in uno Stato di diritto far derivare delle ulteriori conseguenze negative da una condanna, al di là di quelle in essa espressamente previste. Con una fattispecie, come quella contemplata dall’art. 708 c.p. (o dall’art. 707 c.p.), fondata sulla condizione personale di condannato, si rischia, invece, di affermare il principio che chi sia già stato condannato per la commissione di determinati reati debba essere sottoposto ad un trattamento diversificato rispetto agli altri cittadini da parte dell’ordinamento penale; e questo avverrebbe non tanto nel senso che in sede di commisurazione della pena si debba tener conto della precedente condanna, ai fini della valutazione della capacità criminale o ai fini dell’applicazione della recidiva, ma piuttosto nel senso che su tale condizione soggettiva si fonderebbe una presunzione di pericolosità del condannato, ritenuto ‘‘autore potenziale’’ di futuri reati — così negando (204) Così Corte cost. 19 luglio 1968, n. 110, in Giur. cost., 1968, p. 1737 ss.; conforme Cass. 18 giugno 1971, Giannalia, in Cass. pen., 1972, p. 1659; Corte cost. 2 febbraio 1971, n. 14, in Giur. it., 1971, I, p. 219; Cass. 11 luglio 1968, Parisi, in Cass. pen., 1969, p. 1071. (205) Cfr. FRAGÒLA, Le misure di prevenzione, Padova, 1992, p. 21, il quale parla di pericolosità in re ipsa, che prescinde dalle qualità individuali dell’autore, invertendo l’onere di iniziativa probatoria. (206) Cfr. sul punto NANULA, Antimafia: Il problema della prova della provenienza illecita dei beni, in Il Fisco, 1993, p. 10115; IZZO, Sequestro preventivo strumentale alla confisca di ricchezza sproporzionata al reddito dichiarato. Poteri di controllo del giudice del riesame, in Il Fisco, 1994, p. 3424. (207) Cfr. Corte cost. 28 luglio 1983, n. 249, in questa Rivista, 1984, p. 460; Corte cost. 27 luglio 1982, n. 139, ivi, 1982, p. 1585; Corte cost. 20 gennaio 1971, n. 1, in Giur. cost., 1971, p. 1.
— 951 — in radice la stessa valenza rieducativa della pena —; e addirittura tale condizione soggettiva diventerebbe elemento probatorio/costitutivo di un reato (208). Le fattispecie in esame, poi, facendo dipendere la punibilità da tale presunta pericolosità dell’autore, costituiscono delle ipotesi di responsabilità per il modo di essere dell’autore, così violando non solo l’art. 25 Cost., che sancisce il principio di responsabilità per il fatto commesso (209), ma anche l’art. 27, comma 1, che stabilisce il principio di responsabilità per fatto proprio colpevole, rendendo inammissibile la concezione della colpa d’autore (intesa come ‘‘colpevolezza per il carattere’’ o ‘‘colpevolezza per la condotta di vita’’ (210) ). La discriminazione nei confronti dei soggetti ‘‘condannati’’, prevista dall’art. 708 c.p. e dall’art. 707 c.p., finisce, inoltre, per negare in radice la stessa valenza rieducativa della pena; se, infatti, ‘‘non si vuole ridurre l’affermazione costituzionale del comma 3 dell’art. 27 Cost. ad un vago richiamo romantico, occorrerebbe anzitutto incominciare a considerare il condannato come socialmente recuperato al termine dell’esecuzione della pena, se non altro al limitato effetto di non creargli e, anzi, di rimuovere condizioni di iniquo sfavore, come quella di cui alla disposizione impugnata, tenuto conto delle ordinarie e già pesanti conseguenze che sogliono seguire ad una condanna’’ (211). Le condizioni personali, sulle quali si fondano le fattispecie in esame, non sono, quindi, già in origine tali da giustificare, ai sensi dell’art. 3 Cost., il differente trattamento del possesso ingiustificato di valori, o di (208) La Corte cost. 30 ottobre 1975, n. 236, in Giur. cost., 1975, II, p. 2235, negava che l’art. 708 c.p. violasse il principio di uguaglianza per il fatto di considerare elemento essenziale del modello di reato la ‘‘condizione personale e sociale’’ di pregiudicato (ord. di rimessione del 1o marzo 1973 del pretore di Prato, ivi, 1973, I, p. 1077). (209) Cfr. FIORELLA, op. cit. (nota 5), p. 213. (210) Così FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 2), p. 270; cfr. MAZZACUVA, op. cit.(nota 62), p. 85; DONINI, Il principio di colpevolezza, in Introduzione al sistema penale, op. cit. (nota 39), pp. 227-228, il quale precisa che ‘‘se il legislatore non ha previamente costruito fatti di reato dotati di serietà penale, se le fattispecie sono così ‘formali’ da svilire il significato della stessa distinzione fra dolo e colpa..., se — in definitiva — non si rispetta previamente il principio di offensività... lo stesso principio di colpevolezza ne esce irrimediabilmente compromesso’’; ID., Teoria del reato, op. cit. (nota 53), p. 119; cfr. sul punto GARCÌA PÉREZ, Delitos de sospecha. principio de culpabilidad y derecho a la presunción de inocencia. Los artìculos 483 y 485 c.p., in Anuario de derecho penal y cienc. penales, 1994, p. 637, il quale osserva come i delitti di sospetto rientrano in quelle ipotesi in cui viene violato sia il principio di colpevolezza che la presunzione d’innocenza; HASSEMER, Produktverantwortung, in Modernen Strafrecht, Heidelberg, 1984, p. 7 ss; PALIERO, L’autunno del patriarca, in questa Rivista, 1994, p. 1235. (211) Così rilevano i giudici a quibus che hanno promosso il giudizio di legittimità costituzionale sfociato nella sentenza n. 110 del 1968, cfr. ordinanza del 30 settembre 1967 del pretore di Bologna, in Giur. cost., 1968, p. 19; in dottrina cfr. MICHELETTI, op. cit. (nota 9), p. 3385.
— 952 — chiavi alterate o grimaldelli, in capo ai soggetti in loro possesso. Non solo il fine perseguito dalle norme, la tutela del patrimonio, non giustifica la discriminazione in esame, ma anzi tale discriminazione si pone in contrasto con altri principi costituzionali, come il principio di colpevolezza per il fatto o la funzione rieducativa della pena (212). 5. La Corte costituzionale dichiara nella sentenza in esame l’incostituzionalità dell’art. 708 c.p. non solo per la violazione del principio di ragionevolezza, ma anche, come accennato, in riferimento al principio di tassatività ex art. 25 Cost. Nonostante l’assoluta mancanza di chiarezza di questa parte della sentenza, si cercherà di ricostruire il ragionamento svolto dalla Corte per giustificare la dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie di possesso ingiustificato per violazione del principio di tassatività. 5.1. La Corte costituzionale osserva, innanzitutto, che il ‘‘riferimento’’ allo ‘‘stato’’ del soggetto ‘‘si palesa indeterminato per la genericità del disposto normativo e non più adeguato a perseguire i fenomeni degli arricchimenti illeciti quali risultano dall’osservazione della realtà criminale’’: si potrebbe, quindi, ritenere che la Corte valuti non sufficientemente chiaro questo riferimento dei beni posseduti allo stato, nel senso che il legislatore non avrebbe fornito un chiaro parametro di valutazione di tale ‘‘confacenza allo stato’’, creando il rischio di un’applicazione arbitraria della norma da parte del giudice (213). (212) Cfr. AGRÒ, Contributo ad uno studio, op. cit. (nota 12), p. 927; LICCI, op. cit. (nota 45), p. 19. (213) I giudici di merito avevano mosso tale censura di incostituzionalità rilevando il ‘‘difetto assoluto di tassatività’’ della nozione di ‘‘cose’’, che comporterebbe ‘‘la necessita, per il giudice, d’una valutazione relazionale con lo ‘stato’ del soggetto, amplificando la portata incriminatrice della norma, fino a incentrarla in modo esclusivo e irragionevole sullo stato sociale (attuale) del soggetto in precedenza condannato’’. Tale censura appare insufficiente a cogliere la problematicità del rapporto della norma in esame con il principio di tassatività, perché, da una parte, il suo accoglimento non avrebbe necessariamente comportato la dichiarazione di incostituzionalità della norma, ma sarebbe bastato dichiararla solo parzialmente incostituzionale nel suo riferimento al concetto generico di cose (in tale direzione cfr. TRAMONTANO, op. cit. (nota 9), c. 1699), e, dall’altra parte, la Corte cost. 19 luglio 1968, n. 110, in Giur. cost., 1968, § 2, p. 1731, aveva già precisato che ‘‘è da escludere che lo ‘‘stato’’ del possessore debba essere tenuto presente nella sola ipotesi di possesso di cose diverse dal denaro o da oggetti di valore’’; con l’art. 708 c.p. il legislatore intendeva semplicemente rendere più dettagliate quelle stesse ipotesi di possesso ingiustificato di denaro o di oggetti, che, anche nella corrispondente norma del codice abrogato del 1889, l’art. 492, erano indicate con riferimento alla condizione personale del possessore (in tale direzione Rel. del Guardasigilli al c.p., II, p. 509; GIAMPAOLI, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 6), p. 97; SABATINI, op. cit. (nota 3), p. 622). Cfr. INSOLERA, Un deludente epilogo, op. cit. (nota 9), p. 3367, il quale ritiene che il ‘‘riferimento così sintetico, e forse improprio, alla determinatezza... abbia avuto la funzione
— 953 — A tal riguardo si può osservare che la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 110 del 1968 aveva in qualche modo — anche se non del tutto esplicitamente — suggerito un parametro per valutare l’elemento in questione, affermando che lo scopo della norma non era quello di ‘‘operare una differenziazione tra soggetti in diverse condizioni economiche e sociali’’: questo riferimento alle condizioni economiche avrebbe potuto attribuire al concetto di ‘‘stato’’ una valenza tipizzante della fattispecie in quanto ne avrebbe delimitato l’ambito di applicabilità alle sole ipotesi in cui i beni posseduti fossero di valore sproporzionato rispetto alle condizioni economiche del reo (tanto è vero che la Corte sosteneva che sarebbe stato inaccettabile ‘‘considerare ingiustificato anche il possesso di una, sia pure minima, somma di denaro’’). Questa prospettata costituiva, però, solo una possibile interpretazione — non vincolante per la futura giurisprudenza — di un elemento, il concetto di ‘‘stato’’, di per sé non sufficientemente determinato. Del resto la Corte nella stessa sentenza aveva definito la nozione di ‘‘stato del possessore’’ come riferentesi alle ‘‘abituali condizioni di vita’’, e individuava un’analogia tra tale concetto e i criteri indicati dal comma 2 dell’art. 133 c.p. per valutare la capacità a delinquere del reo, in particolare la condotta del reo e le sue ‘‘condizioni di vita individuale, familiare e sociale’’ (la norma richiama anche ‘‘i precedenti penali e giudiziari’’); tale generico richiamo alle condizioni di vita del soggetto finiva, però, per ridurre la nozione di ‘‘stato del possessore’’ a un mero riferimento alle condizioni personali indicate dall’art. 707 c.p., senza riuscire a delimitare l’ambito di applicazione della fattispecie in esame (basti pensare che in dottrina si ritenevano non confacenti allo stato di una ‘‘persona di umili condizioni sociali’’ gli ‘‘oggetti anche di lieve valore che difficilmente egli avrebbe ragione di possedere’’; ‘‘può trattarsi di ornamenti della persona, come un anello, ovvero anche di indumenti, un vestito o un paio di scarpe anche se adoperati’’ (214) ). Se si prosegue, inoltre, nella lettura della sentenza n. 370 non sembra che la censura di violazione del principio di tassatività si concentri semplicemente sul fatto che la nozione di ‘‘confacenza allo stato’’ non sia chiaramente determinata; la Corte precisa espressamente che la norma in questione si pone in contrasto con il principio di tassatività perché fonda il discrimine del carattere lecito o illecito del possesso ingiustificato di valori su una mera condizione soggettiva di pregiudicato per alcune classi di precedenti penali (215). Si afferma in questa parte della sentenza che non è accettabile l’interdi rafforzare l’unica, vera, censura mossa all’art. 708 c.p.: quella riconducibile all’art. 3, comma 1, Cost.’’. (214) Così SABATINI, op. cit. (nota 3), p. 622. (215) Corte cost. n. 370, op. cit. (nota 1), p. 55.
— 954 — pretazione offerta dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 110 del 1968, in base alla quale il discrimine tra un fatto non punibile e un ‘‘fatto punibile risiedeva proprio nella possibilità di dare una soddisfacente spiegazione del possesso di un valore non confacente alle abituali condizioni di vita del sospettato’’; tale interpretazione non appare convincente, perché ‘‘in tal modo non si eliminò dalla fattispecie quella condizione sociale abituale che non è certo più concepibile in un orizzonte storico diverso da quello originario. Essa era indispensabile per separare i fatti di possesso punibili da quelli leciti, che si sottraggono a ogni forma di controllo. E ciò in quanto si voleva infliggere comunque una pena per quei fatti sfuggiti all’accertamento dell’azione delittuosa del responsabile del reato contro il patrimonio...’’ (216). Anche se in maniera non molto chiara la Corte sembra, quindi, affermare che l’art. 708 c.p. presentava un ‘‘deficit di tassatività’’ perché puntava il discrimine tra lecito e illecito sul riferimento alla ‘‘condizione sociale abituale’’ (‘‘essa era indispensabile per separare i fatti di possesso punibili da quelli leciti’’) del soggetto attivo del reato, e cioè sulla condizione sociale di un soggetto con precedenti penali e quindi, in sostanza, sulle mere ‘‘condizioni personali’’ (la Corte, infatti, definisce l’art. 708 c.p. come ‘‘un surrogato contravvenzionale, tipizzato attraverso la riferibilità del fatto, di per sé neutro, a un pregiudicato per alcune classi di precedenti penali’’); ma tale elemento, in base alla sentenza in esame, non riusciva a giustificare la distinzione tra il possesso ingiustificato punibile e quello lecito. Dalle concise motivazioni della Corte non emerge, però, in maniera chiara il perché il fatto che l’art. 708 c.p fondasse sulla qualifica soggettiva il discrimine tra lecito e illecito inducesse a ritenere che la norma si ponesse in contrasto non solo con l’art. 3 Cost., nel senso che la qualifica soggettiva non giustificava la differenza di trattamento, ma anche con il principio di tassatività. Si cercherà allora di approfondire il principio di tassatività e le argomentazioni della Corte per comprenderne le ragioni. 5.2. Il principio di tassatività (o di determinatezza) richiede, innanzitutto, al legislatore che nel procedere alla creazione della norma descriva in maniera determinata la fattispecie legale (e i limiti minimo e massimo della pena (217) ) affinché risulti tassativamente stabilito ciò che è penalmente lecito e ciò che è penalmente illecito (come affermato anche nella circolare della Presidenza del Consiglio sui criteri orientativi per la formulazione delle fattispecie penali (218) ), con la conseguenza che il (216) Corte cost. n. 370, op. cit. (nota 1), p. 55. (217) Cfr. BRICOLA, Commento all’art. 25, commi 1 e 2, in Commentario della Costituzione, a cura di BRANCA, Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, p. 256. (218) Presidenza del Consiglio dei Ministri, Circolare 5 febbraio 1986, n.
— 955 — giudice deve applicarla solo nei casi espressamente previsti (219). Tale principio partecipa della stessa ratio di garanzia del principio di legalità, del quale rappresenta un aspetto, nel senso che, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 1989 in materia di frodi fiscali, garantisce la libertà del cittadino, il quale, potendo conoscere in maniera chiara il confine tra lecito e illecito può orientare di conseguenza la sua condotta (riduce il Bestrafungrisiko del cittadino consentendogli la prevedibilità e precalcolabilità dell’intervento punitivo dello Stato (220) ) (221). Secondo parte della dottrina, inoltre, il principio di tassatività viene riconosciuto non solo dall’art. 25 Cost. (in quanto il principio di legalità, e in particolare la riserva di legge e il principio di irretroattività sarebbero compromessi dal difetto di tassatività (222) ), ma anche dall’art. 13, comma 2, Cost. laddove stabilisce che ‘‘non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti 1.1.2/17611/4.6., in G.U., 18 marzo 1986, n. 64. Criteri orientativi per la scelta tra delitti e contravvenzioni e per la formulazione delle fattispecie penali, in Cass. pen., 1986, p. 624, in particolare p. 631. (219) Cfr. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990, p. 33; ampiamente sull’origine storica del principio di determinatezza e sul suo carattere funzionale ad una determinata forma di governo cfr. D’AMICO, Il principio di determinatezza in materia penale fra teoria e giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1998, p. 315 ss.; sui rapporti tra il principio di tassatività e il divieto di analogia, e sulla loro non esatta coincidenza anche dal punto di vista del giudice cfr. PALAZZO, Il principio di determinatezza, op. cit.(nota 41), p. 7 ss. Sul passaggio della Corte costituzionale dall’uso del termine tassatività all’uso del termine determinatezza cfr. Corte cost. 16 maggio 1989, n. 247, in Giur. cost., 1989, p. 1133 ss.; D’AMICO, ibidem, p. 360. (220) Così GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 202; cfr. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, pp. 290 ss.-311; in relazione al Bestimmtheitsgrundsatzes (Art. 103 II GG) da ultimo cfr. HETTINGER, Die zentrale Bedeutung des Bestimmtheitsgrundsatzes, in Jus (Juristische Schulung)-Lernbogen, 1997, L 19. (221) Così Corte cost. 16 maggio 1989, n. 247, in Giust. pen., 1989, I, c. 294 ss., in particolare c. 301; cfr. Corte cost. 12 marzo 1962, n. 15, in Giur. it., 1962, I, c. 648 ss., che ad avviso della dottrina, BRICOLA, La discrezionalità, op. cit., (nota 220), p. 282, costitusce una delle prime sentenze in cui la Corte costituzionale ha preso posizione sia pure implicitamente su un’ipotesi di indeterminatezza della sanzione penale, ‘‘nel senso della costituzionalizzazione del principio di legalità nella totalità dei significati da esso posseduti nella legge penale ordinaria’’; cfr. D’AMICO, op. cit. (nota 219), p. 360 ss. (222) Cfr. tra gli altri A. RONCO, op. cit. (nota 93), p. 105, il quale afferma che ‘‘il principio di legalità sganciato dal rispetto legislativo del principio di tipicità del fatto, si riduce a un mero strumento per realizzare la subordinazione politica dell’autorità giudiziaria nei confronti degli organi legislativi, senza escludere la possibilità di violazione sostanziale della certezza del diritto’’; PADOVANI, op. cit. (nota 219), p. 32; PALAZZO, Il principio di determinatezza, op. cit. (nota 41), p. 27 ss.; GRASSO, Il reato omissivo improprio, op. cit. (nota 220), p. 202; BOSCARELLI, A proposito del ‘‘principio di tassatività’’, in questa Rivista, 1981, p. 1147, il quale critica l’idea che il principio di tassatività valga e addirittura sia costituzionalizzato solo per il diritto penale, in quanto si tratterebbe di un carattere ‘‘tecnico’’ della norma in quanto tale.
— 956 — dalla legge’’; se la Costituzione, infatti, nel tutelare la libertà dei cittadini, ha riferito un’esigenza di determinatezza alle norme di legge relative alle misure cautelari personali, tanto più quest’esigenza deve essere affermata in rapporto alle norme che predispongono le misure non ‘‘strumentali’’, ma piuttosto ‘‘finali’’, e cioè le pene (223). E in tale direzione si è espressa anche la sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, la quale ha autorevolmente affermato, nell’ambito di una concezione democratico-liberale dei rapporti tra cittadino e Stato, il dovere del legislatore di formulare ‘‘chiaramente’’ le norme penali per consentire la ‘‘riconoscibilità’’ dell’effettivo contenuto significativo del precetto; e a tale elemento — la ‘‘riconoscibilità’’ — si attribuisce il ruolo di limite della colpevolezza, la cui ratio, a sua volta, viene ravvisata proprio nell’esigenza di ‘‘garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione’’ (in questo senso la colpevolezza ‘‘più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio garantistico di legalità, vigente in uno Stato di diritto’’) (224). Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo e la giurisprudenza comunitaria si sono espresse in tale direzione; la prima richiedendo che la legge sia ‘‘formulata con sufficiente precisione per permettere ai destinatari — se necessario con l’apporto di una consulenza legale — di conoscere preventivamente, in misura ragionevole in base alle circostanze del caso, le conseguenze che derivano dalla realizzazione di una data condotta’’ (225); la seconda affermando un principio di certezza del diritto, in base al quale ‘‘la norma co(223) Così PADOVANI, op. cit. (nota 219), p. 33; BRICOLA, La discrezionalità, op. cit. (nota 220), p. 278; in tale direzione TIEDEMANN, Tatbestandfunktionen, op. cit. (nota 117), p. 197, il quale afferma che ‘‘il legislatore deve tanto più stabilire con precisione i presupposti della punibilità quanto più severa è la pena’’. (224) Così Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, in Foro it., 1988, I, 1385 con nota di FIANDACA; cfr. BRICOLA, La discrezionalità, op. cit., pp. 293-311 ss.; DONINI, Il principio di colpevolezza, op. cit. (nota 210), p. 227; VASSALLI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Dig. disc. pen., VIII, 1994, p. 322; PAPA, La questione di costituzionalità relativa alla disciplina delle armi giocattolo: il ‘‘diritto vivente’’ tra riserva di legge e determinatezza della fattispecie, in Giur. cost., 1989, p. 31; INSOLERA-ZANOTTI, L’intervento interpretativo della Corte costituzionale sulle ipotesi di frode fiscale ex art. 4, n. 7, della l. n. 516/82, in Foro it., 1989, I, c. 1686; TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen, op. cit. (nota 117), p. 174 ss. sulla funzione di garanzia della libertà del cittadino ‘‘der Grundsatz der Gesetzesbestimmtheit’’, e in particolare sul rapporto tra la tassatività e la colpevolezza (comprensiva della conoscibilità del precetto penale) in tale funzione garantistica, pp. 191 ss.-203 ss. (225) Così Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 luglio 1995, Tolstoy Miloslavsky v. Royaume-Uni, in Publications de la Cour Européenne des droits de l’Homme, Série A, vol. 316-B, pp. 71-72, la quale continua affermando che ‘‘Una legge che conferisce una certa discrezionalità all’interprete non è in contrasto con questo requisito, se sono indicati con sufficiente chiarezza lo scopo della discrezionalità e la maniera in cui deve essere esercitata, avendo riguardo al legittimo scopo in questione, e cioè quello di garantire all’individuo un’adeguata protezione contro gli interventi arbitrari’’; conforme Corte eur., 25 novembre 1997, Grigoriades c. Grecia, in Dir. pen. proc., 1998, n. 3, p. 301; Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Cantoni c. Francia, in Rev. trim. dr. h., 1997, p. 685 e in Leg. pen., 1997, p. 464, che esclude l’interpretazione estensiva ed analogica; Corte europea dei
— 957 — munitaria deve essere certa e la sua applicazione prevedibile per coloro che vi sono sottoposti’’ (226). Il mezzo per attuare il principio di tassatività da parte del legislatore è la tipizzazione degli illeciti penali: la tipicità viene, infatti, definita come il ‘‘precipitato tecnico’’ del principio di tassatività (227) e perciò un carattere essenziale e costante dell’illecito penale; e di conseguenza l’accertamento della conformità del fatto storico al fatto tipico (al fatto così come descritto dal legislatore) costituisce il primo dovere del giudice nell’applicazione della legge penale. Si consideri, però, che tipizzare un fatto in un ordinamento penale orientato alla tutela di beni giuridici vuol dire criminalizzare un fatto — nel senso di esprimere nei suoi confronti un giudizio di disvalore e, quindi, riconnettere alla sua commissione una sanzione penale —, corrispondente ad una tipologia empirico-criminologica emersa nella realtà sociale (228), un fatto considerato meritevole della sanzione penale in quanto rappresenta un’offesa intollerabile, nella forma della lesione o della messa in pericolo, di un bene giuridico ritenuto meritevole di tutela (come affermò il coniatore di quel principio, ‘‘ciò che nessun giudiritti dell’uomo, 27 marzo 1996, Goodwin c. Royaume-Uni, in Recueil de Arrêts et Dêcisions, 1996, II, n. 7, pp. 496-497; Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 aprile 1990, Huvig, in Publications de la Cour Européenne des droits de l’Homme, Série A, vol. 176 — B, pag. 52 ss. — 54 ss.; Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 aprile 1990, Kruslin, ivi, vol 176 — A, pag. 20 ss. — 22 ss; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 2 agosto 1984, Kruslin, ivi, vol. 82; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 25 marzo 1983, Silver et autres, in Publications de la Cour Européenne des droits de l’Homme, Série A, vol. 610, pag. 33 ss.; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 26 aprile 1979, Sunday Times c/RU n. 1, in Publications de la Cour Européenne de droits de l’Homme, Série A, vol. 30, pag 30 ss.; in tale direzione, in accoglimento della su citata giurisprudenza della Corte europea, Camera dei diritti dell’uomo della Bosnia ed Erzegovina, 15 luglio 1998, Ivica Kevesevic contro la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, Case N. CH/97/46. (226) Così Tribunale di primo grado delle Comunità europee (sez. IV), 22 gennaio 1997, Opel Austria GmbH c. Consiglio, (causa T-115/94), in Riv. intern. dir. uomo, 1997, pp. 817, in particolare 839-841, che richiede, inoltre, che ‘‘ogni atto delle istituzioni produttivo di effetti giuridici sia non soltanto chiaro e preciso, ma anche portato a conoscenza dell’interessato in modo tale che questi possegga la certezza del momento a decorrere dal quale l’atto stesso esiste ed è produttivo di effetti giuridici’’; cfr. Corte di giustizia, 13 febbraio 1979, C 85/76, Hoffmann La Roche, in Raccolta, 1979, p. 510, la quale afferma il ‘‘principio della determinatezza e della prevedibilità delle norme comportanti sanzioni’’ — per le conclusioni sul punto dell’avvocato generale Reischl, p. 594 ss.; in tale direzione Corte di giustizia, 25 settembre 1984, Könecke, C 177/83, ivi, 1984, p. 3291, punto 11; Corte di giustizia, 10 luglio 1984, Kirk, C 63/83, ivi, 1984, p. 2689, punto 22. (227) Così FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 2), p. 153. (228) Cfr. HASSEMER, Tatbestand und Typus - Untersuchungen für strafrechtlichen Hermeneutik, Köln, 1968, p. 153, il quale precisa come il legislatore ‘‘costruisce’’ la fattispecie penale, nel senso che non si limita a conoscere e riprodurre dalla realtà ‘‘tipi’’ di comportamento, ma egli stesso costruisce, in base alle esigenze del diritto penale, i ‘‘Typen’’; tale opera di ‘‘Konstruction’’ è un processo di sviluppo di una visione assiologica (von axiologischer Sicht) — in questo caso penalistica — della realtà (Wirklichkeit).
— 958 — dice può provare, non può neppure essere oggetto della legge’’) (229). Il legislatore, cioè, in uno Stato democratico, laico e pluralistico, ispirato ai valori della tolleranza, nel quale tutto il potere statuale promana dal popolo sovrano, che nell’uomo riconosce il valore della dignità e un nucleo di diritti inviolabili, non può criminalizzare qualsiasi comportamento in base al suo mero arbitrio, e in particolare non può punire la mera disobbedienza, la violazione di un dovere di fedeltà, o un atteggiamento interiore ribelle (né la violazione di precetti divini, o la violazione di norme etiche o religiose, o il dissenso politico), ma, alla luce del modello di diritto penale strumento di protezione di beni giuridici che emerge dalla Costituzione, solo dei comportamenti offensivi di un bene giuridico (230) (il principio di legalità non vive insomma ‘‘solo sul piano di una lex scripta et stricta del tutto indifferente ai contenuti delle decisioni legislative politicocriminali in essa racchiuse’’ (231) ). (229) Così FEUERBACH, Revision der Grundsätze und Grundbegriffe des positiven peinliche Rechts, vol. I, parte II, 1800, p. 93; cfr. sul punto MARINUCCI, Fatto e scriminanti, op. cit. (nota 104), p. 1209 ss.; ID., Relazione di sintesi, op. cit. (nota 159), p. 336; GÜNTHER, Die Genese eines Straftatbestandes. Eine Einführung in Fragen der Strafgesetzgebungslehre, in Juristische Schulung, 1978, p. 9. (230) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 2), pp. 78-79; ID., Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, p. 335; SPASARI, Fatto e reato, op. cit. (nota 4), pp. 1118-1119; DONINI, Teoria del reato, op. cit. (nota 53), p. 118; MAZZACUVA, op. cit. (nota 62), p. 85; VALENTI, op. cit. (nota 199), p. 242; D’AMICO, op. cit. (nota 219), pp. 333 ss.-352 ss.-363 ss., la quale sottolinea come la Corte costituzionale si sia attribuita un potere di ‘‘intervento correttivo’’ sulla norma, anche al fine di sopperire al mancato adeguamento del codice Rocco alla Carta costituzionale; cfr. nell’ordinamento tedesco TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen, op. cit. (nota 117), p. 86 sulla funzione di garanzia del Tatbestand come ‘‘Wertverletzungstypus’’, p. 116 dove si sottolinea che la tutela di un bene non è assoluta e il bene è inteso in senso dinamico (‘‘In-Funktion-Sein’’), e pp. 208 ss.-231 dove si sottolinea che nello svolgere la sua funzione di garanzia la fattispecie penale individua una norma di comportamento e la tutela di un bene giuridico, e cioè l’illecito soggettivo e obiettivo; SAX, Grundsatze der Strafrechtspflege, in BETTERMANN-NIPPERDEY-SCHEUNER, Grundrechte, III, 2, 1959, p. 997 ss.; HASSEMER, Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, München, 1981, p. 24; ID., Tatbestand und Typus, op. cit. (nota 228). (231) Così MARINUCCI, Fatto e scriminanti, op. cit. (nota 104), p. 1209. In tale direzione sembra esprimersi RONCO, op. cit. (nota 93), pp. 98-99, laddove definisce la tipicità ‘‘come principio direttivo di ricostruzione degli istituti penali intorno alla nozione di bene giuridico, in quanto nozione che consente l’unificazione concettuale di ogni tipo di delitto, nonché l’abolizione della categoria dei delitti di lesa maestà, e che favorisce la scansione dei vari stadi di realizzazione della fattispecie oggettiva in relazione ai vari gradi di intensità dell’offesa al bene giuridico tutelato’’; o ancora in tale direzione si esprime l’autore laddove (p. 105) precisa che ‘‘affermare l’esigenza di tipicità dell’incriminazione significa porre al centro del diritto penale il principio del fatto’’, e cioè ‘‘proclamare l’esigenza che la responsabilità penale sia legata alla realizzazione di un ‘fatto’ normativamente individuato e descritto nei suoi caratteri fondamentali, in guisa che dalla descrizione traspaia in maniera evidente e precisa la ragione effettiva del suo ‘disvalore’ sociale’’. Cfr. sul rapporto tra tipicità e offensività FIORE, Il reato impossibile, Napoli, 1959, p. 27 e ss.; ID., Principio di tipicità e ‘‘concezione realistica del reato’’, in Problemi generali di diritto penale - contributo alla riforma, 1982, p. 59 ss.; sul principio di offensività nel Pro-
— 959 — La funzione del ‘‘fatto tipico’’ è, infatti, quella di ritagliare e circoscrivere specifiche forme di aggressione ai beni penalmente tutelati, segnando così la categoria della tipicità i limiti della tutela che il diritto penale riconosce ai beni giuridici considerati rilevanti; la tipicità si atteggia, insomma, a precipitato tecnico di un diritto penale ispirato alla tutela dei beni giuridici e conformato al principio di legalità, materialità e frammentarietà (232). Non solo, ma, come accennato, nell’assicurare la dimensione garantistica delle fattispecie criminose, potenziandone la tassatività, ‘‘il fatto tipico deve tendere ad ancorare le forme di offesa a tipologie empirico-criminologiche il più possibili afferrabili e definite’’ (233). Se il fatto tipico deve essere un fatto, concretamente verificabile, offensivo di un bene meritevole di tutela, si comprende, allora, perché si considera l’offensività non come una caratteristica del fatto separata dalla tipicità, oggetto di autonomo accertamento da parte del giudice, ma intrinseca alla tipicità (‘‘la tipicità del fatto si riconnette intimamente alla lesione del bene giuridico’’, ‘‘include l’offensività’’ (234) ). E in tale direzione sembra esprimersi la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 1989, laddove afferma, innanzitutto, che la determinatezza è violata ‘‘quando il legislatore, consapevolmente o meno, si astiene dall’operare ‘‘la scelta’’ relativa a tutto od a gran parte del tipo di disvalore di un illecito, rimettendo tale scelta al giudice, che diviene, in tal modo, libero di ‘‘scegliere’’ significati tipici’’ (235); e, inoltre, precisa la Corte, l’esigenza di determinatezza è più elevata per gli elementi che concorrono a definire il discrimine tra lecito e illecito — e cioè fondano ed esauriscono il contenuto offensivo del fatto, il disvalore dell’azione e dell’evento — in funzione di garanzia della libertà, ‘‘assicurata dalla previgetto di codice penale PAGLIARO, cfr. FIORE, Il principio di offensività, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 61; PALAZZO, Meriti e limiti dell’offensività nello schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, ivi, p. 73; MANTOVANI, Il principio di offensività nello schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, ivi, p. 91; ANGIONI, Il principio di offensività, ivi, p. 113; cfr. GÜNTHER, op. cit. (nota 229), p. 11, il quale precisa che tanto più il legislatore sarà capace di esprimere nelle fattispecie penali la rappresentazione dei valori della società tanto più i cittadini si adegueranno spontaneamente al dettato normativo, inteso come regola di comportamento. (232) Così FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 2), p. 153. (233) Così FIANDACA, voce Fatto nel diritto penale, in Dig. disc. pen., V, Torino, 1991, p. 160. (234) Così FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 2), p. 154; PAGLIARO, Principi di diritto penale - parte generale, Milano 1993, p. 220; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, op. cit. (nota 104), pp. 1217-1222-1223; Cfr. FIORE, Il principio di offensività, op. cit. (nota 231), p. 68, il quale, partendo però dal riconoscimento della concezione realistica del reato, osserva che può considerarsi tipico solo un fatto concretamente offensivo, e viceversa un fatto inoffensivo non può considerarsi tipico; l’autore ritiene che, una volta riconosciuto il principio di offensività, l’annosa disputa circa i fatti inoffensivi, ma conformi al tipo descrittivo del reato, diventi uno ‘‘pseudo-problema’’. (235) Corte cost. 16 maggio 1989, n. 247, in Giust. pen., 1989, I, c. 298.
— 960 — sione di un’offesa dal contenuto tipico ‘‘tassativamente’’ definito’’ (236). Come precisato in dottrina, la Corte nel richiedere una maggiore determinatezza per gli elementi che contribuiscono all’individuazione del ‘‘tipo’’ criminoso, quale unità omogenea di disvalore, sembra chiarire che la determinatezza si misura, quindi, innanzitutto sul terreno del contenuto offensivo (237). Il principio di determinatezza richiede, insomma, che siano indicati e in maniera tassativa gli elementi da cui emerge il disvalore del fatto incriminato ‘‘comparativamente stimato dal legislatore tale’’ da rendere il fatto ‘‘meritevole di pena’’, e cioè gli elementi che indicano i limiti (penali) alla generale libertà di azione dei cittadini e ‘‘che costituiscono il presupposto della sanzione’’ (238); o, ancora, si potrebbe dire, quegli elementi, nei quali si esprime l’offesa e che, quindi, consentono al bene giuridico di adempiere veramente alla sua funzione limitatrice del fatto, riducendone gli arbitri ricostruttivi (239) (‘‘Ein Straftatbestand sei daher hinreichend — gesetzlich — bestimmt, wenn er den ‘‘Wertverletzungstypus’’ inhaltlich eindeutig umreiße’’ (240); la ‘‘Tatbestandgarantie’’ non attiene solo alla descrizione del comportamento ma al ‘‘Unrechtsvertypung’’ (241) ). La Corte costituzionale ribadisce questo suo orientamento nella sentenza n. 282 del 1990 in materia di violazione della normativa anti-incendi. In questa sentenza bisogna distinguere due profili fondamentali, uno relativo alla violazione della riserva di legge, in quanto la norma impugnata rimanda ad una fonte subordinata la determinazione dei soggetti attivi del reato (anche se la norma penale rinvia ad un atto amministrativo storicamente determinato, la persistenza del potere dell’amministrazione di modificare l’atto, equivale a rinvio da parte della legge al potere subordinato), e quello, rilevante per il presente lavoro, relativo alla violazione del principio di tassatività. In relazione a questo secondo aspetto, il giudice a quo aveva contestato ‘‘l’incertezza’’ sull’estensione della fattispecie penale, a causa dell’eccesso casistico della norma regolamento (e cioè l’eccessiva ampiezza e disomogeneità delle sottofattispecie concrete che potevano rientrare nella norma), cui la prima rinvia (anzi i giudici rilevano che (236)
Corte cost. 16 maggio 1989, n. 247, in Giust. pen., 1989, I, c. 301; cfr. TIEDE-
MANN, Tatbestandsfunktionen, op. cit. (nota 117), pp. 206-207.
(237) Cfr. PALAZZO, Elementi quantitativi indeterminati e loro ruolo nella struttura della fattispecie (a proposito della frode fiscale), in questa Rivista, 1989, pp. 1198-1199, il quale mette in discussione la possibilità di richiedere diversi gradi di determinatezza in relazione al ruolo svolto dagli elementi della fattispecie; PAPA, La questione di costituzionalità, op. cit. (nota 224), p. 31. (238) Cfr. PALAZZO, Elementi quantitativi, op. cit. (nota 237), p. 1199. (239) Cfr. MARINUCCI, Fatto e scriminanti, op. cit. (nota 104), p. 1221. (240) Così SAX, op. cit. (nota 230), pp. 997, 1001 ss., 1008 ss.; conforme WARDA, Dogmatische Grundlagen des Richterlichen Ermessens im Strafrecht, Köln, 1962, p. 44. (241) Così TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen, op. cit. (nota 117), p. 208.
— 961 — tale ‘‘eccesso casistico’’ lederebbe non solo la certezza del diritto ma anche il principio di responsabilità penale personale, così confermando che la determinatezza di una fattispecie, quale garanzia della riconoscibilità del divieto penale, diventa essa stessa ‘‘limite’’ della colpevolezza). La Corte costituzionale, accogliendo le censure di illegittimità della fattispecie impugnata, sottolinea che, se si rimanda ad una fonte subordinata la determinazione degli elementi essenziali della fattispecie penale, anche se si ritiene che si tratti di un rimando ‘‘ad uno specifico atto (nell’apparente rispetto della riserva di legge)’’, qualora permanga il potere dell’amministrazione di mutare, sostituire od abrogare anche i predetti elementi essenziali, si potrebbe verificare che ‘‘il soggetto continuerebbe assurdamente a rimanere vincolato ad un obbligo penale mancante del necessario contenuto lesivo mentre al nuovo contenuto di tutela, amministrativamente determinato, lo stesso soggetto rimarrebbe, in sede penale, estraneo in quanto non penalmente vincolato’’ (242) (si tratta di una ‘‘tecnica normativa suscettiva di indurre incertezze sul contenuto del fatto ed in questo senso non corrispondente neppure alle esigenze del principio di determinatezza’’ — ‘‘non possono... distinguersi, nella legge penale, gli elementi costituenti sufficiente determinazione del fatto tipico’’) (243). Anche in questo caso la Corte collega la determinatezza all’offensività, sottolineando che i precetti penali devono essere espressione di esigenze di tutela di beni giuridici chiaramente determinate (si contesta, infatti, che l’obbligo penale manca del necessario contenuto lesivo), e devono, per evitare le incertezze connesse all’eccessiva ampiezza di una fattispecie, ‘‘identificare una serie di comportamenti omogenei nel loro contenuto di disvalore’’ (evitando l’eccesso casistico) (244). Da questa sentenza emerge, allora, un altro aspetto fondamentale del principio di determinatezza, e cioè l’esigenza che la fattispecie sia descritta in maniera da ricomprendere una serie di sottofattispecie che siano omogenee in termini di disvalore, e cioè di lesione o messa in pericolo del bene tutelato, in maniera che non esistano incertezze nel determinare l’ambito di applicazione della fattispecie (245). (242) Il corsivo è aggiunto. (243) Corte cost. 14 giugno 1990, sent. n. 282, in Giust. pen., 1990, I, p. 297; cfr. VASSALLI, I principi generali del diritto, op. cit. (nota 99), p. 718-719, il quale interpreta questa sentenza come una conferma del carattere assoluto della riserva di legge in materia penale; D’AMICO, op. cit. (nota 219), p. 372 ss. (244) Così GRASSO, Il reato omissivo improprio, op. cit. (nota 220), pp. 217-219. (245) Cfr. DOLCINI, La commisurazione della pena. La pena detentiva, Padova, 1979, p. 356; ID., La disciplina della commisurazione della pena: spunti per una riforma, in questa Rivista, 1981, p. 34, il quale rileva che ‘‘la gravità del danno o del pericolo’’, indicato dall’art. 133 c.p., comma 1, n. 2, c.p. tra i criteri di commisurazione della pena, è si ‘‘una qualità del fatto ‘concreto’ conforme a quello ‘astratto’, ma è una sua qualità giuridica che per definizione — la sua ‘conformità al fatto’ — può derivargli solo dalla previsione, nel
— 962 — La Corte costituzionale, insomma, nelle sentenze citate, superando i suoi precedenti orientamenti, non si limita a richiedere la chiarezza e l’intelligibilità dei termini impiegati nella descrizione dell’illecito (246), o la corrispondenza alla realtà concreta e verificabile dei fatti descritti al fine di evitare applicazioni arbitrarie (247), ma pone un collegamento tra il requisito della determinatezza e gli aspetti contenutistici-valutativi della fattispecie, nel senso che si ritiene necessario che dalla norma emerga in maniera chiara il ‘‘tipo’’ criminoso, inteso come sintesi unitaria di un omogeneo contenuto offensivo o comunque di un disvalore sottostante alla descrizione legale. ‘‘La misura necessaria di determinatezza è quella che consente a tali elementi’’ — e cioè quelli chiamati a dare corpo e veste legislativa al ‘‘tipo’’ di illecito — ‘‘di esprimere un tipo criminoso, elastico quanto si vuole, ma pur sempre espressivo di un omogeneo contenuto di fatto astratto, di una molteplicità di sottofattispecie, graduate appunto dalla ‘gravità del danno o del pericolo alla persona offesa dal reato’ ’’; conforme MARINUCCI, Fatto e scriminanti, op. cit. (nota 104), p. 1216. Anche la Camera dei diritti umani per la Bosnia e l’Erzegovina si è espressa in tale direzione, sancendo il carattere fondamentale del principio di tassatività; la Camera ha contestato la determinatezza dell’art. 142 del codice della Repubblica Sociale Federalista dell’Yugoslavia (adottato dalla Repubblica di Bosnia ed Erzegovina), che indica le fattispecie sottoposte a pena di morte, in quanto tale norma ‘‘copre una larga varietà di atti criminali che possono essere di widely varyng gravity’’ (e cioè che presentano un disvalore alquanto diverso), mentre l’Art. 37 del codice penale richiede che la pena di morte si applichi solo per ‘‘the most serious cases of severe crimes’’: dal combinato disposto delle due norma emerge la difficoltà di stabilire quali comportamenti, menzionati nell’art. 142, siano sottoposti alla pena di morte e quali non lo siano. Tale norma, specifica la Camera, ‘‘manca della necessaria precisione sia nel definire le circostanze nelle quali la pena di morte si applica e sia gli atti ai quali è applicata e non può quindi costituire una valida base per l’applicazione dell’art. 2 del Protocollo n. 6’’ della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (che stabilisce che uno Stato può prevedere in una propria legge la pena di morte per fatti avvenuti in tempo di guerra o di imminente minaccia di guerra). In quest’ipotesi, infatti, manca la chiara determinazione di un nucleo omogeneo di fatti incriminati, esigenza ancor più imprescindibile se si considera la gravità della sanzione minacciata, cfr. nota 223. (246) Da ultimo, anche con riferimento al problema del ricorso, nella descrizione della fattispecie, ad elementi scientifici, etici, etc., ed al rimando a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali, cfr. Corte cost. 27 luglio 1995, n. 414, in Riv. pen., 1995, p. 1155. (247) In questa direzione l’importante pronuncia della Corte costituzionale in materia di plagio, cfr. Corte cost. 8 giugno 1981, n. 96, in questa Rivista, 1981, p. 1147, con nota di BOSCARELLI e in Giur. cost., 1981, I, p. 807, con nota di P.G. GRASSO; sul punto cfr. MARINUCCI, Fatto e scriminanti, op. cit. (nota 104), p. 1209 ss.; D’AMICO, op. cit. (nota 219), p. 369 ss.; sul richiamo della Costituzione alla nozione di ‘‘diritto vivente’’, nel senso che il principio di tassatività è rispettato laddove l’interpretazione che il ‘‘diritto vivente’’ dà di una norma ‘‘non dà luogo a dubbi di sorta’’, cfr. Corte cost. (9 gennaio) 18 gennaio 1989, n. 11, in Giur. cost., 1989, p. 26, con nota di PAPA, op. cit., (nota 224); critici nei confronti di tale orientamento interpretativo D’AMICO, op. cit. (nota 219), p. 367 ss.; PUGIOTTO, op. cit. (nota 38), p. 4219 ss.; cfr. nell’ordinamento tedesco HASSEMER, Tatbestand, op. cit. (nota 228), p. 50.
— 963 — disvalore, corrispondente fra l’altro alla previsione sanzionatoria determinata, ed indispensabile affinché il processo interpretativo possa muoversi sulla base di contenuti predeterminati’’ (248). Il principio di determinatezza, quindi, ‘‘esige la massima corrispondenza possibile tra le strutture linguistiche di cui sono costruite le fattispecie descrittive di fatti e le strutture normativamente valutative attribuite dalla società a quei fatti’’, così ostacolando ‘‘la possibilità per il legislatore di imporre alla società, attraverso le leggi penali, strutture valutative inesistenti o ancora non venute alla luce nell’ambiente sociale’’: e in ciò viene individuato il fondamento intrinsecamente garantista e liberal democratico del principio in esame che, insieme al principio di offensività, non solo impedisce al giudice di sostituirsi in sede di interpretazione agli organi legittimati alla creazione del precetto penale, ma vieta anche al legislatore di ‘‘esercitare arbitrariamente il suo potere, in sostanziale difformità col fondamento democratico da cui quel potere promana’’ (249) (solo così la ratio di garanzia della libertà del cittadino, sottesa al principio di tassatività, è sostanzialmente rispettata e non si riduce ad una vuota garanzia formale, come avverrebbe laddove fosse possibile per il legislatore ‘‘ricollegare l’applicabilità di una pena alla commissione di qualsiasi insignificante violazione di una regola’’ (250) ). 5.3. Si tratta ora di verificare — alla luce dell’esame compiuto circa il contenuto del principio di tassatività — se la fattispecie contemplata dall’art. 708 c.p. si ponesse in contrasto con tale principio; si accerterà che la censura di incostituzionalità di tale fattispecie per violazione del principio di tassatività è prospettabile sotto due diversi profili. Sotto un primo profilo si può osservare che, come esaminato, il giudice costituzionale contesta un deficit di tassatività alla norma in quanto concentrava il discrimine tra il possesso ingiustificato perseguibile penalmente e il possesso ingiustificato lecito sulle condizioni personali del soggetto agente; ciò sarebbe stato accettabile in termini di tassatività, cioè di idoneità della norma a delimitare il confine tra lecito e illecito, solo se e in quanto le condizioni personali dell’agente avessero comportato una maggiore offensività della condotta incriminata (251). Come emerso in sede (248) Così PALAZZO, Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza - tassatività in materia penale, in questa Rivista, 1991, p. 354; cfr. GRASSO, Il reato omissivo improprio, op. cit. (nota 220), pp. 217-219; in relazione all’incapacità dell’art. 650 c.p. di delineare un ‘‘tipo’’, cfr. ROMANO, ‘‘Repressione della condotta antisindacale’’, Milano, 1974, pp. 189 ss.-198. (249) Così PALAZZO, Il principio di determinatezza, op. cit. (nota 41), pp. 408-409; cfr. PAPA, La questione di costituzionalità, op. cit. (nota 224), p. 41. (250) Così PARODI-GIUSINO, op. cit. (nota 10), p. 377. (251) Cfr. Corte cost. 14 giugno 1990, n. 282, in Giust. pen., 1990, I, p. 297; PALAZZO, Orientamenti dottrinali, op. cit. (nota 246), p. 355.
— 964 — di esame della compatibilità dell’art. 708 c.p. con il principio di ragionevolezza, invece, le condizioni personali richiamate dalla fattispecie in esame non potevano assolvere tale funzione, in quanto la condizione di soggetto già condannato di reati contro il patrimonio comportava solo una presunzione di pericolosità del soggetto, quale possibile recidivo, incapace di incidere in sé, o in termini di danno o in termini di pericolo, sull’offensività del possesso ingiustificato. Si comprende allora perché il fatto di fondare il discrimine tra lecito e illecito sulla qualifica soggettiva finisse per violare il principio di tassatività: le condizioni personali indicate dall’art. 708 c.p. non erano tali da giustificare in termini di offensività la punibilità del possesso ingiustificato, e cioè di individuare un ‘‘tipo’’ criminoso al quale ricondurre una categoria di condotte aventi un disvalore omogeneo; i termini utilizzati per descrivere la condotta incriminata erano sì concettualmente intellegibili, ma incapaci di delineare ‘‘un disvalore sottostante alla descrizione legale’’; mancava nella norma in esame quella ‘‘massima corrispondenza possibile’’, richiesta dal principio di tassatività, tra le strutture linguistiche, impiegate per costruire la fattispecie descrittiva dei fatti (il possesso ingiustificato di denaro, oggetti di valore o cose non confacenti allo stato), ‘‘e le strutture normativamente valutative attribuite dalla società a quei fatti’’. La Corte costituzionale sembra, inoltre, contestare il contrasto della fattispecie in esame con il principio di tassatività anche sotto un ulteriore profilo. Si osserva, infatti, che con la fattispecie di possesso ingiustificato di valori ‘‘si voleva infliggere comunque una pena per quei fatti sfuggiti all’accertamento dell’azione delittuosa del responsabile del reato contro il patrimonio, utilizzando un surrogato contravvenzionale, tipizzato attraverso la riferibilità del fatto, di per sé neutro, a un pregiudicato per alcune classi di precedenti penali’’. Il giudice costituzionale riconosce insomma implicitamente che con l’art. 708 c.p. il legislatore utilizzava una tecnica di tipizzazione che mirava a punire non il comportamento descritto (il possesso ingiustificato), ma piuttosto attraverso il riferimento alle condizioni personali era volta a reprimere unicamente i reati, in cui si sospettava che il soggetto fosse coinvolto al punto da disporre dei beni provenienti da tali reati; reati che non si riusciva a provare e dei quali si voleva garantire una sia pur limitata punibilità (‘‘si voleva infliggere comunque una pena per quei fatti sfuggiti all’accertamento’’) (252). (252) Cfr. D’AMICO, op. cit. (nota 219), p. 371, la quale precisa che il ‘‘deficit di tassatività’’ viene rilevato dalla Corte perché il ‘‘comportamento non corrisponde più ad un giudizio di disvalore meritevole di tutela’’; NUVOLONE, Il principio di legalità e il principio della difesa sociale, in Sc. pos., 1956, p. 286, il quale riconosce che l’art. 708 c.p. vuole punire un fatto che si presume possa essere la conseguenza di un reato contro il patrimonio; in tale direzione cfr. COPPI, Osservazioni sui ‘‘reati di sospetto’’ e, in particolare, ‘‘sul possesso ingiustificato di valori’’, in Giur. cost., 1968, p. 1726 ss.; FIORELLA, op. cit. (nota 5), p. 213; SA-
— 965 — L’oggetto dell’incriminazione ex art. 708 c.p. non era allora un fatto (avente un suo disvalore), ma un mero sospetto di reato (253), del quale, proprio in quanto sospetto, non si poteva richiedere la prova, ma solo che gli elementi della fattispecie, il possesso ingiustificato e, in particolare, le condizioni personali lo (il sospetto) facessero sorgere. Tale tecnica di descrizione normativa contrastava, però, con il principio di legalità nel suo significato essenziale, in base al quale il cittadino può essere tenuto a rispondere solo di ‘‘fatti espressamente previsti dalla legge come reati’’. Il legislatore, invece, non descriveva in alcun modo i comportamenti realmente incriminati, ma attraverso il sospetto includeva indirettamente nell’ambito di punibilità della fattispecie in esame la più svariata tipologia di BATINI, op. cit. (nota 3), p. 622; contra Corte cost. 19 novembre 1992, n. 464, in Giur. cost.,
1992, p. 4186 e in Cass. pen., 1993, p. 2215, e Corte cost. 29 gennaio (2 febbraio) 1971, n. 14, in Giust. pen., 1971, I, c. 221 nelle quali si negava che l’art. 708 c.p. tendesse ad incriminare il ‘‘mero sospetto’’ di un diverso reato non dimostrabile aliunde ed a punire, per tale sospetto, chi si trovasse in una siffatta, evanescente situazione. La norma, si affermava, ‘‘presuppone una necessaria condotta, di cui il possesso attuale di determinate cose, che, quoad personam, inducono al sospetto, non è che una conseguenza’’. (253) In tale direzione cfr. Cass. 31 agosto 1994, Cardillo, in Riv. pen., 1995, p. 841; Cass. 17 giugno 1985, Giuffrè, ivi, 1986, p. 260; Cass. 25 maggio 1973, Melchiori, in Cass. pen., 1974, p. 1127; Cass. 16 gennaio 1956, Semerano, in Giust. pen., 1956, c. 590; in dottrina, cfr. DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, 1930, p. 142, il quale parlava anche di sospetto di reati futuri, se si ipotizzava che i valori ingiustificatamente posseduti fossero il praetium sceleris della loro commissione, pattuito e riscosso in anticipo; BRICOLA, Teoria, op. cit. (nota 48), p. 89; MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 2), p. 238; COPPI, op. cit. (nota 252), p. 1708; BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1966, p. 213; MANZINI, op. cit. (nota 4), p. 890; DE MARSICO, Lezioni, Napoli 1936, p. 103; BELLAVISTA, I reati senza azione, Napoli, 1937, p. 41 ss., il quale definiva il reato in esame come reato di posizione. Da notare che alcuni autori, in particolare gli ultimi due citati, valutavano positivamente l’ingresso di questo modello di reato nel nostro ordinamento; un giudizio alquanto criticato dalla dottrina successiva, che individuava in quel giudizio una concezione poliziesca, moralisticheggiante e soprattutto ‘‘sintomatica’’ del diritto penale, in tale direzione COPPI, ibidem, p. 1708. Cfr. PETROCELLI, Principi di diritto penale, Napoli, 1955, p. 269, il quale temeva che con simili fattispecie si potesse giungere a un concetto ampio di condotta tale da ricomprendere la pericolosità. La dottrina non riusciva neanche a stabilire la natura della condotta incriminata dall’art. 708 c.p.: — un’azione, l’essersi procurato i beni, cfr. DELITALA, ibidem, p. 139 ss.; TESAURO, Sui cosiddetti reati di mero sospetto, in Scuola positiva, 1932, I, p. 548; — l’azione, come condotta attraverso la quale è stato acquistato il possesso, è presunta dalla legge, cfr. BETTIOL, ibidem, p. 212 ss.; — un misto di azione, il possesso dei valori, ed omissione, la mancata giustificazione della legittima provenienza, cfr. MASSARI, Il momento esecutivo del reato, 1923, p. 98 ss.; ANGIONI, La volontarietà del fatto nei reati, Torino, 1927, p. 95; GALLO, voce Dolo (dir. pen.), in Enc. del dir., vol. XII, Varese, 1997, p. 754; MUCCIARELLI, Commento all’art. 12quinquies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (Antimafia), in Leg. pen., 1993, p. 164; — una mera situazione, il possesso dei beni, cfr. MANZINI, op. cit. (nota 4), p. 890; — la condotta comprensiva dei precedenti penali dell’individuo, del possesso ingiustificato di valori, della mancata giustificazione, DE MARSICO, ibidem, p. 103.
— 966 — reati, da cui sarebbero dovuti derivare i beni posseduti. Si può, quindi, affermare, ancora una volta, che l’art. 708 c.p. veniva meno al fondamentale obbligo, imposto dal principio di tassatività, di descrivere un nucleo di fatti aventi un disvalore omogeneo. La fattispecie di possesso ingiustificato, inoltre, criminalizzando un fatto ‘‘ad offensività evanescente, neutrale e tutto proiettato verso una sua utilizzazione in chiave sintomatica’’, comportava che il fatto in sé, il possesso ingiustificato di valori, non era oggetto di verifiche dialettiche in sede processuale, in quanto ‘‘di per sé pacifico, neutrale e privo di significato’’, mentre la sintomaticità dello stesso non poteva essere oggetto di verifica e la sua valutazione era del tutta riservata alla discrezionalità del giudice (254): questo in contrasto con il principio di tassatività quale garanzia del diritto alla difesa del cittadino, perché solo nei confronti di accuse relative a fatti concreti, delineati in maniera certa, è possibile difendersi e il giudice può adempiere il dovere di motivazione; si è correttamente rilevato, infatti, che ‘‘se si vuole che il contraddittorio non sia mera apparenza e se si ha di mira la fecondità logica della contestazione della pretesa punitiva, nonché della sua esposizione al controllo da parte dell’accusato, presupposto epistemologico necessario è la tassatività e materialità della fattispecie penale’’ (255). Se si considera allora che la determinatezza della fattispecie porta seco ‘‘l’esigenza di generalità e di astrattezza, logiche premesse alla uguaglianza di trattamento’’ (256), o, come affermato dalla Corte costituzionale, che la determinatezza è funzionale alla ‘‘parità di trattamento tra gli autori del fatto illecito, la cui selezione repressiva non può porsi in contrasto con il principio di eguaglianza’’ (257), si comprende perché il deficit di tassatività della fattispecie in esame confermava la sua irragionevolezza (254) Cfr. BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Ind. pen., 1989, pp. 317-318; in particolare sul carattere sintomatico della fattispecie contemplata dall’art. 708 c.p. cfr. COPPI, op. cit. (nota 252), p. 1708; BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1982, p. 259. (255) Così BRICOLA, Riforma del processo penale, op. cit. (nota 254), p. 317; cfr. BRICOLA, La discrezionalità, op. cit. (nota 220), p. 279; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, op. cit. (nota 104), p. 1210, il quale precisa che il giudice non può adempiere il suo obbligo di motivare ‘‘in sentenza come concretamente accaduti o meno’’ dei ‘‘fatti di reato che, per quanto nitidamente descritti dal legislatore, nessun giudice sia in grado di provare’’. (256) Così MARINI, Elementi di diritto penale, vol. I, 1978, p. 19; in tale direzione rilevano come il principio di determinatezza è finalizzato a garantire il principio di eguaglianza, NUVOLONE, op. cit. (nota 252), p. 241; INSOLERA, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 39), p. 271; PALAZZO, Il principio di determinatezza, op. cit. (nota 41), p. 76, il quale però evidenzia come la tassatività non implichi necessariamente una maggior rispetto del principio di uguaglianza, consentendo l’indeterminatezza una maggior opera di adeguamento alla situazione concreta. (257) Corte cost. 16 maggio 1989, n. 247, in Giust. pen., 1989, I, c. 301; cfr. TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen, op. cit. (nota 117), p. 192.
— 967 — — come affermato nella sentenza in esame —, in quanto il fatto che la norma non riuscisse a descrivere un tipo criminologico, e finisse per punire un mero sospetto di reato, comprovava che la fattispecie in esame era fondata su un mero atteggiamento discriminatorio nei confronti dei soggetti già condannati per determinati reati, discriminazione irragionevole in uno Stato di diritto. 6. La Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 707 c.p. in relazione agli artt. 3 (in rapporto all’art. 13), 25 e 27 della Costituzione (quali espressione del principio nullum crimen sine iniuria). I giudici a quibus avevano contestato la violazione da parte dell’art. 707 c.p. del principio nullum crimen sine iniuria, costituzionalizzato dagli artt. 25, 27 e 3 (quest’ultimo in relazione all’art. 13) della Costituzione, perché l’art. 707 c.p., punirebbe un comportamento non lesivo, né pericoloso per gli interessi meritevoli di tutela, così enucleando ‘‘una figura tipica del diritto penale sintomatico o preventivo, che è limite estremo al diritto penale’’; si punirebbe la mera violazione del dovere di obbedienza alle norme statali, pure in mancanza di un pericolo concreto (come per tutte le figure di reato di pericolo presunto) (258). La Corte costituzionale, nella sentenza in esame rigetta le censure sollevate, osservando che ‘‘la determinazione del fatto — reato circa questa ipotesi criminosa è data infatti dalla tipologia stessa degli oggetti detenuti (le ‘chiavi alterate o contraffatte’, le ‘chiavi genuine’, ‘gli strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature’) in ordine ai quali è pleonastica la mancata giustificazione della loro attuale destinazione. Ciò ovviamente se ben si intende sia il riferimento agli strumenti atti allo scasso (in relazione alle caratteristiche medie delle serrature o delle difese adottate), sia il presupposto soggettivo con riguardo ad altra commissione di fatti specifici’’. La Corte, insomma, stabilisce che la fattispecie in esame descrive un fatto in sé pericoloso per il bene tutelato (non potendo certamente ritenerlo di per sé lesivo) in quanto nella stessa condotta, il possesso, si combinano due elementi pericolosi, uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo: il primo è rappresentato dagli oggetti atti allo scasso, come le chiavi alterate i grimaldelli; il secondo dalla pericolosità dei soggetti già condannati per determinati reati contro il patrimonio. Tali conclusioni della Corte, ancora una volta, sembrano poco convincenti. Si può, infatti, osservare, che gli elementi da cui desumere la pericolosità della condotta sono del tutto insufficienti: anche se la Corte af(258) Non si contesta la violazione del principio di materialità, in quanto viene colpita una condotta esteriore e non si colpisce un mero status e un’intenzione; in tale direzione Corte cost. 2 febbraio 1971, n. 14, in Giur. it., 1971, I, p. 219; contra sulla violazione del principio di materialità da parte dell’art. 707 c.p., cfr. VALENTI, op. cit. (nota 199), p. 239.
— 968 — ferma che si deve ben intendere il riferimento agli strumenti atti allo scasso, per ‘‘strumenti atti a forzare serrature’’ possono intendersi gli arnesi più comuni della vita quotidiana (cacciaviti, martelli, trapani, flex) (259), il cui possesso di per sé è inoffensivo. E del resto, al di là di determinate cose in sé pericolose (come degli esplosivi o delle armi, o delle sostanze velenose) nessun oggetto è in sé pericolo, ma lo può diventare se viene utilizzato per offendere un interesse meritevole di tutela (non è il mezzo pericoloso, ma l’utilizzo del mezzo, l’azione); e allora la pericolosità del mezzo finisce per incentrarsi sulla pericolosità del soggetto che lo detiene (come del resto riconosce la stessa giurisprudenza in relazione alla fattispecie in esame laddove afferma che ‘‘l’art. 707 c.p. punisce il fatto della detenzione ...non in quanto pericoloso in sé, ma in quanto lo stesso deriva la sua pericolosità dalla situazione soggettiva dell’agente’’ (260) ). Le qualifiche soggettive, dall’altra parte, come esaminato in relazione all’art. 708 c.p., comportano solo una presunzione di pericolosità iuris et de iure, che potrebbe rivelarsi nel caso concreto inesistente o assai remota, come in relazione ad un soggetto condannato per un solo reato (magari risalente nel tempo) (261). Sembra poi eccessivo in un diritto penale del fatto fondare l’offensività di una condotta su una mera condizione di presuntiva pericolosità: in questo caso il giudice non affermerebbe la sussistenza della pericolosità in quanto dimostrata da un fatto di reato (o quasi-reato), come accade in sede di applicazione delle misure di sicurezza, ma affermerebbe l’esistenza del fatto, lesivo del bene tutelato, perché provato dalla pericolosità del soggetto (262). I comportamenti così tipizzati, attraverso la presunta pericolosità degli oggetti e dei soggetti, sono, quindi, contraddistinti da una pericolosità estremamente astratta, finendo per punire, in chiave preventiva, delle attività anteriori a quelle preparatorie di un eventuale delitto (ad es. tenere i grimaldelli nella propria abitazione) (263); il legislatore con l’art. 707 c.p. (259) Così PARODI-GIUSINO, op. cit. (nota 10), p. 396. (260) Cass. 19 aprile 1969, Pandolfi, in Cass. pen., 1970, p. 1180. (261) Ammettono l’applicabilità delle fattispecie in esame anche in seguito ad una sola condanna Cass. 16 luglio 1954, in Giust. pen., 1955, II, c. 56, m. 65; Cass. 17 marzo 1941, ivi, 1942, II, p. 204; in dottrina SALTELLI-ROMANO-DI FALCO, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, vol. II, tomo II, Roma, 1930, p. 1219; contra richiedono che il soggetto sia stato condannato per più delitti o contravvenzioni SABATINI, op. cit. (nota 3), p. 620; MANZINI, op. cit. (nota 4), p. 753. (262) Cfr. FIORELLA, op. cit. (nota 5), p. 204; FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 2), p. 19; INSOLERA, Un deludente epilogo, op. cit. (nota 9), p. 3368; RONCO, op. cit. (nota 93), p. 338, il quale afferma che ‘‘la tipicità della condotta è ricavata alla stregua del criterio della pericolosità del soggetto agente rispetto alla commissione di delitti che non si sono realizzati’’. (263) Così PARODI-GIUSINO, op. cit. (nota 10), p. 396. Da osservare che parte della
— 969 — non ha, quindi, tipizzato un comportamento offensivo di un interesse meritevole di tutela, così violando il principio di legalità nel suo aspetto contenutistico, volto a garantire che un soggetto sia chiamato a rispondere solo per la commissione di ‘‘fatti offensivi di interessi meritevoli di tutela’’, e il principio di tassatività, che impone al legislatore di descrivere il comportamento incriminato con dei termini, che non siano solo concettualmente intellegibili, ma anche capaci di delineare ‘‘un disvalore sottostante alla descrizione legale’’ — anche nell’art. 707 c.p. manca quella ‘‘massima corrispondenza possibile tra le strutture linguistiche, impiegate per costruire la fattispecie descrittiva dei fatti e le strutture normativamente valutative attribuite dalla società a quei fatti’’ —. Se poi, invece, con la fattispecie in esame si volesse reprimere un reato sospettato, in cui sarebbero stati impiegati gli strumenti posseduti dal pregiudicato, la sua funzione coinciderebbe con quella dell’art. 708 c.p. — punire attraverso un surrogato contravvenzionale una serie non ben determinata, e non descritta dal legislatore, di fatti sfuggiti all’accertamento processuale —, con la conseguenza che potrebbero essere mosse nei suoi confronti tutte le censure di incostituzionalità per violazione del principio di legalità e di tassatività, già sollevate nei confronti della fattispecie di possesso ingiustificato di valori. Non solo, ma in ogni caso, almeno tendenzialmente, nel nostro ordinamento penale, funzionalizzato alla tutela di beni giuridici, l’adozione del modello del reato di pericolo, e in particolare del pericolo astratto, si dovrebbe giustificare, quale forma di anticipazione della tutela, solo qualora non sia possibile garantire diversamente un’adeguata protezione all’interesse di volta in volta in questione (o perché di carattere sopraindividuale e quindi non concretamente ledibile; o perché ledibile solo attraverso il ripetersi generalizzato e frequente delle condotte tipizzate), o qualora la natura dell’azione, quanto l’ampiezza dei suoi eventuali effetti lesivi, giustificano l’anticipazione della tutela di beni individuali fondamentali come la vita e l’incolumità individuale (basti pensare alle attività tecnologicamente complesse; a tecniche produttive nuove, rispetto alle quali sono ancora ignoti le leggi causali esplicative degli enormi danni che lasciano temere; alla disciplina antinfortunistica (264) ). Non sembra che in relazione alla fattispecie in esame si verifichi una di queste due condidottrina ritiene che gli strumenti debbano essere ‘‘portati addosso’’, cfr. SABATINI, op. cit. (nota 3), p. 622; ma la giurisprudenza è contraria ammettendo la sussistenza del reato anche quando gli oggetti siano comunque posseduti dall’agente (si trovino ad esempio nella sua abitazione o nel suo autoveicolo), cfr. tra le altre Cass. 4 maggio 1989, in Riv. pen., 1990, p. 446; Cass. 2 maggio 1983, in Giust. pen., 1984, II, p. 284; Cass. 6 gennaio 1977, ivi, 1977, II, c. 571; in tale direzione ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - Parte speciale, Milano, 1992, p. 387. (264) Cfr. FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, in Beni e tecniche della tutela penale, a cura del C.R.S. 1987, p. 67; G. GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di
— 970 — zioni: il bene tutelato è il patrimonio e, quindi, un bene concretamente ledibile, mentre l’azione lesiva, che si vuole prevenire o reprimere in via sussidiaria, è quella del furto, un’azione direttamente lesiva del bene patrimonio e dagli effetti delimitati. In base al principio di proporzione, inoltre, l’anticipazione della tutela penale, che comporta pur sempre un sacrificio di beni costituzionali fondamentali, è tanto più giustificata quanto più è elevato il rango del bene tutelato (265). Nel caso in esame, non sembra, però, che la tutela del patrimonio individuale possa oggi continuare a giustificare quella forma di anticipazione della tutela, addirittura nei confronti di una condotta di dubbia pericolosità, rappresentata dall’art. 707 c.p. (266). Si deve osservare, infatti, che l’art. 707 c.p. è fondamentalmente destinato a prevenire (o a reprimere, in seconda battuta) il reato di furto, che pur essendo un reato assai diffuso, non è certamente il più allarmante nell’ambito del moderno mondo economico. L’art. 707 c.p. sembra, allora, una tipica espressione di un diritto penale esasperato dall’esigenza di conservare e proteggere la ‘‘proprietà’’ contro gli attacchi che possono derivare dai c.d. outsider, attraverso la funzionalizzazione sintomatica dei reati contro il patrimonio e cioè una selezione delle condotte lesive fondata sulla pericolosità dell’autore o sulla pericolosità che un determinato comportamento rivela per i rapporti sociali (267). Nella nostra società, però, la ricchezza tende sempre più a dematerializzarsi, spostando l’attenzione dalla tutela della mera proprietà incorporata in beni materiali, ex art. 42 della Cost., alla tutela della ricchezza finanziarizzata e, cioè, del risparmio ex art. 47 della Cost. (268); il valore della proprietà è andato progressivamente ridimenpericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, pp. 710 ss.-715; MARINUCCI, Relazione di sintesi, op. cit. (nota 159), pp. 337-338; ID., Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, p. 411; PARODI-GIUSINO, op. cit. (nota 10), p. 383. (265) Cfr. sul principio di proporzione in relazione al rapporto ‘‘grado di anticipazione dell’offesa-rango del bene giuridico tutelato’’ cfr. FIANDACA, Il ‘‘bene giuridico’’, op. cit. (nota 60), pp. 65-66; GRASSO, L’anticipazione, op. cit. (nota 264), p. 720; ANGIONI, Contenuto e funzioni, op. cit. (nota 117), p. 176 ss.; ID., Beni costituzionali e criteri orientativi sull’area dell’illecito penale, in Bene giuridico e riforma della parte speciale, op. cit. (nota 5), p. 72 ss.; MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, Milano, 1983, p. 200 ss.; ID., Modello costituzionale, op. cit. (nota 62), p. 91; PULITANÒ, Bene giuridico, op. cit.(nota 30), p. 170; MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, op. cit., (nota 230), p. 369 ss.; GÜNTHER, op. cit. (nota 229), pp. 13. (266) Cfr. PARODI-GIUSINO, op. cit. (nota 10), p. 396 - nota 42; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, op. cit. (nota 2), p. 246. (267) Cfr. sull’argomento FIANDACA, Il codice Rocco e la continuità istituzionale in materia penale, in Quest. crim., 1981, p. 77; SGUBBI, voce Patrimonio (reati), in Enc. dir., XXXII, p. 331 ss. (in particolare p. 350 ss.); ID., Tutela penale del patrimonio: linee di politica criminale, in Materiali per una riforma del sistema penale, Milano 1984, pp. 317 ss.320; ID., Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, Milano, 1980, p. 145 ss. (268) Cfr. PEDRAZZI, La riforma dei reati contro il patrimonio e contro l’economia, in Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, p. 351.
— 971 — sionandosi in seguito all’evoluzione del sistema dei valori etico-sociali, che si riflette nelle nuove gerarchie tra i beni fissate dal nostro legislatore costituzionale (tanto è vero che l’art. 42 Cost. subordina il riconoscimento del diritto di proprietà al perseguimento della sua funzione sociale); lo stesso disvalore del furto, punito rigorosamente dal codice Rocco attraverso il ‘‘gioco perverso delle aggravanti’’, è andato attenuandosi; la tutela penale del patrimonio è ormai considerata ‘‘sovradimensionata, o sproporzionata per eccesso, rispetto alla difesa che il diritto penale appresta contro le forme più nuove di attacco alla persona rese possibili dall’evoluzione tecnologica’’ (269). In una tale società, allora, non sembra più possibile voler garantire la ‘‘sicurezza della proprietà’’ intesa come rapporto sociale (270), e si può, quindi, ritenere che siano venute meno le ragioni di politica criminale che, eventualmente, potevano giustificare la scelta del legislatore del ’30 di anticipare la tutela del patrimonio (o di garantire la repressione esasperata delle condotte offensive di tale bene), punendo il possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli. Non si vuole negare il valore della proprietà privata quale espressione della persona umana, e, quindi, le esigenze di tutela ad essa connesse, ma sembra che la fattispecie di cui all’art. 707 c.p., da una parte, non è adeguata alla tutela della proprietà classicamente intesa, in quanto si fonda su una soggettivizzazione dell’antigiuridicità, incriminando la condotta per la sua pericolosità e non per la sua lesività, e questo, in un diritto penale costituzionalmente orientato alla tutela di beni giuridici, non si giustifica rispetto ad un diritto soggettivo individuale, fornito di sostrato naturalistico (271); e dall’altra parte la fattispecie in esame non può costituire un’efficace strumento di protezione della ricchezza nelle sua mutata realtà dinamica. Non sembra, inoltre, che in termini di prevenzione generale l’eventuale abrogazione di tale fattispecie possa incidere minimamente nella lotta contro il reato che per eccellenza dovrebbe prevenire, e cioè il furto; tale delitto, infatti, è ormai divenuto un ‘‘reato di massa’’, la cui ‘‘cifra nera’’ è incalcolabile (272) e nei confronti del quale i privati preferiscono tutelarsi attraverso il sistema assicurativo. E in ogni caso sembra sufficiente l’eventuale punizione del possesso ingiustificato di chiavi alterate e grimaldelli a titolo di tentativo di furto, qualora se ne configurino gli estremi. (269) Così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale - Parte speciale, Delitti contro il patrimonio, II, 1996, pp. 2-48; in tale direzione cfr. MOCCIA, Antinomie apparenti nella riforma dei reati contro il patrimonio: tra restrizione ed ampliamento dell’ambito di tutela penale, in Arch. pen., 1994, p. 16; sul carattere personalistico del nuovo codice penale emergente dallo schema di delega legislativa, cfr. MANTOVANI, Il principio di offensività, op. cit. (nota 231), p. 91 ss. (270) Così SGUBBI, Uno studio, op. cit. (nota 267), p. 131 ss. (271) Cfr. SGUBBI, Tutela penale del patrimonio, op. cit. (nota 267), p. 295; ID., voce Patrimonio, op. cit. (nota 267), pp. 337-338. (272) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale - Parte speciale, op. cit. (nota 269), p. 47.
— 972 — La violazione del principio di tassatività da parte delle fattispecie in esame, l’art. 707 e l’art. 708 c.p., emerge del resto, come si osserva in dottrina, dal confronto con le altre disposizioni che incriminano il possesso di determinati oggetti (basti pensare ai delitto di detenzione di armi); fattispecie con le quali il legislatore, esprimendo un giudizio di valore conforme al principio di tassatività, mostra di voler impedire in assoluto che qualsivoglia soggetto detenga determinate cose, salvo autorizzazione. In queste ipotesi, infatti, il giudizio di illiceità normativa colpisce la detenzione in sé per sé considerata, ‘‘senza che la potenzialità lesiva di questa rispetto ad un interesse assunto come oggetto di altra norma giuridica intervenga in alcun modo nella configurazione dell’incriminazione’’, ‘‘la punibilità della detenzione è sganciata dalle caratteristiche del soggetto agente’’ e, quindi l’interesse sostanziale tutelato da queste fattispecie, ‘‘pur disponendosi in un rapporto di sussidiarietà rispetto ad un altro interesse più rilevante, appartenente alla stessa categoria logico-giuridica, riceve dall’ordinamento una autonoma e specifica tutela, per scelta esplicita del legislatore’’. Nelle fattispecie descritte dagli artt. 707 e 708 c.p. il giudizio di illiceità normativa non attiene assolutamente alla detenzione in sé e per sé considerata: essa, infatti, continua a rimanere lecita per la gran parte dei soggetti dell’ordinamento; la detenzione viene punita unicamente per la sua potenzialità lesiva rispetto ad altri interessi già oggetto di protezione specifica da parte di altre fattispecie, ovvero perché essa appare come la necessaria conseguenza del compimento di altri reati, come un post factum (273). Il legislatore con l’art. 707 e l’art. 708 c.p. descrive, insomma, delle fattispecie indeterminate per l’eccessiva estensione dell’area dei comportamenti punibili, in quanto per il timore ‘‘che rimanga scoperto qualche aspetto della realtà, ritenuto meritevole di pena alla luce di determinati criteri di prevenzione generale, carica di significato allusivo le proposizioni normative, tendendo a confondere il più possibile il bene giuridico oggetto specifico della tutela ex artt. 707 e 708, con il bene giuridico di categoria — l’interesse di ogni soggetto dell’ordinamento al godimento pacifico del patrimonio — che costituisce la ragione politica di un intero settore dell’ordinamento’’ (274); con le disposizioni in esame il legislatore ha moltiplicato l’efficacia incriminatrice di alcune delle norme che proteggono il patrimonio, ponendo accanto a ciascuna norma incriminatrice due norme ulteriori, ‘‘la prima delle quali sposta la punibilità al di qua del compimento di un atto diretto in modo non equivoco a commettere il delitto (art. 707 c.p.) e la seconda sanziona un fatto che non uni(273) Cfr. RONCO, op. cit. (nota 93), p. 338, il quale definisce il comportamento previsto dall’art. 708 c.p. come ‘‘un post factum necessario od eventuale di un comportamento punibile’’. (274) Così RONCO, op. cit. (nota 93), p. 339.
— 973 — vocamente può essere ritenuto il post-factum necessario od eventuale di un comportamento punibile (art. 708 c.p.)’’ (275). 7. La sentenza in esame, però, come accennato, non affronta quella che sicuramente costituiva la problematica cruciale dell’art. 708 e dell’art. 707 c.p., e cioè il loro rapporto con l’art. 24 della Cost., il diritto alla difesa, e con l’art. 27, comma 2, che sancisce la presunzione di non colpevolezza dell’imputato; problematica originata dall’interpretazione del requisito della ‘‘mancanza di giustificazione dell’origine dei beni’’ o della ‘‘mancata giustificazione della destinazione’’ quale espressione di un’inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato. Tale questione, relativa alla sussistenza dell’inversione dell’onere della prova nell’art. 708 c.p., anche se non è stata affrontata dalla sentenza in esame, era stata sollevata dalla giurisprudenza di merito, che aveva specificatamente mosso una censura di incostituzionalità nei confronti dell’art. 708 c.p. in relazione all’art. 24, comma 2, della Costituzione, per violazione del principio sostanziale (e processuale) secondo cui nemo tenetur se detegere, in quanto richiedendo un’attendibile e circostanziata spiegazione del possesso di valori ‘‘si obbligherebbe di fatto l’accusato a fornire all’autorità giudiziaria la notizia della commissione di un altro reato, pur di essere scagionato da quell’accusa’’. La Corte costituzionale non ha, probabilmente, voluto esaminare tale censura di incostituzionalità dell’art. 708 c.p. per il timore delle conseguenze che sarebbero derivate da un suo eventuale accoglimento nei confronti delle altre fattispecie penali, che fanno riferimento ad ‘‘una mancata giustificazione dell’origine dei beni’’. Basti pensare all’art. 12 sexies o, nell’ambito delle misure preventive, all’art. 2-ter, l. n. 56/65, che sicuramente costituiscono oggi degli efficaci strumenti di lotta contro l’accumulo dei capitali illeciti, ma che comportano il rischio di gravi fratture rispetto all’impianto costituzionale; fratture che, però, vengono ormai giustificate laddove comportano dei benefici in termini di vittorie sul piano operativo (276), facendo prevalere le, pur legittime, esigenze dell’efficienza sulle esigenze di rispetto dei principi costituzionali di uno Stato di diritto. (275) Così RONCO, op. cit. (nota 93), p. 338. (276) Cfr. BORRONI, Tendenze evolutive della giurisprudenza in tema di mafia, in Giur. cost., 1990, p. 3453; CURI, Le misure di prevenzione: profili sostanziali, in CORSO-INSOLERA-STORTONI, Mafia e criminalità organizzata, in Giurisprudenza sistematica a cura di BRICOLA-ZAGREBELSKY, Torino, 1995, pp. 176-177; esprime tra gli altri un giudizio sostanzialmente positivo nei confronti delle misure di prevenzione, G. FUMU, Commento all’art. 1, l. 19 marzo 1990, n. 55 - Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di criminalità (G.U., 23 marzo 1990, n. 69), in Leg. pen., 1991, p. 388.
— 974 — Sembra interessante allora accertare se l’art. 708 c.p. prevedesse una forma di inversione dell’onere della prova, per poi eventualmente verificarne la compatibilità con i principi costituzionali e in particolare con la presunzione d’innocenza. L’indagine si estenderà anche alla fattispecie di possesso ingiustificato di ‘‘chiavi alterate o grimaldelli’’, che in maniera analoga richiede all’imputato di giustificare l’attuale destinazione degli strumenti posseduti. In relazione a tale elemento della ‘‘mancata giustificazione dell’origine dei beni’’ l’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza si era divisa tra chi riteneva che la norma in esame prevedesse un’inversione dell’onere della prova, e chi (la maggioranza) riteneva si trattasse di un mero onere di allegazione a carico dell’imputato. Secondo parte della dottrina, infatti e giustamente, l’art. 708 c.p. avrebbe richiesto all’accusa di provare la condizione soggettiva e il mero possesso di valori non confacenti allo stato dell’imputato, e a quest’ultimo di provare la legittima provenienza di tali valori, e cioè la propria innocenza (277). L’inversione dell’onere della prova sarebbe derivata proprio dalla necessità e dall’intenzione di arrestarsi al sospetto di altri reati, senza volerne raggiungere la prova (278). Tale inversione comportava — per l’art. 708 c.p. — e continua a comportare — per l’art. 707 c.p. —, come rilevato dagli stessi giudici a quibus nel caso in esame, una differenza irragionevole tra i cittadini rispetto al diritto alla difesa, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione; una differenza di trattamento sul piano processuale, che non poteva e non può essere giustificata dalla condizione soggettiva di condannato per certi reati (279). Sarebbe stato come ammettere di poter derogare per i soggetti già condannati per determinati reati alle comuni garanzie processuali, che avrebbero escluso la condanna in presenza del mero sospetto. E anche un’orientamento minoritario della Suprema Corte sembrava riconoscere implicitamente che l’art. 708 c.p. contenesse una presunzione di colpevolezza. Si affermava, infatti, che il giudice di merito, se voleva assolvere il soggetto possessore di denaro o altri valori non confacenti al suo stato, ‘‘non può limitarsi ad esprimere l’ipotesi che i valori provenissero da attività lecita, ma deve fornire validi elementi di concreta valuta(277) Cfr. DELITALA, op. cit. (nota 253), p. 140; ANTOLISEI, op. cit. (nota 263), p. 387; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, op. cit. (nota 2), p. 237; FRAGÒLA, Le misure di prevenzione, Padova, 1992, p. 21; MANZINI, op. cit. (nota 4), pp. 889-890, il quale ritiene che la prova incompleta o insufficiente circa l’origine lecita dei beni non distrugge la presunzione di illiceità. (278) Così BRICOLA, Teoria, op. cit. (nota 48), p. 89; cfr. COPPI, op. cit. (nota 252), p. 1730 ss. (279) Cfr. COPPI, op. cit. (nota 252), p. 1737.
— 975 — zione delle circostanze atte ad avvalorare le ipotesi stesse’’ (280): si riconosceva così che il possesso di beni non proporzionati alle condizioni economiche dell’imputato, innescava una presunzione circa la loro origine illecita, che doveva essere superata da prove contrarie. Anche in relazione all’art. 707 c.p. la Suprema Corte in talune pronunce ha riconosciuto espressamente l’obbligo dell’imputato di fornire ‘‘una appagante spiegazione circa l’uso che egli intende fare, immediatamente, dell’arnese in questione, e la spiegazione non appaga quando egli accampi una destinazione improbabile e, comunque, futura’’ (281). L’orientamento prevalente della giurisprudenza ha negato, invece, che l’art. 708 c.p. e l’art. 707 prevedano una forma di inversione dell’onere della prova. La Corte costituzionale ha affermato che con le fattispecie in esame non si richiedeva (art. 708 c.p.) e non si richiede (art. 707 c.p.) all’imputato di provare la provenienza o la destinazione delle cose possedute, ma solo di fornire ‘‘una attendibile e circostanziata spiegazione, da valutarsi in concreto nelle singole fattispecie, secondo i principi della libertà delle prove e del libero convincimento...’’ (282). Sarebbe spettato (art. 708 c.p.) e spetterebbe (art. 707 c.p.) sempre all’accusa di dimostrare non solo le condizioni soggettive dell’imputato, ma anche ‘‘l’inattendibilità delle spiegazioni eventualmente fornite dallo stesso imputato’’ (283). L’eventuale condanna in caso di silenzio dell’imputato sarebbe discesa e discenderebbe, osservava la Suprema Corte, ‘‘più che da tale silenzio, dalla prova, a carico dell’accusa, del possesso di determinate cose non appropriate alle condizioni economiche del possessore...’’; ‘‘in definitiva è nello stesso interesse dell’accusato fornire una spiegazione plausibile, che si configura come un onere di allegazione e non come un onere probatorio’’ (284). Le argomentazioni, sostenute dalla giurisprudenza per negare l’inver(280) Cass. 7 febbraio 1986, Sufer, in CED, sent.n. 03417, RV. 172585. (281) Così Cass. 1o dicembre 1971, Maugeri, in Cass. pen., 1972, p. 1657; conforme Cass. 19 aprile 1969, Pandolfi, ivi, 1970, p. 1180; Cass. 11 luglio 1968, Parisi, ivi, 1969, p. 1071, in cui, pur negando la violazione del diritto alla difesa, si richiede una ‘‘dimostrazione seria ed attendibile di strumentalità degli oggetti anzidetti rispetto ad un fine lecito’’; in tale direzione cfr. VALENTI, op. cit. (nota 199), p. 258. (282) Così Corte cost. 29 gennaio (2 febbraio) 1971, n. 14, in Giust. pen., 1971, I, c. 221; conforme Corte cost. 19 novembre 1992, n. 464, in Cass. pen., 1993, p. 2215; nella stessa direzione Cass. 28 ottobre 1992, Ceron, in CED, sent. n. 01872, RV. 193533; Cass. 28 febbraio 1985, Finotti, in Cass. pen., 1987, p. 86; Corte cost. 15 aprile 1981, n. 65, ivi, 1982, p. 17; conforme in dottrina cfr. GIAMPAOLI, Principio di eguaglianza, op. cit. (nota 6), pp. 104-105; AMATO, op. cit. (nota 199), p. 63, anche se poi, p. 65, l’autore afferma che la norma ‘‘postulava, nella sostanza, un’inversione dell’onere della prova’’. (283) Cass. 5 dicembre 1991, Borghesi, in Giust. pen., 1992, II, p. 527; in tale direzione VALIANTE, Il nuovo processo penale. Principi fondamentali, Milano, 1975, p. 187. (284) Cass. 5 dicembre 1991, Borghesi, in Giust. pen., 1992, II, p. 527; conforme Cass. 20 gennaio 1965, Schiavi, in Cass. pen., 1965, p. 492.
— 976 — sione dell’onere della prova nelle fattispecie in esame, non convincono (285) la dottrina, la quale osserva giustamente che tali motivazioni sanno più di ‘‘espedienti tecnico-giuridici che non di argomenti logici’’ (286). Non basta, infatti, ad allontanare ogni dubbio circa la legittimità costituzionale delle norme in esame, affermare che a carico dell’imputato incombe solo un onere di allegazione, perché, in ogni caso, ciò comporterebbe la conseguenza di porre l’imputato in una posizione difficile e precludergli, a costo di non incorrere in una condanna, la possibilità di tacere, che rientra nel suo diritto costituzionale alla difesa; a parte il rischio — che in ogni caso l’art. 708 c.p. comportava e l’art. 707 c.p. comporta — che il giudice possa condannare senza compiere un’apposita indagine in ordine agli elementi oggetto dell’onere di allegazione. La ‘‘certezza probatoria in senso stretto’’, invece, deve avere per oggetto tutti gli elementi che compongono il reato nella sua dimensione formale (oggettiva e soggettiva) e lesiva (287). Parte della dottrina, inoltre, evidenziava che ‘‘se l’accusa dovesse dimostrare che la provenienza delle cose non è giustificabile in alcun modo, l’art. 708 non avrebbe ragion d’essere: se infatti l’accusa fosse in grado di provare che la provenienza delle cose è ingiustificata, essa allora sarebbe in grado di dimostrare che queste provengono da un furto, da una ricettazione o comunque da un altro reato ed allora l’imputazione verrebbe elevata per l’appunto per questo reato e non certo ai sensi dell’art. 708’’ (288). E le stesse argomentazioni sono ancora valide per l’art. 707 c.p., soprattutto se inteso in funzione repressiva. Sembra d’altro canto ambigua l’affermazione della Suprema Corte in (285) Cfr. Cass. 7 febbraio 1985, Aristelli, in Riv. pen., 1986, m. 337, in cui si affermava anche che l’art. 708 c.p. non si ponesse in contrasto con il diritto alla difesa, ex art. 24 Cost., ‘‘in quanto la pretesa dello Stato di un’attendibile spiegazione della provenienza del denaro nasce in un momento anteriore a quello giudiziale ossia quando l’individuo, per i suoi precedenti specifici, è sottoposto a controlli amministrativi di sicurezza e non ha ancora assunto la qualifica di imputato’’; Cass. 17 marzo 1980, Garcia, ivi, 1980, m. 887; contra le censure dei giudici a quibus nel caso giudicato dalla sentenza della Corte cost. in esame, la n. 370 del 1996, cit. (nota 1), p. 52, § 2.2: ‘‘quanto al momento temporale, la portata del principio costituzionale del diritto di difesa non potrebbe essere confinata alla fase processuale del giudizio’’. In dottrina in tale direzione cfr. MICHELI, Reati di sospetto vecchi e nuovi: cronaca di una morte annunciata, in Riv. trim. dir. pen. dell’econ., 1994, p. 53; FRANZ, Brevi osservazioni in merito alla costituzionalità del reato di cui all’art. 708 c.p. ed alla applicazione concreta della fattispecie, in Cass. pen., 1993, p. 2215. (286) Così. MICHELI, op. cit. (nota 285), p. 53. (287) Cfr. BRICOLA, Teoria, op. cit. (nota 48), pp. 89-91, il quale osserva come le norme in esame rischiano di svuotare di contenuto la presunzione d’innocenza, negandole il suo valore nei confronti dell’imputato e le sue implicazioni in sede di diritto materiale, trasformandola in una vuota garanzia formale; MICHELI, op. cit. (nota 285), p. 53. (288) Così COPPI, op. cit. (nota 252), p. 1733; conformi ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, Bologna, 1979, p. 143; FIORELLA, op. cit. (nota 5), p. 216; DI GIOVINE, Antichi
— 977 — base alla quale non è necessario ‘‘che l’imputato fornisca la piena prova della liceità del possesso, ma si richiede comunque una spiegazione, proveniente dallo stesso incolpato, sufficientemente convincente in quanto congrua e circostanziata, si da giustificare la provenienza ed escludere l’applicabilità dell’art. 708 c.p.’’ o, si può aggiungere, dell’art. 707 c.p. (289): ma che cos’è una spiegazione congrua e circostanziata tale da giustificare la provenienza o la destinazione dei beni, se non la piena prova della liceità del possesso o della destinazione (290)? Si finisce per giocare con le parole, tentando di mistificare una vera e propria inversione dell’onere della prova. 8. Una volta accertato che l’art. 708 c.p. e l’art. 707 c.p. prevedono sostanzialmente un’inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato, si cercherà di mettere in evidenza i problemi di legittimità costituzionale che derivano dalla presenza di tale elemento; in particolare si esaminerà il rapporto delle due fattispecie con la presunzione d’innocenza. La violazione della presunzione d’innocenza da parte delle norme in esame, e più in generale da parte dei c.d. ‘‘reati di sospetto’’ (291), emerge dal confronto di un simile tipo di fattispecie con le tre accezioni della presunzione d’innocenza, come regola di giudizio, come regola della dignità della prova, come regola dell’esclusività del processo, quali esaminate in altra sede (292). I c.d. reati di sospetto, tra i quali sono annoverabili gli artt. 708 e 707 c.p., fondano, infatti, la punibilità sulla prova di determinati elementi, dai quali si deduce in via presuntiva la sussistenza di altri elementi, che l’accusa non è tenuta, quindi, a provare, salva la possibilità offerta, talora, all’imputato di provarne l’inesistenza. In particolare le fattispecie come l’art. 708 o l’art. 707 c.p. puniscono (o punivano) il possesso di determinate cose da parte di particolari soggetti, qualora questi non riescono a fornire delle sufficienti spiegazioni circa la provenienza o la destinazione delle cose in questione. Si punisce una condotta in sé neutra schemi e nuove prospettive nella lotta alla criminalità organizzata. Dall’art. 708 c.p. all’art. 12-quinquies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in questa Rivista, 1994, p. 121. (289) Così Cass. 16 marzo 1995, Amorelli, in Riv. pen., 1996, p. 398. (290) BRICOLA, Teoria, op. cit. (nota 48), p. 89, evidenzia come non sia agevole distinguere tra la pretesa della prova della legittima provenienza e la pretesa di un’attendibile e circostanziata spiegazione, di cui parla la Suprema Corte. (291) Art. 12-quinques, comma 2, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306; art. 707 e 708 c.p.; artt. 94 e 97, lett. f), della legge doganale 25 settembre 1940, n. 1424; art. 392 Customs Code francese e così via. (292) Cfr. MAUGERI, Le sanzioni patrimoniali fra garanzie ed efficienza (Le ‘‘ipotesi particolari’’ nella recente legislazione), in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 877 ss.; sulla presunzione d’innocenza nell’ordinamento tedesco cfr. HASSEMER, Einführung, op. cit. (nota 230), p. 149 ss.
— 978 — come il possesso di determinati oggetti o valori perché esso, in relazione a determinati soggetti, suscita il sospetto che il possessore abbia già commesso dei reati o intenda commetterli, ma tali reati, la cui prevenzione o punizione costituisce il reale scopo delle fattispecie in questione, non devono essere provati dall’accusa. Anzi l’accusa si deve limitare a provare il possesso e le eventuali condizioni oggettive e soggettive che lo rendono illegittimo [la qualità di condannato e la non confacenza allo stato del possessore del denaro, degli oggetti di valore, o delle altre cose), spetta, invece, all’imputato l’onere di provare l’origine lecita dei beni o l’attuale destinazione, e in caso di mancata prova o di dubbio, è destinato a soccombere (293). Il legislatore ha eliminato così la difficoltà di provare la destinazione o la provenienza dei beni posseduti dall’imputato, e, quindi, un problema processuale, introducendo nell’ambito della formulazione della norma una presunzione (che i beni posseduti abbiano un’origine illecita, oppure abbiano avuto o abbiano una destinazione illecita), che comporta un’inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato; presunzione che si traduce in una sostanziale presunzione di colpevolezza in relazione ai reati che si ritiene siano stati commessi o in una presunzione di colpevolezza in relazione ai reati che si avrebbe l’intenzione di commettere. Il legislatore risolve un problema processuale attraverso il diritto materiale (294). 8.1. Si viola, così, chiaramente, la presunzione d’innocenza come regola della prova della colpevolezza, regola che obbliga le autorità a provare pienamente la colpevolezza del reo, nel senso che non solo l’imputato non deve provare la sua innocenza, ma che l’accusa deve provare la sua colpevolezza (295). Tale regola di giudizio, poi, stabilisce quale sia l’interesse cui dare prevalenza e il criterio da seguire laddove sorge un problema di accertamento, e quindi il suo significato emerge in particolare (293) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, op. cit. (nota 2), p. 237. (294) Cfr. GARCÌA PÉREZ, op. cit. (nota 210) p. 629; INSOLERA, Un deludente epilogo, op. cit. (nota 9), p. 3364. (295) Cfr. SCHULTEHINRICHS, Gewinnabschöpfung bei Betäubungsmitteldelikten. Zur Problematik der geplanten Vorschrift über den Erweiterten Verfall, Mainz, 1991, p. 153; VOGLER, Besondere Garantien für das Strafverfahren, in Internationaler Kommentar für Europäischen Menschenrechtskonvention, München, 1986, p. 153; DOMINIONI, Il comma 2 dell’art. 27, in Commentario della Costituzione. Artt. 27-28, a cura di BRANCA-PIZZORUSSO, Bologna, 1991, p. 789 ss.; MELCHIONDA, Vari aspetti di incostituzionalità dell’art. 708 del codice penale, in Scuola pos., 1968, p. 147 ss.; cfr. Corte cost. 10 maggio 1979, n. 11, in Giur. cost., 1979, I, p. 243, che dichiara incostituzionale l’art. 18, comma 3 del r.d. n. 733/31, per violazione dell’art. 27, comma 2, in quanto poneva a carico dell’imputato una presunzione di prova, con nota di RIDOLA, Nuovi orientamenti della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di libertà di riunione, ivi, p. 490 ss.; Corte cost. 6 luglio 1972, n. 124, ivi, 1972, p. 1332; Corte cost. 2 dicembre 1970, n. 175, ivi, 1970, p. 2115 ss.
— 979 — nei casi rimasti dubbi anche dopo l’indagine probatoria (296), obbligando il giudice, in qualità di regola di decisione, a pronunciare una sentenza in favore dell’imputato, laddove non viene raggiunta la piena prova del fatto e della colpevolezza (in dubio pro reo) (297). Nell’applicare fattispecie fondate sul sospetto, come l’art. 708 e l’art. 707 c.p., invece, il giudice anche se ha dei dubbi sull’origine illecita dei beni o sulla loro destinazione deve condannare l’imputato, in quanto, essendo l’elemento in questione (l’origine illegale o la destinazione illecita dei beni) presunto, il rischio del dubbio incombe sull’imputato. 8.2. Viene, quindi, così violato il principio ‘‘in dubio pro reo’’, inteso dalla dottrina tedesca anche come regola della dignità della prova (298) — e qui interviene la seconda accezione della presunzione di innocenza —, e cioè come garanzia della qualità del metodo, come garanzia che la sanzione venga inflitta non solo a seguito di un formale processo, ma in base ad un adeguato accertamento della colpevolezza, capace di superare la presunzione d’innocenza, e con metodi di indagine rispettosi dei diritti fondamentali dei cittadini (299). La presunzione d’innocenza, come regola della dignità della prova garantisce, quindi, che le ragioni della condanna resistano a un esame basato sulle leggi del pensiero e dell’esperienza (‘‘la presunzione d’innocenza opera come regola della prova, quando il giudice condanna nonostante abbia dei dubbi, e come regola della dignità della prova, quando egli non ha dubbi, ma avrebbe dovuto averli...’’ (300) ). Non sempre, invece, si può ritenere che il giudice non avesse dovuto avere dei dubbi circa la legittimità della sua condanna ex art. 708 c.p. o ex art. 707 c.p. qualora abbia condannato sulla base della mera prova del possesso, della qualifica soggettiva — e al limite, in relazione all’art. 708 c.p., della sproporzione tra il valore dei beni posseduti e le condizioni economiche del possessore —, ma in mancanza di prove, anche indiziarie (salvo eventualmente la sproporzione per l’art. 708 c.p.), circa l’origine illecita dei beni o circa la loro illecita destinazione, elementi che venivano meramente presunti. Non solo ma il metodo dell’indagine circa l’origine dei beni, o circa la loro destinazione, non è ri(296) Cfr. ILLUMINATI, op. cit. (nota 288), p. 91; TRECHSEL, Struktur und Funktion der Vermutung der Schuldlosigkeit. Ein beitrag zur Auslegung von Art. 6 Ziff. 2 EMRK, in SJZ, p. 320 ss.; STREE, In dubio pro reo, Tübingen, 1962, p. 40. (297) Cfr. CHIAVARIO, La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, p. 384 ss., afferma il contrasto dei reati in esame con la presunzione d’innocenza, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. (298) Cfr. SCHULTEHINRICHS, op. cit. (nota 295), p. 163; VOGLER, op. cit.(nota 295), p. 148. (299) Cfr. ILLUMINATI, op. cit. (nota 288), p. 78 ss. (300) Così STREE, op. cit. (nota 296), p. 39; TRECHSEL, op. cit. (nota 296), p. 321.
— 980 — spettoso dei diritti dell’imputato, perché, in conclusione, si esonera l’accusa dall’indagine circa tali elementi e si impone all’imputato di provare l’origine lecita dei beni in violazione del suo fondamentale diritto al silenzio — senza che il giudice possa trarne conseguenze sfavorevoli a suo carico —, espressione del diritto alla difesa (art. 24 Cost.) e della stessa presunzione d’innocenza (intesa, in particolare, come regola della prova della colpevolezza) (301). 8.3. E anche la presunzione d’innocenza come regola dell’‘‘esclusività dell’accertamento della colpevolezza in via processuale’’ — in base alla quale si tutela il reo dall’applicazione di conseguenze negative che non siano derivate dall’accertamento della colpevolezza in un processo, svoltosi in conformità con le regole di uno Stato di diritto — non viene rispettata dai reati di sospetto. La presunzione d’innocenza, in tale accezione, vieta che si fondi l’applicazione di sanzioni penali su dei fatti che non siano stati oggetto dell’atto di accusa e del giudizio. Nell’inflizione della pena e nella sua commisurazione non si può tener conto, insomma, di fatti non accertati nel processo, altrimenti si applicherebbe una mera pena di sospetto (302). I reati di sospetto, invece, fondano la punibilità su dei fatti — i reati dai quali derivano i presunti profitti illeciti, o i reati in cui sono stati utilizzati o erano destinate a essere utilizzate le chiavi alterate o i grimaldelli — che non devono essere oggetto dell’accusa e non devono essere dibattuti e provati in sede processuale, finendo per consentire l’applicazione di una mera pena di sospetto sia nel suo fondamento, non essendo provata la colpevolezza per i reati in questione, sia nella sua misura, non essendo la pena commisurabile a una colpevolezza che non è stata provata. Le fattispecie in esame, infine, non sarebbero del tutto conformi alla presunzione d’innocenza anche qualora si ammetta, come afferma certa giurisprudenza, che gli artt. 708 e 707 c.p. non impongano un’inversione dell’onere della prova, ma un mero onere di allegazione a carico dell’imputato, con la conseguenza che il giudice, per procedere alla condanna, dovrebbe raggiungere, in base agli elementi forniti dall’accusa e dalla di(301) Cfr. COPPI, op. cit. (nota 252), p. 1730 ss.; BRICOLA, Teoria, op. cit.(nota 48), p. 90; FIORELLA, op. cit. (nota 5), pp. 193 ss.-219; GARCÌA PÉREZ, op. cit. (nota 210), p. 634; contra Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 febbraio 1996, John Murray c. Royaume Uni, in Recueil des Arrêts et Décisions, 1996 — I, n. 1, pag. 49, con opinione conforme della commissione, p. 67 ss., in cui si ammette la legittimità di alcune norme della legislazione antiterrorismo irlandese che consentono di trarre delle conseguenze negative dal silenzio dell’imputato (artt. 4 e 6 Crinimal Evidence (Northern Ireland) Order 1988, purchè non si fondi la condanna prevalentemente o esclusivamente su tale silenzio. (302) Sul tema cfr. SCHAFFSTEIN, Verdachtsstrafe, außerordentliche Strafe und Sicherungsmittel im Inquisitionsprozeß, in ZStW, 1989, p. 493; SCHULTEHINRICHS, op. cit. (nota 295), p. 165.
— 981 — fesa, il pieno convincimento che i beni abbiano un’origine o una destinazione illecita. In questo caso, infatti, non sarebbe violata la presunzione d’innocenza come regola della prova della colpevolezza, perché il giudice dovrebbe assolvere l’imputato in caso di dubbio (circa l’origine o la destinazione), in conformità al principio in dubio pro reo. Non dovendosi, però, in ogni caso raggiungere la prova dei reati dai quali i beni in questione derivavano o in cui sono stati utilizzati o dovevano essere utilizzati, sarebbe violata la presunzione d’innocenza come regola dell’esclusività dell’accertamento della colpevolezza in via processuale, perché comunque si finisce per punire il reo per dei reati (già consumati o futuri), che non sono stati provati in un regolare processo (303). Ne consegue che l’art. 708, che fondava la punibilità su dei reati già consumati ma non provati, violando la presunzione d’innocenza violava anche il principio di colpevolezza, il quale viene rispettato solo laddove un soggetto viene punito per dei fatti in relazione ai quali è stata provata la colpevolezza in seguito ad un regolare processo (la presunzione d’innocenza è l’aspetto processuale del principio materiale di colpevolezza, in mancanza del quale quest’ultimo si ridurrebbe ad una vuota formalità (304) ); nell’art. 708 c.p., invece, la colpevolezza in relazione ai reati dai quali derivavano i valori posseduti veniva solo presunta. Lo stesso vale per l’art. 707 c.p., qualora si ritenga che abbia una funzione repressiva di reati, per la cui consumazione sono stati utilizzati gli strumenti posseduti. E anche se si attribuisce all’art. 707 c.p. una funzione preventiva di futuri delitti, si può giungere alle stesse conclusioni perché in ogni caso la norma in esame punisce il reo non per dei fatti la cui colpevolezza sia stata processualmente provata, ma per dei fatti eventuali e futuri, quindi in base ad una mera presunzione di pericolosità (di cui si è già dimostrata l’inconsistenza (305) ). Dall’esame dei rapporti dell’art. 708 e dell’art. 707 c.p. con la presunzione d’innocenza, emerge, inoltre, un’ulteriore conferma del contrasto del modello di reato rappresentato dai reati di sospetto con il principio di legalità. In base alla presunzione d’innocenza, infatti, intesa nella sua primaria funzione di garanzia in sede processuale del principio di legalità (306), l’esecuzione regolare del processo è condizione di esistenza del fatto di reato, nel senso che prima dell’esecuzione del processo il fatto di (303) Cfr. MAUGERI, op. cit. (nota 292), pp. 885-886; contra sembra fornire un’interpretazione della presunzione d’innocenza tale da ammettere la legittimità dei reati di sospetto, Corte Europea dei diritti dell’uomo, Salabiaku v. France, in Publications de la Cour Europenne des Droits de l’Homme, Série A, vol. 141, p. 6 ss. e in European Human Rights Reports 13, p. 379; nella stessa direzione cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, 25 settembre 1992, Pham Hoang v. France, ivi, Série A, vol. 243, p. 53. (304) Cfr. GARCÌA PÉREZ, op. cit. (nota 210), p. 650. (305) Vedi § 4.2. (306) Cfr. MAUGERI, op. cit. (nota 292), p. 873.
— 982 — reato rimane in uno stato di incerta inefficacia (307) e, quindi, da fatti non accertati nel processo, e quindi inefficaci, non possono derivare conseguenze negative per l’imputato; si garantisce così all’imputato che dovrà rispondere solo delle conseguenze del ‘‘fatto’’ ‘‘espressamente preveduto come reato dalla legge’’, la cui conformità al tipo sia stata accertata con tutte le garanzie di un regolare processo. Una fattispecie, quindi, che collega l’inflizione di una pena a un mero sospetto, che non può essere concretamente accertato in un regolare processo, è in contrasto con il combinato disposto del principio di legalità-tassatività e della presunzione d’innocenza (e questo vale anche se si intende l’obbligo di giustificazione come onere di allegazione, perché si punisce pur sempre il reo per dei fatti, passati o futuri, che non risultano provati). 9. In conclusione sembra, insomma, che sia venuto il momento di eliminare dal nostro ordinamento delle fattispecie introdotte dal legislatore del ’30 al solo scopo di ‘‘fornire alla polizia un comodo strumento per inviare in carcere quei ‘‘pregiudicati che diano fastidio ed ai quali non sia possibile addebitare qualche altro più circostanziato fatto criminoso’’; le fattispecie in esame, infatti, sembrano essere una versione moderna di quell’‘‘espediente’’, di cui parlava il Ministro della giustizia del Regno delle Due Sicilie, Ricciardi, in suo discorso parlamentare del 16 novembre 1820, nel quale affermava che nei confronti di quella classe di persone costituita da ‘‘uomini o già condannati o già inquisiti per furti, e sempre come ladri designati dalla pubblica opinione per le oscure sorgenti donde traggono i mezzi della loro sussistenza’’, in difetto di sanzioni penali, ‘‘si è negli scorsi anni adottato l’espediente di restringerli per qualche tempo e soprattutto durante l’inverno o nelle prigioni...’’ (308). Se è apprezzabile, allora, che la Corte costituzionale abbia eliminato dal nostro ordinamento l’art. 708 c.p., quale espressione di uno Stato che, incapace di perseguire determinati delitti con i normali strumenti a sua disposizione, cerca di recuperare con delle fattispecie di mero sospetto (309), è però auspicabile che intervenga lo stesso legislatore ad eliminare dal nostro ordinamento l’art. 707 c.p. Anzi proprio in relazione all’art. 707 c.p., sembra che siano venute meno, come dimostrato, le ragioni (307) Così MARXEN, Medienfreiheit und Unschuldvermutung, in Goltdammers Archiv, 1990, p. 375; cfr. GULLO, La confisca, in Giust. pen., 1981, II, c. 48. (308) Cfr. PIZZORUSSO, nota alla sentenza della Corte cost. n. 110 del 1968, in Foro it., 1968, I, c. 2357. (309) Cfr. MUCCIARELLI, Commento all’art. 12-quinquies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (Antimafia), in Leg. pen., 1993, p. 161, parla di implicita ammissione di debolezza da parte dello Stato, che con i reati di sospetto (in particolare si faceva riferimento all’art. 12-quinquies, comma 2, abrogato), vuole ridurre al minimo gli spazi di impunità dei soggetti, che avendo commessi determinati crimini, sono sfuggiti e ancora possono sfuggire all’accertamento di responsabilità.
— 983 — politico-criminali che ne giustificavano l’incriminazione, trattandosi di una fattispecie ormai assolutamente ineffettiva rispetto alla tutela del patrimonio (310). L’eliminazione dei reati di ‘‘mero sospetto’’ dal panorama dei delitti contro il patrimonio sarebbe, del resto, un significativo passo in avanti in quell’opera di riforma, che sarebbe auspicabile nell’ambito dei delitti contro il patrimonio per ricondurre tali reati da un’antigiuridicità soggettiva all’antigiuridicità oggettiva. Il nostro sistema dei delitti contro il patrimonio è, infatti, come accennato, curiosamente imperniato su momenti soggettivi, quali lo scopo, i motivi dell’azione di attacco ai beni patrimoniali altrui e/o dell’autore di tale comportamento (basti pensare al dolo specifico nel furto); si tende, cioè, a valutare la condotta prescindendo dal suo momento offensivo per i diritti soggettivi patrimoniali e si dà per contro risalto al significato ‘‘sintomatico’’ della personalità e della pericolosità dell’agente (311). Il settore dei delitti contro il patrimonio dovrebbe, invece, costituire il campo d’applicazione per eccellenza della concezione oggettiva dell’antigiuridicità (della teoria del bene giuridico), in quanto l’interesse protetto è un diritto soggettivo individuale dotato di ‘‘substrato naturalistico’’ non equivoco, e un interesse privato e del tutto economico, che consente, quindi, di isolare facilmente in termini empirici l’offesa, di identificare l’azione in un puro processo causale esteriore, di separare, insomma, ciò che è esteriore da ricondurre all’antigiuridicità e ciò che è interiore da ricondurre alla colpevolezza (312). L’eliminazione delle contravvenzioni esaminate costituirebbe, insomma, un passo in avanti nella riconduzione dei delitti contro il patrimonio da una funzione di tutela della proprietà quale rapporto sociale a contenuto economico, quale relazione umana di dominio di un uomo su un altro uomo, alla loro corretta funzione di tutela della proprietà quale diritto soggettivo, espressione di un rapporto giuridico di dominio dell’uomo su una cosa ed estrinsecazione della persona umana (313); e ciò in linea con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che, dopo aver superato i dubbi circa l’opportunità di introdurre nella Convenzione un diritto di natura economica, riconosce la tutela del diritto di proprietà (art. 1 del primo Protocollo alla Convenzione) in quanto ‘‘il diritto di proprietà costituisce una condizione per l’indipendenza personale e familiare’’ (314). Un discorso diverso merita, invece, l’art. 708 c.p., un discorso che (310) Cfr. sul principio di effettività, PALIERO, Il principio di effettività nel diritto penale, in questa Rivista, 1990, p. 430. (311) Così SGUBBI, Tutela penale del patrimonio, op. cit. (nota 267), pp. 295 ss.-317 ss.; ID., voce Patrimonio, op. cit. (nota 267), pp. 342 ss.-358 ss. (312) Così SGUBBI, Tutela penale del patrimonio, op. cit. (nota 267), p. 298; ID., voce Patrimonio, op. cit. (nota 267), pp. 346-347. (313) Cfr. SGUBBI, Tutela penale del patrimonio, op. cit. (nota 267), p. 305; ID., voce Patrimonio, op. cit. (nota 267), p. 350. (314) Così Recueil des travaux préparatoires, publié par Martinus Nijhoff, La Haye,
— 984 — giustifica anche il particolare interesse espresso in questo lavoro rispetto ad una fattispecie ormai dichiarata incostituzionale. È vero, come osserva la Corte costituzionale nella sentenza in esame, che ‘‘la crescita della ricchezza mobiliare, la sua circolazione in ambito internazionale e l’uso dello schermo societario per il suo controllo’’, riducono la fattispecie prevista dall’art. 708 c.p. a ‘‘uno strumento ottocentesco di difesa sociale del tutto inadeguato a contrastare le nuove dimensioni della criminalità, non più rapportabile, necessariamente, a uno ‘‘stato’’ o a una ‘‘condizione personale’’; ma è anche vero, come la Corte sottolinea, che, nell’ambito dell’attuale drammatica infiltrazione di capitali illeciti nell’economia legale, ‘‘i danni all’economia e alla convivenza civile provengono da persone che — svolgendo professionalmente attività legate alla circolazione della ricchezza mobiliare o a queste prossime — hanno modo di eludere, anche per lunghi periodi di tempo i controlli legali’’ (315); anzi la Corte cita l’art. 12-quinquies, comma 2 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, — che puniva il possesso ingiustificato di valori da parte di ‘‘coloro nei cui confronti pende procedimento penale’’ per i delitti espressamente indicati e di ‘‘coloro nei cui confronti è in corso di applicazione o comunque si procede per l’applicazione di una misura di prevenzione personale’’ — quale espressione del tentativo del legislatore di adeguare la fattispecie di possesso ingiustificato di valori alla mutata realtà criminologica, estendendone l’ambito di applicazione ad altre forme di criminalità più moderne ed impossibili da ricondurre nell’alveo dell’art. 708 c.p. (316). In questa prospettiva si potrebbe allora profilare l’ipotesi che il possesso ingiustificato di valori venga reintrodotto dal legislatore penale come reato comune, al fine di garantire, in considerazione ‘‘delle attuali dimensioni vol. I, p. 221; cfr. EISSEN, op. cit. (nota 137), pp. 36-37; RUSSO, L’applicabilité aux nationaux des ‘‘principes généraux du droit international’’ visés à l’article 1 du Protocole n. 1, in Protecting Human Rights, op. cit. (nota 137), p. 547; HENRY G. SCHERMERS, The international protection of the right of property, ivi, p. 565, il quale mette in evidenza come la convenzione garantisca il pacifico godimento della proprietà, e non piuttosto il diritto a una proprietà minima da parte di tutti, e come il concetto di proprietà da garantire dipenda dal contesto sociale di riferimento e, in ogni caso, parte del diritto di proprietà non meriti lo status di diritto fondamentale; FROMMEL, The European Court of human rights and the right of the accused to remain silent: can it be invoked by taxpayers?, in Dir. e prat. trib., 1993, I, p. 2165, sui rapporti tra la tutela del diritto di proprietà e il divieto di non discriminazione ex art. 14 Conv. eur. dir. uomo. (315) Corte cost. n. 370, op. cit. (nota 1), p. 54; cfr. INSOLERA, Prevenzione e repressione del riciclaggio e dell’accumulo di patrimoni illeciti, in Leg. pen., 1998, n. 1, pp. 167168, il quale sottolinea come la Corte suggerisca un modulo argomentativo in base al quale data l’inadeguatezza dell’art. 708 c.p. ‘‘rispetto a fenomeni criminali non riconducibili a quel tipo e tuttavia dotati di ben superiore pericolosità’’, ne emerge evidente ‘‘l’indicazione al legislatore perché adotti nuovi strumenti volti a fronteggiare ‘l’esistenza di preoccupanti fenomeni di arricchimento...’ ’’; conforme ID., Un deludente epilogo, op. cit. (nota 194), p. 3373. (316) Cfr. MICHELETTI, op. cit. (nota 9), p. 3379; MICHELI, op. cit. (nota 285), p. 51.
— 985 — della criminalità non più rapportabile’’, come evidenziato dalla Corte, ‘‘a uno stato o a una condizione personale’’, una più adeguata lotta contro il potere economico della criminalità organizzata e contro il pericolo di inquinamento dell’economia legale. Nell’ambito delle discussioni sulla lotta contro l’accumulo e il riciclaggio dei capitali illeciti, è già stata infatti avanzata la proposta, nell’ottica della funzione ‘‘promozionale’’ del diritto penale, di riformulare l’art. 12-quinquies, comma 2 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in termini di reato comune, ‘‘affinché il dovere di assicurare la più completa trasparenza, attraverso la giustificazione della lecita provenienza delle proprie ricchezze, gravi su tutti’’ (317) (si ricordi, del resto, che il governo ha reiterato per ben sei volte un decreto legge che puniva il ‘‘possesso ingiustificato di valori’’ da parte di pubblici amministratori sottoposti a procedimento penale per alcuni reati — concussione, corruzione, ecc. —, anche se poi il Parlamento in sede di conversione, con la l. n. 461/93 non lo ha approvato). Non solo, ma addirittura la sentenza in esame è stata interpretata come ‘‘un invito al legislatore a costruire un’incriminazione in grado di colpire le moderne forme della criminalità economica’’, e in questa direzione tale sentenza andrebbe letta unitamente alla pronuncia n. 48/94, relativa all’art. 12-quinquies, comma 2, ‘‘nella quale al legislatore sarebbe dato anche cogliere i criteri per costruire una norma rispettosa della Costituzione, al di fuori della fretta dettata dall’emergenza’’ (318). Con l’introduzione di una simile fattispecie di possesso ingiustificato il legislatore riconoscerebbe il disvalore penale del fatto di possedere dei valori senza saperne giustificare l’origine, sancendo definitivamente il declino del principio ‘‘pecunia non olet’’. Un tale reato, poi, non si limite(317) Così DI GIOVINE, Antichi schemi e nuove prospettive, op. cit. (nota 288), p. 136; in tale direzione cfr. COPPI, op. cit. (nota 252), p. 1724. (318) Così TRAMONTANO, op. cit. (nota 9), c. 1707; in tale direzione MICHELETTI, op. cit. (nota 9), pp. 3384-3385; AMATO, op. cit. (nota 199), p. 65, il quale, afferma che la Corte costituzionale, una volta dichiarata l’illegittimità dell’art. 12-quinquies, ha fondato il suo giudizio di irragionevolezza dell’art. 708 c.p. ‘‘sull’attuale assenza di altre fattispecie incriminatrici che... puniscano anche altre categorie di persone, diverse e ulteriori rispetto a quelle ivi considerate’’, e che ‘‘in una tale ottica, attesa la rilevata, evidente utilità di strumenti penali volti a interdire il possesso e il possibile reimpiego dei profitti illeciti, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che, ..., provveda ad introdurre un’apposita fattispecie di reato, ...diretta a sanzionare il possesso non giustificato di beni da parte di soggetti che non possano fornire un’attendibile e circostanziata spiegazione in ordine alla relativa provenienza e all’attuale disponibilità’’; INSOLERA, Un deludente epilogo, op. cit. (nota 9), p. 3373, il quale interpreta la sentenza come un invito all’introduzione di una fattispecie di possesso ingiustificato di valori da parte di colletti bianchi, anche incensurati; PISA, op. cit. (nota 67), p. 1479, il quale ritiene che la sentenza profili la possibilità di introdurre una nuova fattispecie applicabile ai ‘‘condannati’’ per delitti produttivi di ricchezza illecita, mentre per gli incensurati sarebbero sufficienti le indagini patrimoniali finalizzate alle misure di prevenzione e/o alla confisca.
— 986 — rebbe a punire la detenzione di valori come necessaria conseguenza del compimento di altri reati, o per la sua potenzialità lesiva rispetto ad altri interessi già oggetto di protezione specifica da parte di altre fattispecie; si potrebbe, infatti, individuare l’autonomo interesse tutelato dalla fattispecie in esame, nell’‘‘economia collettiva’’ (nell’ordine economico), leso dalla possibile infiltrazione nell’economia legale di capitali di origine illecita, che finiscono per falsare le regole del mercato e della concorrenza. Tale fattispecie costituirebbe così l’ultimo anello di una serie di norme volte ad inseguire, evitandone la dispersione, il denaro o gli altri beni di provenienza delittuosa, sia impedendo che altri, i quali non abbiano commesso i delitti, ne godano, sia impedendo un loro reinvestimento nel mercato (si fa riferimento alle fattispecie di ricettazione, riciclaggio, e impiego di denaro, beni o altre utilità). Si tratterebbe, però, pur sempre di una fattispecie fondata su di un’inversione dell’onere della prova circa l’origine del denaro illecito, con tutti i dubbi di legittimità costituzionale della previsione di un simile strumento in ambito penale, in particolare in relazione alla presunzione d’innocenza ex art. 27, comma 2, Cost., e ex art. 6, 2 c., Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Se del resto non si prevedesse un’inversione dell’onere della prova, ma l’accusa dovesse dimostrare l’origine illecita dei beni posseduti, non si capirebbe perché non si debba procedere all’imputazione dei reati dai quali provengono i profitti, potendo comunque colpire il mero possessore per ricettazione o per riciclaggio. L’inammissibilità dell’inversione dell’onere della prova, sulla quale si fonderebbe la fattispecie in questione, emerge anche dal dibattito sempre più acceso su un simile strumento probatorio introdotto dall’art. 2-ter, l. n. 575/65 e dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306/92. In queste recenti ipotesi l’inversione è finalizzata all’applicazione di una sanzione di carattere patrimoniale, la confisca dei beni ingiustificatamente posseduti, e proprio partendo da tale considerazione parte della più recente dottrina giustifica la previsione dell’inversione, ammettendo ‘‘spazi di rilassamento’’ della presunzione d’innocenza quando la sanzione incida in via esclusiva sul patrimonio, ‘‘che verrebbe così a costituire un’area più malleabile ad interventi che trascendano limiti ‘‘classici’’ come quello della stretta attinenza probatoria fra reato e sanzione’’; e questo si afferma anche tenendo conto del ruolo non più primario del bene patrimonio nella scala gerarchica dei valori costituzionali (319). Per contro, però, si ribadisce la necessità di ‘‘valorizzare il nesso teleologico che sicuramente intercorre nel nostro ordinamento fra l’art. 27, 2 c., e l’art. 13 Cost.’’, sottolineando che in relazione alla tutela della libertà personale l’operatività del principio si deve (319) p. 222.
Così FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, 1997,
— 987 — esplicare ‘‘in maniera inderogabile’’, e lo stesso vale per tutte le garanzie del Kernstrafrecht (320). A parte le perplessità, già manifestate in altra sede, circa una simile interpretazione ‘‘rilassante’’ della presunzione d’innocenza in relazione alle sanzioni patrimoniali (321), si può però rilevare come, in ogni caso, ne derivi una conferma del fatto che non sarebbe costituzionalmente legittima, per contrasto con l’art. 27, comma 2, Cost., un’eventuale fattispecie di possesso ingiustificato di valori, che fondasse sull’inversione dell’onere della prova l’applicazione di una sanzione detentiva; in questo caso, ‘‘in una visione orientata ai valori coinvolti nello svolgimento delle dinamiche sanzionatorie’’, ‘‘lo sconto sull’integrale rispetto dei principi del diritto penale puro’’, e dei principi di uno Stato di diritto, non potrebbe ‘‘ritenersi compensato da considerazioni attinenti alla qualità del sacrificio’’ (322). Sarebbe, poi, difficile per il legislatore riuscire a descrivere una fattispecie di possesso ingiustificato conforme al principio di tassatività, che richiede, come esaminato, che ogni fattispecie sia descritta in maniera da individuare un ‘‘tipo’’ criminoso, al quale ricondurre una serie di sottofattispecie omogenee in termini di disvalore. Bisogna, infatti, considerare a tal proposito che se è vero che una simile fattispecie tutelerebbe un autonomo interesse, è pur sempre vero che non essendo il possesso di valori in sé dannoso o pericoloso, la potenzialità lesiva di tale condotta sarebbe strettamente connessa a quella dei reati da cui deriverebbero i beni posseduti e dal fatto che tali beni illeciti possano essere utilizzati per la commissione di ulteriori reati o per inquinare l’economia lecita. E allora la fattispecie in questione finirebbe per includere una serie di comportamenti assolutamente non omogenei, in quanto la detenzione ingiustificata di valori, indipendentemente dalle differenze di ammontare dei valori posseduti, può essere la conseguenza dei più diversi illeciti (non costituenti necessariamente reato), dall’evasione fiscale al traffico di droga, con la conseguenza che sarebbero puniti con la stessa pena dei comportamenti eccessivamente diversi, sia nel loro contenuto di disvalore, sia nella loro pericolosità in relazione alle possibili forme di reinvestimento dei capitali illeciti (nel primo caso, probabilmente, si tratterà di reinvestimento nella stessa attività lavorativa dalla quale provengono i redditi oggetto di evasione fiscale, nel secondo caso i valori ingiustificati potrebbero essere impiegati in attività criminali o comunque in forme di infiltrazione di capitali illeciti nell’economia legale). E sarebbe, inoltre, difficile prevedere un (320) Così FORNARI, op. cit. (nota 319), p. 222; cfr. EUSEBI, Tra crisi dell’esecuzione penale e prospettive di riforma del sistema sanzionatorio: il ruolo del servizio sociale, in questa Rivista, 1993, p. 507. (321) Cfr. MAUGERI, op. cit. (nota 292), p. 869 ss. (322) Cfr. FORNARI, op. cit. (nota 319), pp. 222-223.
— 988 — trattamento sanzionatorio che tenga conto di una così vasta gamma di comportamenti incriminati con la stessa fattispecie; lo spazio edittale della pena, infatti, deve essere contenuto in limiti ragionevoli se vuole rispettare il principio di determinatezza (323), altrimenti ‘‘sarebbero in pratica al tempo stesso delineate innumerevoli figure di reato, ognuna con un suo proprio significato sociale e quindi una propria pena’’ (324) e si finirebbe per affidare esclusivamente alla discrezionalità del giudice in sede di commisurazione della pena l’opera di diversificazione del trattamento sanzionatorio (325). Sarebbe, infine, discutibile la conformità di una tale fattispecie, che costituirebbe pur sempre un mero reato di pericolo presunto per l’economia legale, con il principio di proporzione — che, come esaminato, deve presiedere anche l’an dell’incriminazione e la scelta del modello di reato adatto al perseguimento dell’interesse tutelato. In conclusione, dinanzi alla sempre più ricca normativa volta a garantire la trasparenza dell’economia, dinanzi al moltiplicarsi delle fattispecie volte alla prevenzione e alla repressione del riciclaggio — anche in seguito alle numerose sollecitazioni di Atti comunitari o internazionali in materia —, dinanzi al proliferare degli strumenti volti alla sottrazione del profitto del reato, sia in sede preventiva che repressiva, sorge il dubbio che una simile fattispecie rischi di divenire, nelle mani delle autorità giudiziarie e di polizia, uno strumento particolarmente adatto per intervenire contro l’economia criminale in maniera sicuramente rapida ed efficace, evitando delle complesse e lunghe indagini patrimoniali, ma a scapito del rispetto delle fondamentali garanzie costituzionali di uno Stato di diritto. ANNA MARIA MAUGERI Ricercatore nell’Università di Catania
(323) Cfr. BRICOLA, Teoria, op. cit. (nota 48), p. 18; ID., La discrezionalità, op. cit. (nota 220), p. 323 ss., dove l’autore argomenta la costituzionalizzazione del principio di tassatività in relazione alle sanzioni; VASSALLI, Nullum crimen, op. cit. (nota 224), p. 323; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale - Parte generale, op. cit. (nota 2), p. 64; FIANDACA, Controllo sull’uso degli additivi alimentari e principio di uguaglianza, in Foro it., 1982, I, c. 637 ss.; PADOVANI, La questione di legittimità costituzionale della pena del furto aggravato, in Studi per E. Graziani, 1974, p. 489; PAPA, Considerazioni sul controllo di legittimità, op. cit. (nota 52), p. 726 ss. (324) Così PAGLIARO, La legge penale, in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, p. 1053; ID., Principio di legalità ed indeterminatezza della legge penale, in Studi in onore di Biagio Petrocelli, Milano, 1972, III, p. 1287; cfr. CORBETTA, op. cit. (nota 29), p. 173, il quale cita in tale direzione l’art. 58, comma 1, del progetto di legge delega per un nuovo codice penale del 1988. (325) Critico nei confronti di una simile possibilità CORBETTA, op. cit. (nota 29), p. 144; contra Corte cost. (23 maggio) 18 giugno 1991, n. 285, in Cass. pen., 1992, p. 23 ss. e in Giur. cost., 1991, p. 2288 ss., sembra ammettere una tale eventualità.
LA TUTELA PENALE DELLE COMUNICAZIONI INTERSOGGETTIVE, FRA EVOLUZIONE TECNOLOGICA E NUOVI MODELLI DI RESPONSABILITÀ
SOMMARIO: 1. Gli effetti della ‘‘convergenza tecnologica’’ sui sistemi di comunicazione e il progressivo mutamento delle scelte punitive. — 2. Alcune precisazioni sulle caratteristiche delle comunicazioni interpersonali alla luce dell’art. 15 Cost. — 3. Le norme del codice penale e la tutela contro i comportamenti illeciti di terzi. — 4. La normativa recente in tema di dati personali e telecomunicazioni e la tutela contro i comportamenti illeciti del sysop. - 4.1. Le fattispecie di trattamento illecito dei dati e le chiamate ‘‘indesiderate’’. - 4.2. Il reato di mancata adozione delle ‘‘misure minime di sicurezza’’. — 5. La valorizzazione della responsabilità civile quale strumento di prevenzione. — 6. L’individuazione dei responsabili e il problema dell’anonimato. — 7. Conclusioni: la protezione delle comunicazioni verso un sistema integrato di regole e il ruolo del diritto penale.
1. Gli effetti della ‘‘convergenza tecnologica’’ sui sistemi di comunicazione e il progressivo mutamento delle scelte punitive. — Nell’ultimo ventennio i sistemi di comunicazione hanno visto ampliare notevolmente le proprie potenzialità; i servizi di telecomunicazione, in particolare, hanno conosciuto un’evoluzione tecnologica e normativa senza pari, che ha finito per relegare la più risalente comunicazione postale ad un ruolo sempre più marginale. Sul piano tecnico, l’applicazione delle procedure informatiche computerizzate alle reti di telecomunicazione (da cui è scaturita la telematica), l’introduzione di nuovi mezzi trasmissivi (come il cavo in fibra ottica e il satellite), la progressiva sostituzione della tecnica analogica con quella numerico-digitale (per citare solo alcune innovazioni più significative) hanno indotto un graduale superamento della struttura tradizionale delle telecomunicazioni, da sempre basata sull’esistenza di reti distinte per servizi diversi. ‘‘Multimedialità’’ e ‘‘interattività’’ sono le parole chiave del fenomeno di convergenza tecnologica in atto, di cui la rete Internet costituisce il paradigma (1). L’accresciuta flessibilità dei sistemi di telecomunicazione (1) Non potendo ovviamente soffemmarci sull’ampia tematica delle telecomunicazioni, basti ricordare che la multimedialità indica la possibilità di veicolare più linguaggi (suoni, immagini, dati) attraverso uno stesso medium, grazie alla trasformazione dei tradi-
— 990 — consente di offrire ad un numero sempre più ampio di soggetti una pluralità di servizi integrati e personalizzati, che vanno dall’intrattenimento all’informazione, dall’accesso a banche dati al contatto diretto di tipo telefonico, e a ‘‘quanti altri servizi si possano inventare combinando telefono, media, audiovisivi e informatica’’ (2): il punto di arrivo che si sta prefigurando è quello di un’unica ‘‘presa d’utente’’ attraverso la quale sarà possibile, per mezzo di un unico accesso e con abbonamenti ad un costo minore, fruire dei vari servizi oggi ottenibili solo attraverso una pluralità di apparecchiature terminali. Sul piano normativo, il processo parallelo di liberalizzazione ha fornito un impulso ulteriore, attraverso il progressivo smantellamento del regime di monopolio statale e l’apertura del settore all’ingresso di nuovi operatori e alle regole della concorrenza. Tutto ciò ha portato alla nascita di nuove forme di competizione sui mercati e di nuove professionalità economiche, di nuovi sistemi di comunicazione e di informazione (3), ma anche di pericoli nuovi, ad esempio per la sicurezza delle operazioni telematiche o per la privacy degli individui: la maggiore vulnerabilità dei sistemi informatici e telematici e le ‘‘tracce elettroniche’’ lasciate dagli utenti nella fruizione dei vari servizi espongono gli stessi ad una serie di controlli e di intromissioni difficilmente captabili e contrastabili (4). zionali segnali analogici in simboli binari (sistema digitale). L’interattività consiste invece nella possibilità, per l’utente di un servizio di telecomunicazioni, di interagire in vario modo sul contenuto del messaggio, grazie alla presenza di un canale di ritorno dall’utente verso la sorgente dell’informazione. Tali caratteristiche hanno portato, appunto, alla graduale integrazione delle tecniche e delle infrastrutture di trasmissione. Il fenomeno di ‘‘convergenza’’, tuttavia, non si limita ai profili strettamente tecnologici ma ha implicazioni immediate anche sul piano economico-industriale e su quello politico-normativo: il progressivo accorpamento delle reti esistenti ha infatti innescato un processo di riconversione economica, in cui le strategie delle imprese, i processi di privatizzazione e le alleanze che si stanno determinando, gli accordi sugli standard di produzione e di distribuzione finiscono per condizionare a loro volta le scelte politiche e giuridiche del settore. (2) A. GENTILI, La concorrenza nelle telecomunicazioni, in Dir inf., 1996, 208. (3) Per quanto concerne in particolare il settore delle comunicazioni interpersonali, basti pensare alle grandi possibilità offerte dall’ultima generazione della telefonia cellulare e satellitare (che attraverso le ‘‘carte intelligenti’’ consente di inviare fax, di collegarsi ad Internet, ecc.), dalla convergenza fra telefonia fissa e mobile (come lo standard digitale D.E.C.T., che consente di effettuare e ricevere chiamate in rete fissa in ogni punto del centro urbano, collegandosi alla base tramite una fitta rete di microripetitori), nonché dalle svariate tipologie di comunicazione interattiva realizzabili attraverso Internet (dalla c.d. posta elettronica a forme di conversazione in tempo reale in tutto assimilabili a quelle di tipo telefonico). Su quest’ultimo punto v. la Comunicazione della Commissione europea 98/C 6/04, recante lo ‘‘Statuto della comunicazione vocale su Internet ai sensi della legislazione comunitaria e in particolare della direttiva 90/388/CE’’. (4) Come è noto, la strutturale mobilità e manipolabilità dei dati informatici, motivo del pregio tecnico ma allo stesso tempo dell’intrinseca vulnerabilità degli stessi, ha determinato l’emergere di un articolato complesso di nuovi comportamenti devianti, riconducibili
— 991 — Questo duplice effetto prodotto dalle nuove tecnologie impone di verificare la persistente adeguatezza del sistema di tutela approntato dal codice penale con riferimento alle comunicazioni interpersonali (5). Problemi nuovi sono posti infatti dalle caratteristiche tecniche delle comunicazioni telematiche. Alla difficoltà di tipizzare i comportamenti punibili, si aggiunge sovente la difficoltà di stabilire in concreto le cause dell’evento dannoso e di individuare i soggetti responsabili: ciò a causa di una diffusa frammentazione dei ruoli che mal si concilia con il principio di personalità della responsabilità penale, ma soprattutto a causa del frealla ‘‘magmatica categoria dei computer crimes’’: una categoria dalla difficile definizione e delimitazione, data la pluralità di beni giuridici oggetto di aggressione (il patrimonio, la fede pubblica, la libertà e segretezza delle comunicazioni, ecc.). Sul punto v. ampiamente L. PICOTTI, Commento all’art. 3 della l. 23 dicembre 1993, n. 547, in Leg. pen., 1996, n. 1-2, 64. Più in generale, sui legami tra informatica e criminalità, v. tra gli altri V. MILITELLO, Informatica e criminalità organizzata, in Dir. pen. econ., 1990, 81 ss.; C. SARZANA DI IPPOLITO, Informatica e diritto penale, Milano, Giuffrè, 1994; N. CUOMO-C. TRIBERTI, Criminalità informatica: approvata la legge, in Corriere giur., 1994, n. 5, 538; F. BERGHELLA-R. BLAIOTTA, Diritto penale dell’informatica e beni giuridici, in Cass. pen., 1995, 2329 ss. (5) La scelta di riferire l’analisi alle sole comunicazioni intersoggettive, anziché a tutte le forme di manifestazione del pensiero, potrebbe apparire riduttiva in un momento in cui si parla di multimedialità e di convergenza, in cui le modalità di espressione del pensiero si arricchiscono e si confondono progressivamente, in cui il criterio della determinatezza dei destinatari appare sempre più inadeguato a segnare il confine tra le comunicazioni riservate e quelle ‘‘diffusive’’ di cui all’art. 21 Cost. Eppure sembra a chi scrive che, ai fini di un discorso sugli strumenti di tutela strettamente intesi, gli effetti del citato fenomeno di convergenza non debbano essere sopravvalutati. L’innegabile difficoltà di distinguere in taluni casi le varie forme di comunicazione, certamente rilevante dal momento che l’inquadramento nell’art. 15 o nell’art. 21 Cost. comporta l’applicazione di principi e di garanzie parzialmente diversi (si pensi per tutti alla diversa operatività del limite del buon costume), non elimina comunque la specificità dei problemi che si pongono nell’uno e nell’altro caso. La fondamentale esigenza di riserbo che si pone alla base delle comunicazioni intersoggettive, per le quali non rilevano i contenuti come invece nel caso dell’art. 21 Cost., costituisce il fondamento di alcune scelte punitive specifiche, insopprimibili in qualsivoglia contesto o livello di convergenza tecnologica. In secondo luogo, l’oggetto dell’analisi è stato limitato ulteriormente al sistema di tutela repressiva. Non abbiamo certo dimenticato che un esame degli strumenti di tutela delle libertà fondamentali che si voglia proficuo deve essere condotto alla luce del costante imperativo del principio di effettività; e che questo impone di estendere l’attenzione verso il sistema di interventi di carattere positivo volti a rimuovere o ad attenuare gli ostacoli di tipo economico e culturale che innegabilmente si frappongono al pieno godimento delle libertà (nel nostro caso, si pensi alla disciplina del servizio universale, o al problema delle tariffe per l’accesso ad Internet). Tuttavia, sebbene sl tratti di due aspetti che devono necessariamente coesistere ed integrarsi, ci pare che l’autonomia concettuale e la diversa ratio dei due gruppi di norme consenta una loro analisi separata senza troppo nuocere all’unitarietà di prospettiva che comunque li lega. Per l’approfondimento delle problematiche connesse al principio di effettività e agli interventi di carattere ‘‘positivo’’, sia consentito rinviare ad A. VALASTRO, Prospettive di tutela delle situazioni soggettive nelle telecomunicazioni e garanzie di effettività, in Trattato di diritto amministrativo (diretto da G. SANTANIELLO), vol. XV, 3 Informazione e telecomunicazioni (a cura di R. ZACCARIA), Padova, Cedam, 1998 (in corso di pubblicazione).
— 992 — quente ricorso a tecniche di cifratura e di anonimato che, sebbene essenziali per la sicurezza delle comunicazioni, rischiano in molti casi di paralizzare il sistema punitivo. Ancora più in generale, è la stessa impostazione di fondo della tutela codicistica ad essere messa in discussione dalla sfida tecnologica, ossia la costruzione di quella tutela in termini di garanzia contro le indebite e volontarie intromissioni di terzi secondo lo schema classico delle libertà negative. Così, se in una prima fase l’evoluzione tecnologica ha svolto nei confronti del sistema codicistico un innegabile ruolo propulsore per la revisione di molteplici categorie concettuali, in particolare attraverso le novelle del 1974 e del 1993 (6), in epoca più recente la preoccupazione per i rischi tecnologici ha portato ad accentuare piuttosto il ricorso alla legislazione speciale e a nuovi modelli di responsabilità. La moltiplicazione dei rapporti sociali resa possibile dall’evoluzione tecnologica e la dimensione sempre meno strettamente individuale ed anzi diffusa e generalizzata delle esigenze di tutela, ripropongono la questione dell’opportunità del ricorso alla sanzione penale; riemerge cioè il conflitto tra il principio di extrema ratio del diritto penale e la sua utilizzazione in funzione ‘‘stigmatizzante’’ o simbolica, che tende ad accentuarsi quando si tratta di ‘‘criminalizzare fatti di offensività reale, ma non ancora percepiti come tali dai consociati’’ (si pensi al difficile percorso della tutela dell’ambiente) (7), oppure di ‘‘attenuare il senso di diffusa insicurezza’’ o di vero e proprio allarme sociale prodotto dall’emergere di nuovi fenomeni criminosi (8). Tutto ciò è all’origine di un processo di graduale metamorfosi nelle scelte punitive, e anzi di vera e propria erosione dei connotati tipici del modello classico del diritto penale (9), in cui tende ad accentuarsi la funzione simbolica dello stesso, anche attraverso il ricorso a fattispecie di pericolo astratto. Da questo processo nasce un sistema di tutela che potremmo definire di seconda generazione, il quale si affianca a quello codicistico integrandone la prospettiva, attraverso il rinvio ad elementi normativi extrapenali e l’imposizione di obblighi in positivo (10). (6) Cfr. l. 8 aprile 1974, n. 98, recante norme a ‘‘Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni’’, e l. 23 dicembre 1993, n. 547, recante ‘‘Modificazioni e integrazioni alle norme del codice penale e di procedura in tema di criminalità informatica’’. (7) F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, Cedam, 1992, 216. (8) F. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, II, 461. (9) Cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, 28. (10) A questo proposito v. però le perplessità di E. DENNINGER, Tutela ed attuazione del diritto nell’età tecnologica, in R. RICCOBONO (a cura di), Nuovi diritti dell’età tecnolo-
— 993 — Inoltre, nella prospettiva del sistema complessivo di tutela, si assiste alla valorizzazione della più elastica sanzione civile; con un progressivo spostamento di attenzione verso modelli punitivi che valorizzino la riparazione pecuniaria del danno, anche grazie all’arricchimento concettuale che nozioni come quelle di danno non patrimoniale e di danno biologico hanno conosciuto nella giurisprudenza civilistica degli ultimi anni. Al modello di tutela giurisdizionale si affiancano poi forme più snelle ed elastiche di tutela, come quelle affidate alle moderne autorità amministrative indipendenti. Questa è l’impostazione che caratterizza la normativa recente in tema di telecomunicazioni e dati personali (in particolare la l. n. 675 del 1996 e il d.lgs. n. 171 del 1998) (11), in cui la tutela delle comunicazioni strettamente intese si intreccia con la tutela della riservatezza nell’accezione moderna di diritto alla trasparenza e al controllo dei propri dati. In un panorama giuridico che dunque si arricchisce costantemente, soprattutto in virtù del profondo ripensamento di cui sono oggetto in questi anni le libertà fondamentali, un terzo livello di tutela è infine costituito dall’autoregolamentazione, cui si guarda con crescente favore soprattutto con riferimento ad Internet: invece di una continua imposizione dall’alto di regole giuridiche che rischiano di ‘‘inseguire’’ le nuove tecnologie con norme destinate a rapida obsolescenza, si prospettano soluzioni alternative e più elastiche, con argomenti e proposte che richiamano significativamente il percorso già seguito dalla disciplina dei mass media tradizionali. In questo senso si pongono le già numerose proposte di codici di autoregolamentazione per i servizi telematici, anche se esse ripropongono intatti quei problemi di efficacia ben noti con riferimento alle tante Carte dei diritti oggi esistenti nel settore dell’informazione. La notevole frammentazione che si è prodotta nel settore della comunicazione, con interventi legislativi spesso imposti da iniziative comunitarie o da situazioni contingenti, giustifica allora, e a nostro avviso anzi sollecita, il tentativo di una ricostruzione organica del sistema delle norme penali a tutela delle comunicazioni intersoggettive; e giustifica anche, ci si consenta questa digressione, un rapido cenno alle forme di responsabilità civile, per la significativa valorizzazione che le tecniche risarcitorie hanno gica, Milano, Giuffrè, 1991, 69, secondo il quale il sempre più frequente rinvio alle regole tecniche rischia di legittimare pericolose supplenze amministrative della funzione politico-legislativa, e di tradursi in ‘‘una discussione permanente sui valori limite effettivamente applicati, causa di complicati e interminabili processi’’. (11) Cfr. l. 31 dicembre 1996, n. 675, sulla ‘‘Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali’’; e d.lgs. 13 maggio 1998, n. 171, recante ‘‘Disposizioni in materia di tutela della vita privata nel settore delle telecomunicazioni, in attuazione della direttiva 97/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, ed in tema di attività giornalistica’’.
— 994 — conosciuto nella normativa recente ed il ruolo niente affatto secondario che possono svolgere nella materia in esame. 2. Alcune precisazioni sulle caratteristiche delle comunicazioni interpersonali alla luce dell’art. 15 Cost. — Parlare di comunicazioni intersoggettive, in realtà, non è affatto sufficiente ad individuare l’oggetto delle fattispecie che ci interessano: il carattere dell’interattività, che contraddistingue la maggior parte delle moderne comunicazioni telematiche, fa sì che molte di esse si configurino come comunicazioni intercorrenti fra due o più soggetti determinati, senza che tuttavia possa sempre parlarsi di comunicazioni riservate ai sensi dell’art. 15 Cost. Inoltre, l’intrinseca vulnerabilità di alcune forme di comunicazione telematica ha portato taluno a dubitare della loro meritevolezza di tutela penale, dal momento che l’inidoneità tecnica del mezzo ad impedire le intromissioni di terzi potrebbe implicare la rinuncia alla segretezza da parte dell’interessato. Infine, le esigenze di tutela di chi comunica per via telematica vanno ormai ben oltre la mera segretezza dei contenuti, per abbracciare una serie di aspetti ulteriori del processo comunicativo che si intrecciano col più generale diritto alla riservatezza. Prima di passare all’analisi delle singole fattispecie è dunque necessario premettere alcune brevi considerazioni in ordine all’oggetto giuridico delle stesse, al fine di eliminare fin d’ora alcuni equivoci determinatisi con la comparsa delle nuove forme di comunicazione interattiva; mentre rinviamo ad altra sede una disamina compiuta delle questioni interpretative relative all’art. 15 Cost. e ai suoi rapporti con l’art. 21 (12). (12) Sull’argomento, v. in particolare: P. BARILE-E. CHELI, Corrispondenza (libertà di), in Enc. dir., vol. X, 1962, 743 ss.; P. CARETTI, Corrispondenza (libertà di), in Dig disc. pubbl., vol. IV, 1989, 200 ss.; C. CHIOLA, Manifestazione del pensiero (libertà di), in Enc. giur. Treccani, vol. XIX, 1990, ad vocem; P. COSTANZO, Informazione nel diritto costituzionale, in Dig. disc. pubbl., vol. VIII, 1993; ID., Aspetti problematici del regime giuspubblicistico di Internet, in Probl. inf., 1996, II, 183 ss.; ID., Aspetti evolutivi del regime giuridico di Internet, in Dir. inf., 1996, 831 ss.; ID., Internet e principi costituzionali. Libertà di comunicazione e di espressione, http://www.cirfid.unibo.it/seminar.htm; ID., Le nuove forme di comunicazione in rete: Internet, in Informazione e telecomunicazioni, cit.; G. DI STASI, La tutela costituzionale della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, in Riv. amm., 1994, 1129 ss.; M. GARAVELLI, Libertà e segretezza delle comunicazioni, in Dig. pen., vol. VII, 1993, 429 ss.; P. GIOCOLI NACCI, Libertà di corrispondenza, in Trattato di diritto amministrativo, vol. XII - Le libertà costituzionali, Padova, Cedam, 1990, 107 ss.; V. ITALIA, Libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni, Milano, Giuffrè, 1963; A. LOIODICE, Libertà di comunicazione e principi costituzionali, in Informazione e telecomunicazioni, cit.; R. NIRO, I ponti radio: mezzi di ‘‘comunicazione’’ o mezzi di ‘‘trasporto’’ di programmi destinati alla radiodiffusione?, in Giur. cost., 1988, 5006 ss.; M. OLIVETTI, Brevi note in materia di libertà di comunicazione, in Giur. cost., 1996, 3858 ss.; A. PACE, Commento all’art. 15, in Commentario della Costituzione (a
— 995 — Come è noto, l’art. 15 Cost. riconosce come inviolabili la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione; e mentre in un primo tempo il dibattito dottrinale è stato attratto prevalentemente dalla nozione di corrispondenza (ad esempio con riferimento alle implicazioni del carattere aperto o chiuso della stessa), il vero concettovalvola della disposizione costituzionale è costituito oggi dalla nozione di comunicazione, sufficientemente (e, secondo l’opinione prevalente, volutamente) elastica da ‘‘consentire alla norma di adattarsi agli sviluppi della tecnica e di riuscire a comprendere nuove possibili forme espressive, inimmaginabili all’epoca della redazione del testo’’ (13). Quanto poi alla definizione di comunicazione, se quella contenuta nella disciplina postale (del 1936 e poi del 1973) ha potuto risultare per lungo tempo appagante, in quanto riferita alle comunicazioni telefoniche, telegrafiche e radioelettriche, non è un caso che le istanze di adeguamento di tali categorie siano state avvertite con maggiore urgenza sul piano della legislazione penale, dove il divieto di analogia impedisce di punire comportamenti progressivamente avvertiti come offensivi delle libertà ma che tuttavia non rientrino nelle fattispecie espressamente previste. La l. n. 98 del 1974 ha costituito il primo tentativo di colmare il vistoso vuoto normativo in materia di tutela della riservatezza, libertà e segretezza delle comunicazioni (vuoto, in verità, solo in parte colmato); mentre innovazioni più incisive sono state apportate dalla l. n. 547 del 1993, che ha introdotto le nozioni di comunicazione informatica e telematica. In particolare, la definizione contenuta nell’art. 616 ult. comma è stata aggiornata nel senso che ‘‘per corrispondenza si intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza’’; mentre gli artt. 617quater, quinquies e septies estendono alle comunicazioni telematiche le condotte criminose prima punite soltanto in relazione alle comunicazioni telegrafiche e telefoniche. Ora, se le ‘‘novelle’’ richiamate hanno opportunamente esteso l’oggetto della tutela, accentuando la neutralità dei mezzi rispetto al tipo di comunicazioni effettuate, tuttavia esse nulla dicono circa i requisiti delle comunicazioni tutelate; e si tratta di questione divenuta centrale nell’atcura di G. BRANZA), Bologna-Roma, Zanichelli, 1977, 80 ss.; ID., Contenuto e oggetto della libertà di corrispondenza e di comunicazione, in Scritti in onore di C. Mortati, Roma, 1977; ID., Comunicazioni di massa, in Enc. scienze sociali, Roma, 1992, 171 ss.; ID., Nuove frontiere della libertà di ‘‘comunicare riservatamente’’ (o, piuttosto, del diritto alla riservatezza)?, in Giur. cost., 1993, 742 ss.; L. PESOLE, Sistemi telematici e tutela costituzionale, in Dir. inf., 1990, 711 s.; C. TROISIO, Corrispondenza (libertà e segretezza della), in Enc. giur. Treccani, 1988, vol. lX, ad vocem; A. VALASTRO, I rapporti tra l’art. 15 e l’art. 21 della Costituzione, in Informazione e telecomunicazioni, cit. (13) P. GIOCOLI NACCI, Libertà di corrispondenza, cit., 121.
— 996 — tuale panorama tecnologico, caratterizzato come si è detto dalla versatilità e polifunzionalità dei mezzi telematici. In passato gli interpreti dell’art. 15 Cost., e tra questi la stessa Corte costituzionale, hanno potuto ritenere la determinatezza o determinabilità dei destinatari elemento necessario e sufficiente ai fini della distinzione dall’art. 21, essenzialmente in ragione del fatto che il settore delle telecomunicazioni era caratterizzato da una sostanziale corrispondenza tra mezzo e attività (14). Venuta meno tale circostanza, il criterio della determinatezza dei destinatari mostra tutta la propria inadeguatezza, quantomeno se considerato isolatamente. Da un lato, infatti, i nuovi mezzi consentono di individuare e raggiungere contemporaneamente cerchie molto elevate di destinatari pur determinati (si pensi alla Videoconferenza, o a certe applicazioni della Internet Relay Chat): ma quando la cerchia dei soggetti con i quali il mittente intende comunicare si amplia oltre una certa misura è assai discutibile che possa ancora parlarsi di comunicazione riservata. Allo stesso tempo, vi sono casi in cui neanche la presenza di una cerchia ristretta di soggetti determinati pare sufficiente a qualificare con certezza una comunicazione come inquadrabile nell’art. 15. Si pensi al servizio di Video on demand, che consente all’utente di richiedere la trasmissione di un determinato programma nell’orario desiderato: nonostante che in questo caso l’utente non sia più spettatore passivo ma possa interagire con il gestore del servizio e influire così sulla stessa programmazione, ci pare discutibile che possa parlarsi di comunicazione riservata ai sensi dell’art. 15. Il criterio della determinatezza dei destinatari deve dunque essere integrato da parametri ulteriori, ravvisabili a nostro avviso nella infungibilità e nella delimitazione della cerchia dei destinatari: il primo esprime la necessaria personalizzazione del messaggio in funzione di qualità specifiche del destinatario che assorbono l’elemento della mera identità, con ciò escludendo la riconducibilità all’art. 15 Cost. delle varie forme di televisione interattiva (15); il secondo parametro, pur senza aspirare alla fissa(14) Nella sentenza 15 novembre 1988, n. 1030, in Giur. cost., 1998, 4985, la Corte costituzionale ha considerato decisivo ai fini dell’applicabilità dell’art. 15 anziché dell’art. 21 il fatto che la comunicazione sia effettuata con ‘‘strumenti tipicamente preordinati a realizzare comunicazioni interpersonali e non a diffondere messaggi alla generalità’’; e ha precisato che la distinzione fra gli artt. 15 e 21 ‘‘si incentra nell’essere la comunicazione, nella prima ipotesi, diretta a destinatari predeterminati e tendente alla segretezza e, nell’altra, rivolta invece ad una pluralità indeterminata di soggetti’’. (15) Le modalità trasmissive su cui si basa il sistema di Video on demand sono tali da configurare certamente un rapporto interpersonale; tuttavia la selezione degli utenti non discende affatto da una volontà di segretezza o comunque di comunicazione con soggetti infungibili, bensì soltanto dall’avvenuta constatazione dell’adempimento degli oneri economici richiesti. La selezione del destinatario è dunque determinata da un fattore meramente econo-
— 997 — zione di improponibili limiti numerici all’ampiezza della cerchia di destinatari, esprime la necessaria delimitazione degli stessi, ossia l’adozione di modalità comunicative idonee a selezionare e in certo senso ‘‘separare’’ i propri interlocutori dal resto della collettività (non è tale, ad esempio, l’inserimento di un messaggio in un Newsgroup) (16). Dunque, ove sussistano i requisiti di cui si è parlato, al soggetto verrà garantito il quantum di segretezza reso possibile dalle caratteristiche tecniche del mezzo o giudicato opportuno sul piano legislativo. Ciò discende dalla necessitata considerazione della segretezza quale momento logicamente successivo rispetto all’esplicazione della libertà, la quale a sua volta è identificata dalle caratteristiche della comunicazione e dei destinatari, non dalle caratteristiche dei mezzi: queste ultime possono influire sulla segretezza solo indirettamente, nel senso di portare in taluni casi ad una graduazione dell’intensità della relativa tutela, corrispondente alla maggiore o minore forza delle barriere offerte dal mezzo contro le interferenze di terzi (17). Non ci pare invece condivisibile l’orientamento, pur autorevolmente mico, quale prodotto di una volontà che ha ad oggetto la circolazione del prodotto audiovisivo e il raggiungimento del maggior numero possibile di utenti. La materiale effettuazione della prestazione nei confronti di soggetti determinati si innesta allora nell’ambito di un fenomeno comunicativo assai più ampio, configurandosi come mera fase esecutiva di un processo di manifestazione e diffusione del pensiero riconducibile all’art. 21 Cost.; e le particolari modalità con cui tale fase viene realizzata non possono che essere irrilevanti sotto il profilo dell’inquadramento costituzionale. Da ciò discende, tra l’altro, che il concetto tradizionale di circolarità non costituisce più il requisito essenziale e qualificante della radiodiffusione in sé considerata ma piuttosto una delle possibili forme di esercizio di tale attività, caratterizzata non tanto dal sistema tecnico utilizzato quanto dall’ininfluenza della volontà degli utenti di fruirne in concreto. In questo senso v. in particolare, R. BORRELLO, Pay-tv e circolazione di prodotti del pensiero a vocazione comunicativa, in P. BARILE-R. ZACCARIA, Rapporto ’93 sui problemi giuridici della radiotelevisione, Torino, Giappichelli, 1994, 297 ss.; R. ESPOSITO, La risposta normativa all’evoluzione tecnologica (televisione via cavo e da satellite, pay-tv, trasmissioni digitali, convergenza multimediale), in Informazione e telecomunicazioni, cit. Nel senso dell’inquadrabilità della tv interattiva nell’art. 15 è invece V. ZENO ZENCOVICH, Appunti sulla disciplina costituzionale delle telecomunicazioni, in Dir. inf., 1996, 400. (16) Non si nega che anche la ricostruzione qui prospettata difficilmente potrà risolvere ogni incertezza in ordine all’inquadramento delle nuove forme di comunicazione; e tuttavia le problematiche connesse potrebbero essere in parte ridimensionate se riguardate alla luce di un’interpretazione sistematica degli artt. 15 e 21 Cost., che rilegga le due norme non più come libertà distinte bensì come species dell’unica e più generale ‘‘libertà della comunicazione’’. In questo senso possono vedersi i lavori di A. LOIODICE e A. VALASTRO citati nella nota 12, nonché R. ZACCARIA, Le implicazioni costituzionali, in J. JACOBELLI (a cura di), La svolta della tv, Bari, Laterza, 1997, 196 ss. (17) V. in proposito le efficaci osservazioni di C. CHIOLA, Manifestazione del pensiero, cit., il quale sottolinea la centralità della volontà del soggetto che comunica, affermando che ‘‘l’obbligo di segretezza non potrà sussistere se non in presenza di un vero e proprio rapporto di comunicazione’’. In questo senso v. anche A. CERRI, Telecomunicazioni e diritti fondamentali, in Dir. inf., 1996, 785 ss.
— 998 — sostenuto, per cui sarebbero protette dall’art. 15 le sole comunicazioni ‘‘tecnicamente riservate’’, ossia quelle effettuate con mezzi di per sé non vulnerabili (18): ragionando in questi termini, la segretezza finirebbe per divenire antecedente logico e condizionante della stessa esplicabilità della libertà di comunicazione, con un’inversione di termini che non pare ammissibile né sul piano logico né su quello delle implicazioni pratiche. A parte la contraddizione insita nel subordinare l’applicazione della garanzia costituzionale al fatto che il soggetto ‘‘garantisca’’ esso stesso per primo la propria libertà, nell’ambito dei sistemi telematici un simile argomento porterebbe a subordinare la tutela delle comunicazioni all’adozione da parte dell’interessato di misure di protezione (crittografia, cifratura, anonimato, ecc.). Ma se tale impostazione avrebbe certamente il pregio della maggiore certezza, dal momento che l’adozione di misure di sicurezza esprime in maniera univoca la volontà di comunicare riservatamente, essa potrà accogliersi solo quando esisterà un’adeguata informazione circa i rischi tecnologici e le misure di protezione disponibili nonché un’effettiva e universale accessibilità delle stesse (soprattutto sul piano economico); mentre non pare che questa situazione possa dirsi ancora realizzata, come dimostrano la normativa recente e il dibattito in corso sulla regolamentazione di Internet, ove si pone costantemente l’accento sulla previsione di obblighi di sicurezza e doveri informativi a carico dei service providers. Ove si concordi con questa ricostruzione, il bene giuridico del sistema di tutela penale di cui ci stiamo occupando deve allora ravvisarsi nelle comunicazioni intercorrenti tra soggetti infungibili, previamente e reciprocamente selezionati attraverso mezzi idonei a tale scopo; mentre il grado di vulnerabilità tecnica dei mezzi stessi incide, come si è detto, sul quantum di tutela della segretezza. Come già anticipato, poi, il concetto di ‘‘comunicazione’’ si pone in termini di genere a specie rispetto a quello più limitato di ‘‘corrispondenza’’, in quanto idoneo a ricomprendere tutte le modalità esplicative della libertà di cui all’art. 15 Cost.; ci pare comunque condivisibile la distinzione operata in proposito dalla dottrina penalistica, che riferisce il concetto di comunicazione al momento dinamico della libertà (ossia alle comunicazioni ‘‘in atto’’ tra persone o sistemi telematici) e il concetto di corrispondenza al supporto fisico sul quale viene graficamente fissata la comunicazione (la lettera, il fonogramma, il floppy disk, ecc.). L’utilizzazione di una diversa terminologia, cui corrisponde nel codice penale l’adozione di distinte fattispecie incriminatrici dal contenuto peraltro simmetrico, si giustifica con la necessità di tutelare adeguata(18) Tale orientamento è sostenuto in particolare da PACE e da NIRO, nei lavori citati nella nota 12.
— 999 — mente le due dimensioni (statica e dinamica) della libertà in esame; tuttavia essa non elimina l’unitarietà del bene giuridico-comunicazione, che anzi ci pare accentuata dall’art. 616, 4o comma, che definisce corrispondenza anche quella ‘‘effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza’’. Questa duplice dimensione della libertà di comunicare incide semmai sulla possibilità di evidenziare la gamma degli interessi sottostanti, sulle cui specificità è possibile costruire le tipologie di aggressione penalmente rilevanti. Per quanto concerne il momento dinamico, la libertà di comunicare deve essere protetta sia dagli ostacoli che ingiustificatamente ne impediscono la piena esplicazione sia dalle pressioni di segno opposto. Come tutte le libertà fondamentali, infatti, anche quella in esame deve ritenersi comprensiva di un profilo negativo consistente nella libertà di non esercitare le facoltà tutelate: una libertà di non comunicare che ‘‘si traduce in un più radicale modo d’essere del riserbo’’ (19). A fronte dei moderni sistemi di comunicazione telematica, che consentono serie indefinite di collegamenti e di chiamate, il tradizionale diritto di tacere diventa un ‘‘diritto di non ascoltare’’, ossia di rifiutare contatti comunicativi indesiderati; e non è un caso che i provvedimenti normativi recenti siano assai più attenti che non in passato alle esigenze di tutela di questo specifico profilo. Per quanto concerne invece la segretezza, la protezione costituzionale deve intendersi riferita non solo ai contenuti strettamente intesi bensì al fenomeno comunicativo nel suo complesso e dunque anche ai c.d. ‘‘dati esteriori’’ (le utenze chiamate, la durata dei collegamenti, le passwords, i segni identificativi delle caselle di e-mail, ecc.) (20). Se tali sono i contorni della garanzia costituzionale, da ritenere corrispondenti a quelli del sistema penale dal momento che si verte in tema di diritti fondamentali (ed anzi di ‘‘principi supremi dell’ordinamento’’) (21), non deve stupire che la tutela delle comunicazioni così indivi(19) A. CERRI, Telecomunicazioni e diritti fondamentali, cit., 790. Sul punto v. anche ID., Libertà negativa di manifestazione del pensiero e di comunicazione - Diritto alla riservatezza: fondamento e limiti, in Giur. cost., 1965, 610. (20) Con una pronuncia relativa alle comunicazioni telefoniche ma espressiva di un principio senz’altro riferibile a tutte le comunicazioni riservate, la Corte costituzionale ha infatti affermato che ‘‘l’ampiezza della garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. alle comunicazioni che si svolgono tra soggetti predeterminati entro una sfera giuridica protetta da riservatezza è tale da ricomprendere non solo la segretezza del contenuto, ma anche quella relativa all’identità dei soggetti e ai riferimenti di tempo e di luogo della comunicazione stessa’’: Corte cost., 11 marzo 1993, n. 81, in Giur. it., 1993, 108. (21) Nella sentenza 23 luglio 1991, n. 366, in Giur. cost., 1991, 3260, la Corte costituzionale ha esplicitamente riconosciuto nel ‘‘diritto ad una comunicazione libera e segreta’’ un valore identificativo della personalità umana e dunque ‘‘un valore avente carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal costituente’’.
— 1000 — duate sia rinvenibile talvolta in norme caratterizzate apparentemente da un bene giuridico diverso. In particolare, se le norme introdotte dalla novella n. 98 del 1974 apparivano strettamente orientate alla protezione della libertà e segretezza delle comunicazioni interpersonali oltre che della riservatezza, nella novella n. 547 del 1993 compariva il concetto di sicurezza informatica; mentre i provvedimenti più recenti, in particolare la l. n. 675 del 1996 e il d.lgs. n. 171 del 1998, si inquadrano in un contesto ancora più ampio di interessi tutelati, fra cui primeggiano la riservatezza, la dignità personale, la sicurezza (22). A questo proposito occorre ricordare che il diritto alla segretezza (22) Non a caso l’unitarietà del bene giuridico tutelato dagli artt. 616 ss. del codice penale è stato giudicato da taluni più apparente che reale. Nell’interpretazione dottrinale è infatti prevalsa la tendenza a ravvisare la peculiarità fondamentale della l. n. 547 del 1993 nell’avere conferito dignità di bene penalmente protetto ad un interesse nuovo e diverso rispetto a quelli già tutelati dal codice penale. Si è parlato ad esempio dell’‘‘informazione’’ lato sensu quale autonomo bene giuridico, considerata come una nuova grandezza di base accanto alla materia e all’energia (D. FONDAROLI, La tutela penale dei ‘‘beni informatici’’, in Dir. inf., 1996, 292 ss.; U. SIEBER, La tutela penale dell’informazione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, 492); o ancora del bene informatico come bene immateriale prodotto della manipolazione tecnologica, ‘‘con carattere di diritto reale, ossia di inerenza del diritto al bene che ne rappresenta l’oggetto, di ius in re propria’’ (V. FROSINI, Telematica e informatica giuridica, cit., 62 e 64; ID., Introduzione, in AA.VV., Profili penali dell’informatica, cit., XV); o infine di ‘‘intangibilità informatica’’, per esprimere ‘‘la multiforme esigenza di non alterare la relazione tra dato della realtà, rispettiva informazione e soggetti legittimati a manipolare quest’ultima nelle sue diverse fasi’’ (V. MILITELLO, Informatica e criminalità organizzata, cit., 85; G. CORASANITI, La tutela della comunicazione informatica e telematica, in AA.VV., Profili penali dell’informatica, Milano, Giuffré, 1994, 120). Ma a parte il fatto che in senso contrario a tale impostazione si è esplicitamente orientato il legislatore, rifiutando di costruire un diritto penale dell’informatica quale corpo normativo autonomo, non pare in effetti che il pur comprensibile bisogno di esprimere tutte le peculiarità della variegata fenomenologia informatica entro efficaci sintesi concettuali possa giustificare l’elaborazione di un bene giuridico nuovo e unitario: appare cioè prioritario sottolineare il valore della frammentarietà del diritto penale, ossia la necessità di costruire le fattispecie attorno a ben individuate tipologie di condotte offensive, omogenee e ben stagliate, affinché la legge penale possa conseguire la migliore efficacia e la più completa garanzia (F.C. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione di beni e criteri di criminalizzazione, cit., 456). Ci pare quindi che la pur spiccata funzione economica e sociale del mezzo telematico possa portare semmai a parlare di un bene giuridico più ampio, consistente nell’idoneità tecnica del mezzo telematico a consentire in maniera efficace l’interscambio di dati o di messaggi in generale, e nel quale la riservatezza delle comunicazioni interpersonali è certamente compresa. Per alcuni commenti alla l. n. 547, oltre a quelli già richiamati, v. anche G. D’AIETTI, La tutela dei programmi e dei sistemi informatici, in questa Rivista, 1995, 39 ss.; M. MANTOVANI, Brevi note a proposito della nuova legge sulla criminalità informatica, in Critica del dir., 1994, n. IV, 12 ss.; F. PAZIENZA, In tema di criminalità informatica: l’art. 4 della l. 23 dicembre 1993, n. 547, in questa Rivista, 1995, 7S0 ss.; A. ROSSI VANNINI, La criminalità informatica: le tipologie di computer crimes di cui alla l. n. 547 del 1993 dirette alla tutela della riservatezza e del segreto, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, 431; nonché i commenti di F. MUCCIARELLI, L. PICOTTI, R. RINALDI e L. UGOCCIONI in Leg. pen., 1996, n. 1-2, 57 ss.
— 1001 — sancito dall’art. 15 Cost. si configura come profilo specifico del più generale diritto alla riservatezza: mentre questa attiene ad un’ampia gamma di comportamenti e interessi in vario modo riconducibili ai modi di esplicazione della vita intima della persona, la segretezza ne rafforza le garanzie con riferimento ad alcune situazioni nelle quali si realizza in maniera più immediata la personalità dell’individuo. Nel settore della comunicazione, tuttavia, i noti problemi ingenerati dall’evoluzione tecnologica in ordine alla tutela della riservatezza finiscono sovente per intrecciarsi con quelli relativi alla segretezza, laddove i nuovi mezzi vengano utilizzati per realizzare comunicazioni interpersonali (23). L’affinità contenutistica delle due situazioni soggettive, che comunque non ne esclude la reciproca autonomia, ha implicazioni di rilievo sul piano degli strumenti di tutela, dal momento che ‘‘l’esasperato riserbo, cioè il segreto, se non troverà speciale protezione in quanto tale, riceverà comunque normale tutela in quanto estrinsecazione di riservatezza’’ (24). Di ciò è conferma il d.lgs. n. 171 del 1998, che ha integrato la l. n. 675 del 1996 sul trattamento dei dati personali per far fronte alle esigenze specifiche che la tutela della riservatezza incontra nel settore delle telecomunicazioni, laddove ‘‘i dati personali relativi agli abbonati, trattati per stabilire le chiamate, contengono informazioni sulla vita privata delle persone fisiche e riguardano il loro diritto al rispetto della propria corrispondenza’’ (25). Se dunque, in questo settore, la tutela della riservatezza finisce per essere strumentale alla protezione delle comunicazioni interpersonali, un discorso analogo vale per il concetto di sicurezza, bene giuridico certamente autonomo (si pensi al commercio elettronico, ai servizi di home banking, ecc.) ma anche strumentale rispetto alla privacy degli individui. Si assiste insomma ad un arricchimento della gamma di interessi sot(23) In presenza di tecnologie che sempre più difficilmente consentono di imporre divieti assoluti in favore della riservatezza, approdata come è noto all’accezione moderna di diritto al controllo dei propri dati personali, anche il diritto alla segretezza delle comunicazioni ha visto ampliare la propria portata dalla garanzia contro le interferenze esterne alla garanzia contro la mera divulgazione o l’illegittimo trattamento dei dati: un passaggio che rende tale diritto, come già quello alla riservatezza, non più funzionale all’isolamento dell’individuo bensì piuttosto alla corretta esplicazione della socialità dello stesso, all’instaurazione di rapporti sociali fuori da interferenze e strumentalizzazioni. Non a caso tale diritto viene definito ‘‘elemento essenziale della nuova cittadinanza nell’età della comunicazione’’: Garante per la protezione dei dati personali, Relazione per l’anno 1997, Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l’informazione e l’editoria, 13. In questo senso v. anche S. RODOTÀ, Relazione introduttiva al convegno su ‘‘Internet e privacy - Quali regole?’’, Roma, 8-9 maggio 1998. (24) A. ROSSI VANNINI, La criminalità informatica: le tipologie di computer crimes di cui alla l. n. 547 del 1993 dirette alla tutela della riservatezza e del segreto, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, 443. (25) XVII Considerando della dir. 97/66.
— 1002 — tostanti la libertà di comunicare, che se certamente non incide sul concetto di comunicazione più sopra richiamato assume tuttavia grande rilievo ai fini dell’analisi e dell’aggiornamento delle tipologie di aggressione e degli strumenti di tutela. 3. Le norme del codice penale e la tutela contro i comportamenti illeciti di terzi. — Passando ad esaminare le tecniche di tutela adottate dal legislatore penale, è evidente innanzitutto che l’impostazione qui accolta in ordine alla lettura dell’art. 15 Cost. e ai criteri distintivi delle comunicazioni interpersonali è destinata ad influire direttamente sull’interpretazione delle singole fattispecie. Si pensi ad esempio all’art. 616, 1o comma, che fa discendere un diverso grado di protezione dal carattere chiuso o aperto della corrispondenza, punendo anche la mera ‘‘presa di cognizione’’ nel primo caso, e invece soltanto la ‘‘sottrazione o distrazione’’, ‘‘distruzione o soppressione’’ nel secondo caso. Ebbene, alla luce di quanto detto nel par. 2, il carattere ‘‘chiuso’’ della corrispondenza non può dipendere dall’adozione di misure tecniche di protezione, dovendosi guardare piuttosto alla volontà di esclusione dei terzi quale desumibile dalle modalità trasmissive adottate: se l’invio di un messaggio via e-mail costituisce certamente corrispondenza chiusa, potrebbero considerarsi forme di corrispondenza aperta quelle realizzate attraverso liste di diffusione ad iscrizione non automatica (26). Il codice adotta poi, in ossequio al dettato costituzionale, la citata bipartizione fra il concetto di corrispondenza e quello di comunicazione, riferibili come si è detto al supporto fisico su cui è fissato il messaggio e alla comunicazione in atto fra persone. Ne deriva, ad esempio, che realizza il (26) Il servizio di Mailing list (‘‘lista di diffusione’’), basato su indirizzari tramite i quali è possibile inviare uno stesso messaggio ad una pluralità di destinatari, non si realizza direttamente tra gli utenti ma passa sempre attraverso il gestore della lista, che provvede a smistare i messaggi in arrivo agli iscritti alla lista. Ora, nel caso in cui le liste siano chiuse, nel senso che iscrizioni ultenori non sono ammesse oppure sono subordinate all’accettazione dei soggetti già iscritti, quelle realizzate sembrano configurabili a tutti gli effetti come comunicazioni interpersonali: l’unica differenza rispetto alla posta elettronica consiste nel fatto che si tratta di una corrispondenza plurilaterale e non bilaterale e che i destinatari possono essere raggiunti con un unico invio. Il discorso è più complesso per le liste aperte, assai più numerose, ove gli utenti possono automaticamente inserire o togliere il proprio nome dall’indirizzario senza alcun intervento dell’operatore. Il tipo di finalità che caratterizza questo tipo di liste (creare gruppi di discussione su argomenti di interessi comuni) fa sì che la natura delle comunicazioni realizzate sia difficilmente inquadrabile: se infatti è vero che ciascun messaggio viene sempre inviato da un mittente alle mailboxes di destinatari determinati, tuttavia il fatto che questi possano mutare di momento in momento sembra porre in secondo piano la volontà di comunicare in modo riservato rispetto alla volontà di informare o di informarsi. Sulla polivalenza e le caratteristiche del servizio di Mailing list v. in particolare: C. PETRUCCO, Internet, Venezia, Il Cardo, 1995, 189 ss.; R. RODIO, Interconnessioni tra banche dati e disciplina del consenso nel trattamento dei dati personali, in Informazione e telecomnnicazioni, cit.
— 1003 — reato di intercettazione di cui all’art. 617-quater il fatto dell’utente non abilitato che interrompe o devia il flusso comunicativo o ne carpisce il contenuto, mentre è punibile ai sensi dell’art. 616 chi prende abusivamente cognizione del contenuto di una comunicazione altrui memorizzata in una casella elettronica (27): tale distinzione non è senza rilievo, dal momento che la sanzione comminata dalla prima disposizione è assai più grave di quella prevista dall’art. 616 (la reclusione da sei mesi a quattro anni, nel primo caso, la reclusione fino a un anno o la multa da lire sessantamila a un milione, nel secondo). In realtà, la distinzione fra corrispondenza e comunicazione è stata in parte complicata dalla l. n. 547 del 1993, che ha esteso il concetto di corrispondenza ad ‘‘ogni altra forma di comunicazione a distanza’’ (art. 616, 4o comma), con ciò rendendolo difficilmente distinguibile dall’ambito delle comunicazioni ‘‘tra persone’’ a sua volta esteso a ‘‘qualunque altra trasmissione a distanza di suoni, immagini o altri dati (art. 623-bis) (28). Tralasciando i dubbi sollevati in ordine alla legittimità di quest’ultima disposizione per il ricorso a clausole sostanzialmente analogiche che ne estenderebbero la portata in maniera indiscriminata e senza limiti sufficientemente determinati (29), la lettura sistematica delle due norme dovrebbe portare a ritenere suscettibile di estensione alle comunicazioni di cui all’art. 623-bis anche l’intero ambito dei tradizionali reati concernenti la corrispondenza, ossia gli artt. 616, 618, 619 e 620: con l’assurdo effetto circolare che deriverebbe dall’estensione di tutte le fattispecie concernenti le comunicazioni telefoniche, telegrafiche, informatiche e telematiche non solo ad ogni altra trasmissione a distanza di suoni, immagini o altri dati (art. 623-bis), bensì anche ad altre forme di comunicazione a distanza (art. 616); e l’effetto ulteriore della sostanziale inapplicabilità delle fattispecie a tutela della corrispondenza, data la clausola di sussidiarietà contenuta nei commi 1o e 2o dell’art. 616 (‘‘salvo che il fatto costituisca più grave reato’’). Al fine di attenuare i problemi di sovrapposizione normativa, di concorso di norme e di disparità di trattamento, pare allora più razionale ed opportuno limitare la portata della clausola di chiusura di cui all’art. 623bis alle sole disposizioni concernenti le ‘‘comunicazioni’’ generalmente intese, considerando speciale la nozione di ‘‘corrispondenza’’; anche se ciò non elimina l’incongruenza derivante dal fatto che proprio la corrispondenza, in ragione del suo carattere sicuramente personale e riservato, do(27) Sul punto v. ampiamente R. RINALDI-L. PICOTTI, Commento art. 6 l. n. 547 del 1993, in Leg pen., 1996, n. 1-2, 120. (28) Particolarmente critico in proposito è L. PICOTTI, Commento all’art. 8 della l. n. 547 del 1993, in Leg pen., 1996, 132, che parla di un concetto ‘‘ormai slabbrato’’ di corrispondenza. (29) In questo senso v. per tutti L. PICOTTI, op. ult. cit., 130.
— 1004 — vrebbe essere oggetto di una tutela penale più penetrante, mentre ad essa è riservato il trattamento sanzionatorio più blando (30). Nell’ambito di questa bipartizione di fondo tra corrispondenza e comunicazione, le condotte incriminate sono poi sostanzialmente simmetriche, facendo riferimento sia al momento dinamico del libero esplicarsi della libertà sia al momento statico della segretezza propriamente intesa (31). In particolare, al primo profilo sono dedicati gli artt. 616, 617 e 617-quater, che puniscono la sottrazione, distrazione, soppressione e distruzione di corrispondenza altrui, nonché l’intercettazione. Al profilo della segretezza sono invece dedicati gli artt. 616, 2o comma, 617, 2o comma, 616-quater, 2o comma e 618, che puniscono l’indebita cognizione e la rivelazione del contenuto di corispondenze e comunicazioni. Alla luce di quanto detto nel par. 2, è agevole constatare che le fattispecie codicistiche si caratterizzano per un’impostazione nel complesso più restrittiva rispetto alla gamma di interessi sottostanti la libertà di comunicazione; ciò che peraltro riflette l’impostazione prevalentemente individualistica adottata dal codice con riferimento ai diritti fondamentali in genere, indotta come è noto anche dalle matrici ideologiche e politiche dell’epoca di redazione del codice. Una prima considerazione attiene al fatto che le fattispecie richiamate si basano sull’intenzionalità dei comportamenti puniti, e più in generale sulla tradizionale pretesa ‘‘negativa’’ alla non intromissione di terzi. La (30) Vi è poi chi sostiene, secondo una lettura particolarmente ampia delle potenzialità applicative dell’art. 623-bis, che questo dovrebbe applicarsi anche alle trasmissioni televisive in forma codificata, coma la pay-tv e la pay-per-view, con la conseguenza di ritenere applicabili gli artt. 617-quater e quinquies alle ipotesi di abusiva installazione e attivazione di decodificatori per l’accesso alle trasmissioni televisive al fine di fruizione o di abusiva duplicazione delle stesse: G. CORASANITI, La tutela della comunicazione informatica e telematica, cit., 132. Ma a parte l’ostacolo rappresentato dalla ratio delle disposizioni richiamate, volte alla tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni interpersonali, non può essere trascurato il dato testuale che circoscrive la portata operativa dell’art. 623-bis alle sole norme della sezione in cui esso stesso è collocato; le intercettazioni e comunicazioni illecite di opere audiovisive devono quindi ritenersi soggette, tra gli altri, agli artt. 171, 171-bis e ter della l. n. 633 del 1941, come modificata dal d.lgs. n. 518 del 1992, che non a caso ha esteso alle trasmissioni televisive in forma codificata le sanzioni penali a tutela del software. (31) Mettono in evidenza questa bipolarità delle fattispecie penali C. TROISIO, Corrispondenza, cit., 9; G.M. FLICK, Libertà individuale, in Enc. dir., vol. XXIV, 1974, 551; M. GARAVELLI, Libertà e segretezza delle comunicazioni, cit., 431. Il progetto di riforma del codice penale elaborato nel 1992 prevedeva invece la scissione dei reati contro la libertà e segretezza delle comunicazioni da quelli contro l’inviolabilità dei segreti. Nella relazione di accompagnamento allo schema di legge delega si leggeva infatti che i reati contro la riservatezza delle comunicazioni devono inquadrarsi nell’ambito di una nuova categoria di reati contro la riservatezza, bene emergente della personalità umana, accanto a quelli contro la riservatezza della vita privata (che abbracciano ora i tradizionali reati di violazione del domicilio nonché i reati di immistione nell’altrui vita privata e di rivelazione di notizie private). Sul punto, v. L. SERROTTI, Libertà di informazione e libertà informatica: la tutela della riservatezza, in Informatica e diritto, 1996, 83.
— 1005 — maggiore vulnerabilità dei nuovi strumenti di comunicazione pone invece l’esigenza ulteriore di evitare tout court la possibilità di accesso non autorizzato alle comunicazioni altrui, indipendentemente dall’intenzionalità o meno di tale comportamento; poiché se la repressione degli abusi rimane essenziale, la piena esplicazione del profilo dinamico della libertà di comunicare dipende ancor prima dall’esistenza di garanzie tecniche e giuridiche in ordine alla sicurezza del mezzo comunicativo prescelto (32). In secondo luogo, nella protezione della dimensione dinamica della libertà di comunicare rimane in sostanziale penombra il profilo negativo; mentre è noto quanta importanza rivesta oggi la possibilità di impedire contatti comunicativi indesiderati, soprattutto con riferimento alle comunicazioni di carattere commerciale. Sul versante del diritto alla segretezza, poi, le fattispecie codicistiche proteggono soltanto il nucleo minimo di tale pretesa (il contenuto) e non anche gli altri elementi qualificanti del rapporto comunicativo (i c.d. dati esteriori), la cui rivelazione o illecita utilizzazione può provocare danni di gravità anche maggiore. Un’ultima considerazione deve essere fatta con riferimento ai soggetti attivi dei reati in questione: nelle fattispecie codicistiche la figura dell’operatore telematico (system operator, o più brevemente sysop) non assume una posizione formalmente diversa da quella di qualunque altro soggetto, l’unica conseguenza del possesso di tale qualifica essendo in taluni casi l’aggravamento della pena. L’innovazione introdotta sotto questo profilo dalla l. n. 547 del 1993 non è invero priva di signficato; la qualità di ‘‘operatore del sistema’’, che trova il primo formale riconoscimento nell’ambito del sistema codicistico, ha il pregio di qualificare ‘‘in modo unificante (indipendentemente dalla struttura pubblica o privata di appartenenza) il soggetto che controlla l’intero processo di ricezione, elaborazione e diffusione dei messaggi e dei dati e che ha quindi occasione di influire sulla relativa destinazione o integrità’’ (33). Tuttavia, come già richiamato, l’unico effetto connesso a tale qualifica è l’aggravamento della pena, nell’ambito di reati che rimangono comunque commissibili da chiunque (a parte l’ipotesi dei reati propri di cui parleremo fra breve). Oggi, invece, le accresciute aspettative connesse al mondo della comunicazione impongono di assegnare alla figura dell’operatore un ruolo nuovo e centrale, fondato certamente su divieti di carattere generale ma anche e soprattutto su un sistema più articolato di obblighi di facere. (32) Tale esigenza è chiaramente riconosciuta, da ultimo, nella dir. 97/66/CE, dove si lamenta il fatto che le legislazioni nazionali degli Stati membri vietano generalmente il solo ‘‘accesso intenzionale non autorizzato alle comunicazioni’’ (XVI Considerando). (33) G. CORASANITI, La tutela della comunicazione informatica e telematica, cit., 123.
— 1006 — Non solo, ma l’aggravante in questione compare soltanto nelle fattispecie di cui agli artt. 617-quater e quinquies, creando difficoltà di non poco conto nell’interpretazione sistematica con le altre disposizioni. Il problema si pone in particolare per le fattispecie di reato proprio di cui agli artt. 619 e 620, che puniscono le stesse condotte contemplate nelle disposizioni precedenti allorché siano tenute da persone adette ‘‘al servizio delle poste, dei telegrafi o dei telefoni’’: mentre il contenuto precettivo delle due fattispecie si è evidentemente arricchito in virtù della modificata nozione di corrispondenza cui fanno riferimento e dell’estensione ulteriore prodotta dall’art. 623-bis (34), tale nuovo ambito di operatività rischia di rimanere paralizzato a causa del mancato adeguamento in punto di soggetti attivi del reato. In particolare, si tratta di stabilire se nell’indicazione dei soggetti attivi degli artt. 619 e 620 possa ritenersi compresa anche la figura dell’ ‘‘operatore del sistema telematico’’, e se dunque tali fattispecie possano applicarsi ai vari servizi telematici gestiti da privati: si pensi ai servizi di messaggeria forniti dagli Internet service provider, ai servizi Audiotext e Videotext, ecc. La questione è di particolare rilievo, dal momento che la punibilità dei comportamenti è subordinata ad un collegamento funzionale con l’abuso della qualità di addetto al servizio di comunicazione; e nel nuovo sistema liberalizzato delle telecomunicazioni non è di particolare aiuto la precisazione contenuta nel regolamento postale, per cui ‘‘ai fini degli artt. 619 e 620 c.p. sono considerati addetti al servizio postale, di bancoposta e di telecomunicazioni, oltre agli impiegati dell’amministrazione e dell’azienda, i concessionari dei servizi stessi e gli obbligati al trasporto postale, nonché i loro dipendenti addetti a questo tipo di servizio’’ (art. 9 d.P.R. n. 655 del 1982). D’altro canto, occorre ricordare che vigono in questa materia i divieti di analogia in malam partem. Mentre questioni non dovrebbero porsi per il servizio di posta elettronica gestito dall’Ente Poste (Postel) o per il servizio Videotel gestito da Telecom, in quanto forniti appunto dai gestori ‘‘tradizionali’’ dei servizi postali e telefonici, problemi maggiori si pongono per i soggetti privati fornitori di servizi via Inernet. È vero che le due fattispecie non fanno espresso riferimento al carattere pubblico delle funzioni o dei servizi gestiti, anche se tale carattere (34) Dunque, in virtù del richiamo all’art. 616, 4o comma, devono ritenersi protette dagli artt. 619 e 620 anche le forme di corrispondenza telematica più sopra individuate, come la c.d. posta elettronica o i messaggi inviati attraverso le Mailing lists. Maggiormente problematico sarà stabilire in quale delle due disposizioni far rientrare i singoli tipi di corrispondenza telematica, data la difficoltà di stabilire il carattere aperto o chiuso della stessa: se dubbi non dovrebbero esservi sul carattere chiuso della posta elettronica, le varie forme di comunicazione interpersonale aperta (come le Mailing lists) potrebbero godere della più ‘‘attenuata’’ protezione dell’art. 620, grazie all’estensione prodotta dalla clausola di chiusura dell’art. 623-bis.
— 1007 — sembra di fatto implicato dalla previsione di più gravi sanzioni e della procedibilità d’ufficio; d’altro canto è noto come la natura pubblica dell’attività di telecomunicazione e distribuzione della corrispondenza sia andata progressivamente svanendo sotto l’impulso liberalizzatore della Comunità europea, con riferimento sia all’assetto delle imprese di gestione che all’organizzazione tecnica dei servizi. Muovendo da tali considerazioni vi è allora chi, ricomprendendo pubblico e privato entro un unico sistema di comunicazioni, sia pure con diverse responsabilità economiche e funzionali, ritiene che possa considerarsi unificato il regime penale in ordine agli abusi che possono essere compiuti dagli addetti ai sensi degli art. 619 e 620: abusi ben possibili nell’ambito dei rapporti di concessione o autorizzazione amministrativa, aventi ad oggetto la gestione di servizi o di appositi spazi all’interno di una rete pubblica di comunicazioni (35). È del resto intuitivo che quel dovere di riserbo che il legislatore impone ai soggetti indicati negli artt. 619 e 620 dovrebbe potersi imporre anche ai soggetti privati che gestiscono servizi di comunicazione per via telematica (36). Ma se tali sono le conclusioni cui facilmente condurrebbe il buon senso, il discorso è assai più complesso sotto il profilo dell’interpretazione testuale e sistematica. Data la maggiore gravità delle sanzioni comminate dagli artt. 619 e 620 rispetto a quelle delle corrispondenti fattispecie comuni, l’applicazione delle stesse alla figura dell’operatore telematico configurerebbe un’ipotesi di interpretazione analogica in malam partem certamente non ammessa in campo penale. Occorre del resto ricordare che la l. n. 547 del 1993 ha previsto espressamente l’ ‘‘abuso della qualità di operatore del sistema’’ soltanto nell’art. 617-quater (richiamato dai successivi artt. 617-quinquies e 617sexies). Né pare che possa assumere un rilievo decisivo l’art. 13 del regolamento sul documento informatico (d.P.R. 10 novembre 1997, n. 513), il quale espressamente impone un dovere generale di riserbo in capo a tutti gli operatori telematici; tale disposizione è certamente significativa, anche perché non richiede che il fatto sia compiuto con abuso della qualità, ma difficilmente può conseguire un effetto integrativo della norma penale. Stando così le cose, le violazioni compiute dagli operatori relative alla corrispondenza telematica strettamente intesa saranno punibili ai sensi delle fattispecie comuni di cui agli artt. 616 e 618: si pensi ai casi di abusiva cognizione dei messaggi contenuti nelle mailboxes dei singoli utenti, e alla rivelazione degli stessi ove appresi anche in altro modo ma sempre illecitamente. Per quanto concerne invece le violazioni compiute in danno (35) G. CORASANITI, La tutela della comunicazione informatica e telematica, cit., 116-117. (36) Senz’altro favorevole a tale conclusione è A. CERRI, Telecomunicazioni e diritti fondamentali, cit., 792.
— 1008 — di comunicazioni telematiche in atto tra singoli utenti, pur non potendosi ricorrere ai reati propri di cui agli artt. 619 e 620 sarà pur sempre applicabile la fattispecie aggravata di cui all’art. 617-quater: si pensi al sysop che abusivamente intercetti un messaggio e-mail o che ‘‘ascolti’’ una conversazione in Internet Phone. La conseguenza paradossale è che l’abuso della qualità di operatore telematico finisce per acquistare rilievo solo in questo secondo caso e non anche nell’altro, determinando una disparità di trattamento che appare difficilmente accettabile (37). 4. La normativa recente in tema di dati personali e telecomunicazioni e la tutela contro i comportamenti illeciti del sysop. — Questo rapido excursus sulle fattispecie del codice penale in tema di comunicazione ha consentito di cogliere i principali punti deboli del rapporto fra quelle norme e le attuali esigenze di tutela; come si è visto non vi è sempre corrispondenza fra bene giuridico e fattispecie, soprattutto con riferimento alla gamma degli interessi meritevoli di protezione e al ruolo esercitato dal fornitore dei servizi comunicativi. Alcuni di questi limiti possono oggi ritenersi superati grazie alla l. n. 675 del 1996 e al decreto integrativo n. 171 del 1998, intervenuti massicciamente proprio in punto di soggetti attivi e di condotte punibili, anche se con scelte di politica criminale non sempre esenti da critiche. In realtà, la l. n. 675 del 1996 ha una portata che trascende ampiamente il settore delle comunicazioni interpersonali, avendo ad oggetto la protezione della sicurezza e della riservatezza nel trattamento dei dati personali. Tuttavia, come si è detto, nel settore della comunicazione, e in particolare di quelle telematiche, tali interessi devono ritenersi strumentali alla piena esplicazione della libertà di comunicare, la quale dipende dall’esistenza di sistemi sicuri e tecnologie ‘‘pulite’’ prima ancora che dalla repressione degli abusi (38); tale nesso di strumentalità, che non a caso ri(37) Una fattispecie di reato proprio analoga a quella dell’art. 620 c.p. è contemplata nel disegno di legge presentato il 27 novembre 1996 dal ministro di grazia e giustizia Flick, recante ‘‘Modifiche alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni’’ (Atti Camera, d.d.l. n. 2273 del 1997). Si tratta del nuovo art. 617-septies, che punisce chi ‘‘rivela indebitamente il contenuto di conversazioni o comunicazioni intercettate e coperte da segreto’’, conosciute in ragione del proprio ufficio, servizio o qualità ricoperte in un procedimento penale. Anche questa fattispecie, volta a tutelare la segretezza dei verbali e delle registrazioni non acquisite al procedimento, non punisce la mera avvenuta cognizione delle notizie destinate a rimanere segrete bensì la condotta di indebita rivelazione da parte di soggetti qualificati. Di portata più ampia è invece il 3o comma della norma, che punisce ‘‘chiunque, abusivamente, prenda diretta cognizione delle comunicazioni e conversazioni intercettate, coperte da segreto’’. (38) La centralità del valore ‘‘sicurezza’’ nel settore delle attività informatiche e telematiche è oggetto di particolare attenzione a livello comunitario e internazionale: v. da ul-
— 1009 — flette il rapporto di integrazione esistente fra la l. n. 675 e il decreto n. 171, consente quindi di individuare in tali provvedimenti una serie di fattispecie certamente applicabili anche al settore delle comunicazioni, al di là di denominazioni o formulazioni apparentemente fuorvianti. Tali fattispecie, oltre a porsi a chiusura di un sistema di tutela che privilegia l’aspetto ‘‘procedimentale’’, attraverso il riconoscimento di una serie di diritti e di pretese che anche l’utente di servizi comunicativi può certamente avanzare nei confronti dell’operatore (39), vanno ad integrare il sistema di tutela repressiva del codice penale, che come si è visto si riferisce a modalità aggressive diverse da quelle proprie del trattamento dei dati. L’ampliamento dello spettro di condotte punibili viene tuttavia realizzato secondo canoni in parte diversi da quelli tradizionali: vi è un uso crescente di definizioni legislative e di elementi extrapenali, dovuto al contenuto altamente tecnico della materia; e vi è una progressiva anticipazione della soglia di punibilita attraverso fattispecie modellate sull’accollo di un rischio di lesione e sulla discussa figura dei delitti aggravati dall’evento. Il perseguimento del valore ‘‘sicurezza’’ porta infatti a privilegiare il concetto di ‘‘rischio’’ tra i paradigmi consolidati della causalità, e dunque il ricorso a fattispecie di pericolo astratto, che spostano il criterio imputativo dall’elemento naturalistico dell’evento tipico all’elemento normativo della ‘‘relazione di possibilità tra una condotta umana e l’offesa ad un bene penalmente tutelato’’ (40); con scelte di politica criminale che protimo il Libro Verde sulla convergenza del 3 dicembre 1997, Bruxelles COM(97) 623 def., e la Comunicazione della Commissione sulla sicurezza e affidabilità nelle comunicazioni elettroniche dell’8 settembre 1997, Bruxelles COM (97) 503 def. Per una panoramica sull’argomento, v. tra gli altri, C. SARZANA DI S. IPPOLITO, I problemi giuridici relativi alla sicurezza informatica, in Annuario di diritto delle tecnologie dell’informazione, Torino, 1994, 1318 ss.; ID., Informatica e diritto penale, cit.; ID., Le iniziative internazionali in tema di sistemi crittografici con riferimento alla tutela dei dati personali, in Dir. inf., 1998, 1 ss. (39) Basti ricordare il principio fondamentale del consenso, per cui ogni trattamento di dati personali è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato (art. 11), nonché il diritto di quest’ultimo di richiedere la cancellazione, la trasformazione in forma anonima, l’aggiornamento o la rettifica dei dati che lo riguardano (art. 13). Inoltre, nella prospettiva della pluralità di strumenti di tutela che caratterizza l’approccio moderno ai diritti della personalità, la tradizionale tutela giurisdizionale viene affiancata (seppure in termini di alternatività) dal ricorso al Garante della protezione dei dati (art. 29): un ricorso reso particolarmente apprezzabile dalla specifica professionalità del giudicante, dalla speditezza del procedimento (che deve concludersi entro 20 giorni), dal presidio di una sanzione penale che favorisce l’effettiva attuazione dei provvedimenti del Garante. Sulle caratteristiche e la disciplina del procedimento dinanzi al Garante, v. ampiamente G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza, Milano, Giuffrè, 1997, 470 ss.; F. GUERRA, Gli strumenti di tutela, in V. CUFFARO-V. RICCIUTO, La disciplina del trattamento dei dati personali, Torino, Giappichelli, 1997, 317 ss.; A. LIROSI, Il Garante per la protezione dei dati personali, ivi, 385 ss. (40) V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, 33. Su tali problematiche v. ampiamente G. FIANDACA-E. MUSCO, op. cit., 27 ss.; e C.E. PALIERO, L’autunno
— 1010 — gressivamente trasformano la struttura classica della norma penale, e che riflettono una tendenza peraltro diffusa nella legislazione penale speciale degli ultimi anni (41). 4.1. Le fattispecie di trattamento illecito dei dati e le chiamate ‘‘indesiderate’’. — L’art. 35 della l. n. 675 introduce norme a più fattispecie incriminatrici nei primi due commi e una figura circostanziale aggravata nel terzo, secondo lo schema dei delitti aggravati dall’evento. Il 1o comma, in particolare, punisce il mancato rispetto di alcune regole imposte per il trattamento dei dati personali, ossia il fatto di chi, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento dei dati oppure alla comunicazione o diffusione degli stessi senza il consenso dell’interessato (richiesto in generale dall’art. 11), o in violazione degli altri presupposti equipollenti al consenso indicati negli artt. 20 e 27; il 2o comma punisce invece chi comunica o diffonde dati personali in violazione degli artt. 21, 22, 23 e 24 concernenti il trattamento dei dati sensibili. L’immediata rilevanza di questa disposizione nel settore delle comunicazioni intersoggettive deriva dal fatto che, dopo l’approvazione della l. n. 675, anche i dati esteriori delle comunicazioni devono considerarsi ‘‘dati personali’’, e come tali sottoposti alle norme sul ‘‘trattamento’’: si pensi all’elenco dei dati degli abbonati in possesso del sysop (che comprende di solito i dati anagrafici e il c.d. username, ossia il segno identificativo pubblico assegnato all’utente), al delicato archivio delle password, cioè delle chiavi private che consentono l’accesso al sistema, all’archivio dei log, cioè delle registrazioni automatiche dei principali dati dei collegamenti (essenzialmente al fine degli addebiti). Tuttavia, l’alto numero delle disposizioni richiamate dall’art. 35 del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, 1246 ss. (41) La tendenza a comporre i conflitti sociali con norme speciali anziché con gli strumenti codicistici, che già negli anni trenta Carnelutti denunciava parlando di ‘‘inflazione penale’’ e che solleva numerose questioni di teoria generale sulle quali non è ovviamente possibile soffermarsi, ha portato alla creazione di veri e propri ‘‘statuti speciali’’, ossia di nuclei normativi specializzati in funzione di particolari soggetti o determinate attività. È diffusa tra gli studiosi del diritto penale la preoccupazione che l’abnorme sviluppo della legislazione penale speciale porti allo stravolgimento della funzione del codice. A questo proposito v. in particolare T. PADOVANI, La sopravvivenza del codice Rocco nell’ ‘‘età della codificazione’’, in Questione criminale, 1981, 95, il quale ricorda che ‘‘lo spirito della codificazione... consiste essenzialmente nell’idea di una disciplina dei rapporti giuridici accentrata ed unitaria, guidata da una logica uniforme e capace di esaudire le materie di comune riferimento’’; mentre l’uso eccessivo della legge speciale costituirebbe ‘‘l’indice di un rinascente particolarismo giuridico’’ che rischia di degradare il codice da fonte ‘‘principale’’ e ‘‘comune’’ a fonte ‘‘integrativa’’ e ‘‘sussidiara’’. Sul punto v. anche F. BRICOLA, Considerazioni introduttive, in Questione criminale, 1981, 7 ss.; G. FIANDACA-E. MUSCO, op. cit., 23 ss.
— 1011 — rende alquanto difficoltosa l’individuazione del fatto tipico, rischiando di degradare il diritto penale ad un ‘‘ruolo meramente sanzionatorio’’ (42): la sanzione penale viene apposta per una serie di disposizioni non solo complesse ed eterogenee, ‘‘ma anche congegnate avendo a mente esigenze e schemi propri di un settore affatto peculiare..., e non pensate quali norme destinate anche a svolgere un ruolo determinante nella ricostruzione del fatto tipico penalmente rilevante’’ (43). L’opportuna previsione del dolo specifico potrà in parte contribuire a precisare i contorni delle incriminazioni; tuttavia ciò non elimina le perplessità in ordine all’inquadramento delle fattispecie in esame fra i reati di pericolo o fra quelli di danno. Sebbene infatti il legislatore sembri avere adottato il primo schema tipicizzando il danno come circostanza aggravante (44), è anche vero che il disvalore sostanziale delle singole violazioni può risultare in concreto assai diverso. È stato osservato che alcune condotte (come l’abusiva comunicazione o diffusione di dati sensibili) possono apparire già di per sé idonee a ledere la privacy dell’interessato: con la conseguenza che, in tali casi, ‘‘o l’aggravante di cui al 3o comma dell’art. 35 dovrebbe sempre e comunque ricorrere in relazione a talune manifestazioni del fatto-base (quasi un’aggravante in re ipsa), oppure il nocumento ivi menzionato dovrebbe essere interpretato... come un danno diverso e ulteriore rispetto a quello insito nel fatto stesso della divulgazione contra legem del dato personale’’ (45). Quanto al trattamento sanzionatorio, nel 1o comma il legislatore ha opportunamente graduato la pena a seconda che la violazione riguardi le modalità del trattamento (reclusione fino a due anni) oppure consista nella comunicazione o diffusione dei dati (reclusione da tre mesi a due anni); la potenziale maggiore lesività connessa a questa seconda ipotesi poteva anzi giustificare una diversificazione della pena anche nel massimo (46). Perplessità potrebbero sorgere semmai per il diverso tratta(42) V. in questo senso G. BUTTARELLI, Le definizioni nella tecnica legislativa penale: le regole dell’arte e la loro possibile erosione, in AA.VV., Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale (a cura di A. CADOPPI), Padova, 1996, 134. (43) P. VENEZIANI, Beni giuridici protetti e tecniche di tutela penale nella nuova legge sul trattamento dei dati personali: prime osservazioni, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, n. 1-2, 143. (44) Tale intendimento emerge del resto chiaramente dai lavori preparatori della legge. In dottrina, v. sul punto G. CORRIAS LUCENTE, Sanzioni penali e amministrative a tutto campo per aumentare la tutela del cittadino, in Guida al diritto, n. 4 dell’1 febbraio 1997, 82. (45) Così P. VENEZIANI, op. cit., 144, il quale si chiede peraltro quali spazi possano esservi, nel secondo caso, per una siffatta operazione ermeneutica. (46) Sul punto v. G. CORRIAS LUCENTE, Commento all’art. 35, in AA.VV., La tutela dei dati personali. Commentario alla l. n. 675 del 1996, Padova, Cedam, 1997, 369, che parla di ‘‘scelta raffinata’’ in quanto ‘‘impone al giudice di valutare, per il dosaggio sanziona-
— 1012 — mento riservato, nonostante l’identità della pena prevista, alle condotte di comunicazione e diffusione nel 1o e nel 2o comma (fattispecie aggravata nel primo caso; titolo autonomo di reato nel secondo caso, e dunque escluso dal giudizio di bilanciamento con altre circostanze); anche se tale scelta può ritenersi giustificata dalla maggiore delicatezza connessa ai dati sensibili, cui si riferisce la fattispecie del 2o comma. Posto poi che le fattispecie richiamate si applicano anche al settore delle comunicazioni interpersonali laddove sia in gioco la protezione dei dati degli abbonati e degli utenti, il raccordo con le norme del codice penale è realizzato attraverso la clausola di riserva posta in apertura dei primi due commi dell’art. 35 (‘‘Salvo che il fatto costituisca più grave reato’’). L’ambito di applicabilità dell’art. 35 è stato di recente ampliato dal decreto integrativo n. 171, che ha esteso i principi contenuti nella l. n. 675 ai servizi di telecomunicazione, cioè a quei servizi ‘‘la cui fornitura consiste, in tutto o in parte, nella trasmissione e nell’instradamento di segnali su reti di telecomunicazioni, ivi compreso qualunque servizio interattivo anche se relativo ai prodotti audiovisivi, esclusa la diffusione circolare dei programmi radiofonici e televisivi’’ (art. 1). La nuova disciplina sui dati personali diviene così applicabile a tutte le forme di comunicazione intersoggettiva realizzabili con i nuovi mezzi: si pensi alla comunicazione vocale via Internet, che se ad avviso della Comunità Europea non può ancora farsi rientrare nella definizione di ‘‘telefonia’’ ai fini della diciplina amministrativa e del servizio universale, certamente deve poter godere della stessa tutela penale dal momento che realizza la medesima libertà. Le sanzioni previste dall’art. 35 della l. n. 675 si applicano, innanzitutto, alla violazione delle disposizioni sul trattamento dei dati relativi al traffico. L’art. 4 del decreto prevede che i dati personali relativi al traffico, trattati per inoltrare chiamate e memorizzati dal fornitore di un servizio di torio, estensione e gravità della violazione e del fine’’. Non sembrano invece condivisibili le perplessità avanzate da M. MANTOVANI, Le fattispecie incriminatrici della legge sulla privacy: alcuni spunti di riflessione, in Critica del diritto, 1997, IV, 205 ss., in ordine all’equiparazione tra le condotte di comunicazione e di diffusione ai fini del trattamento sanzionatorio. Tali perplessità muovono dall’asserito ‘‘maggior coefficiente di lesività immanente nella condotta di diffusione’’ rispetto a quella di comunicazione, quale discenderebbe dal carattere indeterminato dei destinatari che la stessa legge assume quale criterio discretivo tra le due condotte (art. 1): tuttavia, se tale criterio può conservare qualche utilità per distinguere le due attività sul piano strettamente tecnico, lo stesso non può dirsi con riferimento al pregiudizio che le due attività possono provocare, potendo in concreto risultare altrettanto nociva una comunicazione mirata dei dati (ad esempio per scopi commerciali). Si è già visto nel par. 2, del resto, come il carattere di determinatezza o indeterminatezza rivesta un ruolo sempre più secondario nella stessa distinzione delle vane modalità comunicative.
— 1013 — telecomunicazioni accessibile al pubblico o dal fornitore della rete pubblica di telecomunicazioni, devono essere cancellati o resi in forma anonima al termine della chiamata, quando non servano per la fatturazione all’abbonato o, in caso di interconnessione, per i pagamenti tra i fornitori di reti; anche in questi casi, comunque, il trattamento è consentito sino alla fine del periodo durante il quale può essere legalmente contestata la fattura o preteso il pagamento, e deve essere effettuato da persone qualificate e sempre identificabili (47). Inoltre, lo stesso legislatore ha indicato in via tassativa le categorie di dati trattabili; anche se la genericità della formula di chiusura (‘‘altre informazioni concernenti i pagamenti’’) è sufficientemente ampia da consentire di fatto il trattamento di ampie serie di dati. Le sanzioni penali di cui all’art. 35 si applicano poi alla violazione degli artt. 9 e 10 del decreto, concernenti rispettivamente gli elenchi degli abbonati e le chiamate indesiderate. L’art. 9 impone agli operatori di limitare l’utilizzo dei dati personali degli abbonati a quanto strettamente necessario per l’identificazione degli stessi, salvo il caso in cui l’abbonato abbia prestato il proprio consenso espresso alla diffusione di dati ulteriori; la stessa disposizione riconosce all’abbonato anche il diritto, da esercitare gratuitamente e con richiesta scritta, ‘‘di non essere incluso negli elenchi, di ottenere che il suo indirizzo sia in parte omesso e, se ciò è fattibile dal punto di vista linguistico, di non essere contraddistinto da un riferimento che ne riveli il sesso’’ (48). L’art. 10 subordina invece al consenso espresso dell’abbonato ‘‘l’uso di un sistema automatizzato di chiamata senza intervento di un operatore (47) Il trattamento è consentito ‘‘unicamente agli incaricati che agiscono sotto la diretta autorità del fornitore..., e che si occupano della fatturazione o della gestione del traffico, di analisi per conto dei clienti, dell’accertamento di frodi o della commercializzazione dei servizi’’. Inoltre, ‘‘il trattamento deve essere limitato a quanto è strettamente necessario per lo svolgimento di tali attività, e deve assicurare l’identificazione dell’incaricato che accede ai dati anche mediante un’operazione di interrogazione automatizzata’’. Per un esame delle problematiche relative al d.lgs. n. 171/98 sia consentito rinviare ad A. VALASTRO, La circolazione dei dati nelle reti di telecomunicazione, in V. CUFFARO-V. RICCIUTO (a cura di), Il trattamento dei dati personali, Vol. II - profili applicativi, Torino, Giappichelli, 1999; e agli Autori ivi richiamati. (48) In realtà, questa disposizione non fa che estendere all’intero settore delle telecomunicazioni la previsione già contenuta nel nuovo regolamento sulla telefonia fissa (d.m. 8 maggio 1997, n. 197), ponendo tra l’altro fine alla diatriba sviluppatasi nella vigenza del precedente regolamento in ordine all’esistenza o meno di un obbligo in capo all’utente di consentire la pubblicazione dei propri dati negli elenchi telefonici. L’orientamento espresso dalla giurisprudenza era stato comunque in senso prevalentemente negativo: v. in particolare Cons. St., sez. II, 22 gennaio 1964, n. 1110, in Foro amm., 1965, I, 2, 424; Pret. Taranto, 7 novembre 1990, in NGCC, 1991, 517. In dottrina, v. per tutti: L. GAUDINO, Contratto di abbonamento telefonico e diritti della personalità, in NGCC, 1991, 520 ss.; N. MAZZIA, Il nuovo regolamento del servizio telefonico: dove va la tutela dei diritti degli utenti?, in Foro it., 1989, I, 270.
— 1014 — o del telefax per scopi di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta, ovvero per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale interattiva’’. Questa disposizione, che mira a proteggere il profilo negativo della libertà di comunicare più che i dati personali di per sé considerati, intende risolvere una volta per tutte il problema, ampiamente discusso negli ultimi anni, della legittimità dello sfruttamento dei canali di comunicazione oneto-one (e in particolare interattiva) per l’invio di messaggi commerciali non richiesti. Nella ricerca di un bilanciamento fra interesse delle imprese e interesse dell’utente, il punto di equilibrio viene trovato nel carattere automatizzato della chiamata, poiché da esso discende una situazione di ‘‘impotenza’’ dell’abbonato e dunque una maggiore invasività della comunicazione commerciale (49). Le questioni più delicate si pongono non tanto per i servizi di telefonia vocale, modesti anche se non ultimi veicoli di comunicazione pubblicitaria (50), quanto per i servizi di posta elettronica, nei confronti dei quali la comunicazione commerciale si atteggia in buona sostanza come un (49) La progressiva diversificazione dei servizi di telecomunicazione, la crescita dell’utenza e l’affinamento delle tecniche di inserimento del messaggio hanno prodotto un rapporto sempre più intenso fra telecomunicazioni e pubblicità: si pensi a messaggi pre-registrati che chi è in attesa di un servizio sia costretto ad ascoltare, o a procedure di accesso a servizi telematici che prevedano il passaggio obbligato attraverso ‘‘schermate’’ di messaggi pubblicitari, inerenti appunto al tipo di beni o di informazioni oggetto del servizio richiesto dall’utente. Non solo, ma la possibilità di raggiungere individualmente il potenziale consumatore con messaggi pubblicitari fortemente personalizzati sulla base di informazioni che il mittente ha sul conto del destinatario (e già desumibili dal tipo di servizi richiesti), pone problemi certamente diversi da quelli relativi alla pubblicità tradizionale che si avvale ancora prevalentemente della comunicazione di massa. Sul punto, v. G. BUSIA, A protezione delle conversazioni via cavo si leva uno ‘‘scudo’’ contro le intrusioni, in Guida al diritto, 1998, n. 24, 21 ss.; nonché, più in generale, V. ZENO ZENCOVICH, La pubblicita nei servizi di telecomunicazione, in Annali del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo (a cura di L. C. UBERTAZZI), V, 1996, Milano, Giuffré, 251. (50) Il mezzo telefonico, per le particolari caratteristiche di bidirezionalità e contestualità della conversazione, viene utilizzato più frequentemente per le attività di c.d. telemarketing, contattando telefonicamente potenziali clienti per proporre l’acquisto di beni o servizi; in questi casi, tuttavia, la comunicazione viene generalmente considerata alla stregua di una proposta contrattuale e dunque attratta nella disciplina delle vendite a distanza, piuttosto che in quella della comunicazione pubblicitaria. Non mancano, comunque, Paesi in cui si è prestata attenzione anche alle implicazioni di tali attività sotto il profilo delle aggressioni alla riservatezza o comunque del possibile disturbo arrecato alle persone. Negli U.S.A., con il Telemarketing and Consumer Fraud and Abuse Prvenotion Act del 16 agosto 1994 (in Public Law N. 103-297) è stato affidato alla Federal Trade Commission (FTC) il compito di regolamentare le televendite realizzate attraverso lo strumento telefonico: si sanzionano gli abusi del mezzo comunicativo e si impone il rispetto di particolari regole di correttezza, che si specificano nell’obbligo di messa a conoscenza dell’intento promozionale della telefonata e nel divieto di sollecitazione tamburellante o in orari di riposo. Per riferimenti più ampi alla disciplina americana in tema di telemarketing, v. A.M. GAMBINO, Gli scambi in rete, in Dir. inf., 1997, 432 ss.
— 1015 — equivalente della pubblicità per corrispondenza. Se da un lato vi è chi propone di assimilare la mailbox alla cassetta delle lettere, così da estendere ad essa le garanzie del domicilio di cui all’art. 14 Cost., vi è poi chi fa notare come l’invio di materiale pubblicitario non sia privo di riflessi anche sul piano economico, ‘‘in quanto può determinare l’occupazione non desiderata di memoria dell’elaboratore e il consumo di materiali per stampa (carta e inchiostro) e di energia elettrica (51). In questo quadro appare allora di grande interesse la soluzione adottata dalla direttiva 97/66, e dal decreto di recepimento: non si vieta in generale la comunicazione commerciale interattiva ma, ove vengano utilizzati sistemi automatizzati di chiamata, la si subordina al consenso dell’interessato, espressamente e previamente manifestato; con una scelta che era stata invero già manifestata dal legislatore comunitario nella dir. 97/7, concernente la tutela dei consumatori in materia di contratti a distanza (v. art. 10). Le chiamate pubblicitarie effettuate con mezzi diversi sono invece consentite nel rispetto dei principi generali della legge sul trattamento dei dati, salvo che l’interessato si dichiari esplicitamente contrario (così anche la dir. 97/7). In questo secondo caso ritrovano spazio le ragioni dell’impresa, e il principio del consenso si converte in quello più debole della possibilità di ‘‘dissenso’’: all’interessato è infatti riconosciuta la possibilità di opporsi al trattamento dei propri dati ‘‘a fini commerciali...’’ (art. 13, 1o comma, lett. e), richiamato dall’art. 12). Un bilanciamento, questo, nel quale si potrebbe ravvisare l’eco della visione comunitaria diretta allo ‘‘sviluppo degli scambi’’ (52), ma che può ritenersi tutto sommato ragionevole grazie al correttivo dell’obbligo informativo posto in capo al titolare, il quale deve informare l’interessato della possibilità di esercitare gratuitamente il diritto di opposizione non oltre il momento in cui i dati sono comunicati o diffusi (53). (51)
Così V. ZENO ZENCOVICH, La pubblicita nei servizi di telecomunicazione, cit.,
253. (52) Di questa opinione è G. MIRABELLI, In tema dr tutela dei dati personali (note a margine della proposta modificata di direttiva CEE), in Dir. inf., 1993, 612. (53) Vale comunque la pena di notare che, al di là dei divieti o dei freni che possano imporre la Comunità europea o le varie legislazioni nazionali, l’attività di marketing in rete si sta sempre di più orientando verso forme di promozione in grado di ‘‘aggirare’’ in certo senso il principio del consenso: si offre all’utente la possibilità di usufruire a prezzo basso o nullo del servizio proposto a patto che egli accetti di comunicare i propri dati, le proprie preferenze e modalità di consumo alle aziende che sponsorizzano il servizio. Si tratta di un espediente che, attraverso la promessa di benefici sui prezzi o sulle modalità di fruizione del servizio, permette di ottenere il consenso dell’ineressato alla raccolta e al trattamento dei propri dati per l’invio di materiale pubblicitario. Sistemi di posta elettronica basati su questo principio sono già in funzione negli Stati Uniti dal 1996: gli abbonati possono spedire e ricevere posta gratuitamente, ma devono compilare un questionario dettagliando i propri usi e consumi; dopo di che nel software di gestione della posta giungerà anche pubblicità persona-
— 1016 — 4.2. Il reato di mancata adozione delle ‘‘misure minime di sicurezza’’. — La tematica della sicurezza riveste, come si è detto, un’importanza centrale nella nuova disciplina dei dati personali e delle comunicazioni elettroniche; per questa ragione il legislatore ha introdotto un quadro composito di previsioni e di livelli di responsabilità. L’art. 36 della l. n. 675, costruito come fattispecie omissiva di pericolo astratto, punisce la mancata adozione delle ‘‘misure minime di sicurezza’’ di cui all’art. 15, 2o comma della stessa legge, ossia degli standard che saranno individuati da apposito regolamento dell’Autorità di garanzia delle comunicazioni e adeguati con cadenza almeno biennale, ‘‘in relazione all’evoluzione tecnica del settore e dell’esperienza maturata’’ (54). Il 1o comma dell’art. 15 contiene invece un obbligo più generale, rilevante solo civilmente, di adottare tutte le misure idonee a ridurre al minimo i rischi di distruzione o perdita anche accidentale dei dati, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta. È interessante sottolineare il riferimento al concetto di riduzione del rischio, che conferma la definizione di ‘‘sicurezza’’ che si è venuta delineando sotto il profilo dello stretto collegamento con la nozione di pericolosità, come dimostra anche il riferimento all’art. 2050 c.c. di cui parleremo più avanti. Le norme in tema di sicurezza sono ora estese dal decreto n. 171 al settore delle telecomunicazioni, e in particolare ai fornitori di servizi accessibili al pubblico nonché ai fornitori di reti pubbliche di telecomunicazioni ove l’esigenza di sicurezza richieda l’adozione di misure concernenti la rete (art. 2) (55). Ora, pur tacendo i noti dubbi suscitati dal ricorso alle fattispecie omissive sul piano dell’offensività, in quanto basate sulla mera violazione del comando legale, perplessità ulteriori sono indotte in questo caso dal lizzata. Per tali richiami v. ampiamente F. CARLINI, Internet, Pinocchio e il Gendarme, Roma, Manifestolibri, 1996, 125 ss. Più in generale, sulle caratteristiche e le problematiche della pubblicità in rete, v. E. GRAZZINI, La pubblicità nelle reti, in Probl. inf., 1996, 38 ss.; G. SAVORANI, La disciplina della pubblicità e delle vendite sul mezzo televsivo e su lnternet: regole sovranazionali, sistemi autodisciplinari e diritto interno applicabile, in Informazione e telecomunicazioni, cit. (54) La bozza di regolamento è leggibile su Intemet al sito www.securteam.it. Gli unici trattamenti a non essere soggetti ai regolamenti in questione sono quelli effettuati dai servizi di informazione e di sicurezza, per i quali le misure di sicurezza sono stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 15, 4o comma), evidentemente al fine di non rendere conoscibile il livello di protezione adottato. (55) In realtà, l’art. 2 del decreto non menziona l’art. 15, 2o comma né l’art. 36 della l. n. 675; tuttavia l’operatività di tali norme anche nel settore delle telecomunicazioni non pare seriamente discutibile, sia perché il decreto n. 171 rinvia alla l. n. 675 per tutto quanto non espressamente previsto, sia perché l’ ‘‘esonero’’ dei fornitori di servizi dall’obbligo di osservare le misure minime di sicurezza costituirebbe un vero monstrum giuridico nell’ambito di una disciplina che fa proprio della sicurezza uno dei suoi cardini.
— 1017 — rinvio ad una fonte regolamentare per la determinazione del contenuto dell’obbligo; anche se il carattere di accentuata tecnicità della materia consente di ravvisare nel regolamento in questione una funzione ineliminabile di puntualizzazione della regola di condotta (56). Senz’altro più discutibile è il trattamento sanzionatorio adottato nell’art. 36, che prevede una pena della stessa entità per la fattispecie dolosa di omessa adozione delle misure minime di sicurezza e per la corrispondente fattispecie colposa (reclusione fino a un anno): la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia del responsabile vengono cioè considerati tanto gravi quanto l’intenzionalità del comportamento. Da questa disposizione, costruita anch’essa secondo la struttura dei delitti aggravati dall’evento poiché la pena è aumentata se dal fatto deriva nocumento, emerge nitidamente la severità con cui il legislatore ha inteso affrontare il problema della sicurezza nel trattamento dei dati; l’equiparazione adottata ha infatti tutto il senso di uno strumento di politica criminale per la sensibilizzazione al valore ‘‘sicurezza’’, che tuttavia stride fortemente con il più generale principio della minore rimproverabilità connessa al fatto colposo rispetto a quello doloso (57). L’art. 36 sarà applicabile soltanto dopo l’emanazione del regolamento dell’Autorità, ossia a partire dall’8 maggio 1999 (dal momento che il decreto deve essere emanato entro centoottanta giorni dall’entrata in vigore della l. n. 675 e le misure dovranno essere adottate entro i successivi sei mesi): fino a quella data, in base a quanto previsto dall’art. 41 recante (56) In questo senso v. P. VENEZIANI, op. cit., 174. Osservazioni particolarmente critiche sul rinvio alla fonte regolamentare sono state manifestate invece da M. PROSPERI, La tutela penale delle informazioni personali: luci e ombre degli artt. 34-37 della legge n. 675/96, in www.privacy.it; e da F. SGUBBI nella Giornata di studio sul tema ‘‘La tutela della riservatezza nella legislazione e nell’esperienza’’, 13 dicembre 1997 (il cui resoconto è pubblicato in Riv. civ. prev., 1998, I, 274 ss.), il quale giudica ‘‘assurdo il richiamo all’art. 15 che a sua volta richiama il progresso tecnico’’, poiché quest’ultimo finisce per essere il parametro del comportamento del cittadino. (57) La dottrina penalistica sembra concorde nel ritenere irragionevole una tale scelta punitiva: v. in particolare G. CORASANITI, Il commento, in Dir. pen. proc., 1997, n. 2, 147; G. CORRIAS LUCENTE, Sanzioni penali e amministrative a tutto campo per aumentare la tutela del cittadino, cit., 82 ss.; C. SARZANA DI S. IPPOLITO, I reati previsti dalla l. n. 675 del 1996, in Atti dei Convengo su Informatica e riservatezza, Pisa 26-27 novembre 1998; P. VENEZIANI, op. cit., 178 ss. Una diversa lettura della norma è suggerita da M. MANTOVANI, Le fattispecie incriminatrici della legge sulla privacy: alcuni spunti di riflessione, cit., 205 ss., il quale propone di intendere ‘‘il fatto di cui al 1o comma’’ (punito a titolo di colpa dal 2o comma dell’art. 36) nella sua globalità, e cioè come omessa adozione delle misure minime di sicurezza da cui sia derivato nocumento all’interessato o a terzi. Si trattarebbe di un reato di omesso impedimento colposo dell’evento, attraverso il quale il legislatore avrebbe inteso colpire il difettoso adempimento dell’obbligo di sicurezza. Ma pare discutibile che il dato letterale della norma possa legittimare una simile lettura, dal momento che quando il legislatore richiama ‘‘il fatto’’ previsto in altro comma o altra disposizione si riferisce solitamente al comportamento base e non a quello aggravato.
— 1018 — disposizioni transitorie, ‘‘i dati personali dovranno essere custoditi in maniera tale da evitare un incremento dei rischi di cui all’art. 15, 1o comma’’, anche se la violazione di quest’obbligo avrà implicazioni soltanto civili (58). 5. La valorizzazione della responsabilità civile quale strumento di prevenzione. — Per quanto riguarda le possibili sinergie tra sanzione penale e sanzione civile, è stato osservato che la nuova disciplina dei dati personali non ha recepito soluzioni di stretto collegamento tra l’una e l’altra, contrariamente alle aspettative di quanti da tempo auspicano l’utilizzazione del risarcimento del danno quale sanzione sostitutiva all’interno del sistema penale (59). Tali aspettative nascono dalle difficoltà applicative che il sistema di tutela penalistico notoriamente incontra con riferimento ai diritti della personalità, a causa di quel carattere di ‘‘inafferrabilità’’ dei beni protetti che mal si concilia col principio di determinatezza delle fattispecie. Il sistema della responsabilità civile pone invece esigenze minori in punto di ‘‘tipicità’’, prestandosi ad offrire una più ampia gamma di strumenti di tutela (60): di qui l’orientamento diffuso che tende a valorizzarne la funzione punitiva o sanzionatoria accanto a quella più tradizionale di tipo risarcitorio, e dunque il possibile ruolo di sanzione autonoma e sostitutiva di quella privativa della libertà personale (61). Pur non inquadrandosi in questa prospettiva più ampia, la l. n. 675 del 1996 contiene comunque disposizioni significative in tema di risarcimento del danno cui vale la pena di accennare. L’art. 18, applicabile naturalmente anche nel settore delle telecomunicazioni e dei servizi comunicativi in genere in virtù del rinvio operato dal decreto n. 171, dispone che ‘‘Chiunque cagiona danno per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile’’. L’interesse di questa disposizione, al di là delle polemiche suscitate (58) Una volta divenuto ‘‘operativo’’, l’art, 36 dovrebbe tra l’altro poter concorrere con la fattispecie di cui all’art. 35, allorché l’operatore proceda al trattamento dei dati senza il consenso dell’interessato e anche omettendo di adottare le misure minime di sicurezza. (59) Così P. VENEZIANI, op. cit., 179. (60) In questo senso v. in particolare: F. BRICOLA, La riscoperta delle ‘‘pene private’’ nell ’ottica del penalista, in Foro it., 1985, V, 6 ss.; ID., Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in AA.VV., Funzioni e limiti del diritto penale - Alternative di tutela, Padova, 1984, 80 ss.; A. MANNA, Tutela penale della personalità, Bologna, 1993, 159. (61) In questo senso v. diffusamente A. MANNA, Tutela penale della personalità, cit., 168 ss.; nonché G. ALPA-M. BESSONE, I fatti illeciti, vol. XIV del Trattato di diritto privato (diretto da P. RESCIGNO), Torino, Utet, 1982, 466, i quali osservano che, ‘‘in quanto impositiva di un risarcimento pecuniario, la reponsabilità civile diviene forma di controllo delle attività dannose’’.
— 1019 — per l’apperente equiparazione del trattamento dei dati alle attività pericolose (62), è determinato dal fatto che, in assenza di tale rinvio, il fondamentale riferimento normativo sarebbe stato quello della risarcibilità per fatto illecito sancita dall’art. 2043 c.c. Il modello di responsabilità sotteso all’art. 2050 c.c., invece, si ispira alla nota teoria del rischio, e si caratterizza per il fatto di accollare al soggetto esercente determinate attività i rischi connessi, imponendo un dovere di diligenza estremamente più ampio di quello normalmente esigibile (63). A carico dell’operatore viene posta così una presunzione di responsabilità che può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, non bastando la prova negativa di non aver violato norme di legge o regole di comune prudenza, ma occorrendo altresì quella positiva di avere impiegato ogni cura e misura atta ad evitare l’evento dannoso (64). (62) In realtà, il passaggio dalla mera constatazione della vulnerabilità tecnica dei sistemi informatici alla sua trasposizione sul piano giuridico in termini di pericolosità non è affatto automatico, anche se l’esplicito rinvio legislativo ha in certo senso reso indifferente la questione alle discussioni sul concetto di ‘‘attività pericolosa’’. Certo è che la qualificazione dell’attività informatica in termini di pericolosità rappresenta una scelta culturale, prima ancora che giuridica, niente affatto facile né immune da vivaci contrasti: se infatti vi è chi teme che il ‘‘timbro’’ incondizionato di pericolosità possa evocare nella coscienza collettiva l’idea distorta del ‘‘mad scientist’’, ossia ‘‘la concezione antica di un’informatica pericolosa in sé, patrimonio incontrollabile di una stretta cerchia di tecnici specializzati’’ (G. BUONOMO, Banche dati, privacy e sicurezza: gli obblighi del gestore, http://wwnv.interlex.com/conv97/buonomo4. htm), la tendenza generale sembra comunque nel senso di costruire il concetto in questione quale attributo della singola attività esercitata o dei dati trattati e non del mezzo impiegato e dunque dell’attività informatica di per sé considerata. Questa sembra anche l’impostazione accolta dalla l. n. 675 del 1996. Sul senso da attribuire al rinvio all’art. 2050 c.c., v. D. CARUSI, La responsabilità, in V. CUFFARO-V. RICCIUTO, La disciplina del trattamento dei dati personali, cit., 374 ss. (63) Il ricorso sempre più frequente al modello della responsabilità per rischio da parte della legislazione speciale è dovuto alla progressiva erosione subita dal principio tradizionale ‘‘nessuna responsabilità senza colpa’’, soprattutto in seguito all’impatto con le teorie economiche di ripartizione del rischio e distribuzione delle perdite. La nozione di rischio si pone così accanto al dolo e alla colpa quale criterio ulteriore e diverso ‘‘di allocazione soggettiva e giuridica del danno ingiusto’’: mentre ‘‘dolo e colpa tendono a cedere l’antico ruolo monolitico nell’imputazione della responsabilità civile’’, il concetto di rischio introduce criteri di imputazione fondati piuttosto su situazioni di ‘‘controllo’’ (di persone, di cose, di animali) o di ‘‘profitto’’, ‘‘talché alla potestà, al potere o al vantaggio corrisponda l’esposizione a responsabilità’’ (Cass. civ., 12 agosto 1991, n. 8772). Nella responsabilità per rischio il risarcimento dei danni diviene insomma strumento di redistribuzione dei rischi e di ripartizione delle perdite, in ossequio ai principi sociali del Welfare State (si pensi alla disciplina della tutela ambientale). Sul dibattito che la responsabilità per rischio ha aperto in dottrina, divisa tra quanti riconducono la stessa ad una sorta di responsabilità oggettiva e quanti invece rifiutano una distinzione netta rispetto alla responsabilità per colpa, v. per tutti: G. ALPA-M. BESSONE, I fatti illeciti, cit., 312; S. RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964; P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961. (64) Cass. civ., 29 aprile 1991, n. 4710; Cass. civ., 27 luglio 1990, n. 7571; Cass. civ., 20 luglio 1993, n. 8069. Quest’ultima sentenza, in particolare, in un caso di produzione
— 1020 — Nel nostro caso ciò significa che le ‘‘misure minime’’ codificate nel regolamento dell’Autorità non esauriscono le ‘‘misure idonee a ridurre al minimo il rischio’’, ma che al contrario il titolare mantiene intatta la propria discrezionalità nella scelta delle misure e nella valutazione della loro idoneità in relazione all’attività svolta. Pertanto, ove un danno sia cagionato per ragioni di sicurezza, il titolare non potrà liberarsi adducendo la mera osservanza degli standard minimi codificati nel regolamento bensì dimostrando di avere adottato ogni altra misura eventualmente disponibile e nota nel periodo di esercizio dell’attività (65). Da quanto detto discende che l’operatività dell’art. 18 non è condizionata dall’emanazione del primo regolamento in tema di sicurezza, a differenza di quanto visto a proposito dell’art. 36 e della responsabilità penale; tuttavia, vale anche sul piano civile la norma transitoria di cui all’art. 41, 3o comma. La responsabilità civile può comunque derivare dalla violazione di altre disposizioni sul trattamento dei dati, primo fra tutti l’art. 9 contenente i principi generali sulla raccolta e i requisiti dei dati personali: nell’art. 18 il legislatore ha infatti adottato una formulazione che mantiene volutamente ‘‘larghe le maglie del giudizio di responsabilità’’ (66), attraverso l’inversione dell’onere probatorio in favore del danneggiato e la mancata qualificazione del danno come ingiusto. L’art. 29, 9o comma, della l. n. 675 afferma poi che il danno non patrimoniale è risarcibile anche nei casi di violazione del citato art. 9: trattandosi di norma non presidiata da sanzione penale, ne deriva un signifie commercializzazione di farmaci ha precisato che la prova positiva a carico dell’esercente l’attività riguarda ‘‘l’adozione di tutti quei metodi di analisi e di controllo che la scienza medica è in grado di esercitare, a prescindere dal costo o dalla perfezionabilità’’. Ricordiamo poi che effetti liberatori possono derivare soltanto dal caso fortuito e dal fatto del terzo o dello stesso danneggiato, ma solo nel caso in cui l’esercente l’attività non abbia adottato le misure e tali circostanze esterne siano tali da escludere in modo certo il nesso causale tra attività pericolosa ed evento, non essendo sufficiente la mera concorrenza nella produzione del danno. Inoltre, il modello di responsabllità di cui all’art. 2050 esime il danneggiato dall’obbligo di provare la natura pericolosa dell’attività, che sarebbe altrimenti a suo carico come invece rimane a suo carico la prova del nesso di causalità tra il danno sofferto e l’attività. (65) L’aspetto più problematico concerne i costi delle misure di protezione e la possibilità o meno di orientare anche ad essi l’adeguatezza del livello di sicurezza. A questo proposito il legislatore italiano ha compiuto una scelta abbastanza rigida rispetto al margine di manovra concesso dalla direttiva 95/46; anche se si deve ritenere, con G. BUTTARELLI, Riservatezza e banche dati, cit., 331 ss., che l’obbligo di adeguamento imposto al titolare incontri il limite della disponibilità su scala delle misure protettive, non potendosi pretendere l’adozione di misure dichiarate fattibili sul piano teorico-scientifico ma non ancora disponibili sul mercato. Occorre poi chiedersi quale sia il margine di fallibilità necessario per ritenere inadeguato un sistema di sicurezza (se cioè sia sufficiente un singolo episodio di aggiramento delle misure). Sul punto v. anche P. NUTI, La l. n. 675 del 1996 e i requisiti di sicurezza: aspetti organizzativi e tecnici, http://wwnv.interlex.com/675/pnuti1 l.htm. (66) D. CARUSI, La responsabilità, cit., 360.
— 1021 — cativo ampliamento dell’ambito di risarcibilità dei danni non patrimoniali così come delineato dall’art. 2059 c.c. (danno morale soggettivo derivante da fatto-reato) (67). Non possono infine dimenticarsi le potenzialità applicative dell’art. 2043 c.c., notevolmente accresciute grazie all’arricchimento concettuale che la nozione di danno non patrimoniale ha subito negli ultimi anni. Come ha efficacemente osservato la Corte costituzionale nella nota sentenza n. 184 del 1986, ‘‘la vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali, svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli della Carta fondamentale che tutelano i predetti valori’’ e che pertanto va esteso fino a comprendere il risarcimento ‘‘di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana’’ (68). La lesione della libertà di comunicazione, riconosciuta dalla stessa Corte quale forma privilegiata di realizzazione della persona (69), deve dunque considerarsi autonomamente valutabile e risarcibile ex art. 2043, comportando la riparazione del danno patrimoniale eventualmente cagionato e di quello non patrimoniale; laddove quest’ultimo dovrebbe discendere già dalla mera lesione del bene protetto (danno-evento) anziché soltanto dalle conseguenze ulteriori eventualmente prodotte dal fatto illecito (67) In realtà, quando si parla di danno non patrimoniale non è affatto scontato il riferimento alla disciplina dell’art. 2059 c.c.; la nozione di danno non patrimoniale deve tenere conto di quella evoluzione dell’illecito extracontrattuale che ha progressivamente esteso l’area dei danni risarcibili rimettendo anche in gioco la linea di confine tra l’art. 2043 e l’art. 2059. L’impostazione tradizionale che leggeva l’art. 2043 come riferito esclusivamente ai danni patrimoniali è stata infatti progressivamente superata da una ormai consolidata giurisprudenza di legittimità (ratificata anche dalla Corte costituzionale), la quale ha ricondotto all’art. 2043 quella particolare figura di danno non patrimoniale che è il danno biologico. Nel caso del citato art. 29, 9o comma della l. n. 675, tuttavia, nonostante si usi la locuzione più ampia di ‘‘danno non patrimoniale’’, il riferimento è palesemente alla figura più circoscritta di danno morale, il solo per il quale occorresse una previsione espressa data altrimenti l’irrisarcibilità dello stesso a causa dell’assenza di reato; mentre la risarcibilità degli altri danni non patrimoniali e dei danni patrimoniali non richiede alcuna menzione espressa, essendo scontata in quanto svincolata dal fatto-reato. Sulle possibili letture dell’art. 29, 9o comma, in relazione alla crisi del pnncipio di risarcibilità del solo danno morale da reato, v. D. CARUSI, La responsabilità, cit., 381 ss. Sull’argomento v. anche: R. CLARIZIA, Legge 675/96 e responsabilità civile, in Dir. inf. 1998, 239 ss.; M. PROSPERI, La responsabilità civile nella legge n. 675/96: il danno cagionato dal trattamento delle informazioni personali, in www. privacy. it. (68) Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 141. (69) Nella sentenza 23 luglio 1991, n. 366, in Foro it., 1992, 3259, la Corte costituzionale ha riconosciuto alla libertà di cui all’art. 15 Cost. il valore di ‘‘principio supremo’’ della Costituzione, in ragione della ‘‘stretta attinenza di tale diritto al nucleo essenziale dei valori della personalità, che inducono a qualificarlo come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana’’.
— 1022 — (danno-conseguenza), come invece sostenuto nell’impostazione più tradizionale. Una prospettiva di tutela ulteriore, facente capo ugualmente all’art. 2043 ma diversamente fondata, discende dalla possibilità di inquadrare la lesione nell’ambito del danno biologico, ed in particolare nella figura del danno alla vita di relazione (70). Inteso generalmente come nocumento che incide sull’esplicazione di attività diverse da quella lavorativa normale (come le attività ricreative e sociali) e che si risolve nell’impossibilità o difficoltà di reintegrarsi nei rapporti sociali e di mantenerli ad un livello normale (71), tale figura di danno dovrebbe senz’altro ravvisarsi nella violazione della segretezza delle comunicazioni, in quanto situazione soggettiva funzionale proprio alla tutela della vita relazionale degli individui. Non a caso, la risarcibilità del danno biologico nella forma del danno alla vita di relazione è ormai in linea di principio riconosciuta per la lesione del diritto alla riservatezza, matrice del più specifico diritto di cui all’art. 15 Cost. (72). Dunque, se la tutela aquiliana della libertà di comunicazione può per(70) Dovendo necessariamente schematizzare una problematica che meriterebbe ben più ampio approfondimento, basti ricordare che la giurisprudenza ha progressivamente individuato una serie di figure interne o sintomatiche volte a specificare il danno biologico, manifestando nel contempo una tendenza a valutare in maniera più elastica la necessità della lesione psico-fisica. In particolare, il collegamento dell’integrità psico-fisica con la ‘‘somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto... ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica’’ ha portato a considerare anche le attività umane di tipo ricreativo nonché la capacità lavorativa generica (come potenziale attitudine lavorativa). In questo senso v. per tutte Cass. civ., 20 dicembre 1988, n. 6938, in Resp. civ., 1989, 1173. Una chiara enunciazione delle varie figure interne al danno biologico è operata da Trib. Milano, 25 gennaio 1990, in Arch. circolaz., 199, 398. (71) V. ad esempio Cass. civ., 21 marzo 1995, n. 3239. Dubbi permangono sul totale assorbimento del danno alla vita di relazione in quello biologico o sulla pemmanenza all’interno dello stesso di un profilo patrimoniale autonomamente valutabile e risarcibile; l’orientamento di gran lunga prevalente è comunque nel primo senso (v. le sent. n. 3239/1995; 1955/1995; 12958/1991; 11133/1001; 6536/1991; 2761/1991; 1341/1991. Contra: sent. n. 755/1995 e 1328/1991). (72) Sul punto v. per tutti Corte App. Trieste, 13 gennaio 1993, in Dir. inf., 1994, 528, che ha riconosciuto il danno alla vita di relazione nelle ‘‘notevoli limitazioni di movimento e nella conseguente riduzione dell’attitudine ad affemmarsi nel consorzio umano, sia a livello scolastico che fuori della famiglia in genere’’, cagionati dalla pubblicazione non autorizzata di fotografie e dalla conseguente prolungata ingerenza di giornalisti e fotografi nella vita privata dei soggetti lesi. In realtà, l’inclinazione della giurisprudenza a riconoscere nelle compressioni della vita relazionale un danno biologico ‘‘saltando’’ il presupposto della lesione dell’integrità psico-fisica non è affatto immune da critiche. In questo senso v. ad esempio P. ZIVIZ, Danno biologico oltre la salute: una prospettiva fuorviante, in Giur. it., 1994, I, 2, 358 ss., la quale critica il fatto che il danno conseguente alla ritenuta lesione della riservatezza sia stato ricondotto dalla Corte al danno alla vita di relazione, e da questo al danno biologico, pur nella consapevolezza che non risultavano lesioni psichiche del soggetto offeso.
— 1023 — correre entrambe le vie qui richiamate (tramite il collegamento dell’art. 2043 direttamente con l’art. 15 Cost. oppure con l’art. 32 Cost. e la figura del danno biologico), la praticabilità di quest’ultima via può produrre implicazioni significative sul piano pratico, quantomeno perché consente di applicare uno strumentario più articolato e consolidato in punto di valutazione e liquidazione del danno (73). 6. L’individuazione dei responsabili e il problema dell’anonimato. — Per concludere questo rapido excursus sulle principali questioni legate alla tutela delle comunicazioni interpersonali, alcune considerazioni devono essere fatte in ordine all’individuazione dei soggetti attivi delle varie fattispecie di illecito esaminate; tematica che presenta svariate sfaccettature, e che si connette in certi casi ad un’altra delicata questione, quella dell’anonimato. Il problema si pone in termini diversi per le violazioni punite dal codice penale, che come si è visto si rivolgono ai terzi in generale, e per la normativa recente in tema di dati personali e di sicurezza, che introduce invece una serie di obblighi specifici in capo agli operatori telematici. Muovendo per comodità dal secondo aspetto, nell’esame delle fattispecie di illecito introdotte dalla l. n. 675 e dal successivo d.lgs. n. 171 si è parlato genericamente di titolare del trattamento e di fornitore di servizi di telecomunicazioni, mentre qualche precisazione deve essere ora introdotta in ordine all’individuazione della persona fisica in concreto responsabile. Il principio di personalità della responsabilità penale, infatti, non consente di ancorare la responsabilità semplicemente alla ‘‘posizione’’ del soggetto, ove a questo non siano imposti espressamente doveri di controllo e di garanzia. La l. n. 675 definisce ‘‘titolare’’ la persona fisica o giuridica e gli organismi in genere ‘‘cui competono le decisioni in ordine alle finalità e alle modalità del trattamento di dati personali, ivi compreso il profilo della sicurezza’’ (art. 1, lett. d); e abbiamo visto, anche alla luce del d.lgs. n. 171 del 1998, che il service provider deve considerarsi ‘‘titolare’’ del trattamento dei dati personali degli utenti necessari per la realizzazione dei ser(73) Occorre infatti ricordare che i criteri di liquidazione del danno correntemente applicati sono essenzialmente tre: il metodo c.d. ‘‘genovese’’ o del triplo della pensione sociale, quello c.d. ‘‘pisano’’ o della liquidazione per punti, e il metodo equitativo puro. Ora, mentre per i danni non patrimoniali cagionati dalla lesione di beni della personalità viene normalmente applicato il metodo equitativo, in quanto si tratta di danni dificilmente quantificabili, per il danno biologico il metodo di gran lunga più diffuso è quello basato sui punti di invalidità; e sebbene vi sia notevole differenza fra le tabelle adottate dai singoli tribunali in ordine agli importi assegnati a ciascun punto di invalidità, le somme così liquidate sono di fatto maggiori di quelle liquidate in base al metodo equitativo. Per ulteriori ed esaustivi chiarimenti sul metodo di liquidazione del danno biologico, v. per tutte Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 1996, n. 1198, in Giur. it., 1997, 354 ss., con osservazioni di T. LOVREGLIO.
— 1024 — vizi di telecomunicazioni (passwords, logs, ecc.). Per quanto riguarda invece i dati personali contenuti in messaggi inviati per posta elettronica, la dir. 95/46 ha affermato chiaramente che ‘‘titolare’’ del trattamento non è la persona che effettua il servizio bensì colui che ha elaborato e inviato il messaggio (Considerando n. 47); distinzione che ha implicazioni immediate sul piano dell’accertamento delle responsabilità per i reati telematici. Il Garante dei dati personali ha poi precisato che la qualifica di titolare deve intendersi riferita alla struttura nel suo complesso e non alle persone fisiche che la gestiscono o la rappresentano; e che nel caso di grandi enti o amministrazioni le singole articolazioni possono a loro volta essere considerate come ‘‘titolari’’ o ‘‘contitolari’’ del trattamento (Comunicato 11 dicembre 1997). Tuttavia, se riguardata in chiave penalistica, tale definizione di ‘‘titolare’’ stride fortemente con il principio di personalità della responsabilità, facendo riferimento anche alle persone giuridiche, alla P.A. e a qualsiasi altro ente, associazione od organismo. Ciò significa che il meccanismo di imputazione dell’attività dovrà essere mutuato dallo schema organizzativo in concreto adottato dall’ente, e dalle potestà decisionali che siano affidate in ordine alle singole attività o articolazioni dell’ente. Nelle fattispecie punite dagli artt. 35 e 36 il responsabile deve dunque individuarsi nella persona cui competono le decisioni in ordine alle finalità e alle modalità del trattamento, ivi compreso il profilo della sicurezza. In questa prospettiva è destinata ad assumere un rilievo centrale la figura del ‘‘responsabile del trattamento’’, cioè del soggetto a cui può essere affidata, per la sua esperienza e capacità, la concreta gestione e la vigilanza sulla sicurezza delle banche dati (art. 8, 1o comma). Evidenti sono i punti di contatto con la tematica della delega di funzioni, i cui principi devono ritenersi sostanzialmente recepiti dalla legge in esame (ad es. la necessità di forma scritta), anche se con portata tutto sommato più circoscritta per quanto riguarda gli effetti liberatori. Infatti, laddove afferma che ‘‘il responsabile procede al trattamento attenendosi alle istruzioni impartite dal titolare’’ e che questo, ‘‘anche tramite verifiche periodiche, vigila sulla puntuale osservanza delle disposizioni’’ sulla sicurezza e delle proprie istruzioni, (art. 8, 2o comma), la legge sembra introdurre un sistema di ‘‘verticalizzazione’’ della responsabilità (74); un sistema, cioè, che al fine di evitare facili traslazioni di responsabilità dall’uno all’altro soggetto pone il titolare in una posizione di garanzia inquadrabile fra quelle aventi ad oggetto l’impedimento di reati di terzi (75). (74) G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza, cit., 539 (e, più in generale, 1675 s.). (75) Cfr. M. MANTOVANI, Le fattispecie incriminatrici della legge sulla privacy, cit.,
— 1025 — Vi è poi una terza figura, quella dell’ ‘‘incaricato del trattamento’’ di cui all’art. 8, 5o comma, il quale deve elaborare i dati cui ha accesso attenendosi alle istruzioni del titolare o del responsabile; ma non pare che l’attribuzione di alcune competenze agli incaricati possa sortire effetti liberatori nei confronti del titolare o del responsabile, data l’assenza di quei requisiti di idoneità cui è invece legata l’efficacia liberatoria della delega al responsabile. Se dalle fattispecie di illecito relative agli operatori telematici passiamo ora a quelle più generali contemplate nel codice penale, la questione dell’identificazione del responsabile si pone in termini diversi. Mentre infatti problemi particolari non sorgono quando è il sysop a violare la corrispondenza altrui o ad interrompere o intercettare la comunicazione in atto fra altre persone, assai più frequenti sono gli illeciti compiuti da altri utenti che usufruiscono della rete telematica in forma anonima. In altre parole, se da un lato si è visto che la normativa recente è particolarmente attenta alle esigenze di protezione della privacy e del profilo negativo della libertà di comunicare, riconoscendo all’utente il diritto di mantenere celati i propri dati e la propria identità, d’altro canto tale diritto si scontra con l’esigenza di repressione dei reati informatici e di individuazione dei relativi autori. Non solo, ma accanto all’anonimato vengono in rilievo le varie forme di cifratura dei messaggi che, seppure incoraggiate dalla stessa Comunità Europea al fine di accrescere la sicurezza delle operazioni telematiche, al tempo stesso ostacolano appunto l’individuazione e la repressione dei reati. In questo contesto, il problema che si pone con riferimento ai sysops è se siano ravvisabili in capo ad essi forme di responsabilità accessoria o per omesso controllo analoghe a quelle vigenti in materia di stampa o di radiotelevisione (76). Anche a fronte dei nuovi mezzi di comunicazione telematici è infatti 195; ed in senso analogo P. VENAZIANI, op. cit., 160. Sul punto, v. anche L. BOZZI, I soggetti coinvolti nell’attività di trattamento, in V. CUFFARO-V. RICCIUTO, La disciplina del trattamento dei dati personali, cit., 111 ss.; D. COLIVA, Il problema dell’identificazione del soggetto titolare del trattamento, http://www.interlex.com/675/coliva4.htm. Sul profilo della delega di funzioni, v. in particolare A. ZAMPETTI, I soggetti del trattamento dei dati: ambiti di competenza, esercizio e limiti della delega di funzioni, in www.privacy.it, il quale esattamente osserva « che l’aspetto più importante introdotto dalla nuova legge... non risiede tanto nell’aver individuato nuove responsabilità o nuovi adempimenti a carico delle imprese, quanto nell’aver tracciato le linee per l’impostazione di una metodologia organizzativa aziendale sul problema ». (76) Per quanto concerne la responsabilità dell’autore materiale dell’illecito, invece, essa non presenta alcuna peculiarità per il fatto che sia stato utilizzato il mezzo telematico, salvo atteggiarsi diversamente a seconda del tipo di comunicazione adottato (ad esempio, ingiuria o diffamazione a seconda che si tratti di comunicazione riservata o diffusiva).
— 1026 — ravvisabile quella ‘‘tendenza espansiva della responsabilità’’ (77) che caratterizza oggi la disciplina penale della comunicazione di massa. Si pensi all’art. 57 del codice penale e all’art. 30 della l. n. 223 del 1990, concernenti rispettivamente la responsabilità per omesso controllo del direttore e del concessionario radiotelevisivo: oggetto della sanzione è l’agevolazione di un altrui fatto illecito, costruita in termini omissivi attraverso la previsione di un obbligo di intervento e volta a costituire un presidio di rafforzato controllo sui contenuti della pubblicazione o della trasmissione. Tuttavia tali forme di responsabilità sono strettamente condizionate alla possibilità di controllo preventivo sui contenuti delle notizie divulgate o trasmesse; il discorso deve pertanto essere diverso per gli illeciti compiuti attraverso le comunicazioni riservate ex art. 15 Cost. (ad es. ingiurie o invio di materiale osceno), e per gli illeciti compiuti attraverso le altre forme di comunicazione e diffusione del pensiero. Questa impostazione discende con chiarezza dai numerosi interventi della Comunità Europea sul tema, dai quali emerge che il problema posto dall’anonimato non risiede nella legittimità o meno dello stesso bensì nell’estensione che deve riconoscersi al relativo diritto, distinguendo i vari tipi di comunicazioni elettroniche (78). Per quanto concerne le comunicazioni interpersonali, e in particolare quelle via e-mail, l’esistenza di anonymous options è giudicata ‘‘essenziale affinché gli individui possano godere on-line dello stesso livello di protezione generalmente assicurato of-line’’ (79). In questi casi, ove sia compiuto un reato e l’autore sia rimasto ignoto, non può essere prevista alcuna forma di responsabilità ulteriore in capo al provider, dal momento che egli si limita a fornire l’accesso alla rete e ai propri servizi ignorando del tutto il contenuto dei messaggi inviati; oltre alla materiale difficoltà di operare un controllo effettivo sull’enorme quantità dei messaggi scambiati attraverso ogni server, l’eventuale cognizione del contenuto della corrispondenza elettronica integrerebbe comunque il reato di cui all’art. 616 c.p. Né potrebbero ammettersi sistemi di filtraggio automatico dei messaggi in entrata e in un uscita, in grado di operarne l’automatica cancellazione ove ricorrano determinate parole chiave (80): a (77) Così S. SEMINARA, La pirateria su Internet e il diritto penale, in Annali del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo (a cura di L.C. UBERTAZZI), V, Milano, Giuffrè, 1996, 204. (78) Sull’argomento, oltre a quanto previsto dalla dir. 97/66 e dal d.lgs. n. 171 in ordine al meccanismo di CLI (calling line identification), che riconosce all’utente il diritto di eliminare la presentazione della linea da cui chiama (anche se opportunamente bilanciato dal diritto del chiamato di respingere chiamate anonime), si veda da ultimo la Raccomandazione n. 3/97 del Gruppo di lavoro istituito dalla dir. 95/46 sui dati personali: L’anonimato su Internet, XV, D/5022/97. (79) Raccomandazione 3/97, cit., 10. (80) Il più noto di questi sistemi è il Pretty Good Privacy. Per un’ampia panoramica
— 1027 — parte la scarsa efficacia di tali sistemi e soprattutto i rischi di involuzione censoria, la ratio dell’art. 15 Cost. è proprio quella di impedire forme di limitazione preventiva della libertà di comunicazione basate sul controllo dei contenuti. Un discorso analogo dovrebbe valere per le forme di comunicazione aperta inquadrabili nell’art. 15, quali sono ad esempio le conversazioni in tempo reale tra un numero circoscritto di persone e, a nostro avviso, le Mailing Lists ad iscrizione non automatica. In questi casi, una responsabilità dell’operatore potrà semmai ricorrere sul piano concorsuale, ove sia dimostrabile la consapevole agevolazione dell’altrui realizzazione dell’illecito (81). Considerazioni del tutto diverse valgono invece per le forme di comunicazione o diffusione del pensiero inquadrabili nell’ambito dell’art. 21 Cost., come i BBS, i Newsgroups o le pagine Web. La comunicazione assume qui il carattere della diffusione ad un numero difficilmente definibile e assai elevato di soggetti, e presenta un potenziale di diffusività delle notizie che la accomuna alla radiotelevisione e alla stampa; e un’esigenza basilare di razionalità vuole che la stessa notizia offensiva sia sottoposta ad analoga disciplina indipendentemente dal mezzo con cui è diffusa (82). In questi casi una responsabilità dell’operatore non può escludersi; sui c.d. sistemi di filtraggio, v. la Comunicazione della Commissione Europea sulle ‘‘Informazioni di contenuto illegale e nocivo su Internet’’, del 16 ottobre 1996, in Gulliver, 1997, n. 1-2, 27 ss. (81) In questo senso v. per tutti: B. DONATO, La responsabilità dell’operatore di sistemi telematici, in Dir. inf., 1996, 146 ss.; R. RISTUCCIA-L. TUFARELLI, La natura giuridica di Internet e le responsabilità del provider, http://www.interlex.com//regole/ristufa.htm; S. SEMINARA, La pirateria su Internet, cit., 209. Sul punto v. però le giuste osservazioni di S. SEMINARA, op. ult. cit., 211 ss., il quale avverte che l’attività del provider presenta un contenuto assolutamente neutro e in sé consentito dall’ordinamento giuridico: pertanto i ‘‘connotati di liceità o illiceità vanno ricercati nelle modalità di svolgimento del servizio stesso e possono attingersi all’esterno solo quando siano assistiti da un dolo di partecipazione particolarmente intenso e da un’oggettiva possibilità di impedire la commissione del reato’’; mentre dovrà evitarsi ogni apertura che possa risolversi in un illimitato onere di controllo e di impedimento di altrui illeciti in capo al provider. (82) Questione diversa è se la comune potenzialità lesiva dei vari mezzi di comunicazione possa anche giustificare una totale parificazione dei regimi sanzionatori: tale è ad esempio la soluzione prescelta dal ‘‘Progetto di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale’’ del 1992, il cui art. 31 indifferentemente prevede ‘‘la punibilità del responsabile della pubblicazione o della trasmissione che, fuori dei casi di concorso, omettendo di controllare il contenuto della pubblicazione o della trasmissione, non impedisce per colpa che col loro mezzo sia commesso un fatto di reato’’. Ma ad ostacolare soluzioni di questo genere si pongono differenze strutturali e organizzative di cui non può non tenersi conto nell’individuazione dei responsabili: v. per tutti L. FIORAVANTI, Statuti penali dell’attività televisiva, Milano, 1995, 230 e 328 ss.; T. PADOVANI, Commento all’art. 30, in V. ROPPO-R. ZACCARIA (a cura di), Il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, Milano, Giuffrè, 1991, 504 ss.; S. SEMINARA, La pirateria su Internet, cit., 210; A. VALASTRO, Le sanzioni penali, in Trattato di diritto amministrativo (a cura di G. SANTANIELLO), vol. XV, 2 - La radiotelevisione (a cura di R. ZACCARIA), Padova, Cedam, 1996, 694 ss.
— 1028 — per l’individuazione degli strumenti giuridici più adeguati, sui quali il dibattito è tuttora aperto, si dovrà tuttavia valutare il ruolo effettivamente esercitato dall’operatore nella diffusione delle notizie, nonché risolvere alcuni problemi relativi ad esempio all’opportunità di sottoporre ad un medesimo regime di responsabilità i provider amatoriali e quelli commerciali, o all’effettiva equiparabilità di certe forme di attività telematica all’attività editoriale (83). L’approfondimento di tali questioni non è comunque possibile in questa sede, attenendo ad un profilo dell’attività telematica che esula dal tema delle comunicazioni interpersonali. L’aspetto su cui si deve porre l’accento è invece quello dell’estensione del principio di inviolabilità della corrispondenza e delle comunicazioni intersoggettive anche nei confronti dell’operatore telematico, il quale può essere reso responsabile del corretto svolgimento delle comunicazioni interpersonali ma mai del contenuto di queste (84). Il bilanciamento con le esigenze di giustizia può essere realizzato, semmai, attraverso una forma di graduazione del diritto all’anonimato generalmente indicata come ‘‘anonimato protetto’’, ossia un anonimato temperato dall’obbligo di fornire i propri dati al service provider. Il diritto dell’utente di mantenere celata la propria identità potrebbe cioè esplicarsi nella fruizione dei servizi ma non anche nell’accesso al mezzo; e ciò con(83) Sulla questione della responsabilità dell’operatore telematico per gli illeciti compiuti attraverso Internet, in casi ovviamente diversi da quelli concernenti le comunicazioni interpersonali, v. tra gli altri: M. CAMMARATA, L’informazione su Internet e le leggi sulla stampa, www.eureka.it/interlex/regole/mcstampa.htm; P. COSTANZO, Le nuove forme di comunicazione in rete: Internet, cit.; ID., Stampa (libertà di), in Digesto, vol. XIV Pubblicistico, 1998; C. DE MARTINI, Telematica e diritti della persona, in Dir. inf., 1996, 847 ss.; B. DONATO, op. cit., 135 ss.; S. MAGNI-M.S. SPOLIDORO, La responsabilità degli operatori in Internet: profili interni e internazionali, in Dir. inf., 1997, 61 ss.; C. SARZANA DI S. IPPOLITO, I riflessi giuridici delle nuove tecnologie informatiche, in Dir. inf., 1994, 501 ss.; V. ZENO ZENCOVICH, La pretesa estensione alla telematica del regime della stampa, in Dir. inf., 1998, 15 ss. (84) L’accentuata preoccupazione per lo sviluppo dei crimini informatici ha indotto taluno a proporre l’introduzione di una norma specifica volta a stabilire il carattere aperto della posta elettronica, assimilando il contenuto di una casella elettronica non ad una ‘‘lettera’’ bensì ad una ‘‘cartolina’’, ed autorizzando il gestore del sistema a prenderne conoscenza: così M. CAMMARATA, BBS e attività criminali, in MC-Microcomputer, n. 143, settembre 1994, 157. Non manca poi chi ritiene auspicabile un’abrogazione tout court della disposizione penale sui crimini informatici. Non pare però che le esigenze, pur innegabili e pressanti, collegate alla repressione dei computer crimes e alla stabilità sociale possano giustificare l’introduzione di una norma che in realtà non si limiterebbe a chianre la natura della posta elettronica ma al contrario la stravolgerebbe attraverso una vera e propria fictio iuris. A tale orientamento può infatti obiettarsi che, così come l’Ente Poste non viene ritenuto responsabile degli illeciti eventualmente commessi attraverso la corrispondenza chiusa ove il responsabile non sia identificabile perché anonimo, lo stesso deve valere per il sysop, in quanto estraneo al rapporto comunicativo in questione (altra cosa è che, ove siano in corso delle indagini, il fornitore del servizio debba fornire all’autorità giudiziaria l’elenco degli abbonati).
— 1029 — sentirebbe di imporre al provider l’obbligo di fornire all’autorità giudiziaria i dati dei soggetti che ad esempio accedono ad Internet (anche se questa soluzione non è completamente risolutiva, dal momento che la figura dell’utente non coincide necessariamente con quella dell’abbonato) (85). Questo è l’orientamento che si sta delineando in sede comunitaria, recepito anche nelle varie proposte di autodisciplina avanzate dai providers (86). 7. Conclusioni: la protezione delle comunicazioni verso un sistema integrato di regole e il ruolo del diritto penale. — È agevole constatare, alla luce di quanto richiamato nei paragrafi precedenti, che la specificità delle questioni tecniche e giuridiche sollevate dalle nuove forme di comunicazione (e in particolare da Internet) richiede in taluni casi l’apprestamento di soluzioni normative ad hoc. Quanto alla protezione dei dati personali, tale sfida è stata lanciata dalla dir. 95/46 e raccolta con tempismo dall’Italia: la l. n. 676 del 1996 ha infatti delegato il Governo ad emanare norme specifiche per agevolare l’applicazione della legislazione in materia di dati personali ai servizi telematici, ‘‘individuando i titolari del trattamento di dati inerenti i servizi accessibili al pubblico e la corrispondenza privata, nonché i compiti del gestore anche in rapporto alle connessioni con reti sviluppate su base internazionale’’. Il decreto delegato dovrà affrontare numerosi problemi; ma certamente la disciplina in questione dovrà muovere, come si diceva poco so(85) Tra le anonymous options tecnicamente realizzabili nei sistemi di comunicazione interpersonale, dovrebbero dunque considerarsi legittimi soltanto i c.d. anonymous remail services, ossia quei servizi offerti dal provider che consentono all’utente di inviare il messaggio in forma anonima. Non dovrebbero invece ammettersi forme di anonymous access to the network, ove l’utente può accedere in forma anonima alla rete ad esempio pagando in anticipo per un determinato tempo di connessione e ricevendo un indirizzo di email anonimo: in questo caso infatti, come riconosce la citata Raccomandazione 3/97 sull’anonimato, non vi è alcun legame tra il mittente e il messaggio che possa consentire l’identificazione del primo in caso di attività giudiziaria. (86) Nella bozza del codice di autodisciplina predisposto dal Ministero delle poste e telecomunicazioni, del 22 maggio 1997, si afferma che gli utenti devono consentire l’acquisizione dei propri dati personali a chi fornisce loro l’accesso ad Internet, e che tali dati devono essere registrati dagli operatori al fine di renderli disponibili all’autorità giudiziaria in caso di indagini; ma una volta identificato, l’utente può chiedere al fornitore dell’accesso l’assegnazione di un segno identificativo diverso dal nome al fine di operare in forma anonima nella rete (par. 5). La proposta, elaborata da un gruppo di studio formato da rappresentanti di AIIP (Associazione italiana Internet provider), ANEE (Associazione nazionale editoria elettronica), Telecom Italia e Olivetti, è leggibile su Internet al sito http://www.interlex.com/testi/cod65bis.htm. Tra le altre proposte vale la pena di richiamare il ‘‘Codice di deontologia e di buona condotta per i servizi telematici’’ dell’ANFOV (Associazione nazionale fornitori di videoinformazione), e la ‘‘Carta delle garanzie di Internet’’ elaborata da un gruppo di studio della rivista elettronica Interlex (http://www.interlex.com/testi/carta4).
— 1030 — pra, da una differenziazione di base tra la posizione del fornitore di contenuti, quella del semplice fornitore di accesso e quella del gestore della rete (87). Ancora più in generale, le tematiche dell’anonimato, della sicurezza dei dati e della riservatezza sono oggi al centro di un dibattito che appare sempre più orientato verso un approccio di tipo globale, poiché lo strumento giuridico è in questa materia destinato all’impotenza se disgiunto da interventi di tipo tecnico ed economico. Il dilemma tra regolamentazione a tappeto e deregulation integrale che ha assillato la riflessione giuridica degli ultimi anni sta gradualmente cedendo il passo ad una sorta di ‘‘terza via’’: ‘‘una miscela attenta tra un quadro giuridico di fondo e tecnologie pulite in grado di ridurre i rischi per gli utenti sullo stesso piano tecnologico, e che valorizza codici deontologici e modelli internazionali di contratto’’ (88). Così, mentre la Comunità Europea invita gli Stati membri a perfezionare gli standard tecnici (le c.d. privacy enhancing technologies), valutando la possibilità di intervenire anche con agevolazioni economiche o fiscali, il vero nodo rimane il tipo e l’intensità dell’intervento giuridico. L’internazionalità della Rete impone di introdurre un quadro armonizzato di regole, la cui validità non sia limitata entro i confini nazionali pena la sostanziale inutilità delle stesse. La prospettiva che si va delineando è appunto quella di un sistema di regole integrato, in cui i principi generali fissati nelle leggi nazionali vengano affiancati da codici deontologici e modelli internazionali di contratto. La Commissione Europea ha ipotizzato l’adozione di una Carta internazionale, da elaborare con la partecipazione di privati e gruppi sociali, e come si è detto numerose sono anche le proposte già avanzate dagli addetti ai lavori. Si tratta di strumenti più elastici che certamente potranno in parte sopperire alla inevitabile inadeguatezza della norma statale; tuttavia dovranno essere attentamente valutate le numerose questioni sollevate dalla redazione di tali codici, soprattutto riguardo al rapporto con le norme nazionali, all’individuazione dei soggetti vincolati, all’efficacia (89). (87) Su tali questioni v. ampiamente G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza, cit., 583. (88) G. BUTTARELLI, Una terza via per la tutela, in Il Sole-24 Ore, 9 maggio 1998, p. 20. In verità, le questioni legate all’anonimato, alla sicurezza e alla riservatezza sono soltanto alcune delle tematiche oggi in discussione con riferimento ai nuovi mezzi di comunicazione, ed in particolare ad Internet: si pensi ai contenuti diffamatori, osceni o nocivi per i minori, alla pedofilia, al diritto d’autore, ecc. (89) Quanto all’individuazione dei soggetti tenuti all’osservanza del codice, il problema principale che si pone è se l’adesione al codice possa essere resa obbligatoria, e se l’osservanza possa essere imposta non solo agli aderenti bensì anche agli utenti e a qualunque altro soggetto che operi su Internet a qualsiasi titolo. Questo costituisce uno dei punti su
— 1031 — In questo sistema composito di regole e di strumenti, che riflette la complessità e insieme il livello di allarme sociale connessi alle nuove sfide tecnologiche, la norma penale non potrà in effetti svolgere un ruolo decisivo. O meglio: si va sicuramente accentuando un suo carattere di residualità, dal momento che la gravità dei danni tecnologici impone di spostare l’accento sulla prevenzione; e d’altro canto, proprio la delicatezza dei beni coinvolti e la portata dei rischi tecnologici ne rinnovano il connotato di ineliminabilità. Se dunque la permanente esigenza di una tutela penale delle comunicazioni interpersonali non è certamente in discussione, la questione più delicata posta dall’evoluzione tecnologica risiede semmai nella tensione prodottasi fra le nuove esigenze di tutela e i principi fondamentali del diritto penale classico. La proliferazione delle fonti normative, anche di carattere secondario, pone sovente problemi di rispetto del principio di legalità, soprattutto con riferimento ai regolamenti sugli standards cui è affidata l’individuazione della soglia di pericolosità. Anche il principio classico della colpevolezza viene messo a dura prova nelle nuove fattispecie di pericolo: l’anticipazione della soglia di punibilità, e dunque la costruzione della tutela in chiave preventiva, eleva a reato la violazione della regola cautelare, finendo per sovrapporre fatto costitutivo ed elemento soggettivo del reato (90). Mentre analoghe forzature sono in atto nel settore della responsabilità civile, dove è sempre più accentuata la tendenza ad utilizzare in chiave di prevenzione generale strumenti aventi funzione tipicamente riparatoria. Per non parlare della dimensione sovranazionale ormai assunta dal cui maggiormente si differenziano le varie proposte di codice più sopra richiamate. Il codice ANFOV, ad esempio, prevede la propria applicabilità ‘‘a tutti i servizi telematici... e alle operazioni compiute da utenti e abbonati anche per finalità diverse da quelle a titolo oneroso’’ (art. 3); mentre la proposta ministeriale stabilisce che l’adesione è volontaria e che sono tenuti all’osservanza soltanto i soggetti aderenti (anche se poi aggiunge che i soggetti firmatari del codice si obbligano ad estenderne ai terzi l’obbligatorietà attraverso la previsione di apposita clausola nei contratti di fornitura di accesso ad Internet e di hosting). In posizione intermedia si pone la proposta Interlex, per la quale sono obbligati ad aderire al codice e a rispettarne le regole i soggetti che a norma di legge siano configurabili come fornitori di servizi Internet; mentre rimangono liberi di aderire alla Carta i soggetti diversi. Più in generale, per quanto concerne il problema antico dell’effficacia dei codici deontologici, S. RODOTÀ mette in guardia contro le carenze che tali strumenti hanno manifestato in passato: ‘‘codici di prima generazione in qualche caso poverissimi di contenuto’’, strumenti ‘‘di prima rassicurazione di angosce sociali’’ più che regolazione vera e propria (Relazione introduttiva, cit.). (90) Cfr. F. PALAZZO, Tutela penale dell’ambiente, relazione al Convegno ‘‘Ambiente e diritto’’, Firenze, 11-12 giugno 1998. L’osservazione richiamata nel testo è riferita dall’Autore alle fattispecie di pericolo che contrassegnano il diritto penale dell’ambiente; ma ci pare che questioni del tutto simili si pongano anche per le disposizioni sulla sicurezza informatica, con riferimento agli standards tecnici fissati nel futuro regolamento dell’Autorità.
— 1032 — diritto delle telecomunicazioni e della sicurezza informatica, la quale inevitabilmente si scontra con il carattere ancora fortemente accentrato e ‘‘nazionale’’ della funzione punitiva. Del resto, si tratta di tensioni che attualmente investono l’intervento del diritto penale in svariati settori, come quello relativo alla tutela ambientale, caratterizzati da un certo grado di ‘‘inafferrabilità’’ del bene protetto e insieme di ‘‘flessibilità’’ della disciplina; ciò che senz’altro conferma il ruolo residuale della sanzione penale. Tuttavia ciò non giustifica, a nostro avviso, lo scetticismo cui di fatto approda chi riesuma i paradigmi del ‘‘diritto penale minimo’’ del neoclassicismo penale, con ciò rinnegando l’inevitabile condizionamento storico cui è esposta la fisionomia del diritto penale (91) e soprattutto legittimando una crescente tendenza alla monetizzazione delle offese. Come è stato osservato, ‘‘finché il diritto penale rimane strumento di utilità sociale, la realtà è in grado di condizionarne legittimamente i principi’’ (92). E prendere atto di questa circostanza significa accedere a un’impostazione diversa, non priva di punti di tensione e di ambiguità ma forse in grado di dischiudere prospettive più ampie al diritto penale moderno: un processo di revisione e di modernizzazione che, pur senza porre in discussione i principi garantistici di matrice illuministica che lo contrassegnano, intervenga piuttosto sulle modalità attuative di quei principi, per adeguarli alle nuove esigenze di prevenzione e di sicurezza di una società del rischio che ha visto essa stessa mutare negli ultimi anni la propria fisionomia. Si tratta di un percorso che dovrà essere seguito ovviamente con cautela, al fine di evitare forzature eccessive dei paradigmi della fattispecie penale; ma si tratta anche di una prospettiva che potrà giustificare in talune fasi un’accentuazione della funzione pedagogica e simbolica del di(91) Suggestioni del classicismo penale sono emerse anche nel progetto di riforma della Costituzione elaborato dalla Commissione Bicamerale istituita nel 1997. I principi contenuti nell’art. 129 del progetto (riserva di codice, principio di offensività e divieto di interpretazione estensiva e analogica) sembravano orientati verso un recupero di quella funzione critica del bene giuridico messa a dura prova durante il periodo dell’emergenza, analogamente a quanto avvenuto nel dopoguerra dopo l’esperienza del totalitarismo: una questione di cui la dottrina penalistica discute da anni (e che non è certo possibile affrontare in questa sede), ma che tuttavia appariva impostata dalla Bicamerale con toni più ideologici che pratici e niente affatto immuni da forti ambiguità. Per alcuni riferimenti alla questione, v. G. DE FRANCESCO, Diritto penale e riforma costituzionale, in Studium iuris, 1998, X, 1041 ss.; F. FIANDACA, La giustizia in Bicamerale, in Foro it., 1997, V, 161 ss.; F. PALAZZO, Le riforme costituzionali proposte dalla Commissione Bicamerale - Diritto penale sostanziale, in Dir. pen. e proc., 1998, 37 ss. Più in generale, sulla teoria del c.d. diritto penale minimo, v. fra gli altri: A. BARATTA, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in Dei delitti e delle pene, 1985, 443 ss.; L. FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, ivi, 493 ss. (92) F. PALAZZO, Tutela penale dell’ambiente, cit.
— 1033 — ritto penale, dato il grado crescente di consensualità che si va formando in ordine alla meritevolezza di tutela penale e dato, soprattutto, il carattere di inviolabilità dei beni personali aggrediti dai nuovi crimini tecnologici (93). ALESSANDRA VALASTRO Università degli Studi di Firenze
(93) Il problema è semmai quello di impostare correttamente tale funzione simbolica del diritto penale, attraverso interventi che siano davvero funzionali al rafforzamento dell’efficacia preventiva delle fattispecie. Tale obiettivo non può dirsi sempre realizzato nella l. n. 675, ove la severità delle scelte di politica criminale è talvolta eccessiva o comunque discutibile e talvolta invece decisamente inadeguata: sotto il primo profilo, si pensi al trattamento sanzionatorio dell’art. 36 o alla previsione indiscriminata della procedibilità d’ufficio, laddove la procedibilità a querela avrebbe potuto essere più aderente all’interesse della vittima quantomeno nei reati di trattamento dei dati in mancanza del consenso; sotto il secondo profilo, si pensi alla lieve entità dei minimi edittali, che lasciano ampio spazio al patteggiamento e alle sanzioni sostitutive, nonché alla previsione, fra le pene accessorie, della sola pubblicazione della sentenza di condanna e non anche di sanzioni a contenuto interdittivo.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
PROFILI PENALISTICI DEL NEGAZIONISMO
SOMMARIO:1. Premessa. — 2. Revisionismi e negazionismo. — 3. Le fattispecie di negazionismo. — 4. Le fonti: il sistema internazionale penale. - 4.1. Il ‘‘livello internazionale’’. 4.1.1. Il diritto internazionale generale. — 5. Il ‘‘livello europeo’’. - 5.1. Il Consiglio d’Europa. - 5.2. L’Unione Europea. — 6. Il ‘‘livello’’ nazionale. — 7. L’esempio tedesco. - 7.1. La l. del 28 ottobre 1994. - 7.2. La sentenza del Bundesverfassungsgericht. 7.2.1. Motivi della ricorrente. - 7.2.2. Conclusioni della Corte. — 8. L’esempio francese. - 8.1. Applicazioni pratiche dell’art. 24-bis. — 9. L’esempio belga. - 9.1. La sentenza della Cour d’Arbitrage. — 10. Rilievi critici e conclusivi. - 10.1. Il negazionismo come abuso della libertà di espressione. - 10.2. Il delitto di negazionismo come delitto di opinione. - 10.2.1. Il bene giuridico. - 10.2.2. L’anticipazione della tutela. - 10.3. Negazionismo e strumento penale. - 10.3.1. La normativa sul negazionismo come esempio di legislazione simbolica. - 10.3.2. Come affrontare l’impresa negazionista? - 10.4. Oltre il diritto penale? - 10.5. Ri-pensare la storia. 1. Premessa. — L’ ‘‘impresa revisionista’’ ha assunto ormai un’ampiezza e una dimensione rilevante. Negli ultimi anni si è assistito a una grande fioritura di studi sia revisionisti sia negazionisti — volti, cioè, a mettere in dubbio, relativizzare e finanche negare l’esistenza dei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale — e a partire soprattutto dagli anni ’80 anche i Tribunali di alcuni paesi europei si sono dovuti confrontare col negazionismo, esito grave e complesso del razzismo (1). L’attenzione verso questi fenomeni è aumentata e il dibattito che si è sviluppato in diverse sedi sulla letteratura negazionista è significativo e di ausilio per affrontare gli aspetti problematici di questa materia (2). Il negazionismo si presenta come fenomeno esteso, ha di mira la formazione del senso comune ed ha naturalmente individuato come luogo d’elezione il sistema dei media, divenendo senza dubbio una minaccia reale per i paesi democratici perché portatore di razzismo e discriminazione. Di fronte all’incremento degli episodi negazionisti molti Stati si sono resi conto che le disposizioni in vigore per far fronte al fenomeno della discriminazione razziale,
(1) Riteniamo fondamentale e preliminare ad ogni altra affermazione precisare la distinzione terminologica e dunque concettuale tra revisionismo e negazionismo. Per ulteriori approfondimenti soprattutto di carattere storico v. P. VIDAL NAQUET, Les assassins de la mémoire, Paris, 1987; trad. ital. ID., Gli assassini della memoria, Roma, 1993; P.P. POGGIO, Nazismo e revisionismo storico, Roma, 1997; A. BURGIO, L’invenzione delle razze. Saggio su razzismo e revisionismo storico, Roma, 1998; D. LOSURDO, Il revisionismo storico: problemi e miti, Roma-Bari, 1996; AA.VV., Négationnistes. Les chiffoniers de l’histoire, Paris, 1997. (2) Sul contesto in cui il negazionismo si impone, che non è certo quello della ricerca storica, bensì quello dell’opinione pubblica, cfr. P.P. POGGIO, Nazismo e revisionismo storico, cit., p. 7 ss. e p. 231 ss. Sulla responsabilità dei media nell’incremento dell’attenzione verso il negazionismo v. ad es. A. FINKIELKRAUT, L’avenir d’une négation. Réflexion sur la question du génocide, Paris, 1982. E ancora sull’origine lontana di questo recente fenomeno e in generale sulla riemergenza del razzismo in Europa, A. BURGIO, L’invenzione delle razze, cit., p. 9 ss. e p. 149 ss.
— 1035 — in senso ampio, non consentivano di reprimere questo fenomeno in tutte le sue forme. I legislatori hanno così deciso di introdurre delle disposizioni ad hoc, che criminalizzano espressamente la negazione del genocidio compiuto dal regime nazionalsocialista. La scelta di riflettere sul tema del negazionismo in relazione al diritto penale è nata proprio dalla constatazione da un lato dell’aumento dell’offensiva negazionista e, dall’altro, dalla recente introduzione a livello interno di norme penali per incriminare esplicitamente le tesi negazioniste. Prima di svolgere quest’indagine sul ‘‘delitto di negazionismo’’, occorre chiarire a cosa intendiamo riferirci quando utilizziamo il sostantivo negazionismo. 2. Revisionismi e negazionismo. — Senza poter approfondire la nozione di negazionismo storico, anche perché ciò esulerebbe dal nostro campo di analisi, è necessario fare una breve premessa sul concetto in esame e cercare di chiarire il suo significato rispetto all’altro termine e nozione cui spesso viene associato, il revisionismo. In questo modo si potrà mettere a fuoco l’oggetto del nostro studio che, prendendo spunto da recenti iniziative legislative, desidera suscitare delle riflessioni in generale sull’offensiva negazionista, ed in particolare sull’opportunità di penalizzare tali condotte. Sarà pertanto un’ulteriore occasione per segnalare i ben noti e complessi problemi connessi ai reati di opinione e ai limiti posti dal diritto penale alla libertà di espressione. L’oggetto della nostra indagine sarà dunque il negazionismo in rapporto alle disposizioni penali contenute in diversi codici europei per la sua repressione. Negazionismo e revisionismo sono termini ricorrenti, molto utilizzati non solo dagli specialisti, ma anche nel discorso comune (3), nelle riprese giornalistiche e televisive. Tale uso linguistico produce una perdita di specificità concettuale, aumentando così la difficoltà di distinguere tra i rispettivi fenomeni. Per giungere ad una definizione del concetto di negazionismo occorre risalire al revisionismo, radice da cui esso deriva e di cui non è che una degenerazione. Questa parola ha assunto ora significati negativi, ora positivi, sempre implicanti la critica di un’ortodossia dominante (4). Secondo l’accezione più ampia, col termine revisionismo si indica la tendenza storiografica a rivedere le opinioni storiche consolidate alla luce dei nuovi dati e delle nuove conoscenze acquisite nel corso della ricerca, col risultato di operare una reinterpretazione e una riscrittura della storia. Ogni storico dunque ed ogni scienziato non può che essere revisionista in questa accezione, poiché la sua attività comporta naturalmente un succedersi di modelli e paradigmi teorici differenti. Ritornare sulle ricostruzioni storiografiche già proposte è infatti inevitabile nel lavoro storiografico. Ma a partire soprattutto dal nostro secolo il termine ha assunto accezioni più specifiche (5), venendo a ricomprendere manifestazioni eccessive ed estreme, quali il negazionismo. In particolare, alla fine della Seconda guerra mondiale furono pubblicate nell’Europa occidentale alcuni testi che tentavano di fare un’apologia del nazismo sconfitto, di negare e minimizzare l’Olocausto, i cui autori usavano denominarsi revisionisti (6). È soprattutto nel(3) Sul senso comune, sulle credenze condivise in rapporto al razzismo e ai suoi significati, cfr. P.A. TAGUIEFF, La force de préjugé, Paris, 1987, trad. it., La forza del pregiudizio, Bologna, 1994, p. 571 ss. (4) P. VIDAL NAQUET, Les assassins de la mémoire, cit., p. 108. (5) V. PISANTY, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, 1998, p. 5. (6) Cfr. D. LIPSTADT, Betrifft: Leugnen des Holocaust, Zürich, 1994. Il concetto di revisionismo nella terminologia delle storia delle idee ha uno stretto rapporto con il marxismo e con la storia del movimento operaio. Il suo caposcuola è considerato Bernstein; nella storia del movimento comunista l’espressione ha sempre avuto una valenza molto polemica verso quegli ambienti socialdemocratici che non tendevano al superamento, ma solo al perfezionamento della società liberale. Ed ancora esso è utilizzato nel diritto internazionale per
— 1036 — l’ambito degli studi sulla seconda guerra mondiale che occorre distinguere due filoni: da un lato il filone revisionista, che mira, partendo dal dato inconfutabile della Shoah a ridistribuire le colpe e ad attribuire ad Hitler responsabilità limitate, tendendo a relativizzare il problema dello sterminio. Dall’altro lato il filone negazionista, che a differenza del primo nega la stessa esistenza dell’Olocausto, prescindendo da qualsiasi regola storiografica prestabilita e aggirando il problema del rapporto del genocidio con la realtà storica (7). La letteratura revisionista coinvolge pertanto un ambito tematico più ampio e vago rispetto alla semplice negazione dei crimini nazisti verso gli ebrei (8), molto più facilmente identificabile. Chiameremo dunque col nome di negazionismo, differenziandole dalle impostazioni storiche che mirano a relativizzare e storicizzare lo sterminio o criticarne le interpretazioni date, quelle dottrine radicali secondo cui il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei, degli zingari e di altre categorie ‘‘subumane’’ non è esistito e appartiene al mito, alla menzogna, alla truffa (9). Il punto centrale della produzione negazionista, simbolo e strumento dello sterminio, diviene la negazione delle camere a gas. La conseguente demistificazione culmina in questi casi in mitologia pura o, con le parole di Roland Barthes, in privazione di storia (10). L’esistenza stessa della storia entra in gioco, perché essa può essere compresa e ricordata solo se si rispettano i fatti nella loro irrecusabilità, come parte integrante del presente e del passato, metodologia storica che non si ritrova negli scritti negazionisti. I fatti vengono usati, stravolti per provare ora questa, ora quella opinione. I valori si invertono, il vero si confonde col falso, la realtà con la finzione; è questo l’ambito della produzione negazionista, dove la storiografia si dissolve in scienza della società, dove semplici opinioni correnti destinate attraverso l’assolutizzazione storica a trasformarsi in ideologie spiegano tutto, ovvero più nulla. È questa la legge dei regimi totalitari, che edificano un mondo fittizio, non più disturbato dalla fattualità (11). Si crea un mondo artificiale, capace di competere con quello reale, non logico, ma coerente e organizzato per acquisire un’apparente plausibilità. La storia non viene riletta (revisionismo), ma in questo senso semplicemente negata (negazionismo) (12). Il negazionismo compare alla fine degli anni ’70 sullo sfondo del revisionismo storico, cresce con quest’ultimo, trae alimento dallo stesso retroterra politico culturale e lo porta agli estremi, combattendo anch’esso una battaglia ideologica: non ci sono più fatti certi, tutto è costruito e mistificato (13). Fu proprio a partire dai primi anni ’70 che la pubblicistica negazionista cominciò a trattare il tema fondativo, attualmente dominante, della negazione dell’Olocausto (14). indicare il c.d. processo di revisione dei Trattati internazionali. Sul punto cfr. BAILER-GALANDA-BENZ-NEUGEBAUER, Wahrheit und Auschwitzlüge. Zur Bekämpfung revisionistischen Propaganda, Wien, 1995, p. 33 ss. (7) V. PISANTY, L’irritante questione delle camere a gas, cit., pp. 6-7. (8) Per ulteriori informazioni, cfr. Auschwitzlüge, in W. BENZ, Legenden Lügen Vorurteile. Ein Wörterbuch für Zeitgeschichte, München, 1992, p. 36 ss. (9) Cfr. P. VIDAL NAQUET, Les assassins de la mémoire, cit., p. 108 ss.; trad. it., cit., p. 77. (10) Cfr. A. FINKIELKRAUT, L’avenir d’une négation. Réflexion sur la question du génocide, cit., p. 100. (11) H. ARENDT, The origins of totalitarianism, New York, 1966; trad. it., ID., Le origini del totalitarismo, Milano, 1996, p. 13. Sulla propaganda totalitaria, come propaganda che perfeziona quella di massa, senza inventare né proporre nulla di nuovo rispetto a quest’ultima cfr. ID., op. cit., p. 484 ss. (12) Sul punto e per approfondire la storia dei negazionismi cfr. V. PISANTY, L’irritante questione, cit., p. 7 ss. Per un quadro della letteratura negazionista in Europa cfr. AA.VV., Négationnistes. Les chiffoniers, cit. (13) P.P. POGGIO, Nazismo, cit., p. 104. (14) Cfr. W. BENZ, Rechtsextremismus in Deutschland. Vorraussetzungen, Zusammenhänge, Wirkungen, Frankfurt am Main, 1994, p. 30 ss.
— 1037 — Le origini geografiche del revisionismo sono principalmente in Germania e in America con l’Institute for Historical Review, importante centro di attrazione per tutti i negazionisti e centro di elaborazione ed organizzazione delle loro strategie. Il negazionismo ha avuto rilevanti sviluppi anche in Francia, in Austria, in Svizzera e in Italia. Gli ideologi della negazione sono riusciti a ricavarsi uno spazio nel mercato attraverso volantini, libri ‘‘dotti’’, di propaganda banale, opuscoli ciclostilati, riviste di un certo tono, videocassette (15); la rete di diffusione è ormai internazionale e agevolata dalle nuove tecnologie (16). La provenienza degli autori negazionisti è spesso di estrema destra o estrema sinistra; l’elemento comune è la piattaforma ideologica, l’antisemitismo, che rappresenta il loro referente e motore principale in cui per l’appunto i diversi apporti trovano un anello di congiunzione (17). I metodi revisionisti possono essere ricondotti, con una ovvia semplificazione, alle seguenti strategie: la bagatellizzazione dei crimini fascisti; la giustificazione dei crimini (revisionismo giustificazionista); la negazione dei crimini (revisionismo negazionista), rappresentata nelle due ipotesi estreme di Rassinier e Faurisson (18); la diffamazione dell’ex alleato sovietico e delle sue propaggini (basti pensare all’interminabile discussione sulla resistenza italiana) (19). Non esiste un unico paradigma storiografico negazionista, l’unico dato metodologico comune agli ‘‘assassini della memoria’’ (20) è la negazione, il diniego storico (21). Il paradigma proposto da questi autori non pare avere dignità scientifica: partendo dalle carenze della storiografia ufficiale, dopo aver stravolto le prove documentali, tali autori non si preoccupano di fornire argomentazioni ed elementi che possano fondare le loro affermazioni. A coloro dunque che vogliano aderire a questi orientamenti è richiesto un atto di fede, basato soprattutto su teorie quali quelle della cospirazione ebraica piuttosto che su tesi documentate (22). I negazionisti, concentrati sul passato, cercano di essere riconosciuti e legittimati come esponenti di una scuola storiografica che combatte contro la ‘‘menzogna di Auschwitz’’ (Auschwitzlüge) e che si oppone alla ‘‘verità’’ ufficiale in tema di genocidio ebraico. 3. Le fattispecie di negazionismo. — A causa dell’allarmante ripresa di episodi di negazionismo, molti Stati europei (tra cui la Germania, la Francia, il Belgio) hanno deciso di introdurre nuovi strumenti normativi con il comune obiettivo di fare fronte a tali fenomeni; prima di questi recenti interventi legislativi, infatti, i medesimi non potevano essere ‘‘puniti’’ in tutte le loro forme di manifestazione. Sono state dunque, come vedremo nel corso di questo studio, modificate ed aggiunte alle disposizioni già esistenti nuove fattispecie che criminalizzano espressamente la negazione dell’Olocausto. Il discorso sulla legittimità e sull’opportunità dell’intervento penale per i fenomeni nega(15) P. VIDAL NAQUET, Les assassins, cit., p. 117. (16) Sulla propaganda revionista-negazionista in Internet, v. V. PISANTY, L’irritante questione, cit., pp. 22-24. (17) P.P. POGGIO, Nazismo e revisionismo storico, cit., p. 97. (18) Faurisson e Rassinier sono due tra i più importanti esponenti del filone francese del negazionismo; sulla storia del negazionismo francese cfr. V. PISANTY, L’irritante questione, cit., p. 7 ss.; ed ancora per una ricostruzione del percorso di Rasssinier, ex deportato, cfr. F. BRAYARD, Comme l’idée vint à M. Rassinier, Paris, 1996; N. FRESCO, Fabrication d’un antisennite, Paris, 1999. (19) A. BURGIO, L’invenzione delle razze, cit., pp. 170-171. Ed ancora sui metodi revisionisti cfr. per es. AA.VV., Wahrheit und Auschwitzlüge, cit., p. 23. (20) L’espressione è di Yosef Yerushalmi, come precisa Pierre Vidal Naquet utilizzandola per intitolare il suo noto saggio sul negazionismo. (21) V. PISANTY, L’irritante questione, cit., pp. 83-84. (22) Ivi, pp. 207-208.
— 1038 — zionisti conduce a confrontarsi con alcuni macro-temi che rientrano nel dibattito più ampio sulla tutela e sui limiti dei diritti fondamentali: pensiamo non solo alla libera manifestazione del pensiero, al principio di non discriminazione e alla tutela della dignità della persona, ma anche ai connessi problemi del bilanciamento degli interessi e delle restrizioni a questi diritti. Lo studio dei diritti fondamentali costituisce un luogo privilegiato per osservare i mutamenti del sistema giuridico e le attuali vocazioni espansionistiche del diritto penale a livello internazionale e nazionale. Esso può essere lo strumento più potente per la loro tutela, ma allo stesso tempo luogo e mezzo della loro limitazione (23). Nelle ipotesi di affermazioni negazioniste si osserva inoltre la configurazione dei diritti fondamentali come coppie binarie, come equilibri: si presenta infatti la difficoltà di conciliare la libertà d’espressione con altri beni costituzionalmente garantiti (diritto alla non discriminazione, salvaguardia dell’ordine pubblico, rispetto della libertà altrui), che si traducono pertanto in ‘‘limiti problematici’’ (24) a questo diritto. Sono ben noti i problemi che derivano per es. in Italia dall’art. 21 Cost. che permette di proibire o di vietare le manifestazioni contrarie al buon costume, senza tra l’altro aggiungere nulla circa il modo in cui la repressione dovrà realizzarsi (art. 21, comma 6), e dall’interpretazione della Corte costituzionale che individua un ulteriore limite nell’ordine pubblico. Le forme di intolleranza come il negazionismo pongono infine numerose difficoltà sia in riferimento alla problematica individuazione del bene giuridico protetto sia alla tecnica di tutela ad esso adeguata, che deve essere opportuna da un punto di vista politico-criminale e legittima costituzionalmente (25). Vedremo che in Europa, nei paesi dove l’offensiva negazionista è stata maggiormente endemica, si sono succedute delle leggi penali, costruite secondo una tecnica di tutela anticipata, che individuano il bene protetto di volta in volta nell’ordine pubblico, nell’onore, nella reputazione, nella pace pubblica. Tuttavia, l’individuazione del bene leso dalle affermazioni negazioniste non pare così immediata; quale potrebbe realmente essere il bene giuridico offeso contro cui si dirige il fatto da incriminare? (26) È possibile riscontrare un fatto come sostrato dell’incriminazione senza mettere in crisi i principi di sussidiarietà, tipicità, determinatezza e frammentarietà? Ma anche se si accertasse che si tratta di un bene di alto rango costituzionale la tutela penale, e pertanto il ricorso alla pena, sono necessari, in quanto unici strumenti capaci di assicurare al bene una tutela efficace (27)? Come ha infatti sottolineato la Corte costituzionale, il legislatore nelle scelte criminalizzatrici incontra tra i limiti sostanziali anche quelli derivanti dal principio di sussidiarietà (28). Nel diritto penale, carico di ideologia politica, insieme all’importanza del bene va sempre valutata l’idoneità e l’insostituibilità della pena quale strumento di tutela, che deve intervenire quando gli altri rami dell’ordinamento non offrano una tutela adeguata. La scelta di criminalizzare le condotte negazioniste, anziché (23) In questo senso parla di paradosso penale Mireille DELMAS MARTY, riferendosi appunto al fatto che il diritto penale protegge, ma anche minaccia i diritti fondamentali. Cfr. ID.-LUCAS DE LEYSSAC, Libertés et droits fondamentaux, Paris, 1996, p. 395. (24) L’espressione è di M. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, p. 121. (25) Sui diversi livelli di selezione (beni di rilevanza costituzionale, forme di offesa) e sulla necessità di calibrare l’intervento penale alle tipologie di offesa cfr. M. DONINI, Teoria, cit., p. 130 ss. (26) A ciò si aggiunge il fatto che il diritto ed il giudice non dovrebbero intervenire per tutelare una verità storica, una versione ufficiale della storia, ma nel caso di mancato rispetto nei confronti di altre persone. (27) A riguardo e sulle valutazioni di natura politica rispetto all’intervento penale costituzionalmente orientato cfr. MARINUCCI DOLCINI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Diritto penale in trasformazione, ID. (a cura di), Milano, 1985. (28) Corte cost., 25 ottobre 1989, n. 487; sui rapporti tra principio di sussidiarietà e obblighi di incriminazione cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, p. 306 ss.; sul ruolo della pena come extrema ratio cfr. per tutti F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. D.I., 1973, p. 7.
— 1039 — dettata dai citati criteri di materialità, di offensività, di frammentarietà, di meritevolezza e bisogno di pena, pare anzi confermare ulteriormente la crisi di identità costitutiva del diritto penale rispetto ad essi. Le norme esaminate pertanto sono ancora una volta l’esito dei fenomeni di panpenalizzazione e di un uso simbolico del diritto penale (29). Il tema del negazionismo consente pertanto di rinnovare la riflessione sui c.d. reati di opinione, oggetto di critiche e di tentate riforme. Libertà di opinione, principio di non discriminazione, abusi della libertà di espressione nelle affermazioni di negazione della Shoah: questo tema esprime dunque l’ambiguità di fondo dell’essenziale diritto alla libera manifestazione del pensiero, considerata dalla giurisprudenza italiana come ‘‘pietra angolare del sistema democratico’’ (30). Dalla nostra breve analisi emergerà con chiarezza il dato di un diritto penale diverso da Stato a Stato, nonostante l’esistenza di norme ‘‘sovranazionali’’ (internazionali ed europee) sui diritti dell’uomo e di principi generali consolidatisi nelle Carte costituzionali e nei codici penali (31). Gli ordinamenti nazionali, infatti, adottano soluzioni differenti, nonostante i metaprincipi espressi dal diritto internazionale penale e dal diritto nazionale (32), confermando come sia vano ricercare un’uniformità di risposte e di realizzazioni concrete, pur di fronte ad esigenze e a principi di valore costituzionale comuni. A giusto titolo si afferma quindi l’idea di un’Europa a geografia variabile: non tutti gli ordinamenti reprimono i comportamenti negazionisti, e se tale ‘‘reato’’ è previsto, la definizione della condotta incriminata avviene in modo e con presupposti che variano da Stato a Stato. A conferma di quest’affermazione si può accennare alla Germania dove sono punibili solo le manifestazioni idonee a turbare la pace pubblica, al Belgio e alla Francia, dove invece la negazione dell’Olocausto costituisce reato in ogni circostanza. Ed ancora alle differenze rispetto all’oggetto del negare, limitato nella maggior parte dei casi al genocidio commesso dal regime nazionalsocialista, ed in altri casi esteso alla negazione di tutti i crimini contro l’umanità e di ogni genocidio. 4. Le fonti: il sistema internazionale penale. — L’inevitabile tendenza dei sistemi giuridici verso la complessità richiede che come per ogni studio sui diritti dell’uomo, anche per (29) Sul tema cfr. per tutti F. BRICOLA, Tecniche alternative di tutela penale e tecniche alternative di tutela, ora in F. BRICOLA, Scritti di diritto penale, a cura di CANESTRARIMELCHIONDA, Milano, 1997, Vol. 1, p. 1477 ss. (30) Cfr. Sentenza n. 84 del 1969, in Giur. cost., 1969, 1175 ss. Sulla libertà di manifestazione del pensiero cfr. A. DI GIOVINE, I confini della libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1988, contenente molti spunti di diritto comparato; V. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1958; G. BARILE, Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. del dir., 1974, p. 424 ss.; ID., Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 229 ss.; L. PALADIN, Libertà di pensiero e libertà di informazione: le problematiche attuali, in Quaderni costituzionali, 1987, p. 5 ss. (31) Cfr. M. DONINI, Teoria del reato (voce), in DDP, 1999, Torino, p. 236. Sui sistemi penali europei e sulla tendenziale armonizzazione, cfr. con gli opportuni rimandi G. FORNASARI, Introduzione ai sistemi penali europei, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, Torino, 1997, p. 47 ss. (32) Diversi Stati possiedono una legislazione contro il negazionismo. In particolare la Germania, con il § 130, comma 3 StGB, la Francia, con l’art. 24-bis della l. del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa, l’Austria che utilizza prevalentemente l’art. 1, comma 3 della legge costituzionale dell’8 maggio 1945 sull’interdizione del Partito nazional-socialista, modificata il 26 febbraio 1992, la Svizzera, con l’art. 261-bis comma 4 del codice penale, il Belgio, con la l. del 23 marzo 1995 mirante a reprimere la contestazione, la messa in discussione e la negazione o l’apologia di crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. Anche la Spagna ha introdotto una norma ad hoc nell’ultimo comma dell’art. 607 c.p. relativo al genocidio; e infine il Portogallo punisce tale comportamento all’art. 240 c.p., 2 comma lett. b), rubricato discriminazione razziale e religiosa e introdotto dalla L. del 2 settembre 1998, n. 65 che apporta alcune modifiche al codice penale.
— 1040 — il tema del negazionismo, si proceda per ‘‘livelli normativi’’, senza tuttavia poter distinguere i confini tra un livello e l’altro, ma anzi essendo coscienti che, e ne avremo conferma nella ricostruzione del delitto di negazionismo, dove finisce uno è già iniziato l’altro. Occorre pertanto essere consapevoli che l’ordinamento di riferimento in questi casi è costituito dalle Convenzioni e documenti internazionali, dai Trattati dell’Unione Europea, dalla Convenzione Europea del 1950, dalle Carte costituzionali ed infine dalle diverse soluzioni adottate dai legislatori nazionali. L’ordinamento dei diritti fondamentali è infatti luogo privilegiato per osservare il mutamento e le dinamiche del panorama delle fonti, conseguenze dirette dell’internazionalizzazione del diritto penale e dell’internizzazione del diritto internazionale (33). Il sistema delle fonti si stratifica e ben esprime la fisionomia dell’ordinamento dei diritti dell’uomo (34). Per ogni diritto fondamentale, quale è la libertà di espressione, ci troviamo ormai di fronte ad una pluralità di fonti, che prevedono la tutela del diritto e la creazione di istanze di garanzie (35). Questa stratificazione (internazionale, europea e nazionale) deve essere tenuta costantemente in considerazione anche perché i diversi ‘‘livelli’’ sanciscono metaprincipi, validi sul piano inter-nazionale e nazionale, tracciano linee di politica criminale, creano obblighi (di incriminazione, per es.) a cui bisogna adempiere in ambito statale, istituiscono meccanismi di garanzie che si aggiungono a quelli nazionali con ovvie conseguenze sull’intero assetto del sistema di tutela interno (36). Di qui nascono processi complessi, dia-lettiche fra luoghi, ordinamenti, istituzioni e giurisprudenza (37). Quest’interazione rivela che gli ordini giuridici non possono essere più pensati come entità autonome, ma che fra essi si instaura un rapporto di scambio, dialettico appunto, non più riconducibile al paradigma della gerarchia nel senso classico del termine (38). La realtà normativa internazionale ed europea, infatti, non può più essere spiegata secondo l’idea di gerarchia. Non sarebbe possibile esaminare la fattispecie di negazionismo se non prendendo atto della loro provenienza internazionale, e pertanto degli strumenti normativi e delle linee politico-criminali dettate dalla comunità internazionale. Tra questi luoghi giuridici distinti (comunità internazionale, Unione Europea, Consiglio d’Europa), non specificatamente penali, si è instaurato un rapporto di scambio, di gerarchia aggrovigliata che connota l’attuale ordine giuridico e che provoca un’apertura nel sistema penale (39). È dunque necessario ricordare brevemente gli strumenti normativi adottati a ‘‘livello’’ (33) A proposito cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, p. 961. (34) Troviamo efficace la formula utilizzata da Francoise TULKENS e Michel VAN DE KERCHOVE, ‘‘Légalité élargie’’ per indicare l’eterogeneità crescente delle fonti di diritto. La legge nazionale subisce così un doppio movimento di erosione dall’esterno e dall’interno. Cfr. ID., Introduction au droit pénal, Bruxelles, 1998, p. 190 s. Sull’evoluzione del sistema delle fonti e sul rapporto fonti interne fonti internazionali, cfr. A. PIZZORUSSO, Il pluralismo delle fonti interne, in L. VIOLANTE, (a cura di), Legge diritto giustizia, Annali 14, Torino, 1998, p. 1127 ss. (35) Basti pensare per la regione Europa l’esempio costituito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. (36) Cfr. sull’apertura del sistema penale M. DELMAS MARTY, Le flou du droit, Paris, 1986; trad. it. ID., Dal codice penale ai diritti dell’uomo, Milano, 1992. (37) Una conferma del rapporto dia-lettico tra gli ordinamenti è data dal fatto che i codici penali per la definizione di genocidio rimandano alla Convenzione internazionale del 1948; o ancora, per la definizione di crimini contro l’umanità all’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga. Altra conferma è data dall’influenza delle sentenze della Corte Europea di Strasburgo sul diritto vivente a livello nazionale. (38) Per queste osservazioni e per alcuni approfondimenti cfr. OST-VAN DE KERCHOVE, Le droit ou les paradoxes du jeu, Paris, 1992, trad. it., Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Milano, 1995. (39) L’idea dell’entre deux, del gioco, inteso come scarto, utilizzato nel libro da OSTVAN DE KERCHOVE, illustra molto chiaramente le relazioni dialettiche e paradossali tra gli insiemi normativi, al punto che i due autori la utilizzano come paradigma esplicativo dei fenomeni giuridici. Cfr. ID., Le droit, cit., p. 91 ss.
— 1041 — internazionale, a ‘‘livello’’ europeo per la prevenzione e repressione dei fenomeni razzisti e negazionisti e infine a livello nazionale. Abbiamo scelto di separare la trattazione dei vari livelli solamente per ragioni di chiarezza, ma essi sono in un rapporto costante di tipo circolare e dinamico e sono tutti altrettanto rilevanti per la ricostruzione della fattispecie di negazionismo. Per quanto riguarda gli ordinamenti nazionali si esamineranno in modo più dettagliato le disposizioni penali della Germania, della Francia e del Belgio (40). Questa opzione è suggerita dalla constatazione che in Germania sul fenomeno negazionista, che si manifesta in modo diffuso ed allarmante, vi sono ormai molteplici ed interessanti sentenze, tra cui una del BundesVerfassungsGericht, che seppure anteriore all’introduzione — avvenuta nel 1994 — della fattispecie di negazionismo (art. 130, III c. StGB), riveste particolare rilievo. La scelta dell’esempio francese è stata dettata oltre che dai numerosi casi di negazionismo anche dall’adozione nel 1990 di una legge ad hoc (Loi Gayssot) per farvi fronte. Infine, l’esempio del Belgio è sembrato interessante da un lato perché nel 1995 è stata introdotta una legge contro le manifestazioni negazioniste e dall’altro perché quest’ultima è stata oggetto nel 1996 di una sentenza della Cour d’Arbitrage (41). 4.1. Il ‘‘livello’’ internazionale. — A livello di diritto internazionale esiste ormai un’amplissima serie d’interventi normativi riguardante in generale la libertà d’espressione e il principio di non discriminazione razziale. Per dare applicazione alla norma di jus cogens che vieta la discriminazione razziale sia a livello generale, sia regionale sono previsti a carico degli Stati tanto degli stimoli di penalizzazione, quanto dei divieti di incriminazione (42). Nella prima ipotesi la tutela dei diritti umani viene reputata insufficiente e gli Stati sono obbligati a reprimere determinate condotte — diritti fondamentali come oggetto —. Nella seconda ipotesi il testo normativo è reputato contrario ai principi che regolano la protezione dei diritti umani — che si configurano ora come limite alla tutela (43) —. 4.1.1. Il diritto internazionale generale. — Il diritto internazionale generale contiene molteplici disposizioni che da un lato affermano il fondamentale diritto alla libera manifestazione del pensiero e dall’altro vietano in generale la discriminazione ed in particolare la forma della propaganda razzista, permettendo di apportare in quei casi delle restrizioni al diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero (44). Non possiamo prendere in esame o anche solo enumerare tutti gli strumenti normativi e tutti i sistemi di garanzia elaborati dalla comunità internazionale per fare fronte al fenomeno della discriminazione razziale e dell’abuso della libertà d’espressione. Occorre tuttavia sottolineare che questo insieme di documenti è punto di riferimento ed è costantemente richiamato nella risoluzione dei casi di negazionismo; di rilievo sono anche gli orientamenti che si formano a riguardo in seno per es. al Comitato contro la discriminazione razziale, organo istituito dalla Convenzione del 1975, che si è pronunciato rispetto al negazionismo in occasione dell’affare Faurisson (45). Per ovvii motivi limiteremo dunque a dei brevissimi accenni la rassegna degli strumenti (40) Anche la Svizzera ha introdotto nel codice penale l’art. 261-bis, che condanna la ‘‘minimisation grossière’’ o il tentativo di giustificazione di un genocidio o di altri crimini contro l’umanità. (41) Tale Corte è l’organo di controllo costituzionale belga. (42) Sullo jus cogens cfr. A. CASSESE, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Bologna, 1984; F. LATTANZI, Le garanzie dei diriti dell’uomo nel diritto internazionale generale, Milano, 1983. (43) Sui diritti fondamentali come limite estrinseco ed intrinseco della politica criminale cfr. A. BARATTA, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in ID. (a cura di), Il diritto penale minimo. La questione criminale tra riduzionismo e abolizionismo. Dei delitti e delle pene, Napoli, 1986. (44) Sul punto si consenta di rimandare a E. FRONZA, Osservazioni sull’attività di propaganda razzista, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, gennaio-aprile 1997, pp. 38-42. (45) Cfr. per un’analisi della comunicazione del Comitato e per una comparazione
— 1042 — internazionali utilizzati per fare fronte alle tesi negazioniste. Innanzi tutto occorre richiamare le norme contenute nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, che all’art. 19 sancisce la libertà di opinione e di espressione per ogni individuo, pur prevedendo simultaneamente il principio di non discriminazione e alcune restrizioni alla libertà di espressione per assicurare il riconoscimento ed il rispetto dei diritti e delle libertà altrui e per soddisfare le esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica. Un’altra fonte principale del sistema internazionale dei diritti dell’uomo è il Patto internazionale sui diritti civili e politici che all’art. 19, comma 1 e 2, dopo avere affermato il diritto alla libertà di espressione, prevede che esso possa essere sottoposto ad alcune limitazioni, espressamente stabilite dalla legge e necessarie per assicurare il rispetto dei diritti o reputazioni altrui (46) o la salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche (art. 19 comma 3). All’articolo successivo si vieta la propaganda a favore della guerra (art. 20, comma 1) e l’incitamento all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza (art. 20, comma 2). Inevitabile è poi ricordare la Convenzione internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965, che prevede, come tutti i testi sino ad ora enumerati, accanto al principio di non discriminazione, il divieto di propaganda razzista nelle diverse forme dell’incitamento e della diffusione di idee (art. 4 Conv.) (47). La lista degli strumenti normativi, vincolanti e non, sarebbe ancora molto lunga: si pensi solo alla Carta delle Nazioni Unite del 1945, alla Convenzione delle Nazioni Unite contro l’apartheid del 1973, alla Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne e alle tante Dichiarazioni o ai numerosi documenti emanati dai tanti Istituti specializzati delle Nazioni Unite come l’Unesco, l’Unicef, o ancora dall’Organizzazione Internazionale del lavoro (48), ma non è nostra intenzione svolgere all’interno di questa breve indagine tali approfondimenti. con l’orientamento della Corte Europea di Strasburgo G. COHEN JONATHAN, Négationnisme et droits de l’homme, in Revue trimestrielle de droits de l’homme, 1997, p. 571 ss. Interessante sarebbe sviluppare una riflessione partendo dal principio dell’interpretazione stretta della norma penale, sull’art. 4 della Convenzione che non sembra ricomprendere fra le condotte che gli Stati devono condannare, il negazionismo. Ma si può allora riconoscere o no una competenza universale in questi casi? (46) Cfr. la comunicazione del Comitato dei diritti dell’uomo rispetto all’affare Faurisson c. France (8 novembre 1996), in cui il medesimo non solo ritiene legittime le restrizioni alla libertà di espressione, perché miranti a tutelare la reputazione altrui, ma afferma che i fenomeni negazionisti costituiscono uno dei principali vettori dell’antisemitismo. Sul punto cfr. l’interessante analisi di G. COHEN JONATHAN, Négationnisme, cit., pp. 591-595. (47) In questa disposizione troviamo un esempio di quanto ricordato prima sugli impulsi di penalizzazione provenienti dal diritto internazionale. La Convenzione del 1965, infatti, dopo aver chiesto agli Stati di adottare le misure necessarie contro la discriminazione (art. 2), richiede (art. 4) di dichiarare punibili questi comportamenti. Si giunge dunque ad imporre, come nella maggior parte delle Convenzioni internazionali, uno standard normativo comune; il testo, individuata la figura criminis e il presupposto per la sua applicazione (internazionalità dei fatti contemplati), stabilisce gli obblighi per gli Stati. Per una analisi degli strumenti sovra-nazionali in materia v. F. MASSIAS, La liberté d’expression et le discours raciste ou révisionniste, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 1996, p. 200 ss. Per quanto riguarda le diverse misure adottate in diritto penale interno per soddisfare le esigenze della citata Convenzione, cfr. K.J. PARTSCH, Die Strafbarkeit der Rassendiskriminierung nach dem Internationalen Abkommen und die Verwirklichung der Verpflichtungen in nationalen Strafrechtsordnungen, in German Yearbook of International Law, 1977, p. 119 ss. (48) Sul divieto di discriminazione nel diritto internazionale si rimanda a CONSEIL DE L’EUROPE, Commission européenne contre le racisme et l’intolerance, Strasbourg, mai 1994, contenente una completa panoramica delle legislazioni nazionali in materia.
— 1043 — 5. Il ‘‘livello’’ europeo. — 5.1. Il Consiglio d’Europa. — Spostando ora l’attenzione sugli interventi legislativi a ‘‘livello’’ europeo è essenziale accennare alle norme contenute nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo per la tutela della libertà di espressione (art. 10) e del principio di eguaglianza (art. 14). In particolare, in forza dei principi ispiratori di questa Convenzione, delle garanzie ivi previste e in forza del metodo interpretativo della Corte (49), pare molto interessante un rapido accenno alle decisioni della Commissione e alle sentenze della Corte Europea relative ai ricorsi per violazione dell’art. 10, che possono apportare alcuni elementi alla riflessione sul negazionismo e a quello più ampio sui limiti alla libertà di espressione. Un’indagine accurata mostrerebbe in realtà che già a livello internazionale si ritrovano delle differenze tra logica europea e universale nell’approccio al problema dell’abuso di questa libertà essenziale (50). Anche la Convenzione e la giurisprudenza di Strasburgo ribadiscono che la libertà di espressione, pur essendo una delle condizioni base per il progresso delle società democratiche e per lo sviluppo di ciascun individuo, non è una libertà assoluta (51). La Corte Europea ammette dei limiti a questo diritto e riconosce agli Stati un margine nazionale di apprezzamento per giudicare la necessità di un’ingerenza nel suo esercizio. Senza imporre dunque un’unica soluzione ed in una prospettiva di armonizzazione, si richiede tuttavia che la restrizione sia prevista per legge, che persegua uno scopo legittimo, che sia proporzionata agli obiettivi perseguiti e necessaria in una società democratica. A partire dalle prime decisioni e sentenze in materia (caso Handyside) fino a quelle più recenti, la Commissione e la Corte mostrano di seguire un orientamento che si rivela costante in tutti i casi riguardanti il problema dell’abuso della libertà di espressione. La Commissione rigetta i ricorsi per violazione dell’art. 10, ritenendoli infondati, affermando, al contrario, che le misure restrittive della manifestazione del pensiero, legalmente previste, sono legittime se dirette a tutelare gli obiettivi ex art. 10, comma 2 della Convenzione (difesa dell’ordine e prevenzione di un crimine e protezione della reputazione o di un diritto altrui) e se necessarie in un ordine democratico (52). Sul tema del negazionismo ci sono state principalmente decisioni della Commissione, richiamate spesso dalla giurisprudenza nazionale (53), confermando quella relazione di scambio di regole e modelli di cui si è detto all’inizio. Tutte le richieste analizzate dalla Commissione sono state rigettate per manifesta infondatezza, confermando in generale la condanna degli abusi della libertà di espressione, ed in particolare la condanna delle tesi negazioniste (54). Si può ricordare ad es. quel caso in cui con riferimento ad una lamentata violazione del(49) Caratteristica precipua del sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo è costituita dal carattere giurisdizionale dello stesso, per cui il contenuto delle garanzie è precisato via via dalla casistica giurisprudenziale. Sul modo di operare della Corte di Strasburgo, cfr. M. DELMAS MARTY, (sous la direction), Vers une Europe des droits de l’homme, Paris, 1992; E. KASTANAS, Unité et diversitè: notions autonomes et marge d’appreciation des Etats dans la jurisprudence de la Cour Européenne des droits de l’homme, Bruxelles, 1996. (50) La diversità di approcci emerge, per es., nel caso Jersild, serie A 298, § 31. La soluzione della Corte Europea è stata ben accolta dal Comitato delle Nazioni Unite e fortemente criticata in ambito europeo. (51) Così si esprime la Corte Europea nel caso Handyside, serie A Vol. 24 § 49. Sulla giurisprudenza della Corte in questa materia cfr. F. RIGAUX, La liberté d’expression et ses limites, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 1995, p. 401 ss. (52) Cfr. G. COHEN-JONATHAN, Commentaire général de l’article 10, in PETTITI-DECAUX-IMBERT, La Convention Européenne des droits de l’homme. Commentaire article par article, Paris, 1995, pp. 365-448; M. DE SALVIA, Le principes directeurs de la jurisprudence relative à la Convention européenne des droits de l’homme, Strasbourg, 1998, p. 244 ss. (53) La giurisprudenza europea è stata per es. richiamata nella decisione della Corte di cassazione francese sul caso Guionnet. (54) Cfr. per es. Remer c. Allemagne del 6 settembre 1995 (n. 25096/94, D.R., 82-a, p. 117); Pierre Marais c. France (n. 31159/96, D.R., 86-A, p. 184); DI c. Allemagne del 26
— 1044 — l’art. 6 Cedu, la Commissione ha affermato che non è contrario al principio di parità delle armi il comportamento del giudice che rifiuta di autorizzare le prove di fatti, contrari a una verità storica consolidata, la cui affermazione risulta come tale diffamatoria (55). O ancora quel caso in cui la Commissione nella propria decisione, richiamando la difesa dell’ordine e del potere giudiziario e ricordando che i crimini commessi ad Auschwitz non appartengono solo alle scienze storiche, ha affermato che le famiglie delle vittime continuano ad avere il diritto ad una protezione della memoria dei loro parenti (56). Il medesimo orientamento, ossia la possibilità in tali casi di limitare la libertà di espressione, si ritrova anche in una recente sentenza della Corte, e non in una decisione della Commissione, dove essa per la prima volta afferma che ‘‘le manifestazioni negazioniste e revisioniste su categorie di fatti storici chiaramente stabiliti — come l’Olocausto — non sono tutelate dall’art. 10 della Convenzione, in virtù dell’art. 17 della medesima’’ (57). In questa pronuncia la Corte Europea esamina il problema dei limiti al dibattito storico sugli avvenimenti della seconda guerra mondiale e pur ritenendo necessario per ciascun paese il dibattito aperto e sereno sulla propria storia (58), afferma l’esclusione dalla garanzia dell’art. 10 del discorso revisionista o negazionista dell’esistenza dell’Olocausto. Il fondamento di una tale posizione viene indicato dalla Corte nell’art. 17, in base a cui nessun’altra norma della Convenzione Europea può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, individuo o gruppo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà o a delle limitazioni più ampie di quelle previste. Il criterio per riconoscere le affermazioni coperte dalla garanzia della libera manifestazione del pensiero viene individuato invece ‘‘nel fatto storico chiaramente stabilito’’. In questo modo la posizione della Corte viene ad essere differente da quella del Comitato delle Nazioni Unite che nella decisione Faurisson c. France dell’8 novembre 1996 riteneva possibile che l’incriminazione del negazionismo potrebbe in circostanze differenti rivelarsi contraria alla libertà d’espressione. L’ordine europeo, quindi, come tracciato dalla Convenzione e dalla giurisprudenza di Strasburgo, non tollera abusi di un diritto fondamentale che esso stesso tutela (59). È evidente che fenomeni come il negazionismo contrastano con i principi alla base della Convenzione quali il pluralismo, la tolleranza, la coesione sociale e lo spirito d’apertura senza i quali non vi è una società democratica (60). La tutela della libertà d’espressione pertanto non può estendersi sino ai casi in cui tale libertà viene utilizzata per dei fini contrari giugno 1996; Nationaldemokratische Partei Deutschlands del 29 novembre 1995 (n. 25992/94, D.R., 84-A, p. 149). (55) Affare Marais, cit., p. 191. Ed ancora nella medesima direzione la sent. Remer, 6 settembre 1995, nella quale di fronte ad un caso di negazionismo si riteneva applicabile il § 130 StGB, § 1, in quanto esso mira a mantenere la pace in seno alla popolazione tedesca. (56) T. c. Belgique, decisione del 14 luglio 1984. (57) Cour Européenne des Droits de l’homme, Lehideux c. France, 23 settembre 1998, § 43. L’affermazione riportata è compiuta in questa sentenza nella quale la Corte aveva riscontrato una violazione dell’art. 10 della Convenzione Europea nella condanna pronunciata dalla Corte di Cassazione francese il 16 novembre 1993 per ‘‘apologie du crime et délit de collaboration avec l’ennemi’’ nei confronti dei due ricorrenti (art. 24, 3 della l. 29 luglio 1881). (58) Ivi, § 55. (59) G. COHEN JONATHAN, Négationnisme et droits de l’homme, cit. pp. 578-579. Cfr. anche la decisione della Commissione T. c. Belgique del 14 luglio 1983, D.R. 34. In questo caso la Commissione rigettava la domanda del ricorrente, condannato come autore editore responsabile per aver pubblicato un testo dove veniva messa in discussione la realtà dello sterminio di sei milioni di ebrei ad Auschwitz in particolare e venivano relativizzati i crimini nazisti rispetto ad altre azioni belliche atroci. La Commissione sottolinea poi che le famiglie delle vittime hanno diritto ad una protezione della memoria dei loro genitori. (Il corsivo è nostro). Cfr. per altri casi di negazionismo davanti alla Commisione e alla Corte di Strasburgo, F. MASSIAS, La liberté d’expression, cit., p. 196 ss. (60) V. quanto si affema nel noto caso Handyside.
— 1045 — al testo e allo spirito della Convenzione, che, se ammissibili, potrebbero portare alla distruzione e all’eliminazione dei diritti e delle libertà in essa garantiti. Secondo la Commissione e la Corte, pertanto, le manifestazioni negazioniste e revisioniste sono contrarie ai valori fondamentali di giustizia e pace, sanciti nel Preambolo della Convenzione (61); entrambe sembrano dunque condividere la scelta di limitare la libertà di espressione per fare fronte a pericolosi comportamenti negazionisti, ma precisano che le autorità statali nell’adottare le misure, anche penali, contro tali fenomeni devono sempre farlo in modo da reagire in maniera adeguata e non eccessiva a dichiarazioni diffamatorie o formulate in malafede (62). Le norme della Convenzione Europea infine assumono rilievo per un altro aspetto connesso al fenomeno della produzione negazionista. Queste disposizioni, in effetti, e in particolare l’art. 10, vengono talvolta invocate come mezzi di difesa dagli autori negazionisti davanti alle giurisdizioni nazionali, per sostenere la contrarietà delle fattispecie di negazionismo, previste a livello interno, alle disposizioni della Convenzione che tutelano la libertà di espressione, violata invece, secondo i ricorrenti, dalle disposizioni nazionali (63). 5.2. L’Unione Europea. — Un breve accenno all’Unione Europea sembra interessante vista la crescente importanza attribuita nell’ordine comunitario ai diritti fondamentali e vista la capacità di incidere sul diritto penale interno di alcuni degli elementi introdotti dal Trattato di Amsterdam (64). Gli aspetti relativi alla tutela dei diritti fondamentali nell’Unione Europea e al tema Unione Europea-diritto penale meriterebbero una riflessione più puntuale e articolata di quella che possiamo dedicare in questa sede. Tuttavia occorre rilevare che, e ne sarà dimostrazione il documento che analizzeremo relativo alla lotta contro il razzismo e la xenofobia, le disposizioni del Trattato di Amsterdam confermano l’importanza del paradigma dei diritti fondamentali a livello comunitario (65), divenuto ormai requisito necessario per appartenere all’Unione e per partecipare ai processi decisionali di quest’ultima (66). L’art 6 (ex F) § 2 sancisce il rispetto dei diritti fondamentali, così come garantiti dalla Convenzione Europea del 1950 e in quanto principi generali di diritto comunitario; l’art. J.1 § 2 annovera il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali tra gli obiettivi della politica estera e di sicu(61) Nel testo è stato riportato quanto espresso dalla Commissione in occasione della precitata decisione Marais c. France. A questi valori essenziali la Commissione ha ugualmente fatto riferimento nel caso National Demokratisch Partei Deutschlands, 29 novembre 1995, n. 25992/94, D.R. 84/A, p. 154. (62) Affaire Cassels c. Espagne, 23 aprile 1992. L’approccio a questa problematica varia a seconda che ci si riferisca al Comitato dei diritti dell’uomo o alla Commissione o alla Corte. A questo proposito cfr. G. COHEN JONATHAN, Négationnisme et droits de l’homme, cit., p. 593. (63) L’art. 10 CEDU è invocato come mezzo di difesa nell’affare Guionnnet. Cfr. la sentenza della Cour Cassation criminelle, 23 febbraio, 1993, in Bulletin criminel, 1993, I, n. 96. (64) Cfr. AA.VV., Le Traité d’Amsterdam, Paris, 1998 con la letteratura ivi richiamata. (65) Il Trattato non ha tuttavia introdotto una subordinazione tra Unione Europea e Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, col rischio di interpretazioni divergenti e di interferenze, confermando quel rapporto di circolarità e non di gerarchia riscontrabile nel sistema delle fonti. Cfr. a questo proposito il parere della Corte di giustizia delle Comunità Europee, 2/94 e i commenti di P. WACHSMANN, Revue trimestrielle de droit européen, 1996, p. 467 ss. e di J.F. FLAUSS, Petites Affiches, 1997, n. 91, p. 4, chron. (66) Il rispetto dei diritti fondamentali è condizione per aderire anche al Consiglio d’Europa. Per un’analisi a questo riguardo, anche relativamente al sistema previsto dall’art. 7 (ex F.1) del Trattato di Amsterdam sulla possibilità per il Consiglio di constatare una violazione grave e persistente di un diritto fondamentale da parte di uno stato membro, cfr. P. WACHSMANN, Les droits de l’homme, in AA.VV., Le Traité d’Amsterdam, cit., p. 186 ss.
— 1046 — rezza e ribadisce che la cooperazione in materia di giustizia e affari interni deve avvenire nel rispetto della Convenzione Europea e della Convenzione del 1951 sui rifugiati. A questo si aggiunge il dato dell’estensione della competenza della Corte di giustizia in materia di giustizia e affari interni, innovazione che potrà portare a delle conseguenze per la tutela dei diritti fondamentali. Inoltre, anche se non possiamo parlare dell’esistenza di un ‘‘diritto penale comunitario’’ stricto sensu, perché manca una competenza della Comunità in materia penale, si può osservare che anche le scelte comunitarie possono produrre effetti, seppure molto parziali, sugli ordinamenti interni (67). Il ‘‘diritto penale comunitario’’ da un lato può portare alla disapplicazione di norme interne, se riscontra in queste ultime un’incompatibilità, o, come nell’ipotesi del negazionismo, può incitare gli Stati membri alla penalizzazione di una condotta (68). Obbligato per ragioni formali e sostanziali a richiedere l’intervento del diritto interno, il legislatore comunitario cerca di rinforzare la cooperazione fra gli Stati per fare fronte al fenomeno della discriminazione razziale. L’Unione ha attribuito un grande rilievo al principio di uguaglianza, e l’art 13 (ex art. 6-a) prevede in generale che essa ‘‘potrà adottare tutte le misure necessarie per combattere ogni discriminazione fondata sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni, un handicap, l’età o la tendenza sessuale’’. In particolare, rispetto all’offensiva negazionista l’Unione voleva fornire un impulso alla penalizzazione di queste manifestazioni ed è ricorsa, come di frequente accade, allo strumento dell’azione comune (69). Con riferimento alla lotta contro il razzismo e la xenofobia, l’Unione Europea, per favo(67) Tra gli strumenti di intervento ricordiamo oltre alle Convenzioni, le azioni comuni e le posizioni comuni. (68) Sul diritto ‘‘penale comunitario’’ cfr. F. SGUBBI, Diritto penale comunitario, in DDP, 1990, p. 89 ss.; S. RIONDATO, Competenza penale delle Comunità Europee, Padova, 1996; G. GRASSO, Comunità Europea e diritto penale, Milano, 1989; ID., Verso uno spazio giudiziario europeo, Milano, 1997; ID., Prospettive di un diritto penale europeo, Catania 26 maggio 1997, Milano, 1998; M. DELMAS MARTY (sous la direction), Vers un droit pénal communautaire?, Paris, 1995; ID., Union européenne et droit pénal, in Cahiers de droit européen, 1997 p. 613 ss.; A. CADOPPI, Towards a European Criminal Code?, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 1996, p. 2 ss.; S. MANACORDA, Unione europea e sistema penale: stato della questione e prospettive di sviluppo, in Studium Juris, 1997, pp. 945-957; TIEDEMANN, Diritto comunitario e diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 209 ss.; U. SIEBER, Europäische Einigung und Europäisches Strafrecht, BerlinMünchen, Bonn, 1993; C. PEDRAZZI, L’influenza della produzione giuridica della CEE sul diritto penale italiano, in L’influenza del diritto europeo sul diritto italiano, Milano, 1982, p. 629 ss.; A. BERNARDI, Vers une europénisation du droit des affaires, limites et perspectives d’un jus commune criminale, in Revue de droit pénal et de criminologie, 1997, p. 415 ss.; sul tema Unione Europea-diritti fondamentali cfr. P. WACHSMANN, Les droits de l’homme, in AA.VV., Le Traité d’Amsterdam, cit., pp. 175-195; F. SUDRE, La communauté Européenne et les droits fondamentaux après le Traité d’Amsterdam: vers un nouveau système européen de protection de droits de l’homme, in JCP, 1-2, 7 janvier 1998, p. 9 ss.; RIDEAU-RENUCCI, Dualité de la protection jurisdictionelle des droits fondamentaux: atout ou faiblesse de la sauvegarde ded droits de l’homme?, in Justice, 1997; BETTEN-GRIEF, EU Law and Human Rights, London-New York, 1998; AA.VV., La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema comunitario, Bruxelles, 1997. (69) Le azioni comuni sono quegli atti normativi introdotti dall’Atto Unico Europeo del 1986, nel quadro della cooperazione politica europea, in materia di politica estera e di sicurezza. Sono ripresi in tale veste dal secondo pilastro del Trattato di Maastricht (PESC), che ne estende l’applicabilità anche alla cooperazione in materia di giustizia e affari interni (GAI o terzo pilastro (art. K.3)). In ordine all’efficacia giuridica di tali atti, la dottrina non ha un’opinione uniforme, ma utili chiarimenti sono emersi dalla prassi applicativa, in base alla quale è possibile distinguere due categorie: le azioni comuni a valenza operativa, che disciplinano aspetti pratici essenzialmente legati alla cooperazione delle forze giudiziarie e di polizia, e le azioni comuni a valenza normativa che mirano all’armonizzazione della legisla-
— 1047 — rire la cooperazione giudiziaria in materia, ha adottato proprio un’azione comune, nella quale il negazionismo viene descritto in modo dettagliato e inserito fra quei comportamenti che gli Stati membri dovrebbero reprimere penalmente a livello interno (70). L’Unione Europea interviene dunque e richiede che a livello interno vengano adottate le misure necessarie per incriminare le forme di manifestazione razziste descritte nell’azione comune. Il Consiglio, dopo aver richiamato il fondamento giuridico dell’azione (art. K 3 Trattato dell’Unione), costatando l’aumento dei fenomeni razzisti e l’importanza della cooperazione giudiziaria effettiva di fronte a reati che hanno dimensione internazionale, chiede agli Stati di introdurre delle fattispecie penali per reprimere dei comportamenti, quali la pubblica istigazione alla discriminazione (lett. a), l’apologia pubblica di crimini contro l’umanità (lett. b), la diffusione di scritti contenenti manifestazioni xenofobe lett. d). Alla lett. c) il Consiglio sollecita gli Stati membri a reprimere la negazione pubblica dei crimini definiti all’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga nella misura in cui essa includa un comportamento di disprezzo o degradante verso un gruppo di persone definito in base al colore, alla razza, alla religione o all’origine nazionale o etnica. Queste previsioni non contrasterebbero ad avviso del Consiglio con il diritto alla libera manifestazione del pensiero, diritto che, come afferma il Patto sui diritti civili (art. 19), implica dei diritti, ma anche dei doveri, tra cui quello di rispettare l’altro. La descrizione di negazionismo da parte del Consiglio è molto precisa, ma forse perché questo documento non ha, come detto, alcun valore vincolante. In questo modo, tuttavia, il Consiglio continua l’azione relativa alla lotta contro il razzismo, con l’obiettivo di migliorare la cooperazione giudiziaria in materia penale, di evitare le distorsioni e di eliminare i vantaggi, per gli autori di quei reati, originati dalle disparità fra legislazioni interne (71). Se si giungesse ad un’uniformità di soluzioni, o comunque al ravvicinamento delle legislazioni, i negazionisti non potrebbero più spostarsi alla ricerca di un paese dove il comportamento è lecito, approfittando delle differenze e lacune esistenti sul piano sostanziale e processuale tra i vari ordinamenti (72). L’azione comune, pertanto, anche se non fa sorgere degli obblighi a carico degli Stati, spinge verso l’armonizzazione legislativa in questo settore, domandando agli Stati di penalizzare le affermazioni negazioniste e confermando le nuove dia-lettiche tra i vari ‘‘livelli’’ normativi (73). Dietro l’armonizzazione e l’unificazione costatiamo pertanto un’ulteriore richiesta di diritto penale da parte delle istanze comunitarie. Questi accenni consentono di mettere in evizione penale e talvolta processuale degli Stati membri. Di tale duplicità prende atto il Trattato di Amsterdam nel quale le azioni comuni vengono sostituite da due nuovi strumenti (art. 34): le decisioni e le decisioni-quadro che corrispondono alle due categorie innanzi evidenziate. Molto interessanti sono le azioni comuni sulla lotta alla tossicomania (14 ottobre 1996), contro la criminalità organizzata (29 novembre 1996 e del 21 dicembre 1998). Per approfondimenti cfr. PARISI-RINOLDI, Giustizia e affari interni nell’Unione Europea: il terzo pilastro nel Trattato di Maastricht, Torino, 1996; LABAYLE, La cooperation européenne en matière de justice et d’affaires intérieures et la Conférence intergouvernamentale, in Revue trimestrielle de droit europèen, 1997. Sulla duplice funzione del diritto comunitario verso il diritto interno — di inibizione e stimolo — cfr. M. DELMAS MARTY, Le flou du droit, cit., pp. 87-89. (70) Azione comune del 15 luglio 1996, adottata dal Consiglio sulla base dell’art. K 3 del Trattato sull’Unione europea, concernente l’azione contro il razzismo e la xenofobia, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 24 luglio 1996, volume, L 185, p. 5. (71) Cooperazione, assimilazione ed armonizzazione sono i tre modelli di intervento del diritto penale nell’Unione Europea. (72) Questa affermazione suscita talune perplessità, tenendo conto che il negazionismo è un processo fortemente politico, e pertanto molto diverso da altri reati rispetto a cui può invece realizzarsi il forum shopping (es. frode fiscale). (73) L’azione comune citata conferma infatti il dato dell’interazione tra ordinamenti. L’Unione Europea richiama, per la definizione dei crimini contro l’umanità, lo Statuto del Tribunale Militare di Norimberga e fa spesso esplicito riferimento, per la materia dei diritti dell’uomo, alla Convenzione Europea del 1950.
— 1048 — denza — e l’ambito della legislazione contro il razzismo ne è un eloquente esempio — che non solo in ambito nazionale, ma anche a livello internazionale ritroviamo quelle ormai note tendenze di ipertrofia, di panpenalizzazione e di utilizzo simbolico-espressivo del diritto penale (74). In ciò sembra pertanto potersi riscontrare una convergenza rispetto alle politiche criminali nazionali realmente praticate, poco rispettose del principio di sussidiarietà (75). 6. Il ‘‘livello’’ nazionale. — Sino a questo momento abbiamo esaminato, seppure in modo sintetico, le disposizioni esistenti a livello internazionale sul negazionismo, prendendo coscienza attraverso lo studio sul negazionismo del pluralismo che caratterizza l’ordinamento internazionale penale e che obbliga ad una ricostruzione della fattispecie in chiave complessa. Il nostro studio si è concentrato in particolare sul sistema europeo, dove il pluralismo si manifesta in senso orizzontale tra Stato e Stato, in senso verticale tra Europa e sistemi nazionali, in senso misto, tra Europa e Europa, vista la presenza di due sistemi (Consiglio d’Europa e Unione Europea) simbolizzati nelle rispettive due Corti di Strasburgo e Lussemburgo, che hanno entrambe la tendenza a divenire costitutive di un ordine costituzionale europeo (76). In realtà il diritto internazionale, a qualsiasi livello esso si consideri (generale o regionale) riveste un ruolo molto modesto rispetto al diritto interno che rimane di gran lungo lo strumento più importante per la protezione della libertà di espressione e per limitarne l’abuso. Il negazionismo si è manifestato con portata e in misura diversa a seconda dei paesi, i quali hanno reagito in tempi e con risposte differenti. I luoghi in cui la produzione negazionista sembra più allarmante, lasciando da parte il caso degli Stati Uniti (77), sono la Germania, seguita dalla Francia e in minor misura, dal Belgio e dall’Italia (78). Non tutti gli Stati hanno scelto di creare una fattispecie apposita (è il caso dell’Italia) (79) e quelli che hanno (74) Uno sguardo comparativo mostra infatti che tali tendenze efficientistiche o funzionalistiche vengono riscontrate da un’attenta letteratura in molti paesi tra cui Germania, Olanda, Spagna, Inghilterra, Stati Uniti. Per questo rilievo, cfr. A. BARATTA, Prefazione, in S. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, Napoli, 1995, p. XVIII. (75) Queste tendenze sono in contrasto anche con l’idea di una riduzione ‘‘minima’’ dell’intervento penale, teorizzata da taluni intellettuali. Cfr. A. BARATTA, Il diritto penale minimo. Dei delitti e delle pene, 1986, p. 443 ss.; L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari-Roma, 1990; ID., Per un programma di diritto penale minimo, in AA.VV., La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, a cura di PEPINO, Milano, 1993, p. 57 ss. (76) Per ulteriori approfondimenti cfr. M. DELMAS MARTY, Trois défis pour un droit mondial, Paris, 1998. (77) Basti pensare al ruolo rilevante del Centre for Historical Review. (78) Non possiamo qui estendere il discorso sulla ‘‘geografia’’ del negazionismo. Molto interessante sarebbe approfondire l’area mediorientale e l’attitudine negazionista dimostrata da diversi autori palestinesi. Su questi temi, cfr. P. VIDAL NAQUET, Qui sont les assassins de la mémoire?, in La Diaspora et l’Etat juif, maggio-giugno 1993. (79) L’Italia dispone accanto alle disposizioni costituzionali sulla libertà di espressione e sul principio di non discriminazione (art. 21 Cost. e art. 3 Cost.), numerosi strumenti normativi relativi ai fenomeni razzisti. Cfr. la l. n. 962/67 relativa alla prevenzione e alla repressione del crimine di genocidio; e ancora la l. n. 654/75 che autorizza la ratifica (che avverrà nel 1976) della Convenzione delle Nazioni Unite sulla discriminazione razziale ed incrimina all’art. 3 la diffusione di idee razziste o l’istigazione alla discriminazione razziale; la l. n. 223 del 1990 che vieta la diffusione di pubblicazioni che possono generare intolleranza; il d.l. n. 122 del 1993 recante ‘‘Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa’’ ed infine il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione enorme sulla condizione dello straniero (d.lg. 25 luglio 1998, n. 286), che all’art. 43 definisce la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi. Per approfondimenti cfr. DE FRANCESCO-CORSO-NOSENGO, Misure urgenti in materia di discriminazione
— 1049 — optato per una norma ad hoc hanno formulato la fattispecie in modo differente (80), ricomprendendo talvolta alcune forme qualificabili come revisione anziché come negazione dei fatti (si parla infatti di approvare o giustificare nel codice tedesco o di contestare in quello francese). Il negazionismo è dunque punito espressamente in Germania, in Francia, in Austria (81), in Belgio, in Spagna (82), in Portogallo (83) e in Svizzera (84). razziale, etnica e religiosa. Legislazione penale, 1994, p. 174; L. STORTONI, Le nuove norme contro l’intolleranza: legge o proclama?, in Critica del diritto, 1994, p. 14 ss.; S. MOCCIA, La perenne emergenza, cit., pp. 69-83; P. UNGARI, La legislazione antirazzista italiana nel diritto comparato europeo, in Diritti umani. Cronache e battaglie, 1996, p. 20 ss.; UNGARI-PIETROSANTI-MALINTOPPI (a cura di), Razzismo, xenofobia, antisemitismo, intolleranza e diritti dell’uomo, Roma, 1996. Per alcuni casi di negazionismo italiano di sinistra cfr. A. CHERSI, Il caso Faurisson, Bagnolo, 1982, e C. SALETTA, Per il revisionismo storico contro Vidal Naquet, Genova, 1993. (80) Per un quadro sulla legislazione europea per fare fronte al razzismo, adottata nei vari paesi, cfr. COMMISSION CONSULTATIVE DES DROITS DE L’HOMME, 1997. La lutte contre le racisme et la xenophobie, Documentation française, Paris, 1998. Per un’analisi della legislazione contro l’antisemitismo cfr. S.J. ROTH, The Legal Fight against Antisemitism. Survey of Developments in 1993, Supplement to Israel Yearbook on Human Right, Vol. 25 (1995), Tel Aviv University. (81) L’Austria il 26 febbraio 1992 con una modifica alla legge costituzionale sui nazionalsocialisti (Bundesverfassungsgesetz vom 6 Februar 1947 über die Behandlung der Nazionalsozialisten), ha introdotto nel § 3 la fattispecie della negazione e della minimizzazione dei genocidi nazionalsocialisti. Le affermazioni devono essere compiute in pubblico; le condotte previste sono la negazione, la grave minimizzazione, l’apprezzamento o la giustificazione del genocidio o degli altri crimini contro l’umanità nazisti. Cfr. anche AA.VV., Wahrheit, cit., p. 218 ss. e H. KELLER, Die Anwendungspraxis, in Dokumentationsarchiv des österreichischen Widerstandes, Strategies gegen den Rechtsextremismus. Symposion von 26 november 1993, Innsbruck, 1994, p. 79 ss. (82) Il codice penale spagnolo nell’ultimo comma dell’art. 607 relativo al genocidio reprime la diffusione di idee o la negazione e giustificazione degli atti di genocidio, o la pretesa riabilitazione di regimi o istituzioni che mettano in atto pratiche generatrici di tali crimini. La dottrina è divisa se si tratti di delitto di apologia e parte di essa critica questa figura delittuosa perché ritiene che in sostanza sia un delitto d’opinione come tale inaccettabile in uno Stato democratico. Cfr. OLIVARES-VALLE MUNIZ, Commentarios al nuevo codigo penal, Barcelona, 1997. Cfr. sui limiti penali alla libertà d’espressione R. REBOLLO VARGAS, Aproximación a la jurisprudencia constitucional: libertad de expresión e información y límites penales, Barcelona, 1992 e l’interessante sentenza del Tribunal Constitucional dell’11 novembre 1991 relativa al caso Grenelle, in Jurisprudencia constitucional, Vol. 31, p. 444 ss. (83) Cfr. l’art. 240 c.p.: Discriminazione razziale o religiosa 1. È punito con la pena della reclusione da 1 a 8 anni chhiunque: a) fonda o costituisce un’organizzazione, ovvero svolge un’attività di propaganda organizzata che inciti alla discriminazione, all’odio, alla violenza razzialeo religiosa o che la incoraggi; oppure b) partecipa alle organizzazioni od alle attività descritte nell’alinea precedente ovvero presta ad esse assistenza, anche finanziaria. 2. È punito con la pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque, in una pubblica riunione, mediante uno scritto destinato alla divulgazione o qualsiasi altro mezzo di comunicazione sociale, con l’intenzione di incitare alla discriminazione razziale o religiosa, ovvero di incoraggiarla: a) provoca atti di violenza contro una persona o un gruppo di persone a causa della loro razza, colore, origine etnica o nazionale ovvero della loro religione oppure b) diffama o ingiuria una persona o un gruppo di persone a causa della loro razza, colore, origine etnica o nazionale ovvero della loro religione, in particolare mediante la negazione di crimini di guerra, contro la pace e l’umanità (il corsivo è nostro). Cfr. Appendice di aggiornamento (in corso di pubblicazione) de « Il codice penale portoghese », trad. Giovanna TORRE, introduzione del prof. Jorge de FIGUEIREIDO DIAS, Padova, 1997. (84) Il nuovo art. 261-bis inserito nel codice penale svizzero è entrato in vigore il 1o gennaio 1995. La norma punisce chi avrà, pubblicamente, per mezzo della parola, della scrittura, dell’immagine, del gesto o di altre vie di fatto o in qualsiasi altro modo, minimiz-
— 1050 — Prima di passare all’analisi di alcune esperienze nazionali significative, in particolare all’indagine sulla normativa germanica, francese e belga è utile chiarire il significato dei verbi negare, giustificare e minimizzare, locuzioni prevalentemente utilizzate per descrivere la condotta di negazionismo. Nel panorama europeo, seppure di fronte alla eterogeneità delle risposte normative, ritroviamo come tratto comune l’uso ricorrente di questi tre verbi (a parte alcune eccezioni, come per es. la Francia) per la descrizione della condotta di negazionismo. Queste precisazioni permetteranno di rilevare come in realtà si renda possibile punire non solo il negare ma anche il giustificare o l’approvare, col rischio di una repressione anche nei confronti di coloro che reinterpretano o discutono di quegli episodi storici, senza tuttavia negarli. Negare un avvenimento implica che l’autore contesti fondamentalmente la sua esistenza e pretenda semplicemente che esso non abbia avuto luogo (85). Si tratta per es. del caso di coloro che dichiarano che il regime nazionalsocialista non aveva alcuna intenzione di eliminare il popolo ebraico, negando così il genocidio. Giustificare: l’evento è giustificato, come risposta a un massacro anteriore ovvero più genericamente a un evento o avvenimento. Non si contestano le azioni commesse nei confronti di un gruppo determinato, ma si pretende di portare delle prove della loro legittimità. È il caso per es. di un grave massacro che viene considerato un’azione di legittima difesa effettuata contro una popolazione o un gruppo ostile al governo. Minimizzare: si relativizza, ‘‘è uno dei tanti massacri’’. Il legislatore si avventura qui nel delicato terreno delle pubblicazioni scientifiche che interpretano, a volte relativizzando gratuitamente, la portata di un crimine contro l’umanità, che contestano il suo carattere mostruoso e violento. È il caso per es. di chi descrive come dettaglio della storia l’episodio delle camere a gas. L’oggetto del negazionismo viene ridotto nella maggior parte delle disposizioni in esame al genocidio ebraico — e non a tutti gli altri atti di genocidio o agli altri crimini contro l’umanità — (non è questo ad es. il caso della Spagna, del Portogallo o della Svizzera), per cui in base a tali norme la negazione di altri genocidi o crimini contro l’umanità non potrà essere punita (86). zato o discriminato in un modo che attenta alla dignità umana di una persona o di un gruppo di persone in ragione della loro appartenenza etnica, razziale o religiosa o che, per la medesima ragione, ‘‘niera, minimisera grossiérement ou cherchera à justifier un génocide ou d’autres crimes contre l’humanité’’. Il legislatore svizzero costruisce questo reato come attentato alla pace pubblica e alla dignità umana e attribuisce un ruolo centrale alla motivazione, che sarà valutata dal giudice sulla base di tutti gli elementi ritenuti pertinenti, con l’aiuto del contesto e dei precedenti dell’autore. La Svizzera ha preferito, a differenza di altri paesi (come la Francia, Belgio, Austria), non fare riferimento al regime nazionalsocialista e tenere conto di tutti i crimini contro l’umanità, a prescindere dai loro autori o dalla qualificazione come tali da parte di una giurisdizione nazionale o internazionale. Ciò implica che il giudice dovrà qualificare i fatti contestati in base ai principi di diritto internazionale penale, senza dover essere limitato a giudicare avvenimenti della storia ufficiale, così come consacrati dai tribunali. Per la definizione di genocidio, il più grave dei crimini contro l’umanità, il legislatore fa riferimento alla specifica Convenzione per la prevenzione e repressione di quest’ultimo, adottata dalle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948. Cfr. per tutti A. GUYAZ, L’incrimination de la discrimination raciale, Berna, 1997. Ed ancora M.A. NIGGLI, Rassendiskriminierung. Ein Kommentar zu art. 261-bis StGB und art. 171c MStG, Zürich, 1996; K.L. KUNZ, Zur Unschärfe und zum Rechtsgut der Strafnorm gegen Rassendiskriminierung, in Rivista penale svizzera, 2, 1998, p. 223 ss. (85) Cfr. D. BEISEL, Die Strafbarkeit der Auschwitzlüge-zugleich ein Beitrag zur Auslegung des neuen § 130 StGB, in Neue Juristische Wochenschrift, 1995, p. 1000; W. PLATZGUMMER, Die strafrechtliche Bekämpfung des Neonazismus in Österreich, in Österreichische Juristen Zeitung, 1994, p. 162. (86) Sul concetto di crimini contro l’umanità e di genocidio cfr. A. CASSESE, Il diritto internazionale, cit.; ID., I diritti umani nel mondo contemporaneo, Roma, 1988, p. 69 ss.; F.
— 1051 — Il negazionismo viene a costituire una figura delittuosa autonoma, distinta dalle fattispecie di apologia o di istigazione alla discriminazione razziale e richiede, come visto, a seconda dell’ordinamento che si prende in esame la negazione, la minimizzazione, la giustificazione, l’approvazione o la contestazione del genocidio ebraico o di altri crimini contro l’umanità o, secondo la lettera del codice spagnolo, la diffusione di idee che neghino o pretendano di riabilitare dei regimi o istituzioni che ricorrono a pratiche genocidiarie (87). Altro elemento tipico comune a queste fattispecie è la pubblicità della condotta. A seconda degli ordinamenti si cerca poi di delimitare l’ambito di applicazione con riferimento al requisito dell’idoneità a turbare la pace pubblica (codice tedesco) o con un riferimento alla definizione di crimini contro l’umanità così come definiti dallo Statuto del Tribunale di Norimberga e se giudicati da un tribunale nazionale o internazionale (codice francese). Fatte queste premesse ci sofferemo sulle norme ‘‘contro’’ il negazionismo introdotte in Germania, Francia e Belgio. Per ciascun paese cercheremo di riportare delle applicazioni pratiche delle fattispecie, rivelatrici delle complesse questioni connesse a questa tematica. 7. L’esempio tedesco. — 7.1. La l. del 28 ottobre 1994. — A causa di una serie di manifestazioni razziste e xenofobe che si sono verificate dal 1991 in poi, nell’autunno del 1994, sotto l’impulso del noto caso Deckert (88), il legislatore tedesco ha deciso di adottare nuove misure di diritto penale, processuale penale e di diritto amministrativo per fare fronte ai nuovi e complessi fenomeni razzisti (89). Queste norme sono state raccolte per la maggior parte nella l. del 28 ottobre 1994 (Gesetz zur Änderung des Strafgesetzbuches, der Strafprozessordnung und anderer Gesetze), con la quale è stata creata la fattispecie denominata ‘‘AuLATTANZI, Garanzie, cit.; M. DELMAS MARTY, Le crime contre l’humanité, les droits de l’homme et l’irreductible humain, in Revue de science criminelle, 1994, p. 477 ss.; E. MUHM, La natura giuridica dei crimini contro l’umanità e le attuali critiche in Germania, in questa Rivista, 1997, p. 267 ss.; RONZITTI, Genocidio, in Enc. del dir., 1968, p. 573 ss.; S. CANESTRARI, Genocidio, in Enciclopedia Treccani; P. DROST, Genocide, Leyden, 1959; G. GRASSO, Genocidio (voce), in DDP, p. 399 ss.; R. WHITAKER, Report on genocide, doc. Onu E/cn.4/sub. 2/1985/6, 2 july 1985; J. VERHOEVEN, Le crime de génocide. Originalité et ambiguité, in Revue belge de droit international, 1991, p. 5 ss.; RATNER-ABRAMS, Accountability for Human Rights Atrocities in International Law. Beyond the Nuremberg Legacy, Oxford, 1997, pp. 24-78. Per la definizione di queste fattispecie nello Statuto della Corte Penale Internazionale, istituita a Roma nel luglio 1998, cfr. D. DONATI-CATTIN, Crimes against umanity, in F. LATTANZI, The International Criminal Court. Comments ou le Droghts Statute, Napoli, 1998, p. 49-79. (87) Sull’art. 607 c.p. spagnolo e sulle interessanti osservazioni della dottrina relative alle difficoltà nell’applicazione di questa norma, come quella connessa al grado di conoscenza esigibile dai componenti dei gruppi neo-nazisti sui pericoli di queste affermazioni, cfr. OLIVARES-VALLE MUNIZ, Commentarios al nuevo codigo penal, cit., p. 2283. È immediata qui un’altra osservazione sulle interazioni tra diritto internazionale e diritto penale interno: molti ordinamenti infatti, hanno inserito alcune fattispecie, quali quella di diffusione di idee razziste, su impulso dell’art. 4 della Convenzione internazionale sulla discriminazione razziale. (88) Günter Deckert, vecchio Presidente del Nationaldemokratische Partei Deutschlands (NPD) è stato a più riprese condannato per attività di propaganda razzista. (89) Relativamente alla Germania e al problema del negazionismo storico cfr. D. BEISEL, Die Strafbarkeit der Auschwitzlüge, cit., p. 997 ss.; H. DAHS, Das Verbrechensbekämpfungsgesez vom 28.10.94 - ein Produkt des Superwahljahres, in Neue Juristische Wochenschrift, 1995, p. 553 ss.; S. DIETZ, Die Lüge von der ‘‘Auschwitzlüge’’-Wie weit reicht das Recht auf freie Meinungsäusserung?, in Kritische Justiz, 1995, p. 210 ss.; K. VOGELSANG, Die Neuregelung zur sogenannten ‘‘Auschwitzlüge’’ - Beitrag zur Bewältigung der Vergangenheit oder ‘‘widerliche Aufrechnung’’?, in Neue Juristische Wochenschrift, 1985, p. 2386 ss.; M. WEHIGER, Kolletivbeleidigung - Volksverhetzung der strafrechtlicher Schutz von Bevölkerungsgruppen durch die § 185 ff. und § 130 StGB, Baden Baden, 1994; BAILER GALANDA-BENZNEUGEBAUER, Wahrheit und Auschwitzlüge, cit., in particolare le pp. 237-251; M. TIEDEMANN, In Auschwitz wurde niemand vergast, in Verlag an der Ruhe, 1996; T. BASTIAN, Au-
— 1052 — schwitzlüge’’. Letteralmente questo termine indica la c.d. ‘‘menzogna di Auschwitz’’; è preferibile tuttavia per evitare una confusione politica e concettuale utilizzare il termine negazione dell’Olocausto, che consente di ricomprendere tutte le affermazioni negazioniste riguardanti anche altri campi di sterminio e altri crimini nazisti (90). Prima di questa riforma le fattispecie utilizzate per fare fronte ai casi di negazionismo erano quelle, per es., dell’istigazione all’odio razziale o dell’ingiuria (§ 130, il § 185, § 189 o § 194 StGB). Pertanto, chi esprimeva pubblicamente tali opinioni, commetteva a seconda dei casi il reato di ingiuria (§ 185, § 194 c. 1 par. 2 StGB), di offesa alla memoria dei defunti (§ 189 StGB) e di istigazione all’odio razziale (§ 130 StGB). Il diritto allora in vigore non si dimostrava tuttavia appropriato per punire le molteplici forme di manifestazione dell’attività negazionista: il § 130 StGB, inserito tra i delitti contro l’ordine pubblico, tutelava la pace pubblica, attraverso la previsione di alcune specifiche aggressioni alla dignità umana, che dovevano realizzarsi nei modi previsti dalla norma, cosa che non sempre accadeva nelle ipotesi di negazione o minimizzazione dell’Olocausto (91), con la conseguenza che tale disposizione spesso non risultava applicabile al c.d. revisionismo semplice (einfache Auschwitzlüge) (92). Ugualmente era spesso inapplicabile il § 131 StGB perché mancava la modalità crudele o inumana di esposizione. Si giunse così alla creazione di una fattispecie ad hoc sul negazionismo, fenomeno allarmante in cui ‘‘il destino degli ebrei sotto il regime nazionalsocialista veniva presentato come invenzione e quando a questa affermazione si collegava il motivo della menzogna’’ (93). A spingere il legislatore in tale direzione furono i diversi episodi di negazionismo su cui dovette pronunciarsi nel corso del 1994 il Bundesverfassungsgericht (BVG), propendendo per una soluzione che escludeva la tutela costituzionale di queste affermazioni (94). In una sentenza per es. il BVG riteneva che tali asserzioni, in quanto falsa rappresentazione della storia (falsche geschichtliche Darstellung), fossero contrarie al fondamentale diritto alla libertà di pensiero (95). Fu dunque nel 1994 ‘‘per agevolare l’applicazione dei §§ 130 e 131 StGB e per elevare l’efficacia general-preventiva di queste disposizioni’’ (96) che il Bundestag decise di riformare e migliorare l’apparato normativo in materia. La l. del 28 ottobre ha infatti apportato modifiche rilevanti al § 130 StGB (Volksverhetzung), disposizione che è ora divenuta la norma generale contro la discriminazione razziale, ricomprendendo anche il divieto di scritti incitanti all’odio razziale prima contenuto nel § 131 StGB (97). schwitz und Auschwitzlüge, München, 1997, trad. it., Auschwitz e la ‘‘menzogna su Auschwitz’’, Torino, 1995; D. LIPSTADT, Denying the Holocaust, New York, 1993. (90) Cfr. sulla punibilità della Auschwitzlüge, AA.VV., Wahrheit, cit., p. 238 ss.; G. WERLE, Der Holocaust als Gegenstand der bundesdeutschen Strafjustiz, in Neue Juristische Wochenschrift, 1992, p. 2530. (91) Secondo la dottrina tedesca si trattava di una ‘‘Kumulation von Schutzgütern’’; il bene protetto era infatti la pace pubblica, ma prevedendo come conseguenza l’aggressione della dignità umana, si tutelava anche quest’ultimo bene. Cfr. per tutti RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, B.II, Metzner Verlag, 1991, p. 50. (92) Il c.d. revisionismo semplice viene distinto dal c.d. revisionismo qualificato (qualifizierte Auschwitzlüge), che la giurisprudenza tedesca individua nei casi in cui il destino degli ebrei durante il nazismo è presentato come una invenzione e in cui tale affermazione viene collegata alla tesi del complotto ebraico. Cfr. BVF, 16 novembre 1993, in Neue Juristiche Wochenschrift, 1994, p. 140. (93) Così le parole (tradotte) del BGH, 16 januar 1993, in Neue Juristische Wochenschrift, 1994, p. 140. (94) Cfr. per es. la sentenza del BVerfG, 11 januar 1994, in Neue Juristische Wochenschrift, 1994, p. 1782. (95) Cfr. BVerfG, 13 april 1994, in Neue Juristische Wochenschrift, 1994. (96) In questi termini si esprime il Bundestag, Bundestagsdrucksache, 12/6853, p. 24. (97) Per un commento a questa disposizione cfr. K.J. PARTSCH, Neue Massnahmen
— 1053 — Tuttavia la modifica più rilevante è l’introduzione dell’apposita fattispecie sul negazionismo o ‘‘Auschwitzlüge’’ (§ 130, c. 3 StGB) (98). La disposizione, punisce chi pubblicamente o in una riunione, approva (billigt) nega (leugnet) o minimizza (verharmlost) le azioni commesse di cui all’art. 220 StGB (‘‘Genocidio’’) in maniera idonea a turbare la pace pubblica (99). La fattispecie in esame prevede dunque come condotte non solo la negazione, ma anche l’approvazione, espressa o tacita e la minimizzazione. Oggetto delle affermazioni sono solo gli atti di genocidio commessi dal regime nazionalsocialista, esse dovranno essere rese pubblicamente e in modo idoneo a turbare la pace pubblica (100), intendendo con quest’ultima sia la condizione di pubblica sicurezza, sia il sentimento di sicurezza nella popolazione, suscettibili di essere turbate da tali condotte (101). L’azione deve essere idonea; il contenuto delle affermazioni, il modo di esternazione, le circostanze in cui esse sono state compiute e la considerazione di tutti gli elementi presenti nel caso concreto saranno essenziali per il giudizio di idoneità. Quest’ultimo requisito tuttavia, che apparentemente sembrerebbe delimitare l’area del punibile, in realtà viene svuotato dalla previsione del turbamento della pace pubblica. Inserendo la clausola (di pericolo) di turbamento della pace pubblica, il legislatore penale tedesco non sembra allontanare, a nostro avviso, il rischio di incriminazione delle opinioni. Questo rilievo sembra trovare più precisa conferma nel dato che il § 220 StGB non disciplina solo il genocidio come crimine statale, ma anche come crimine individuale contro altri individui singoli, in ragione della loro appartenenza ad un gruppo, per cui la sfera di applicazione della norma in esame si estende maggiormente e l’unico vero requisito per limitarne l’applicabilità rimarrebbe l’idoneità (102). Come si nota il § 130 StGB rivela che da un lato il legislatore estende il senso scientifico della nozione di negazionismo, contemplando la negazione, la minimizzazione — che può essere quantitativa e qualitativa (103) —, ma anche l’approvazione, col pericolo che siano punibili degli storici del filone revisionista giustificazionista. D’altro lato il legislatore riduce la possibile area di applicazione della norma, prevezur Bekämpfung von Rassen- und Fremdenhass - Bessere Durchführung der internationalen Verpflichtungen Deutschlands, in EuGRZ, 1994, p. 433 ss.; DREHER-TRÖNDLE, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, § 130, p. 18; KÖNIG-SEITZ, Neue Strafrecht Zeitschrift, 1995, p. 1; D. BEISEL, Die Strafbarkeit der ‘‘Auschwitzlüge’’, cit., p. 998. (98) Il concetto di ‘‘Auschwitzlüge’’ comparve nel 1973 come titolo di una brochure del tedesco neonazista Andersen sulla menzogna delle camere a gas. Suoi precursori furono due francesi, Paul Rassinier e Robert Faurisson. (99) § 130 StGB, comma 3: ‘‘(...) wer eine unter der Herrschaft des Nationalsozialismus begangene Handlung der in § 220 a Abs. 1 bezeichneten Art in einer Weise, die geeignet ist, den öffentlichen Friede zu stören, öffentlich oder in einer Versammlung billigt, leugnet oder verharmlost’’. (100) Menzionata in numerose disposizioni dello Strafgesetzbuch (artt. 126, 130, 140, 166), la pace pubblica è definita innanzitutto come situazione in cui i cittadini hanno la sensazione che sono e resteranno protetti nei loro interessi legittimi garantiti dall’ordine giuridico. Questa concezione soggettiva della pace pubblica rimanda al sentimento di pubblica sicurezza dei cittadini. Un’altra concezione è quella obiettiva, che considera la pace pubblica come una situazione oggettiva, caratterizzata dall’assenza di violenza tra le differenti classi. Dopo diversi anni di esitazione la giurisprudenza e la dottrina hanno optato per la concezione c.d. dualista, che ammette che la pace pubblica può essere messa in pericolo tanto da una minaccia verso uno stato effettivo di sicurezza, quanto da una minaccia verso il sentimento di pubblica sicurezza. (101) Sul riferimento alla pace pubblica e alle relative componenti di tranquillità e sicurezza cfr. G. DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, p. 41 ss. (102) Così SCHRÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, München, 1997, § 130, p. 16. (103) Cfr. SCHRÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit. Quantitativa sarà la minimizzazione che riduce per es. il numero di ebrei uccisi, qualitativa quella che afferma per es. che il genocidio commesso dai nazisti non è poi stata una cosa così terribile.
— 1054 — dendo che il negazionismo riguardi solamente i crimini commessi dal regime nazionalsocialista (104). Leggendo il dettato normativo, sembra pertanto che le affermazioni negazioniste possano interessare esclusivamente avvenimenti verificatisi durante quel periodo storico; non si reprime quindi il negazionismo in quanto manifesta e generale negazione di genocidi o altri crimini contro l’umanità, ma si riduce la sua complessità e la sua potenziale sfera di estensione, circoscrivendolo ed identificandolo con la sola negazione dell’Olocausto (105). Il legislatore tedesco in questo modo fotografa l’offensiva negazionista in modo corrispondente alla rappresentazione esistente nell’opinione pubblica, legittimando e cristallizzando nella norma penale la conoscenza e la rappresentazione ridotta del senso comune. 7.2. La sentenza del BundesVerfassungsGericht. — È interessante sintetizzare una sentenza della Corte costituzionale tedesca del 1994 a proposito di un caso di negazionismo, che sebbene precedente all’introduzione della norma che consente espressamente la sua repressione, è in grado di segnalare la complessità e la problematicità della tematica in esame. In questa pronuncia la Corte ha dichiarato compatibile la fattispecie in questione con il diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero (106). Nel caso particolare erano state imposte dalle competenti autorità amministrative delle misure limitative della libertà di espressione in occasione di una riunione organizzata dal Partito nazionaldemocratico tedesco cui doveva partecipare il negazionista David Irving e nel corso della quale era prevedibile che si sarebbe negato lo sterminio degli ebrei (107). 7.2.1. Motivi della ricorrente. — La ricorrente, pur non contestando il pericolo che le affermazioni venissero compiute, contestava in radice la legittimità di questo provvedimento, lamentando una lesione del diritto fondamentale alla libertà di opinione, ex art. 5 della Legge Fondamentale, diritto che veniva limitato in quel caso concreto dalle disposizioni contenute nella legge sul diritto di riunione (§ 5, n. 4) e dalle norme del codice penale (108). Ad avviso della ricorrente poi, il diritto della personalità, offeso secondo la Corte di cassazione dalle affermazioni negazioniste, dovrebbe essere subordinato al diritto di libera manifestazione del pensiero, che diversamente sarebbe violato. 7.2.2. Conclusioni della Corte. — La Corte, sebbene si trattasse di misure limitative del diritto di riunione, riconduce la soluzione del caso nel quadro della tutela della libertà di espressione e afferma che nella tutela costituzionale prevista dall’art. 5 della Legge Fondamentale per la libertà d’opinione, non rientra la negazione dello sterminio degli ebrei durante la dittatura nazionalsocialista. Nell’affrontare questa tematica la Corte utilizza per il suo ragionamento la distinzione tra fatto e opinione (109). Oggetto della tutela costituzionale sarebbe dunque sia la manifestazione di un’opinione, definita secondo una relazione (104) Diversamente il § 194 StGB. (105) Per una critica a questa limitazione cfr. DREHER-TRÖNDLE, § 130, Strafgesetzbuch, cit. Sui genocidi del XX sec. cfr. Y. TERNON, L’Etat criminel, Paris, 1995, trad. it., ID., Lo Stato criminale. Genocidi del XX sec., Milano, 1997. (106) Cfr. BVerfG, 13 april 1994, cit., p. 1779. Un testo della decisione, tradotto in italiano si ritrova in Giurisprudenza costituzionale, 1994, con il commento di M.C. VITUCCI, Olocausto, capacità di incorporazione del dissenso e tutela costituzionale dell’asserzione di un fatto in una recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe, p. 3379 ss. (107) Richiamandosi ad alcune decisioni dei Tribunali ordinari le autorità amministrative hanno interpretato la negazione del genocidio ebraico come un’ingiuria arrecata a questo gruppo. Per una critica a questi orientamenti, in quanto ritenuti eccessivamente estensivi del reato di ingiuria cfr. SCHOENKE-SCHRÖDER, § 185, Strafgesetzbuch, Kommentar, cit. (108) In questo modo, ad avviso della ricorrente, il diritto impedirebbe una discussione sgradita sulla storia contemporanea e reprimerebbe le ricerche sulla storia della Germania più recente, vanificando un diritto fondamentale. (109) In Italia in una sentenza del 1989 riguardante il diritto all’informazione, la
— 1055 — soggettiva tra l’individuo ed il contenuto della sua affermazione, sia l’asserzione di un fatto, in cui sussiste una relazione oggettiva tra l’affermazione e la realtà. Le asserzioni di fatti (Tatsachenbehauptungen) sono protette in misura diversa e solo se costituiscono presupposto per la formazione di un’opinione. Infatti, nel momento in cui esse non possono contribuire alla formazione di un’opinione, perché imprecise, perché scientemente o dimostratamente false, non rientrano più nella garanzia costituzionale (110). Solo nei casi in cui la distinzione tra manifestazione di un’opinione e asserzione di un fatto non sia possibile o troppo difficile, si deve considerare il comportamento come manifestazione di opinione per non limitare considerevolmente questo diritto fondamentale (111). La Corte prosegue, richiamando le disposizioni generali che consentono di limitare la libertà di espressione e ribadisce l’importanza della valutazione (ponderazione) nel caso concreto per individuare quale bene giuridico meriti di essere tutelato: la libertà di espressione infatti non sempre è prevalente rispetto alla tutela della personalità, che di regola invece prevale (112). Per di più se i fatti affermati, come nel caso in esame, sono dimostrati falsi, la libertà di espressione è normalmente posposta alla tutela della personalità. Le affermazioni negazioniste, secondo la Corte, non costituiscono manifestazione di pensiero, ma asserzione di un fatto e come tali sono tutelate solo se costituiscono il presupposto per la formazione di un’opinione. Non è questo il caso delle asserzioni negazioniste delle persecuzioni naziste verso gli ebrei, la cui falsità è ampiamente dimostrata (113). Punire il negazionismo è dunque costituzionalmente legittimo in quanto esso attenta ai diritti della personalità, offesa che risulta più pesante della restrizione che si apporta in questi casi alla libertà di espressione. La Corte costituzionale, ritiene pertanto che in assenza (allora infatti non era ancora stata introdotta) di una norma specifica sul negazionismo, queste affermazioni debbano essere ricondotte alla norma più generale sull’ingiuria (§ 185) collegata al § 194, par. 2, perché considerate offensive dei diritti della personalità. Senza voler qui esprimere giudizi di valore o commentare la decisione, si può tuttavia osservare che da questa sentenza emerge una prima fondamentale questione: quanto sostenuto dal BVF implica non solo di risolvere la difficoltà di trovare un criterio per distinguere i fatti dalle opinioni (114), ma può comportare il rischio di restringere eccessivamente la libertà di opinione, tanto più che la verità oggettiva del fatto che si vuole asserire diviene il parametro per decidere se ci si trova in presenza di un’opinione, rientrante o meno nella garanzia costituzionale (115). Ma non è forse troppo pericoloso accettare come criterio centrale nella decisione quello della verifica della verità oggettiva? La Corte in tale pronuncia Cassazione aveva affrontato la distinzione tra espressione del pensiero e narrazione di fatti, cfr. Corte di cassazione, n. 5259, 18 ottobre 1984, in Foro it., 1984, I, p. 2711. (110) Cfr. per questi orientamenti le Entscheindungen des Bundesverfassungsgerichts, 61, 1 (8); 54, 208, (219); 61, 1 (8). (111) Entscheindungen des Bundesverfassungsgerichts, 61, 1 (9); 85, 1 (15 ss.). (112) Cfr. SCHULZE FIELITZ, Anmerkung, in Juristenzeitung, 1994, p. 992. Il principio di ponderazione è corrispondente al nostro principio di bilanciamento, operato sulla base del criterio di ragionevolezza. Cfr. a questo proposito e rispetto alle scelte di criminalizzazione G. INSOLERA, Il principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, Vol. I, a cura di INSOLERA, MAZZACUVA, PAVARINI, ZANOTTI, Torino, 1997, p. 264 ss. (113) Per una posizione critica rispetto all’orientamento della Corte tedesca cfr. A. GUYAZ, L’incrimination, cit., p. 192 ss. (114) Il problema di distinguere un’opinione dall’enunciazione di un fatto inesatto, non protetto dalla libertà d’espressione, si è presentato anche alla Corte Europea. Caso Lingens c. Austria, 8 giugno 1986, serie A n. 103. (115) Sul punto e per alcune considerazioni critiche cfr. M. VITUCCI, Olocausto, capacità, cit., pp. 3397-3399.
— 1056 — sembra trascurare la difficoltà della verificabilità della verità, dei confini tra verità storica e verità legale, compiti che esulano senza dubbio da quelli del giurista. 8. L’esempio francese. — La Francia dispone ormai di molteplici disposizioni finalizzate a prevenire e reprimere i fenomeni neo-razzisti, ma è solo nel 1990 che il legislatore francese ha introdotto una norma esplicita per punire le affermazioni negazioniste. Il filone negazionista, diffusosi in questo paese soprattutto dalla fine degli anni ’70, sotto l’impulso di Robert Faurisson e di Paul Rassinier, ha assunto dimensioni sempre più vaste, rivelandosi più frequente degli episodi di antisemitismo, che sebbene gravi sembrano più rari (116). L’ordinamento francese accanto alla previsione del diritto alla libera manifestazione del pensiero consente di punire gli abusi di tale diritto. L’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, cui il Preambolo della Costituzione conferisce valore di diritto positivo, afferma infatti che la libera manifestazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge. La legge che tuttora costituisce la base generale per le norme specifiche relative alle manifestazioni di pensiero pubbliche di tipo orale, scritto, audiovisivo è la l. 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa (117). In materia di discriminazione razziale il legislatore francese è intervenuto a più riprese. Nel 1939 (c.d. Loi Marchandeau) ha aggiunto delle disposizioni alla succitata legge, che tuttavia si rivelarono ben presto insufficienti per ricomprendere tutti i fenomeni razzisti (118). Nel 1972, su impulso della Convenzione internazionale per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, la Francia ha promulgato una nuova legge contro il razzismo che completava la legislazione precedente (119). (116) Sui negazionisti francesi, VIDAL NAQUET, Les assassins de la mémoire, cit.; V. PISANTY, L’irritante questione, cit., pp. 7-12; 33-44; 72-81; 144-152. Sull’antisemitismo e sulla sua evoluzione in Francia cfr. COMMISSION CONSULTATIVE DE DROITS DE L’HOMME, 1996. La lutte contre le racisme et la xenophobie, in Documentation Française, 1997, pp. 29-37. Per quanto riguarda il Front National e il negazionismo, cfr. V. IGOUNET, Un négationnisme strategique, in Le monde diplomatique, mai 1998, p. 17. (117) In particolare la legge richiamata prevede e reprime la pubblica istigazione alla discriminazione, all’odio o alla violenza (art. 24, comma 6, modificato dalla l. del 1o luglio 1972), la diffamazione (art. 32, comma 2) e l’ingiuria (art. 33, comma 3) in ragione dell’origine o dell’appartenenza o non a una etnia, a una razza o a una religione determinata. L’art. 24, comma 3, di questa legge prevede secondo la modifica apportata dalla l. n. 87-1157 del 31 dicembre 1987, l’apologia di crimini contro l’umanità, interpretata dalla giurisprudenza come quelle pubblicazioni o valutazioni rese in pubblico che istigano coloro a cui sono rivolte a giudicare favorevolmente da un punto di vista morale o a giustificare uno più crimini contro l’umanità. (118) Questa legge aggiunge un comma all’art. 32 della legge del 1881, vietando la diffamazione e l’ingiuria nei confronti di persone appartenenti ad una razza o religione determinata, allorché l’azione abbia come scopo di incitare all’odio tra i cittadini e gli abitanti. Si richiedono dunque tre condizioni: l’istigazione all’odio, sulla base della razza o della religione, nei confronti di un gruppo. Sulle lacune di questo decreto cfr. A. GUYAZ, L’incrimination de la discrimination raciale, cit., p. 85 e FOULON PIGANIOL, Réflexions sur la diffamation raciale, in Dalloz, 1970, Chronique, p. 133. (119) Con questa legge viene per es. aggiunto un quinto comma all’art. 24 della l. del 1881, che prevede la punibilità della provocazione alla discriminazione, all’odio o alla violenza nei confronti di una persona o di un gruppo in ragione dell’appartenenza o non ad una etnia, nazione, razza o religione determinata. Vengono inoltre introdotte nel codice penale alcune disposizioni miranti a punire la discriminazione, distinguendo la discriminazione operata dal funzionario o da quella del singolo. Per tutte le modificazioni apportate da questa normativa e per ulteriori approfondimenti cfr. J. COSTA-LASCOUX, La Loi du 1er juillet 1972
— 1057 — Tra il 1977 e il 1990 (anno di approvazione dell’importante Loi Gayssot) (120) furono apportate diverse modifiche al codice penale: si introdusse l’incriminazione di nuovi motivi (sesso, origine, situazione familiare, stato di salute e handicap) e di nuove forme di discriminazione, come ad es. il fatto di rendere più difficile l’esercizio di una qualunque attività economica in condizioni normali. Il complesso di norme mirante a combattere i fenomeni razzisti viene ulteriormente rinforzato dalla l. n. 90-602 del 13 luglio 1990 (Loi Gayssot), approvata per reprimere ogni atto razzista, antisemita e xenofobo, e con cui viene introdotta anche una norma ad hoc sul negazionismo (art. 24-bis — Contestation de crimes contre l’humanité —). Questa legge crea nuove fattispecie di reato, riorganizza il regime delle pene in materia ed estende i poteri delle associazioni in questo ambito, soprattutto in materia di reati di stampa. La punibilità dell’ideologia razzista in quanto tale, ad esclusione per l’appunto delle fattispecie di apologia (121) e di contestazione di crimini contro l’umanità, non è prevista in nessun altro caso. Confermando quanto sancito dall’art. 10, comma 2, Cedu (122), il legislatore francese con l’art. 24-bis, inserito nella legge del 1881 dall’art. 9 della Loi Gayssot del 1990, concernente la repressione della contestazione di crimini contro l’umanità, decide di punire la negazione pubblica dei crimini contro l’umanità (123). In particolare, in base a questa disposizione, saranno puniti coloro che contestano tramite uno dei modi previsti dall’art. 23 (124) della stessa legge, i crimini contro l’umanità, come definiti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale militare internazionale annesso all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945 e che sono stati commessi tanto da membri di un’organizzazione dichiarata criminale ai sensi dell’art. 9 dell’Accordo quanto da una persona riconosciuta colpevole di questi crimini da una giurisdizione francese o internazionale (125). A differenza dell’apologia di crimini contro l’umanità, disciplinata dall’art. 24, comma 2, della stessa legge, la fattispecie di contestazione reprime la negazione pubblica dei crimini contro l’umanità, come definiti nel 1945 dallo Statuto del Tribunale militare di Norimberga, et la protection pénale des immigrés contre la discrimination raciale, in Droit social, 1976, p. 181 ss. e A. GUYAZ, L’incrimination, cit., pp. 87-90; C. KORMAN, Le délit de diffusion des idées racistes, in La semaine juridique, I, 1989, p. 3404. (120) La Loi Gayssot prende il nome per l’appunto dal parlamentare comunista che l’ha proposta. (121) Art. 24 ‘‘Seront punis (...) ceux qui par le discours, écris ou proférés dans des lieux ou reunion publics, soit par des ecrits (...) auront directement provoqué l’auteur ou les auteurs à commetre la dite action, si la provocation a été suivie d’effet’’. (122) Abbiamo già constatato infatti che a livello internazionale non solo la Convenzione Europea, ma anche altri strumenti, come l’art. 19 del Patto sui diritti civili-politici prevedono la possibilità di misure limitative di fronte ad abusi che possano offendere la reputazione e i diritti altrui. (123) La legge in questione non è stata vagliata dalla Corte costituzionale e comunque anche il controllo di costituzionalità a priori in quanto astratto non avrebbe potuto evidenziare talune irregolarità riscontrabili nelle applicazioni concrete. (124) L’art. 23 relativo alla diffamazione elenca come mezzi di diffusione, il discorso in luoghi o riunioni pubbliche, gli scritti, i disegni, gli emblemi, le immagini, quadri venduti o distribuiti, messi in vendita o esposti in luoghi o riunioni pubbliche o attraverso manifesti esposti al pubblico. (125) Art. 24-bis: ‘‘Seront punis (...) ceux qui auront contesté l’existence d’un ou plusieurs crimes contre l’humanité tels qu’ils sont définis par l’article 6 du statut du Tribunal militaire international annexe à l’Accorde de Londres du 8 août 1945 et qui ont été commis soit par les membres d’une organisation déclarée criminelle en application de l’article 9 du dit Statut, soit par une personne coupable de tels crimes par une jurisdiction française ou internationale’’. Per un commento a queste norme cfr. J.P. FELDMAN, Peut on dire impunement n’importe quoi sur la shoah? Revue Trimestriellé des Droits de l’homme, 1998.
— 1058 — i cui autori sono stati condannati da una giurisdizione francese o internazionale (126). Elemento costitutivo del delitto è la pubblicità della contestazione, soddisfatta se le affermazioni sono tenute in pubblico, o compiute ad alta voce in modo da poter essere comprese (127). Per la definizione della fattispecie dei crimini contro l’umanità il legislatore francese sceglie come asse di riferimento l’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga, ritenendo che questa norma abbia la capacità di limitare il rischio di trasformare il giudice in giudice della storia e il Tribunale in luogo dove risolvere questioni non giuridiche, ma storiche. Ciò, tuttavia, presupporrebbe una tassativa descrizione dei crimini contro l’umanità, che sembra non ritrovarsi nello Statuto dell’8 agosto 1945, richiamato dall’art. 24-bis. Il legislatore francese ha cercato di circoscrivere e limitare l’ambito di applicazione della norma. La figura delittuosa è infatti concepita solo come negazione di quei crimini contro l’umanità commessi durante la seconda guerra mondiale, escludendo la negazione di altri genocidi (128). Possiamo ricordare a questo proposito il caso suscitato dallo storico Bernard Lewis, il quale avendo negato l’esistenza del genocidio armeno, era stato accusato di contestazione di crimini contro l’umanità (art. 24-bis). Tuttavia il Tribunal correctionel di Parigi ha dichiarato irricevibili tali accuse, perché il delitto di negazionismo ha come oggetto solo ‘‘i crimini contro l’umanità commessi durante la seconda guerra mondiale da organizzazioni o persone che agivano per conto dei paesi facenti parte dell’Asse’’. Il tribunale ha ritenuto pertanto che la negazione del genocidio degli armeni non rientrasse nel campo di applicazione della Loi Gayssot. La vicenda si è poi conclusa con una condanna in ambito civile da parte del Tribunale di grande Istanza di Parigi, il quale ha affermato che ‘‘non compete ai Tribunali di valutare se il massacro commesso dal 1915 al 1917 costituisce o no genocidio. (...). Lo storico ha per principio la libertà di esporre i fatti secondo il suo punto di vista. (...)’’. Ma ciò che Lewis ha fatto è di non presentare elementi contrari alla sua tesi, quali la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1985 e la Risoluzione del Parlamento Europeo del 1987, che qualificava come genocidio il massacro degli armeni (129). Il legislatore francese, inoltre, al fine di evitare la creazione di un delitto di opinione, criminalizza solo i comportamenti che negano quei crimini, accertati da una giurisdizione nazionale o internazionale. A tale riguardo è interessante accennare ad una sentenza del 1993 nella quale la Corte d’appello di Aix en Provence afferma che il razzismo non costituisce un’opinione, ma un delitto, (126) Sulla prima sentenza che richiama questa norma cfr. Cour d’appel, Paris, 31 octobre 1990, in Gaz. Palais, p. 311. Per una prima applicazione cfr. la sentenza del 1991 sul caso Faurisson e la sentenza della Cour de cassation 23 febbraio 1993, in Bulletin criminel, 1993, n. 86, p. 208. Una sintesi chiara di tutti i casi di contestazione di crimini contro l’umanità si ritrova in F. JEANNIN, Révisionnisme. Contribution à l’étude du regime juridique de la liberté d’opinion en France, in Thèse, 1995, p. 227 ss. Per una risposta all’obiezione negazionista che il giudizio di Norimberga non poteva essere utilizzato, perché non pubblicato in una Gazzetta ufficiale, cfr. la risposta della Cour de cassation criminelle, 23 febbraio 1993, in Revue general de droit international public, 1994, n. 2, p. 482 ss., che afferma l’autorità di cosa giudicata di una sentenza attribuisce carattere definitivo indipendentemente dalla pubblicazione. (127) Così la giurisprudenza francese, Crim. 17 novembre 1983, in Bulletin criminel, n. 260. Per altre sentenze sull’elemento della pubblicità cfr. la giurisprudenza richiamata nell’art. 23 code pénal 1997-1998, Paris, 1997. (128) Sulle altre proposte di formulazione della norma sul negazionismo cfr. F. JEANNIN, Révisionnisme, cit., p. 208 ss. La Loi Gayssot ha incontrato molta opposizione, soprattutto per le restrizioni che essa apporta alla libertà di opinione, incrementate dal non avvenuto controllo di costituzionalità. (129) Sul caso Lewis (iniziato con l’intervista su Le Monde del 13 novembre 1993 e conclusosi con la sentenza del 21 giugno 1995) cfr. Liberation, 17 ottobre e 19 novembre 1994; Le Monde, 23 giugno 1995 e Le Figaro, 26 giugno 1995. Si ricorda inoltre che l’Assemblea Nazionale francese ha riconosciuto l’esistenza del genocidio perpetrato contro il popolo armeno proprio a maggio 1998. Cfr. Le Monde, 19 maggio 1998.
— 1059 — in particolare quando si basa sulla contestazione di crimini contro l’umanità, giudicati da Norimberga, la cui decisione ha autorità di cosa giudicata (130). Infine possiamo osservare che se da un lato il riferimento al giudizio di Norimberga circoscrive le ipotesi di punibilità, dall’altro rimette allo scoperto le debolezze e le aporie di quel giudizio rispetto alla definizione attuale di crimini contro l’umanità (131) e rispetto infine alle nuove e raffinate forme di negazionismo. Relativamente a quest’ultimo aspetto possiamo ricordare quell’ipotesi verificatasi nel 1994 in seguito alla pubblicazione di un articolo di Guionnet nella rivista ‘‘Revision’’. L’autore negazionista affermava, al fine di minimizzare il genocidio, che ad Auschwitz c’erano stati solo 125.000 morti. Il Tribunal de Grande Istance de Paris non ha ritenuto applicabile a Guionnet il reato di contestazione di crimini contro l’umanità, basandosi sul fatto che al momento del giudizio di Norimberga non erano state ancora indicate le cifre dei morti ad Auschwitz (132). Nell’introduzione della nuova previsione della Loi Gayssot il legislatore ha cercato dunque di limitare i rischi di eccessiva compressione della libertà di espressione e il pericolo di affidare ai Tribunali il compito di ricerca della verità storica, prevedendo la negazione del solo genocidio nazionalsocialista e di crimini giudicati da un tribunale nazionale o internazionale. Da ultimo possiamo rilevare come la medesima tensione si sia tradotta nell’impossibilità di ricomprendere alcuni dei metodi degli autori negazionisti tra i comportamenti punibili, o alcune negazioni di altri genocidi (caso Lewis). Nessuna norma prima dell’art. 24-bis prevedeva esplicitamente la repressione degli scritti revisionisti o negazionisti, spesso reali vettori di antisemitismo, e si era dunque obbligati a ricorrere alla fattispecie della diffamazione razziale per punire gli autori delle tesi che accusavano la comunità ebraica di creare e mantenere il mito dell’Olocausto (133). Il quadro normativo, così come sopra delineato, non è stato profondamente modificato dall’entrata in vigore (1o marzo 1994) del nuovo codice penale, che ha codificato a livello interno i crimini contro l’umanità (134), ed è stato completato da un decreto del 29 marzo 1993 che reprime a titolo di contravvenzione la diffamazione e l’ingiuria non pubbliche con carattere razzista o discriminatorio (art. R. 624-3 a R 624-6) e la provocazione alla discriminazione, all’odio o alla violenza razziale (art. R. 625-7). Questo rapido excursus della normativa francese mostra che in questo paese il legisla(130) Cour. d’Appel, Aix-en Provence, 7 janvier 1993. Il giudicato diventa in questo modo elemento costitutivo. (131) La nozione di crimine contro l’umanità è ora una nozione autonoma rispetto a quella dei crimini di guerra, diversamente da quanto previsto dall’art. 6 dello Statuto annesso all’Accordo di Londra. Essa ha ormai subito notevoli sviluppi, grazie non solo ad alcune norme di dirtto positivo (Convenzioni, Statuti dei due Tribunali ad hoc per il Ruanda e la ex Yugoslavia, Statuto per una Corte Penale Permanente), ma anche dalla giurisprudenza (sia dei tribunali nazionali — Barbie, Touvier, Papon —, sia delle giurisdizioni internazionali). (132) Cfr. TGI, 24 marzo 1994. L’atteggiamento prudente del Tribunale si spiega con il timore dei giudici di diventare giudici della storia. (133) Per alcuni precedenti cfr. BATSELE-HANOTIAU-DAURMONT, La lutte contre le racisme et la xenophobie, Bruxelles, 1992, p. 135 ss. ed anche A. GUYAZ, op. cit., n. 27 p. 92. (134) La parte speciale del nuovo codice si apre con ‘‘Les crimes contre l’humanité’’, introdotti nel nuovo codice penale francese (art. 211-1 e ss.), sebbene in Francia abbiano già avuto luogo processi per questi crimini (affare Touvier e affare Barbie e da ultimo, ma con in vigore il nuovo codice, il processo Papon). Cfr. P. COUVRAT, Les infractions contre les personnes dans le nouveau code pénal, in Revue de science criminelle et de droit comparé, 1993, p. 469 ss. In questa materia il nuovo codice ha poi aumentato alcune delle pene previste ed aggiunto nuove pene complementari. Inoltre le discriminazioni commesse dai singoli sono l’oggetto di una sezione consacrata alla tutela della dignità della persona (artt. 225-1 e 4). L’art. 423-7 punisce le discriminazioni ad opera di un funzionario e l’art. 225-18 il caso in cui si attenti al rispetto dei defunti, se il reato è commesso in ragione dell’appartenenza o no delle persone decedute ad un’etnia, una nazione, una razza, o una religione.
— 1060 — tore ha adottato progressivamente numerose disposizioni che rendono punibili comportamenti razzisti, sino al negazionismo, preoccupandosi di distinguere di volta in volta i beni giuridici offesi dai comportamenti delittuosi. Vengono punite più severamente le condotte che costituiscono attentati all’autorità o alla sicurezza dello Stato (discriminazioni commesse da funzionari, provocazione alla discriminazione razziale e negazione di un crimine contro l’umanità). Diversamente sono invece sanzionati i comportamenti che attentano alla dignità o all’onore della persona (discriminazione commessa dai singoli e diffamazione e ingiuria razziale). 8.1. Applicazioni pratiche dell’art. 24-bis. — Un accenno alla giurisprudenza francese faciliterà l’individuazione di ulteriori spunti di riflessione sollevati da questa tematica nei casi concreti. Nel 1992 era stato pubblicato sulla rivista Revision un articolo in cui si metteva in dubbio in particolare l’esistenza delle camere a gas nel campo di Struthof e più in generale l’utilizzo delle camere a gas nei campi nazisti. L’autore dell’articolo fu condannato nel 1993 in base all’art. 24-bis. In quell’occasione per giustificare la limitazione della libertà di pensiero si fece ricorso a due argomentazioni principali: l’incriminazione prevista dall’art. 24-bis si inquadra nella lotta contro il razzismo e dà attuazione ad impegni internazionali (art. 4 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale). In secondo luogo si ritenne che le restrizioni adottate in quella situazione costituissero misure necessarie in una società democratica per la protezione della morale e dei diritti altrui. La tesi della compatibilità dell’art. 24-bis con il diritto alla libertà di espressione viene affermata dal Tribunal correctionel di Parigi e confermata dalla Corte d’appello e dalla Corte di cassazione. Il caso è stato poi, sulla base di un ricorso di Marais, sottoposto all’esame della Commissione Europea che lo ha rigettato per infondatezza, confermando, nella situazione concreta, la legittimità e la necessità della limitazione della libertà di pensiero (135). Un altro episodio si è verificato il 2 luglio 1993, quando è apparso su un settimanale un disegno intitolato ‘‘La liberazione di Buchenwald’’, che raffigurava un soldato americano che chiedeva a cinque deportati ‘‘Dove sono le camere a gas?’’ e questi ultimi gli rispondevano indicando quattro differenti direzioni. Il disegno accompagnava un articolo, che criticava un film proiettato dalla rete franco-tedesca Arte sulla liberazione dei campi di concentramento tedeschi da parte delle forze americane. Più precisamente l’articolo affermava che è ormai accertato che non sono mai esistite delle camere a gas nel III. Reich. Il direttore del settimanale e l’autore del disegno in questione sono stati puniti sia in primo sia in secondo grado per contestazione di crimini contro l’umanità (136). Il 27 febbraio 1998, infine, il Tribunal correctionel di Parigi si è pronunciato in merito a cinque differenti capi d’imputazione relativi alla seconda edizione del testo intitolato ‘‘Les mythes fondateurs de la politique israeliénne’’ di Roger Garaudy, pubblicato nel dicembre 1995. Questo testo, che riprende le tesi di Faurisson, contesta l’esistenza delle camere a gas, rimettendo in discussione il loro funzionamento ed alcune testimonianze a riguardo. Garaudy è stato poi condannato per diffamazione razziale: i giudici hanno ritenuto infatti che attribuire agli ebrei di aver sacralizzato e ingrandito il fenomeno del genocidio a fini politici reca un evidente attentato all’onore e alla considerazione della comunità ebraica. Egli (135) Non potendo qui dilungarci sulle interessanti motivazioni della Commissione si rimanda alla decisione Pierre Marais c. France, 24 juin 1996, n. 31159/96, D.R., 86-A, p. 184 e allo studio di G. COHEN JONATHAN, Négationnisme et droits de l’homme, cit., pp. 576577. (136) Cfr. le sentenze del Tribunal de grande istance (10 gennaio 1994) e della Cour d’Appel di Parigi (8 giugno 1994). Per altri interessanti casi di negazionismo cfr. affaire Guionnet, Cassation criminelle, 23 fevrier 1993, in Bulletin criminel, 1993, n. 86, p. 208; Cour de Cassation, 17 juin 1997, Recueil Dalloz, 1998, Jurisprudence p. 40 ss.; affaire Faurisson, in G.P., 1991, p. 452 ss. e quelli riportati nello studio di G. COHEN JONATHAN, Négationnisme, cit., p. 589 ss.
— 1061 — è inoltre stato condannato per contestazione di crimini contro l’umanità: infatti, lungi dal limitarsi ad una critica di natura politica o ideologica del sionismo — critica lecita e rientrante nella libertà d’espressione — o ad un’analisi obbiettiva di una polemica rispetto all’esistenza delle camere a gas, Garaudy ha invece contestato in maniera virulenta e sistematica l’esistenza stessa dei crimini contro l’umanità commessi verso la comunità ebraica, attingendo a quell’ampia letteratura negazionista già esistente (137). La Corte di appello, poi, il 16 dicembre 1998, ha confermato la condanna di Garaudy per contestazione di crimini contro l’umanità, per diffamazione razziale e provocazione all’odio razziale ed ha aumentato la pena a nove mesi di reclusione e a 120 000 franchi di ammenda (138). 9. L’esempio belga. — Nel diritto belga troviamo due leggi sul negazionismo: la prima è del 30 luglio 1981 e reprime, dando esecuzione alla Convenzione internazionale sulla discriminazione razziale del 1975, le azioni ispirate al razzismo e xenofobia. La seconda legge risale invece al 23 marzo 1995 ed è intitolata proprio ‘‘Per la repressione della negazione, della minimizzazione, della giustificazione o dell’approvazione del genocidio commesso dal regime nazional-socialista tedesco durante la seconda guerra mondiale’’. L’art. 1 di questa legge stabilisce che sarà punito chiunque, in una delle circostanze indicate all’art. 444 c.p., neghi, minimizzi grossolanamente, cerchi di giustificare o approvi il genocidio commesso dal regime nazional-socialista tedesco durante la seconda guerra mondiale. Il comma 2 precisa che il termine genocidio va inteso ai sensi dell’art. 2 della Convenzione internazionale del 1948 per la prevenzione e repressione del genocidio (139). Le circostanze di pubblicità previste dall’art. 444 c.p. sono quelle secondo cui le affermazioni devono essere compiute in riunioni o luoghi pubblici, in presenza di più persone, in scritti distribuiti o messi in vendita o attraverso delle immagini esposte o vendute al pubblico; esse potranno essere contenute anche in scritti non resi pubblici, ma comunque indirizzati o comunicati a più persone. Per la definizione di genocidio il legislatore belga richiama dunque l’art. 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio del 1948. Anche in questo caso la negazione presa in considerazione dalle disposizioni normative ha come oggetto il genocidio commesso dai nazisti. Il legislatore belga, pertanto, seppure ispiratosi alla normativa francese, ha cercato di evitare di riprodurre e ricreare le medesime debolezze della Loi Gayssot che, facendo riferimento alle decisioni del Tribunale Militare di Norimberga, ha dato luogo al duplice inconveniente di restringere eccessivamente il campo di applicazione delle disposizioni e di erigere i processi e le pronunce a verità ufficiale. La legge belga stabilisce dunque le condotte rilevanti — negazione, minimizzazione (137) Tribunal correctionel de Paris, 27 fevrier 1998. Sul processo di appello cfr. Le Monde, 16 ottobre 1998, ed ancora Le Figaro, 15 ottobre 1998; Le Figaro, 4 novembre 1998. A proposito del dibattito sulla legge Gayssot come legge liberticida cfr. Le Figaro, 1718 janvier 1998 e Le Monde, 18-19 janvier 1998. Sul caso Garaudy cfr. P.A. TAGUIEFF, L’abbé Pierre et Roger Garaudy. Négationnisme, antijudaisme, antisémitisme, in Esprit, août-septembre 1996. Sul sostegno di intellettuali e uomini politici arabi a Garaudy cfr. Le Monde, 1-2 mars 1998. (138) Le Figaro, 17 decembre 1998; L’Humanité, 17 decembre 1998. (139) Ai sensi dell’art. 2 di questa Convenzione si considerano atti di genocidio quelli commessi con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Gli atti costituenti genocidio sono poi elencati in modo tassativo e comprendono la morte di membri di un gruppo, l’attentato grave all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo, la sottomissione intenzionale del gruppo a condizioni di esistenza miranti alla sua distruzione totale o parziale, misure miranti a impedire le nascite in seno al gruppo, trasferimento forzato di bambini da un gruppo all’altro. Per alcune considerazioni sulla differenza tra la legislazione belga e francese cfr. F. RINGELHEIM, Le négationnisme contre la loi, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 1997, p. 118 ss.
— 1062 — grossolana, giustificazione o approvazione di genocidio commesso dal regime nazional-socialista tedesco —, non rinvia all’art. 6 dello Statuto del tribunale di Norimberga, né al giudicato come elemento di questo delitto e prevede infine il connotato della pubblicità. La breve analisi della sentenza di legittimità costituzionale della citata legge aiuterà ad illustrare non solo le ragioni per cui il legislatore belga ha ritenuto opportuno introdurre disposizioni penali in questo ambito, ma anche a ritrovare, sebbene in termini differenti rispetto ad altri paesi, le problematiche che connotano la repressione penale del negazionismo: limiti alla libertà d’espressione, giudice che diviene il custode della verità storica ufficiale e funzione simbolica del diritto penale. 9.1. La sentenza della Cour d’Arbitrage. — La Cour d’Arbitrage si è pronunciata sulla citata legge il 12 luglio 1996, ritenendola conforme sia alla Costituzione sia al diritto internazionale (alla Convenzione Europea e ai Patti del 1966) (140). Il ricorrente riteneva che tale legge oltre a violare l’art. 24 Cost. relativo alla libertà di insegnamento, limitasse ingiustificatamente la libertà di espressione, come garantita dalla Costituzione e dal diritto internazionale, violando così gli artt. 10-11 Cost., l’art. 19 del Patto sui diritti civili e politici e l’art. 10 della Convenzione Europea. Ad avviso del ricorrente, poi, se è incontestabile che la libertà di espressione possa essere sottoposta a determinate limitazioni, è certo che queste devono rispettare il principio di uguaglianza e di non discriminazione. In base a questi principi, i criteri utilizzati dal legislatore per determinare il campo di applicazione dei limiti a tale diritto fondamentale devono essere obiettivi e proporzionati allo scopo perseguito. Non è questo il caso della legge in esame, dove i criteri si rivelano troppo ampi e nella quale è impossibile definire oggettivamente i termini vaghi ed equivoci, come negare, minimizzare o giustificare. In questo modo la legge arriverebbe a delimitare eccessivamente il diritto alla libertà di espressione, colpendo ingiustamente alcune categorie di persone e instaurando in verità un dogma storico. Il giudice verrebbe incaricato di sorvegliare sulla sua osservanza, con l’ulteriore risultato che gli effetti della legge sarebbero sproporzionati rispetto agli scopi da essa perseguiti. Il ricorrente denuncia inoltre il carattere limitato della legge, poiché essa riguarda solamente la negazione del genocidio commesso dal regime nazionalsocialista durante la seconda guerra mondiale (141). La Cour ha esaminato innanzi tutto il secondo motivo d’impugnazione ossia la presunta violazione della libertà d’espressione. Dopo aver ricordato che gli artt. 10-11 della Costituzione belga interdicono ogni tipo di discriminazione e che la libertà d’espressione costituisce il fondamento essenziale di una società democratica, la Cour afferma che tale diritto non è tuttavia assoluto. Sebbene il legislatore intervenga in maniera repressiva rispetto alla libertà d’espressione, lo fa per punire un’ideologia ostile alla democrazia, che offende una più categorie di esseri umani. La Corte, come la Commissione e la Corte Europea, sottolinea dunque che tale diritto fondamentale, se esercitato nei modi e coi fini negazionisti, minaccia i principi di base della società democratica. Il legislatore, ad avviso della Cour, reprime le manifestazioni d’opinione non a causa del loro contenuto, ma a causa delle loro conseguenze lesive per alcune persone e per la società democratica in quanto tale. Dalla combinazione (142) delle fonti richiamate (Costituzione, Patto sui diritti civili e politici, Convenzione Europea), la Cour ricava che l’offesa, inaccetta(140)
Per alcune osservazioni sulla sentenza della Cour d’arbitrage, cfr. F. RIN-
GELHEIM, Le négationnisme, cit., p. 111 ss. Questa pronuncia, così come quella del BVG, ri-
vela che il controllo di costituzionalità insieme al catalogo dei diritti fondamentali costituiscono i due poli essenziali nella materia dei diritti fondamentali. (141) Come si può facilmente immaginare le obiezioni presentate dalla ricorrente erano già state al centro di lunghi dibattiti parlamentari che avevano preceduto l’approvazione del testo legislativo in questione. (142) Il corsivo è nostro. Si vuole infatti sottolineare il termine utilizzato dalla Cour per evidenziare il fenomeno di interpenetrazione tra i vari livelli dell’ordinamento di riferimento dei diritti fondamentali. La disciplina della libertà di espressione è ricavata infatti
— 1063 — bile, a delle categorie di persone e l’abuso della libertà di espressione in un modo tale da minacciare i principi base della società democratica legittimano la limitazione di questo essenziale diritto. Inoltre ad avviso della Cour l’interpretazione dei termini negare o approvare non si presta a fraintendimenti. Compiendo una breve analisi semantica (143) essa precisa che nel primo caso l’esistenza del genocidio viene negata nella sua totalità, nel secondo se ne dà invece approvazione. Infine, nel precisare il significato delle condotte del minimizzare e del cercare di giustificare la Corte sottolinea l’importanza dell’aggiunta dell’avverbio ‘‘grossièrement’’. Dai lavori preparatori emerge infatti la volontà del legislatore di non reprimere la semplice minimizzazione, ma solo quella che avviene in modo ‘‘grave, outrancière ou offesante’’ (144). Inoltre, sebbene venga presa in considerazione la sola negazione del genocidio ebraico, in realtà nulla impedisce che si estenda il campo di applicazione della legge ad affermazioni, con carattere sistematico e con uno scopo ideologico determinato, che neghino genocidi diversi da quello ebraico (145). Si constata poi che la pericolosità di queste opinioni, penalmente rilevanti, è sempre difficile da provare e spetterà dunque al giudice procedere ad un accertamento nel caso concreto. Egli dovrà accertare le circostanze da cui è possibile dedurre tale volontà di negare e compiere una valutazione sul carattere scientifico della ricerca e sul carattere obbiettivo dell’informazione. Questo potere è necessario ad avviso della Corte, vista la varietà e la raffinatezza delle forme che può assumere il negazionismo; il giudice tuttavia non diventerà giudice della storia, ma si limiterà a constatare il carattere grossolano della minimizzazione. Egli interverrà quindi non tanto per reprimere la menzogna storica in quanto tale, ma per sanzionare le conseguenze intollerabili per la società democratica minacciata nelle sue fondamenta essenziali a causa della promozione di idee che hanno come unico scopo di diffondere l’antisemitismo e di riabilitare il regime che ha commesso il genocidio. La Cour individua infine la ratio legis. Il legislatore ha ritenuto di dover punire queste manifestazioni da un lato perché esse forniscono un terreno all’antisemitismo e al razzismo, costituendo una minaccia per la società democratica perché tendono alla riabilitazione dell’ideologia nazista e costituiscono un fenomeno destabilizzante per la democrazia (146). D’altro lato il legislatore interviene perché queste affermazioni si rivelano offensive per la memoria delle vittime del genocidio, per i sopravvissuti e per il popolo ebraico (147). Così intesa, ad avviso della Cour, la legge costituisce la risposta ad un bisogno sociale imperioso. La Cour constata inoltre che già altri paesi hanno adottato delle leggi contro il negazionismo e che il legislatore belga ha ritenuto che in assenza di un intervento legislativo il Belgio avrebbe potuto diventare il rifugio del negazionismo. La Cour conclude pronunciandosi sulla presunta violazione della libertà di insegnamento, poiché ad avviso della ricorrente si eliminerebbe dalle scuole l’eco critico del revisionismo; a tale riguardo essa risponde che la neutralità dell’insegnamento, sancita dall’art. 24, § 1, non sarà violata se si puniscono delle affermazioni che portano offesa all’onore e alla reputazione altrui e che costituiscono una minaccia per la democrazia. dalla combinazione di una fonte di diritto internazionale generale, da una di diritto regionale e dalla norma costituzionale interna. A questo punto bisognerebbe poi indagare sul monismo o dualismo dell’ordinamento ma ancora una volta è evidente che la disciplina di riferimento è quella ampia del diritto internazionale-penale, ricavato da norme internazionali e interne. (143) Cfr. F. RINGELHEIM, op. cit., p. 115. (144) Doc. parl., Chambre, 1991-1992, n. 557/3, p. 2; n. 557/5, pp. 21-22; Ann., Chambre, 1er fevrier 1995, p. 745. A tale proposito cfr. anche B. BLÉRO, La répression légale du révisionnisme, in Journal des Tribunaux, 1996, p. 336. (145) Così anche nei lavori preparatori, Doc. parl., Chambre, 1991-1992, n. 557/5, p. 17. (146) Così emerge anche dai lavori preparatori, Doc. parl., Chambre, S.E., 19911992, n. 557/1, p. 23 e n. 557/5, p. 10. (147) Doc. parl., Sénat, 1994-1995, n. 1299-2, pp. 4-11.
— 1064 — 10. Rilievi critici e conclusivi. — Con questa sommaria presentazione delle fattispecie di negazionismo in una prospettiva di diritto penale comparato non abbiamo certo la pretesa di aver indicato delle soluzioni o di avere chiarito e segnalato tutte le problematiche connesse a questo tema. L’analisi comparata, limitata fra l’altro a soli tre paesi, è servita qui non a ricercare il modello di legge perfetta, né a mostrare la relatività di ciascuna soluzione normativa. Essa piuttosto ci ha permesso di avere un approccio critico e di individuare alcuni degli aspetti che connotano il tema negazionismo-diritto penale. Il confronto tra i diversi livelli giuridici (internazionale, nazionale) ha consentito inoltre di evidenziare come essi siano stati tutti perturbati dal fenomeno negazionista. La loro ‘‘superficie’’ è fortemente increspata dal sasso lanciato dagli ‘‘storici’’ negazionisti e rappresentato dalla metodologia del discorso negazionista. Abbiamo così avuto la possibilità di constatare l’esistenza di un fenomeno che con la sua azione perturba in profondità le complesse strutture sociali odierne. La prova della forza ‘‘perturbativa’’ del negazionismo è data dall’allarme che esso suscita nella coscienza collettiva così come dalla quantità e dal tipo di risposte normative (penali), che ritroviamo a livello internazionale e nazionale. Attraverso questa indagine si è accertato infatti che numerosi Stati hanno scelto di criminalizzare questi comportamenti, rafforzando la convinzione che il diritto penale sempre di più debba intervenire per rispondere a bisogni non reali, con il risultato di dare luogo ai fenomeni di ipertrofia legislativa e di ‘‘illusione panpenalistica’’. Il fenomeno del negazionismo impone pertanto non solo una riflessione di carattere generale sulla tutela della libertà di espressione e sui suoi limiti, sui delitti di opinione, ma anche sullo stato attuale del diritto (internazionale) penale, sull’apertura e i mutamenti metodologici e concettuali che esso produce, sulle nuove oggettività giuridiche, sulle modalità di offesa, sulle tecniche di tutela e sull’eccessivo ricorso a questo strumento. 10.1. Il negazionismo come abuso della libertà di espressione. — Nei documenti internazionali e nelle fonti di diritto interno, così come nella giurisprudenza, si rinviene costantemente la previsione della possibilità di limitare la libertà di espressione al fine di tutelare dei diritti altrettanto fondamentali, che sono ritenuti prevalenti in quel caso concreto (148). Più volte abbiamo ripetuto che la libertà di espressione, sebbene fondamentale, non è considerata assoluta; essa è piuttosto un equilibrio che va ricercato nella situazione concreta (149) attraverso il meccanismo del bilanciamento degli interessi in conflitto (Güterabwägung o Balancing of interest). La Costituzione viene pertanto intesa come insieme di principi direttivi che si ordinano e si combinano fra di loro, componendosi in equilibri non sempre di facile ricostruzione (150). La libertà di espressione può dunque essere limitata e gli abusi, in presenza di determinate condizioni, sono punibili. L’assunto ritrova conferma anche nella giurisprudenza della Corte Europea che, nell’interpretare le restrizioni previste all’art. 10, comma II, sottolinea con un orientamento costante l’importanza della valutazione in concreto, oltre a richiedere che la misura restrittiva sia prevista per legge e sia necessaria in una società democratica, la(148) A proposito del limite ai diritti fondamentali e in generale sul bilanciamento degli interessi, non più strutturati secondo una gerarchia, per cui nessuno risulta tiranno, cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 114 ss., p. 167 ss. L’Autore ritiene che alla base della concezione che propende per una ‘‘intrinseca illimitatezza’’ dei diritti fondamentali vi è un’ipervalutazione dell’uomo, una religione dell’umanità. A suo avviso dei limiti ai diritti fondamentali sono non solo possibili, ma al contrario necessari. Essi debbono essere estrinseci al solo scopo di prevenire la collisione distruttiva dei diritti stessi e di renderne possibile l’esercizio a tutti. (Il corsivo è nostro). (149) Sul paradosso dei diritti fondamentali che si rivela nel conflitto tra diritti cfr. V. FERRARI, Lineamenti di sociologia del diritto, I. Azione giuridica e sistema normativo, Bari, 1997, p. 315 ss. (150) C. FIORE, I reati di opinione, Padova, 1972, p. 90.
— 1065 — sciando a ciascun Stato, in una prospettiva di armonizzazione e non di unificazione, un margine di apprezzamento. La classe dei diritti fondamentali, a cui la libertà di espressione appartiene, è infatti una classe variabile, e risulta vano cercare di dare loro un fondamento, uno spazio e una tutela assoluta. Essi sono storicamente relativi e vanno contemperati con altri diritti altrettanto fondamentali e con loro concorrenti (151). Di qui l’importanza di strutturare i ‘‘delitti’’ di negazionismo almeno in chiave di pericolo concreto per consentire al giudice di accertare l’effettiva messa in pericolo (152). 10.2. Il delitto di negazionismo come delitto di opinione. — La libertà di pensiero è senza dubbio un esempio paradigmatico dei riflessi che l’affermazione dei diritti di libertà ha sul sistema penale (153). Lo studio del negazionismo, in quanto comportamento punibile riporta la riflessione ai tanto discussi delitti d’opinione, ambito nel quale queste fattispecie si inquadrano. Senza voler propendere per una soluzione determinata o per l’abbandono di queste fattispecie criminose o per la riforma dei ‘‘fatti’’ in modo da renderli più afferrabili, è evidente che la scelta di criminalizzare il negazionismo pone forti dubbi rispetto alla legittimità di queste disposizioni. La rimeditazione del fenomeno negazionista ripropone la riflessione su tutti gli aspetti collegati al tema dei reati di opinione, mettendo allo scoperto che ci si trova di fronte ad un problema di rapporti tra norme etico-sociali e norme giuridico-penali. La norma penale non dovrebbe essere la sede per promuovere una data ideologia o una versione determinata della storia, per cui la riflessione sul bene giuridico che può ritenersi offeso dalle affermazioni negazioniste, e sulla strutturazione delle fattispecie in chiave anticipata, diviene determinante. 10.2.1. Il bene giuridico. — Le norme in esame ripropongono il quesito, essenziale nelle scelte di criminalizzazione, relativo all’interesse che può essere direttamente offeso dalle condotte negazioniste. Il bene tutelato non sembra poter essere individuato nella tutela della verità storica: nessuno infatti ha il dovere alla verità storica, e tanto meno può essere punito per questo, con l’ulteriore distorsione che in tale ipotesi il giudice diventerebbe arbitro della storia (154). Quindi solo nel caso in cui tali asserzioni attentino all’interesse o di(151) Il diritto alla libertà d’espressione non rientra infatti nel novero di quei pochissimi diritti fondamentali, a cui compete lo status di diritti assoluti. Nei casi di affermazioni negazioniste si fronteggiano due diritti e solo nella situazione concreta si potrà valutare quale proteggere e quale rendere inoperante. Sui diritti dell’uomo come concetto maldefinibile, variabile e eterogeneo cfr. N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, pp. 6-14. (152) Sulla funzione negativa del bene giuridico e sul rifiuto della logica del diritto penale d’autore cfr., con gli opportuni richiami, M. DONINI, Teoria, cit., p. 122 ss.; il diritto penale, infatti non dovrebbe conoscere amici o nemici, ma solo colpevoli e innocenti. Sul tema inevitabilmente collegato della ragion di Stato e ragione giuridica, cfr. L. FERRAJOLI, L., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1990. (153) N. MAZZACUVA, Diritto penale e Costituzione, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., p. 79. (154) Sui pericoli e sui rischi di affidare ai Tribunali la decisione su una questione di storia e non di diritto cfr. P. VIDAL NAQUET, Les assassins de la mémoire, cit., p. 183, secondo cui richiedere una decisione sulla storia significherebbe accreditare l’idea che esistono due scuole storiche e che l’una può sopraffare l’altra; ma non esistono due scuole storiche ne esistono molte di più. Sull’illusione di sbarazzarsi a colpi di condanne penali di un ospite ingrato come il negazionismo, v. A. BURGIO, L’invenzione delle razze, cit., pp. 184-185, il quale tuttavia concorda sulla legittimità di censure nei confronti di chi propaganda tesi razziste. L’Autore propone contro il revisionismo storico una nuova rappresentazione dei fatti. Cfr. ID., op. cit., p. 197. Sul rapporto tra giudice e storico cfr. C. GINZBURG, Il giudice e lo storico. Considerazioni a margine del processo Sofri, Torino, 1991; P. CALAMANDREI, Il giudice e lo storico, in questa Rivista, 1939, p. 105 ss.; G. CAPOGRASSI, Giudizio, processo,
— 1066 — ritto altrui, o se siano offensive per un gruppo possono essere punibili, ma in questo caso esistono già delle fattispecie, quali l’ingiuria o la diffamazione (155). Molti ordinamenti, anche prima dell’introduzione di un’espressa fattispecie di negazionismo, individuavano lo spartiacque tra lecita manifestazione del pensiero e reato nel superamento di quei limiti individuati dalle norme internazionali (ordine pubblico, sicurezza nazionale, protezione della reputazione o dei diritti altrui). Essi inserivano il delitto di negazionismo nel quadro dei delitti contro l’ordine pubblico (Germania, Francia) individuando il bene protetto nell’ordine pubblico stesso o nella pace pubblica, o nell’ambito dei reati offensivi della reputazione o dell’onore (155). Il carattere astratto e proteiforme di un bene giuridico, quale l’ordine pubblico, può portare tuttavia ad una rinuncia al principio di offensività e al distacco dai presupposti oggettivi (157). Rimane tuttavia da individuare qual è effettivamente il bene concretamente offeso dalle condotte negazioniste. Anche ammettendo una specifica offesa ad un bene quale l’ordine pubblico, la scelta punitiva deve riflettersi in una tipizzazione del fatto di reato conforme al volto costituzionale del diritto penale e al modello liberale del Tatbestandsrecht (158). Ordine pubblico, pace pubblica, non solo vengono spesso a surrogare l’assenza di un referente immediato di lesività, ma si presentano anche come concetti non neutri, prodotto di valori ideologici — diversamente dalla pubblica incolumità o dalla fede pubblica —. Non spetta però al diritto penale produrre (o ri-produrre) una specifica ideologia (versione di fatti storici), entrando in conflitto con l’autonomia individuale (159). Tanto meno queste nozioni scienza, verità, in Opere, Milano, 1959; L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., pp. 18-66 anche per ulteriori richiami bibliografici. Per un interessante studio su discorso e verità, sullo sviluppo del concetto di libertà di parola e sulla pratica della parressia nel mondo antico, cfr. M. FOUCAULT, Discours and Truth. The problematisation of parrhesia, Evanston, 1985, trad. it., ID., Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, 1996. (155) Sugli orientamenti della giurisprudenza nei casi concreti, con riferimento ai reati di diffamazione ingiuria e pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose e al criterio della verità, veridicità cfr. in Italia il commento agli artt. 594-595 e 656, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Padova, 1997. (155) Il diritto alla non diffamazione di un gruppo può prevalere sulla libertà di espressione. Cfr. alcune pronunce della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1973, I, p. 354 ss. e nella stessa Rivista, 1974, I, p. 677 ss. Ed ancora BundesVerfassungGericht, 54, 208, 219, 3 giugno 1980. Sulla tutela di beni giuridici di tipo morale cfr. A. VALENTI, Principi di materialità e offensività, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., p. 249. (157) A questo proposito cfr. S. MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, questa Rivista, n. 2, 1995, p. 343 ss.; G. DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, cit.; G. FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del buon costume, Padova, 1984; C. FIORE, I reati di opinione, cit.; ID., Ordine pubblico (voce), in Enc. del dir., 1980, p. 1091 ss.; G. INSOLERA, I delitti contro l’ordine pubblico, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, p. 207 ss. Sul principio di offensività come conditio sine qua non della coerenza e della legittimazione dell’intero sistema penale, seppure attenuato e ‘‘adattato’’ al sorgere di interessi sociali, cfr. M. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, cit., p. 45 ss. (158) Sul fatto come categoria sistematica cfr. per tutti G. DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, 1930; più di recente cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Fatto e scriminanti, cit., p. 177 ss. Sulle modeste prestazioni selettive del bene giuridico, cfr. M. DONINI, Teoria del reato (voce), in DDP, 1998, cit., p. 267. (159) La fisionomia vaga del bene rischia infatti di delineare un nesso tra fatto e bene poco stringente, compromettendo la funzione politico-criminale del bene giuridico di delimitazione garantista del fatto, quanto quella di incorporazione nel fatto di entità realmente offendibili, MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Studi in onore di Renato Dell’Andro, Milano, pp. 204-205. Sul principio di oggettività e di materialità come principio generale dell’ordinamento e non come semplice caratteristica cfr. M. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, cit., p. 31 ss.; sul principio di sussidiarietà o
— 1067 — così ampie sono capaci di selezionare i comportamenti offensivi. Prima ancora infatti di verificare se a tali affermazioni vada attribuita la natura di manifestazioni del pensiero, bisogna verificare che esse non siano prive dei ‘‘crismi’’ del fatto penalmente rilevante (160). Il reato come offesa ai beni giuridici assicura al diritto penale una forma liberale, anche se, lasciando al legislatore la scelta sui contenuti delle norme, non elimina il rischio che norme costruite secondo la forma liberale dell’offesa possano avere i contenuti più illiberali (161); il principio di offensività infatti pur avendo uno spiccato carattere liberale e pur vincolando il legislatore a ricorrere alla pena solo in presenza dell’offesa, non indica quali siano i beni giuridici. Il diritto penale del bene giuridico può pertanto essere liberale sul piano della struttura, ma illiberale nei suoi contenuti. È a questo punto che diviene essenziale il riferimento agli ordinari principi costituzionali, quali il divieto di incriminare i diritti di libertà, nei limiti previsti, il principio di materialità, offensività, di tassatività, di proporzione e di sussidiarietà che sovrintendono complessivamente alla scelta di legislativa di criminalizzazione (162). La nostra Corte costituzionale, per es., si è pronunciata in numerose occasioni sui limiti alla libertà di pensiero, dichiarando più volte l’illegittimità di norme penali che incriminavano semplici manifestazioni del pensiero (163). E ancora rispetto all’ordine pubblico la Corte ha sottolineato che non è sufficiente la critica anche aspra alle istituzioni, la prospettazione delle necessità di mutarle, la contestazione dell’assetto politico-sociale sul piano ideologico. Ad avviso della Corte occorre pertanto un incitamento all’azione, un principio di azione e così di violenza all’ordine costituito, come tale idoneo a porre questo in pericolo (164). Nel caso del negazionismo, campo ideologicamente pregnante e dove le risposte emotive ed irrazionali prevalgono, appare dunque difficile scorgere un determinato bene giuridico, autonomo dagli scopi generali della tutela penale. Tali figure criminose si presentano dubbie sotto il profilo di materialità e si rivelano carenti sul piano dell’offensività. Ci si scontra così con un diritto penale che interviene, in mancanza di altri strumenti forti, per sconfiggere un fenomeno che turba la coscienza collettiva, ricostruendo le fattispecie criminogene in esame in un modo che appare incompatibile con il diritto di uno Stato democratico. È indiscutibile che le società moderne abbiano bisogno di una garanzia dei valori messi in pericolo da condotte né auspicabili, né neutre, ma esso non può realizzarsi con il diritto penale (165). extrema ratio o offensività come principi argomentativi, cfr. ID., Selettività e paradigmi della teoria del reato, in questa Rivista, 1997, p. 365 ss. Sulla trasformazione del modello classico di diritto penale cfr. F. SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990; S. MOCCIA, La perenne emergenza, cit. Sulla supremazia della violazione sulla lesione che un bene giuridico astratto comporta cfr. F. ANGIONI, Contenuto e funzioni del bene giuridico, Milano, 1983; F. PALAZZO, I confini della tutela: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, p. 468 ss.; G. MARINUCCI, Il reato come azione. Critica di un dogma, Milano, 1971, p. 183. (160) Per questi rilievi e per approfondimenti cfr. G. DE VERO, Tutela penale, cit., p. 138. (161) MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, cit., p. 276. (162) Cfr. F. BRICOLA, Teoria del reato, cit. F. ANGIONI, Contenuto e funzioni del bene giuridico, Milano, 1983, p. 163 ss.; L. STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1976, p. 66 ss. in merito all’art. 21 Cost. come dato normativo che introduce una forma assoluta di liceità, che deriva dall’aver qualificato come libera la « manifestazione del pensiero », ID., cit., p. 91. (163) Corte cost., 6 luglio 1966, n. 87; Corte cost., 19 febbraio 1965, n. 9; Corte cost., 16 marzo 1971, n. 49; M. DONINI, Teoria, cit., pp. 122-123. Cfr. anche L. STORTONI, L’incostituzionalità dei reati di opinione: una questione ‘‘liquidata’’?, in Foro it., 1979, p. 899 ss.; sull’art. 21 Cost. come soluzione di conflitti di interessi storicamente condizionati, cfr. G. DE VERO, Tutela penale, cit., p. 101 ss. (164) Corte cost., 2 maggio 1985, n. 126. (165) Non è infatti ravvisabile in questi casi alcuna coazione. Così a proposito dei
— 1068 — 10.2.2. L’anticipazione della tutela. — Le figure delittuose di negazione del genocidio permettono di sviluppare una riflessione oltre che sulla questione di identificazione del bene protetto, anche sull’ampio tema delle tecniche di tutela (anticipata) relative alle oggettività giuridiche di cui abbiamo parlato, rinnovando così la consapevolezza rispetto ai rischi connessi ai delitti d’opinione (166). Nel campo dei delitti di negazionismo la tutela è arretrata ad un momento talmente remoto rispetto al pericolo, per cui il giudizio sull’azione potrebbe risultare del tutto slegato rispetto all’apprezzamento delle possibilità del prodursi di un evento lesivo (167). È dunque non solo molto forte il rischio di annullare la distanza prospettica tra oggetto e ratio legis (168), ma l’essenza stessa di questi illeciti sembra esaurirsi nel contrasto di valori, di cui è portatore il discorso incriminato e l’ordinamento penale. Ciò che si va a comprimere è una libertà fondamentale e anche la strutturazione di queste fattispecie in chiave di pericolo concreto, che permette al giudice di accertare di volta in volta l’effettiva potenzialità lesiva del comportamento, di per sé riconducibile all’esercizio di un diritto garantito costituzionalmente (169), non sembra eliminare le critiche in termini di perdita di garanzie e di illegittimità (170). Per di più, nei contesti negazionisti l’accertamento in concreto del processo causale che dà origine al pericolo è molto difficile dal momento che la situazione di pericolo non è apprezzabile sulla base delle scienze esatte, ma implica il ricorso alle scienze sociali e alla psicologia (171). Tuttavia il reato, per non regredire verso un modello illiberale (reato come espressione di un atteggiamento interiore o come violazione di una norma morale), dovrebbe essere strutturato come offesa ai beni giuridici e la pena dovrebbe tutelare preventivamente i beni giuridici. Le Carte costituzionali, come numerosi documenti internazionali sui diritti dell’uomo, delineano un rapporto tra individuo e autorità, secondo cui il legislatore non potrà costruire dei reati che perseguano idee che si assumono pericolose anzichè un fatto, inteso come offesa ai beni giuridici, perché ciò contrasta con la natura democratica e pluralistica dell’ordinamento. Nessuno, in altre parole, può essere penalmente perseguito per ciò che è, dice o vuole, ma solo per ciò che fa (172). L’ordinamento di libertà considera il destinatario Klimadelikte G. JAKOBS, Kriminalisierung im Vorfeld einer Rechtsgutverletzung, in Zeitschrift für die Gesamte Strafrechtswissenschaften, 1985, p. 783. (166) Cfr. per tutti G. PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990; F. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale: la struttura oggettiva, Milano, 1994; E. GALLO, Delitti di attentato (voce), in DDP, 1987, p. 340 ss.; A. GAMBERINI, I delitti contro la personalità dello Stato, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, cit., p. 1 ss. Sulla tendenza all’anticipazione (Vorverlagerungstendenz) e sul Feindsrechtsgutsstrafrecht contrapposto al Bürgersstrafrecht cfr. G. JAKOBS, Kriminalisierung im Vorfeld, cit., p. 751 ss. (167) S. MOCCIA, La perenne emergenza, cit., p. 80. Cfr. anche dello stesso Autore, Il diritto penale tra essere e valore, cit. (168) Cfr. G. DE VERO, Tutela penale, cit., p. 42. (169) La punizione potrà giustificarsi sulla base di un’operazione di bilanciamento. Tuttavia questo giudizio complesso richiede che la fattispecie protegga un bene di rilievo costituzionale e che il comportamento sia effettivamente lesivo. Per queste osservazioni cfr. G. DE VERO, Tutela penale, cit., p. 11 ss.; sul giudizio di idoneità che come quello di pericolo è ex ante e a base totale , v. F. ANGIONI, Il pericolo, cit. (170) Sul rischio in queste ipotesi di valorizzare il disvalore della condotta a danno di quello d’evento cfr. E. GALLO, op. ult. cit., p. 351. Cfr. sul punto anche N. MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale. L’illecito commissivo doloso e colposo, Milano, 1983, p. 176 ss. (171) Sul tema cfr. per tutti, F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale in diritto penale, in questa Rivista, 1988, p. 1222 e la monografia dello stesso Autore, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Giuffrè, 1975. (172) A questo riguardo cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, Milano, 1995, pp. 75-111. Sul rischio di penalizzare un modo di esternazione della personalità, nei casi di carenza di tassatività e concreta offensività, cfr. L. STORTONI, L’incostituzionalità dei
— 1069 — della norma come cittadino e non come nemico, riconoscendogli una sfera di autonomia inaccessibile al diritto penale. Quindi, se il diritto penale del cittadino (bürgerliches Strafrecht) ottimizza le sfere di libertà, il diritto penale del nemico (Feindsstrafrecht) ottimizza la tutela dei beni giuridici (173). Lo stesso principio di materialità, di rango costituzionale, indica che la tipicità del fatto non deve essere tradotta o dissolta in tipologia d’autore (174); al diritto penale — nella fase dell’incriminazione — competono solo le azioni in cui il pericolo di una lesione si manifesti come fatto. Nelle fattispecie in esame le conseguenze giuridiche penali sembrano invece determinate dal riscontro di una tipica pericolosità delle idee; l’offesa inoltre appare troppo remota e ciò, unito al dato che il diritto penale non può spingersi oltre le soglie di forme di aggressioni significative e gravi, sembra fondare il nostro sospetto di illegittimità di queste disposizioni. Tanto più che il diritto penale non può curarsi delle ideologie se esse non si traducono in un inizio di attività esecutiva del tentativo di una lesione di beni (175). Nel compiere queste considerazioni riaffiorano i dubbi rispetto al bene giuridico e alla tecnica di anticipazione della tutela attraverso lo strumento del pericolo; tali perplessità sulla legittimità dei delitti di negazionismo aumentano riflettendo sul fatto che le norme di cui parliamo rappresentano interventi di diritto penale dettati dall’allarme sociale. 10.3. Negazionismo e strumento penale. — 10.3.1. La normativa sul negazionismo come esempio di legislazione simbolica. — Nel corso di questa indagine abbiamo costatato i problemi di afferrabilità di un bene giuridico caratterizzato da un’elevata valenza politica, le difficoltà di individuare in queste fattispecie un fatto tipico, i problemi di ricostruzione in chiave di necessaria lesività del comportamento negazionista verso un concreto risultato offensivo e le difficoltà epistemologiche nell’accertamento del nesso causale. In realtà tutte queste osservazioni, che non esauriscono le problematiche derivanti da queste disposizioni, non fanno che rafforzare l’impressione di ritrovarci di fronte ad un tipico esempio di legislazione simbolica (176). Nell’ipotesi dell’incriminazione del negazionismo, come accade in altri settori in cui il diritto penale è chiamato ad intervenire (177), siamo in presenza di un modello di tutela di scarsissimo valore strumentale, ma di alto valore simbolico espressivo. Come molte disposizioni ‘‘contro’’ il razzismo, anche queste rireati di opinione, cit.; G. INSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., p. 265 ss.; G. INSOLERA, Reati artificiali e principio di offensività: a proposito di un’ordinanza della Corte costituzionale sull’art. 1, comma 6 della l. n. 516 del 1982, in questa Rivista, 1990, p. 726; F. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza sul contenuto delle leggi penali, ivi, 1998, n. 2. (173) G. JAKOBS, Kriminalisierung im Vorfeld, cit., p. 756. (174) Cfr. M. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, cit., p. 126. (175) Cfr. C. FIORE, I reati di opinione, cit., pp. 167-168; H. WELZEL, Wahrheit und Grenze der Naturrechts, Bonn, 1963; sul tema fatto e bene giuridico cfr. M. DONINI, Teoria, cit., p. 122 ss. (176) Sulla legislazione simbolica intesa in un’accezione critica, cfr. P. NOLL, Symbolische Gesetzgebung, in Zeitschrift für Schweizerisches Strafrecht, 1981, p. 347 ss.; W. HASSEMER, Symbolischer Strafrecht und Rechtsgüterschutz, in Neue Zeitschrift für Strafrecht, 1989, p. 553 ss.; F. BRICOLA, Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in Funzioni e limiti del diritto penale (a cura di) DE ACUTIS e PALOMBARINI, Padova, 1984, p. 3 ss.; C.E. PALIERO, Il principio di effettività, in Studi Nuvolone, 1991, pp. 539-541 ss. Per un utilizzo della medesima espressione in un’accezione più positiva M. VAN DE KERCHOVE, Le droit sans peine, Bruxelles, 1987; K. AMELUNG, Strafrechtswissenschaft- und Strafgesetzgebung, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1980, p. 54 ss.; M. DONINI, Teoria, cit., p. 145, n. 73 anche per gli opportuni rimandi bibliografici. (177) Si veda per es., con riferimento alla violenza sessuale, l’analisi di M. VIRGILIO, Violenza sessuale e norma. Legislazioni penali a confronto, in Quaderni di critica del diritto, Ancona, novembre 1997, p. 145.
— 1070 — forme legislative non sono tenute per definizione a conseguire lo scopo in esse manifesto (178). La legislazione ‘‘contro’’ i negazionisti, inevitabilmente simbolica, ha uno scopo diverso da quello che dichiara di avere e, diversamente da quella strumentale, diviene un gesto, un simbolo che permette di riconoscere gli amici dai nemici. Si crea così una discrepanza tra Manifesto e Latente, per cui le funzioni latenti della norma giungono a prevalere sulle funzioni manifeste (179). I destinatari reali della norma sono diversi da quelli proclamati, col risultato della duplicazione (uno manifesto e l’altro latente) sia dei messaggi e sia dei destinatari (180). Tuttavia sul significato simbolico della norma si concentra un vastissimo consenso sociale intorno ad un valore, intorno a dei fatti non contestabili ed universali (la veridicità della Shoah), elementi che conferiscono alla norma simbolica, ‘‘vero paradigma dell’ineffettività’’, un altissimo tasso di legittimazione (181). Il consenso sociale, tuttavia, non legittima di per sé l’opzione incriminatrice di penalizzare le condotte negazioniste. Nella fase finale di perfezionamento dell’opzione penale il legislatore dovrebbe sempre operare una selezione delle offerte di pena orientate dal consenso sociale, erigendosi a svolgere il difficile ruolo di giudice del consenso. E, nel caso in cui non rinvenga un bene meritevole di tutela o, qualora fosse difficile ricostruire il reato come offesa ad un bene giuridico (182), il legislatore dovrebbe resistere e interrompere il flusso di pressione sviluppato dal consenso (183), per non limitare attraverso queste legislazioni illegittimamente una libertà costituzionale che, anche se non assoluta, introduce negli ordinamenti statali il valore della tolleranza (184). 10.3.2.Come affrontare l’impresa negazionista? — La questione, fondamentale, che rimane aperta è dunque quella dell’opportunità o meno di reprimere penalmente il discorso negazionista. È forse questo un problema di diritto penale? Quale è il fatto (inteso come specifica offesa al bene giuridico), tipico, antigiuridico (disapprovato dall’ordinamento), colpevole e punibile nei comportamenti negazionisti? È legittima in un ordinamento democratico, con un diritto costituzionalmente orientato, la previsione di questi delitti d’opinione? Lo strumento penale non ha piuttosto l’effetto di rendere possibile agli autori dei discorsi negazionisti di presentarsi come estremi difensori della libertà di espressione? Le norme sul negazionismo divengono in realtà il luogo dove santificare-sanzionare-sanctum facere un consenso reale e interiorizzato sul divieto di tali affermazioni (185). Per con(178) La legislazione in esame esemplifica infatti uno dei casi più emblematici di legislazione simbolica. Ciò che più si vuole valorizzare sono le forti risorse che la legge penale possiede sul piano della comunicazione simbolica, per cui il terreno penale diviene il luogo di scontro tra concezioni etico-sociali. Sembra si perseguano fini politici, superando così i fini specifici della tutela penale. Ciò può rappresentare un pericolo per i principi generali del diritto penale e per la loro funzione garantistica. Cfr. sul punto L. STORTONI, in Commentario delle ‘‘Nuove norme contro la violenza sessuale l. 15 febbraio 1996, n. 66’’, Padova, 1997, p. 475. (179) Per approfondimenti sulla Täuschungsfunktion del diritto penale simbolico, cfr. W. HASSEMER, Symbolisches Strafrecht, cit., p. 555 ss. (180) C.E. PALIERO, Il principio di effettività, cit., pp. 539-541. (181) Cfr. sul punto C.E. PALIERO, Diritto penale e consenso sociale, in Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, p. 184. (182) Sul reato come offesa ai beni giuridici, cfr. F. BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., p. 82 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 111 ss.; M. GALLO, I reati di pericolo, in Foro penale, 1969, p. 8 ss.; STORTONI, in PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, 1991, p. 82 ss. (183) Ibidem, p. 191. (184) Cfr. sul tema WOLF-MOORE-MARCUSE, Critica della tolleranza, Torino, 1965; M. WALZER, On toleration, London, 1997, trad. it. Sulla tolleranza, Roma-Bari, 1998; M. AINIS, Valore e disvalore della tolleranza (in margine a Lee Bollinger - La società tollerante, 1986), in Quaderni costituzionali, dicembre 1995, p. 425 ss. (185) Queste considerazioni sono compiute da PALIERO a proposito della criminaliz-
— 1071 — trastare la diffusione del negazionismo non appare possibile e sembra anzi controproducente affidarsi alle leggi ed alle sanzioni penali. Il diritto penale si rivela al contrario un’arma a doppio taglio: gli autori negazionisti potranno utilizzare, come già più volte è successo, l’argomento della repressione e presentarsi come martiri della libertà di espressione ed oggetto di una legislazione speciale di criminalizzazione del dissenso (186). Nella strategia in questione il meccanismo di vittimizzazione è sempre stato essenziale; le loro tesi (negazione delle camere a gas e del genocidio) infatti sono presentate non solo come delle affermazioni vere e rispondenti alla realtà storica, ma anche come affermazioni censurate, denunciate e combattute per il fatto che smascherano (secondo loro) una menzogna storica ufficiale, potendo così denunciare un complotto contro la verità (187). La repressione di tali teorie funge dunque da fattore di possibile aggregazione di consensi intorno al fenomeno che si intendeva combattere raggiungendo un risultato opposto a quello sperato (188). Tali autori cercano di costruire una seconda realtà, parallela, attraverso l’uso sistematico della propaganda e attraverso la ripetizione di pretese affermazioni, fondate su fonti ‘‘alternative’’, che man mano diventano parte integrante del materiale documentario (189). La linea strategica principale, anello di congiunzione tra revisionismo e negazionismo, diviene la relativizzazione della storia (giustificare), con la distorsione che ne consegue di allontanare e di depotenziare anche gli eventi più tragici. Diverso è il contesto dello storico: lo storico scrive, lo storico è artista, in un modo né neutro né trasparente. Lo storico è in un luogo e in un tempo, produce attraverso la sua lente un luogo e un tempo. Quando il discorso storico non si collega più alla realtà, restiamo nel discorso, che però cessa di essere storico. E come si situa dunque in tale analisi la pratica discorsiva dei revisionisti? Niente di più naturale e ovvio della ‘‘revisione’’ della storia. Il tempo modifica lo sguardo non solo dello storico, ma anche del semplice profano, modificando la situazione a partire dalla quale interroga gli eventi del passato. Ma negare la storia non è rivederla (190). Tuttavia, sarebbe un errore sottovalutare questo fenomeno e non prenderlo sul serio; le tesi negazioniste riescono a radicarsi, pur appartenendo ad un ordine diverso da quello del dibattito e del discorso storico. Il problema di fondo che il negazionismo, col suo diffondersi ci pone, e che giustifica l’allarme sociale da esso suscitato, con tutte le connotazioni emotive sopra ricordate, appare di natura specificatamente politica. Il metodo negazionista scuote le fondamenta etiche degli Stati, in spregio alla ‘‘deontologia’’ scientifica; esso mira volontariamente a incrinare le basi su cui tutti gli ordinamenti democratici europei si fondano (pluralismo, tolleranza, uguaglianza). Negare il genocidio ebraico non è solo negare lo sterminio, né aiuta a fare luce su zone d’ombra della storia contemporanea, negare la Shoah significa negare i presupposti e i principi fondamentali grazie ai quali i moderni stati democratici si sono formati (191). Siamo dunque sul piano etico-politico, molto più che su quello propriamente giuridico-penale. Il secondo conflitto mondiale si è chiuso infatti con l’emanazione di una serie di testi — internazionali e non — e con la stesura di diverse carte costituzionali. La stessa Dichiarazazione del portatore di HIV, ma ben si adattano anche al contesto seppure diverso della domanda di pena rispetto al fenomeno negazionista, cfr. ID., op. cit., p. 186. (186) Cfr. per queste considerazioni compiute riguardo alla situazione tedesca, GALANDA-BENZ-NEUGEBAUER, Wahrheit und Auschwitzlüge, cut., pp. 246-247. (187) Cfr. P.P. POGGIO, Nazismo, cit., p. 110; P.A. TAGUIEFF, La nouvelle judeophobie, in Les temps modernes, novembre 1989. (188) Così si esprime MOCCIA relativamente alla normativa sulla discriminazione razziale introdotta nel 1993 in Italia. ID., La perenne emergenza, cit., p. 70. (189) W. BENZ, La dimensione del genocidio, in ‘‘Qualestoria’’, 1993, n. 2-3. (190) P. VIDAL NAQUET, Les assassins, cit., pp. 107-108. (191) Tollerare la diffusione di idee negazioniste è tollerare la messa in discussione del principio fondamentale di ogni stato democratico, ovvero del principio di non discriminazione. Di questo avviso, F. JEANNIN, Révisionnisme, cit., p. 287.
— 1072 — zione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, l’istituzione e la Carta delle Nazioni Unite, rappresentano una reazione allo shock tremendo causato dalle esperienze totalitarie, dalla deriva estrema della discriminazione razziale, dagli orrori della seconda guerra mondiale ed in particolare dall’immensa ferita che il genocidio ha lasciato nella ‘‘illuminata’’ civiltà occidentale. Tutto l’insieme dei valori che hanno caratterizzato il periodo post-bellico, cristallizzati nelle varie Costituzioni, legislazioni e nei documenti internazionali, insomma nell’intero sistema etico-giuridico elaborato a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è il portato della reazione alle idee nefaste che causarono la deriva omicida dei regimi totalitari. Potremmo spingerci fino a considerare l’insieme di valori attivamente condivisi (come per es. l’eguaglianza dei cittadini) che è alla base delle codificazioni nazionali post-belliche e del diritto internazionale generale come una sorta di ‘‘reazione immunitaria’’ all’endemicità dell’ideologie che hanno avuto come conseguenza estrema la Shoah. In questa prospettiva le correnti negazioniste o revisioniste giustificazioniste infliggono colpi durissimi al cuore del nostro sistema etico. Possiamo infatti pensare che tutta la Weltanschauung collettiva di valori, che caratterizza l’occidente della fine del secondo conflitto mondiale, si basa sulla percezione e sulla decodificazione comune ed omogenea di determinati fenomeni come il nazismo ed il fascismo. Ci sembra di non allontanarci troppo dal vero nel credere che il negazionismo colpisce in profondità non, o non tanto, i poteri costituiti, le strutture date, ma molto di più ovvero il ‘‘patto’’ etico rappresentato dall’incondizionato rifiuto delle dinamiche che hanno trascinato l’Europa nell’orrore della guerra e dei totalitarismi. Il negazionismo è il sintomo gravissimo di un sisma latente. Le teorie negazioniste sono l’oltraggiosa rottura del ‘‘patto’’ su cui l’Occidente e l’Europa moderna si è fondata. Il negazionismo attacca dunque il momento costituente della democrazia, molto più che i suoi aspetti costituiti, le istituzioni (192). Tutto ciò scavalca enormemente il diritto penale, non si tratta nemmeno di discutere sull’opportunità o meno di punire, e con quali tecniche, il negazionismo o se considerarlo come legittimo esercizio della libertà di pensiero. Il movimento ‘‘tellurico’’ scatenato dalla violazione del patto a decodificare univocamente esperienze come il genocidio è ormai in atto, ma per arginarlo bisogna spostarsi a quello che abbiamo individuato come piano politico, come piano dell’adesione consapevole ai valori e ai principi collettivi democratici. Il piano è dunque politico e non giudiziario. 10.4. Oltre il diritto penale? — La risposta, lo strumento di confutazione a questi fenomeni si situa oltre il diritto. Il diritto — penale — si mostra inevitabilmente in tutti i suoi limiti di fronte a compiti che esulano e che possono trovare nell’opzione penale una ‘‘soluzione’’ meramente simbolica, canalizzatrice dei bisogni emotivi di pena (193). Nei provvedimenti esaminati, il fine è solo quello di rassicurare i consociati e non di affrontare e opportunamente fronteggiare, ammesso che questo sia possibile con lo strumento della legge penale, (192) Per momento e per potere costituente intendiamo qui il momento della creazione di un dato quadro politico sia anteriore nel tempo — pertanto la resistenza in Italia e in Francia è stata potere costituente rispetto alla futura Repubblica —, sia interno — nessuna politica e nessuna istituzione ‘‘vive’’ se non riceve adesione e partecipazione, se i cittadini non ci credono o non partecipano alla norma —. In questo senso il momento dell’adesione e condivisione alla norma si traducono in comportamento collettivo. Per alcuni esempi di potere costituente cfr. H. ARENDT, Sulla violenza, in Politica e menzogna, Milano, 1985, p. 169 ss. (193) ‘‘(...) Non è e non sarà mai il diritto penale il fattore decisivo di soluzione o miglioramento dei problemi socisli, morali o economici (...)’’. Così DONINI, il quale a proposito dei fenomeni emergenziali veri ritiene che il diritto penale debba almeno essere una condicio sine qua non per il contenimento di tali fenomeni, non surrogabile con altri strumenti di coercizione giuridica. ID., voce Teoria del reato, cit., n. 347.
— 1073 — l’impresa negazionista (194), con il pericolo di interferenze illegittime in alcune libertà fondamentali, come la libertà d’espressione, di stampa e di ricerca scientifica. In una prospettiva di analisi tecnico-formale possiamo osservare che l’effetto immediato della tensione a dare un segnale all’opinione pubblica è un totale disinteresse per il bene giuridico che rischia di essere identificato con lo scopo della norma giuridica (195). Le norme sul negazionismo si caricano così di funzioni di intervento, sovraesponendosi politicamente, alimentando vocazioni espansive e facendo proprie le stesse logiche, seppure in modo attenuato, dei regimi totalitari e illiberali che i negazionisti vogliono riabilitare (196). Queste norme, incentrate sulla criminalizzazione di idee pericolose e non di fatti pericolosi, sembrano pertanto potersi inquadrare in quelle tendenze di mutamento del paradigma penale verso una subiettivazione del medesimo e verso un’accentuazione del distacco dai presupposti oggettivi (197). In questa prospettiva di analisi, e tenendo conto della specificità del diritto penale, non possiamo che ribadire forti perplessità sulla legittimità di queste fattispecie rispetto ai principi fondamentali di sussidiarietà, di offensività, tipicità e materialità. Ma non solo: l’impotenza del diritto penale in questo ambito sembra essersi potuta accertare in un momento precedente e ad un livello differente da quello formale, ovvero sul piano più propriamente politico delle risposte da fornire a fenomeni così pericolosi. Di fronte al riproporsi di affermazioni e atti intolleranti e di fronte dunque ad una messa in crisi di valori occorre rispondere in maniera appropriata e non confermare questa crisi con il ricorso alla via breve dell’opzione penale. Come ben esprimono le parole di André Taguieff, riferite alla ‘‘lotta contro’’ il razzismo in generale, ‘‘per vincere il razzismo e convincere i suoi sostenitori non bisogna lottare contro il razzismo. Occorre ritornare alla sola vera pedagogia, quella dell’esempio: mostrare dei tipi riusciti di esistenza senza razzismo e senza il suo doppio antagonista, l’antirazzismo (...). L’antirazzismo si sfinisce nel lottare contro il razzismo: il processo non ha più termine, assomiglia ad un cerchio infernale. Si tratta di spezzare il cerchio e di vivere fuori da questo spazio di lotta in cui gli avversari esistono alla sola condizione di reiventarsi l’un l’altro di continuo’’ (198). 11. Ri-pensare la storia. — Nelle epoche successive al verificarsi di determinati fenomeni, spesso si forma la ‘‘coscienza’’ di ciò che è veramente accaduto: come in un tribunale (194) V. MUSCO, A proposito dell’ordine pubblico comunque ridotto, in La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, a cura di PEPINO, Milano, 1993, p. 179. (195) Cfr. L. EUSEBI, La nuova retribuzione, in Diritto penale in trasformazione, a cura di MARINUCCI-DOLCINI, 1985, p. 93. (196) Nel caso dei reati di opinione si tratta sul piano assiologico di una caduta di libertà fondamentali, che con la normativa in questione si intendeva tutelare. Per questi rilievi e per approfondimenti cfr. S. MOCCIA, La perenne emergenza, cit. (197) Su questo fenomeno e sulle sue radici cfr. S. MOCCIA, La perenne emergenza, cit.; L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., soprattutto p. 844 ss. (198) Su questo tema di straordinario interesse sono le tesi sviluppate da René GIRARD nel suo libro, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Paris, trad. it., ID., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, 1983, 1978. In questo testo anche Girard ritiene che ciò che lui chiama crisi mimetiche, ovvero esplosioni di violenza che deflagrano in determinati contesti sociali, vanno attribuite alla confusione dei ruoli e delle posizioni di determinati attori sociali. Applicando questa tesi al caso del razzismo e dell’anti razzismo, ne risulta che essi nella loro infinita battaglia si trovano coinvolti in una crisi mimetica che li porta ad assomigliare l’uno all’altro. Questo implica una totale confusione e sovrapposizione dei ruoli e diviene impossibile la separazione. Attraverso un’analisi complessa l’Autore sostiene che i due estremi non possono avere vita propria, ma esistono solo in funzione dell’esistenza del proprio opposto. Dello stesso Autore cfr. Le bouc emissaire, Paris, 1982; trad. it., ID., Il capo espiatorio, Milano, 1987.
— 1074 — così davanti alla storia i soggetti devono rendere conto a se stessi della propria ineluttabile eredità. Talvolta questo confronto è molto duro e difficile e ci si vorrebbe allora sottrarre alla storia, negare, dimenticare. Falsificando (ri-pensando) la storia i negazionisti tentano di affrancare la loro presenza attuale da un’inevitabile processo etico di condanna, che renderebbe problematico il successo delle loro idee nelle società democratiche. Anzi, negare i crimini del passato è funzionale a giustificare e a dare legittimità, nel presente, alle ideologie che essi propugnano. L’opera costante degli storici, dovrebbe far emergere quelle ragioni che rendano evidenti le relazioni passato-presente, in modo da spingere i contemporanei verso un confine, una soglia che non sempre si riesce a varcare: la soglia che ciò che è accaduto una volta può ripetersi. Ripensare la storia dovrebbe significare non soltanto limitarsi a non negare e a non minimizzare la Shoah, ma anche non circoscrivere quei crimini ad una degenerazione criminale di un passato concluso per sempre. Lo sguardo è rivolto al passato per agire, in realtà, dal presente. Di fronte al negazionismo appare davvero problematico produrre leggi penali o ricercare la verità attraverso la verità legale (199); si tratterebbe di una falsa soluzione che rischia di andare nella direzione del male che si vuole combattere. È necessario invece contrastare tali affermazioni su un piano più propriamente politico e di consapevolezza civile, con mezzi intellettuali profondi e complessi. Processo che il ricorso allo strumento penale, lungi dal favorire, finisce invece per rendere più problematico. I fenomeni negazionisti impongono alle generazioni l’obbligo di ri-pensare la storia, riaffermando i grandi paradigmi su cui si fonda il sentire comune. Si tratta dunque di attivare più in generale un ri-pensamento della storia che permetta di ‘‘riconoscere’’ il genocidio come proprio della nostra epoca e dunque essere disposti a pagare i costi che derivano dal non voler dimenticare e dal voler sviluppare il ripensamento critico su questo passato. ‘‘La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto; il che forse nei rari momenti in cui ogni posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi almeno per il proprio sé’’ (200). Una via lunga, da percorrere, che a differenza di quella breve, rappresentata dalla delega al diritto penale, istituisce processi profondi di ripensamento civile. EMANUELA FRONZA Dottoranda di ricerca nell’Università di Teramo
(199) La verità è la verità e non ha bisogno di essere verità legale. Anzi a partire dal momento in cui essa è verità legale diviene sospetta di poter essere strumentalizzata. Così P. VIDAL NAQUET, Intervista su Le Quotidien de Paris, 9 mai 1998. (200) H. ARENDT, La vita della mente, Bologna, 1987, pp. 288-289.
COMMENTI E DIBATTITI
RIFLESSIONI CRITICHE INTORNO AD UN ‘DOGMA’: L’ANTIGIURIDICITÀ GENERICA
1. Nelle posizioni ormai prevalenti della dottrina italiana, l’antigiuridicità rappresenta una categoria autonoma nella struttura del reato, utile alla sistemazione delle cause di giustificazione: il fatto tipico — ovvero conforme ad una fattispecie penale — non sarà antigiuridico se è stato realizzato in presenza di una situazione scriminante (1). In questa prospettiva, vengono solitamente attribuite all’antigiuridicità connotazioni di oggettività e genericità. In particolare, condividendo una risalente acquisizione che per molti aspetti ha segnato una fondamentale conquista di civiltà giuridica (2), si ritiene che l’antigiuridicità sia oggettiva in quanto si risolve in un giudizio che non coinvolge (ancora) le condizioni individuali dell’autore del fatto (3). Sono, d’altra parte, molteplici le implicazioni della caratterizzazione generica dell’antigiuridicità. Fra tutte presenta risvolti immediatamente determinanti in termini di libertà personale — e difficilmente confutabili — il corollario della collocazione in qualsiasi settore dell’ordinamento giuridico della fonte normativa delle cause utili alla giustificazione del fatto penalmente tipico (4). Si tratta, tuttavia, di un’affermazione che appare del tutto secondaria rispetto al significato più autentico della caratterizzazione generica dell’antigiuridicità: essa, nella misura in cui è riferita ad un rapporto che è innanzitutto di contrarietà al diritto, deve coinvolgere già nel suo momento positivo l’intero ordinamento giuridico (5). Ed infatti il
(1) La costruzione tripartita del reato — o, comunque, la configurazione autonoma dell’antigiuridicità — sembra ormai largamente affermata presso la manualistica: in tal senso C. FIORE, Diritto penale. Parte generale, I, Torino, 1993, p. 144 ss.; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1995, p. 126 s.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995, p. 149 ss.; MAZZACUVA, Modello costituzionale del reato. Le ‘‘definizioni’’ del reato e la struttura dell’illecito penale, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. I, a cura di G. INSOLERA-N. MAZZACUVA-M. PAVARINI-M. ZANOTTI, Torino, 1997, pp. 75 ss., 107; per una sistematica quadripartita che, tuttavia, comprende la tripartizione MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale. Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, p. 271 ss. La migliore funzionalità della tripartizione nella prospettiva dell’elaborazione teleologicamente orientata della teoria del reato è stata riconosciuta anche da autorevoli sostenitori della bipartizione: per tutti, BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, p. 28 ss., e GROSSO, Cause di giustificazione, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1988, p. 5. (2) Sul punto MARINUCCI, Antigiuridicità, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, p. 176. (3) In tal senso, nell’ambito di una ricerca sulle origini del concetto di antigiuridicità oggettiva, PADOVANI, Alle radici di un dogma: appunti sulle origini dell’antigiuridicità obiettiva, in questa Rivista, 1983, pp. 543, 553. (4) Per tutti C. FIORE, Diritto penale, cit., p. 297 s. (5) Sottolineava il pericolo di una semplicistica riduzione della caratterizzazione unitaria dell’antigiuridicità alla verifica relativa all’assenza di cause di giustificazione già MORO, L’antigiuridicità penale, Palermo, 1947, p. 129; afferma chiaramente l’insufficienza di un
— 1076 — fatto penalmente tipico non giustificato è considerato genericamente antigiuridico in quanto contrario all’intero ordinamento giuridico (6), così come, d’altra parte, all’intero ordinamento giuridico sarebbe conforme il fatto penalmente tipico ma giustificato (7). Nella misura in cui si postula che ognuna delle implicazioni appena delineate sia insostenibile indipendentemente dalle altre, la configurazione generica dell’antigiuridicità suscita, a nostro sommesso avviso, notevoli perplessità sotto molteplici profili: storico-giuridico, giuridico-filosofico, metodologico e giuridico-procedimentale. In particolare, la configurazione generica dell’antigiuridicità sembra derivare da opzioni politico-criminali — o, più in generale, politico-giuridiche — che definiscono in modo quanto meno discutibile ruolo e funzioni del diritto penale e, in ultima analisi, lo stesso rapporto tra autorità e cittadino. 2. Per quanto concerne l’origine e l’evoluzione della dottrina dell’antigiuridicità, può essere opportuno verificarne le connotazioni di genericità nei contributi dottrinali che ne hanno segnato l’affermazione come autonoma categoria del reato. Emerge, allora, innanzitutto che, presso la nostra dottrina, l’antigiuridicità generica è stata definita in contrapposizione all’antigiuridicità penale in una prospettiva completamente diversa da quella limitata ed ormai acquisita della tripartizione: la contrapposizione, in particolare, non riguardava semplicemente la diversa estensione di due concetti altrimenti identici, ma coinvolgeva concetti con strutture e funzioni del tutto eterogenee. Sembra sufficiente, in proposito, la considerazione del fondamentale contributo del Maestro italiano della tripartizione, laddove i termini peculiari della contrapposizione risultano evidenti già nel primo paragrafo del capitolo dedicato a « Fatto e antigiuridicità » (8): il titolo del secondo punto — « Il concetto di antigiuridicità: valutazione oggettiva del fatto (antigiuridicità oggettiva o generica) ed esistenza del reato (antigiuridicità penale) » — dimostra, infatti, chiaramente come l’antigiuridicità ‘‘penale’’ sia presa in considerazione e criticata solo in quanto da altri identificata con il concetto stesso di reato (9). In questo ordine di idee, il ricorso alla genericità per qualificare l’antigiuridicità come categoria autonoma del reato sembra trovare evidentemente la sua prima e fondamentale ragione non nel contenuto strutturale del relativo concetto — che, altrimenti, dovrebbe essere fondamento esclusivamente negativo (assenza di cause di giustificazione) per la caratterizzazione generica dell’antigiuridicità, ritenendo, invece, imprescindibile anche per questo aspetto la considerazione della norma incriminatrice DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, p. 175. (6) Così, tra gli altri, MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, pp. 1190 ss., 1229. (7) Per l’omogeneità degli effetti prodotti dalle cause di giustificazione nell’ambito dell’intero ordinamento giuridico cfr., per tutti, MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1229; ID., Cause di giustificazione, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, pp. 132, 134 ss. Contra v. ROXIN, Problemi fondamentali della teoria dell’illecito, in Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi di teoria dell’illecito penale, a cura di S. MOCCIA, Napoli, 1996, p. 40 ss. Sebbene sia oggi largamente condiviso sia presso la dottrina tedesca che presso quella italiana, il principio dell’universalità delle cause di giustificazione in quanto produttive sempre dei medesimi effetti non sembra affatto una costante nell’evoluzione della dottrina dell’antigiuridicità e delle scriminanti: sul punto cfr. GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit und Strafunrechtsausschluß, Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, pp. 20 s., 27 s., 45 ss., 59 s., passim, che sulla critica del principio di universalità elabora le ipotesi di esclusione dell’illecito penale. (8) DELITALA, Il ‘‘fatto’’ nella teoria generale del reato (1930), in Diritto penale. Raccolta degli scritti, Milano, 1976, vol. I, p. 11 ss. (9) Cfr. DELITALA, Il ‘‘fatto’’ nella teoria generale del reato, cit., pp. 11, 13 ss.; l’identificazione tra antigiuridicità penale e antigiuridicità come essenza del reato appare evidente anche nella conclusione del terzo punto del primo paragrafo (« Il concetto di antigiuridicità oggettiva ») del capitolo dedicato ai rapporti tra fatto e antigiuridicità (DELITALA, op. cit., p. 20).
— 1077 — esplicitamente ricostruito come contrasto con l’ordinamento giuridico generale —, ma nella mera esigenza di una definizione alternativa all’antigiuridicità qualificata ‘‘penale’’ in quanto significante l’« in sé » dell’illecito penale in senso lato, ovvero del reato (10). Nella stessa opera, infatti, non viene sollevata alcuna obiezione contro una qualificazione penale dell’antigiuridicità che, tuttavia, non ne compromette la collocazione distinta e paritetica rispetto a tipicità e colpevolezza: sembra addirittura condivisa la tesi di chi afferma che il fatto commesso in esecuzione della legge, in obbedienza all’autorità, per legittima difesa o stato di necessità non è « penalmente antigiuridico », purché ciò non pregiudichi l’autonoma esistenza della colpevolezza (psicologica) ovvero la possibilità di affermare che, « indiscutibilmente », si tratta di un fatto doloso (11). D’altra parte, solo in quanto entrambe funzionali alla definizione dell’antigiuridicità come elemento della tripartizione e, quindi, del tutto incompatibile con l’antigiuridicità penale in quanto ‘‘in sé’’ del reato, le connotazioni di genericità e di obiettività possono essere considerate reciprocamente fungibili così come risultano nello stesso titolo del secondo punto del capitolo dedicato a « Fatto e antigiuridicità », laddove si fa riferimento all’« antigiuridicità oggettiva o generica »; è evidente, infatti, che, nel loro significato più autentico, le due configurazioni coinvolgono, invece, aspetti del tutto eterogenei. L’opera dell’illustre Maestro, sembra, dunque, sufficientemente indicativa di come, nelle elaborazioni più autorevoli della dottrina italiana, l’antigiuridicità generica non indicava, almeno in origine, un rapporto di contraddizione con l’intero ordinamento giuridico e, quindi, non pretendeva di affermare, sempre e comunque, il contrasto (o la conformità) del fatto penalmente tipico e non giustificato (o penalmente tipico ma giustificato) con l’intero ordinamento giuridico e, quindi, anche con l’ordinamento civile, amministrativo o amministrativo-disciplinare. Una conclusione in tal senso postula innanzitutto la definizione del momento costitutivo di quella che dovrebbe essere una qualificazione giuridica diversa ed ulteriore rispetto alla contrarietà al solo ordinamento giuridico-penale (tipicità). Il riferimento alla legge penale sarebbe a tal fine insufficiente; dovrebbe trattarsi, invece, di un fondamento utile a coinvolgere l’intero ordinamento giuridico. La configurazione unitaria dell’antigiuridicità sembra trovare, allora, un’adeguata premessa teorica nella concezione (ulteriormente) sanzionatoria del diritto penale; si tratta, d’altra parte, di un’ipotesi che, già autorevolmente sostenuta presso la nostra dottrina (12), (10) In tal senso Art. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alle teorie generali del reato e della pena, Milano-Torino-Roma, 1913, pp. 472 ss., 475 (cfr. DELITALA, Il ‘‘fatto’’ nella teoria generale del reato, cit., p. 16, nota 10). (11) DELITALA, Il ‘‘fatto’’ nella teoria generale del reato, cit., pp. 17 ss., 19; altrove lo stesso Delitala afferma che « l’antigiuridicità oggettiva [...] deriva dalla legge penale » e, quindi, non da altre fonti di diritto positivo (op. cit., p. 23). Per una limpida e sintetica esposizione delle posizioni dei sostenitori dell’antigiuridicità ‘‘penale’’ e per l’identificazione tra antigiuridicità e punibilità (reato) in cui essa (esclusivamente) si risolve cfr. VASSALLI, Cause di non punibilità, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 615 s. A nostro sommesso avviso sul punto appare ambigua anche la posizione di Beling; se, infatti, come ritiene autorevole dottrina (MARINUCCI, Antigiuridicità, cit., p. 177) dovrebbe essere esclusa la sua adesione alla concezione sanzionatoria di Binding, resta la considerazione per la quale il fatto « ha carattere esclusivamente penale » (BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 113) e che il reato è una condotta « tipicamente antigiuridica » (BELING, Die Lehre vom Tatbestand, cit., p. 18 s.), laddove in riferimento a quest’ultima affermazione, non appare infondato supporre il rinvio alla tipicità in quanto determinata da una norma penale. (12) Si ripropone, per questo aspetto, uno dei temi più delicati della disputa sulle origini del concetto di antigiuridicità che, sebbene risalgano ben oltre la compiuta formulazione della concezione sanzionatoria (MARINUCCI, Antigiuridicità, cit., p. 176; PADOVANI, Alle radici di un dogma: appunti sulle origini dell’antigiuridicità obiettiva, cit., p. 532 ss., che, come Marinucci, rinvia alle ricostruzioni elaborate nell’ambito della dottrina tedesca),
— 1078 — trova un’inequivocabile conferma nei contributi di autorevoli voci della moderna scienza penalistica tedesca. In particolare, la possibilità di riferire la costruzione teorica dell’antigiuridicità all’esistenza di norme che, nell’intero ordinamento giuridico e/o in ogni suo settore, vietano o comandano una determinata condotta, valutandone, pertanto, negativamente la realizzazione o l’omissione, è immediatamente deducibile dalla teoria delle norme di Karl Binding, laddove si assume l’esistenza di particolari norme di diritto pubblico (13), solitamente non scritte (14), che precedono logicamente i divieti ed i comandi contenuti nella legge (15). La legge, infatti, non farebbe altro che ripetere le ‘‘norme’’ — oppure, più frequentemente, selezionare nel loro ambito, secondo i criteri di una deplorevole frammentarietà (16), settori più limitati — per la definizione di singole ipotesi di ‘‘reati’’, ovvero di ‘‘delitti punibili’’ (17). La contrarietà alla norma (Normwidrigkeit), con cui Binding sembra identificare l’antigiuridicità (18), al pari della norma, esiste, dunque, prima ed a prescindere dalla legge (costitutiva della ‘sola’ tipicità del fatto) (19), che, invece, limitandosi a predisporre la minaccia di una pena pubblica determinata, è indispensabile perché un delitto, ovvero la modificazione del mondo esterno contraria alla norma e prodotta da un’attività umana colpevole, diventi reato (20). Appare evidente come, in questa prospettiva, l’antigiuridicità, superando le singole disposizioni di legge, trova una dimensione unitaria nel riferimento alla violazione di norme che, nella struttura globale dell’ordinamento giuridico, si collocano al di sopra dei suoi singoli settori e che non sono assistite da alcuna sanzione. La configurabilità concettuale di queste ultime rappresenta un postulato imprescindibile della teoria in esame. Si tratta, tuttavia, di un assunto che ha trovato una valutazione severamente critica da parte della dottrina italiana, presso la quale, non a caso, il riscontro dell’elaborazione di Binding è stato, sotto questo profilo, decisamente limitato. In particolare, la semplice considerazione dell’evoluzione del dibattito che si è sviluppato in Italia intorno alla teoria delle norme lascia facilmente presumere un ruolo determinante per le obiezioni che contro di essa furono ben presto sollevate da Arturo Rocco nella sua fondamentale opera del in quest’ultima sembrano comunque fermarsi almeno per quanto concerne la caratterizzazione generica del suo momento costitutivo: la tesi della concezione sanzionatoria quale origine dell’antigiuridicità come categoria autonoma del reato è stata sostenuta da PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, pp. 108 ss., 132 s.; ID., Fatto, condotta illecita e responsabilità oggettiva, in questa Rivista, 1985, pp. 623 ss., 628; in senso analogo v. BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, cit., p. 31 s.; in termini molto più espliciti DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, cit., p. 169; ID., Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, p. 218. (13) BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, vol. I, Normen und Strafgesetze (1872), 2a ed., Leipzig, 1890, p. 97; sul punto cfr. anche BELING, Grundzüge des Strafrechts, 3a ed., Tübingen, 1905, p. 15. (14) BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, vol. I, cit., p. 153. (15) BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, vol. I, cit., p. 4 s. (16) BINDING, Lehrbuch des gemeinen deutschen Strafrechts. Besonderer Teil, vol I, 2a ed., Leipzig, 1902, p. 20 ss.; sul punto cfr. anche PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p. 160. (17) BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, vol. I, cit., p. 132 ss. Per l’identificazione del reato con un delitto punibile BINDING, Handbuch des Strafrechts, vol. I, Leipzig, 1885, p. 499. (18) BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, vol. I, cit., p. 134; sul punto cfr. anche Arm. KAUFMANN, Lebendiges und Totes in Bindings Normentheorie. Normlogik und moderne Strafrechtsdogmatik, Göttingen 1954, p. 22, al quale si rinvia anche per una dettagliata ricostruzione della teoria delle norme di Binding. (19) BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, vol. I, cit., p. 225 ss.; sul punto cfr. DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, cit., p. 170, n. 78. (20) BINDING, Handbuch des Strafrechts, cit., p. 503.
— 1079 — 1913 (21). In quella sede, infatti, veniva contestata proprio la possibilità di configurare norme giuridiche di condotta a prescindere dalla previsione di una sanzione per l’ipotesi della loro violazione, e veniva affermata, invece, la tesi dell’inscindibilità di precetto e sanzione (22). Le relative argomentazioni sembrano, dunque, aver assunto un valore definitivo presso la nostra dottrina penalistica, che, quando non ha ripreso le conclusioni di Rocco per escludere del tutto l’esistenza di precetti giuridici non sanzionati (23), ha comunque ritenuto di lasciare ad altre discipline un problema evidentemente considerato secondario per la definizione della struttura del reato (24), tanto più che una nuova e diffusa sensibilità verso i valori fondamentali del diritto penale offre oggi argomenti ben più consistenti alla critica della concezione sanzionatoria (25). Lo stesso ordine di ragioni sembra, invece, aver determinato presso la nostra dottrina un esito diverso per la concezione ulteriormente sanzionatoria del diritto penale: si tratta di una variante del modello di Binding che, identificando le Normen che precedono le disposizioni della legge penale con disposizioni di diritto positivo, evita di postulare l’esistenza di norme giuridiche non scritte e prive di sanzione, e si presta meglio al metodo di elaborazione scientifica del tecnicismo giuridico italiano (26). La concezione ulteriormente sanzionatoria risulta chiaramente formulata nella fondamentale opera di Beling (27), oggi unanimemente considerata il ‘manifesto’ della tripartizione classica del reato (28). Rinviando esplicitamente alla « geniale teoria delle norme di Binding » (29), anche Beling distingue le norme dalla legge penale (30); risultano, tuttavia, sostanzialmente diverse la (21) Art. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, cit., p. 61 ss. al quale si rinvia anche per una dettagliata ed approfondita ricostruzione del dibattito dell’epoca. Per un’anticipazione della dettagliata critica di Rocco alla concezione sanzionatoria v. Art. ROCCO, Sul così detto carattere ‘‘sanzionatorio’’ del diritto penale, in Giur. it., 1910, cc. 53 ss., 55 ss. (22) Art. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, cit., p. 67 ss. (23) Così PETROCELLI, L’antigiuridicità, Padova, 1947, p. 17. (24) Com’è noto, il problema della configurabilità di norme giuridiche senza sanzione è uno dei temi fondamentali della filosofia del diritto; per tutti, BOBBIO, Norma giuridica, in Nss. D.I., XI, Torino, 1968, p. 330 ss. In specifico riferimento alle cause di non punibilità cfr. VASSALLI, Cause di non punibilità, cit. p. 616 ss. (25) Sul punto, per tutti, cfr. le recenti considerazioni di MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995, pp. 343 ss., 353. (26) Sulla definizione dei caratteri specifici della scienza penalistica italiana in contrapposizione a quelli della dottrina tedesca cfr. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. D.I., XIX, Torino, 1973, p. 7 ss. Per la definizione del tecnicismo giuridico come « elaborazione tecnico-giuridica del diritto positivo e vigente », cfr. Art. ROCCO, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale (1910), in Opere giuridiche, vol. III, Scritti giuridici vari, Roma, 1933, pp. 236 ss., 294 ss. (il corsivo è dell’A.). (27) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, Tübingen, 1906, pp. 115 ss., 123, 126 s.; ID., Grundzüge des Strafrechts, cit., p. 15. Attribuisce espressamente a Beling la concezione ulteriormente sanzionatoria del diritto penale Art. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, cit., p. 67; per la dottrina più recente cfr. DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, cit., p. 172 ss.; ID., Teoria del reato, cit., p. 219. (28) Sul punto JESCHECK, Die Entwicklung des Verbrechensbegriffs in Deutschland seit Beling im Vergleich mit der österreichischen Lehre, in ZStW, 1961, pp. 179 ss., 181, dove le tre epoche fondamentali nell’evoluzione della dottrina tedesca del reato vengono identificate con il sistema classico, il sistema teleologico e il sistema del finalismo. (29) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 115. (30) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 115, dove si afferma testualmente che « la legge penale non è una norma ». Ciò che viene violato da chi agisce antigiuridicamente non è la legge penale, ma le norme che sono contenute negli altri settori dell’ordina-
— 1080 — natura e la collocazione sistematica che Beling attribuisce alle Normen (31). Si ritiene, infatti, che, sebbene nella maggior parte dei casi esse non siano formulazioni di diritto positivo (32) e siano, invece, caratterizzate da vaghezza (33), le Normen « non sono un’allucinazione », ma esistono realmente in quanto proposizioni giuridiche (34). All’interno dell’ordinamento giuridico, dunque, non è più possibile distinguere un ‘‘diritto delle norme’’ da un ‘‘diritto delle non norme’’; l’esistenza di un diritto delle norme costituito da un settore particolare del diritto pubblico — diverso, quindi, anche dal diritto privato — in cui le Normen, secondo la costruzione di Binding, troverebbero la loro collocazione sistematica, è, infatti, espressamente negata laddove si afferma che « non occorre cercare le norme al di fuori delle discipline giuridiche », perché « esse non sono nient’altro che le stesse proposizioni giuridiche del diritto privato, del diritto amministrativo e così via » (35). D’altra parte, la dispersione delle Normen nell’intero ordinamento giuridico non compromette le caratteristiche di unità del reato che da esse deriva. Ed infatti, fin quando non viene in considerazione la descrizione dettagliata della fattispecie, « ciò con cui bisogna lavorare non sono le singole norme dettagliate, ma la normalità o non normalità dell’azione » (36). In questa prospettiva si inserisce anche l’affermazione di Beling secondo cui « il delitto è contrarietà alla norma, ma i delitti non sono contrarietà alle norme » (37); la costruzione proposta, infatti, permette di ricondurre ad unità l’ordinamento giuridico e, in quanto sua negazione, lo stesso concetto di reato che « non viene caratterizzato dalla violazione di questa o quella singola proposizione giuridica, ma la caratteristica essenziale del reato, lo spirito che in esso vive, è il contrasto con la volontà normativa statale » (38). Secondo quanto si è già anticipato, la maggiore sensibilità della concezione ulteriormente sanzionatoria al diritto positivo sembra averle riservato presso la nostra dottrina un esito diverso da quello che, invece, ha avuto la teoria delle norme di Binding (39). mento: cfr. BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 123; ID., Grundzüge des Strafrechts, cit., p. 13. (31) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 122 ss. (32) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 117. (33) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 118. (34) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 122. (35) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 122 s.; ID, Grundzüge des Strafrechts, cit., p. 15. (36) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 118. (37) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 122. (38) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 127. (39) Appaiono indicative, in proposito, le considerazioni svolte da Rocco laddove si afferma che ‘‘il diritto penale invero, a differenza di tutti gli altri rami del diritto, ha carattere complementare o supplementare, propriamente ha carattere sanzionatorio di tutti gli altri rami del diritto, in quanto porta il sussidio delle sue particolari sanzioni che sono le sanzioni penali, per la garanzia e l’osservanza delle norme proprie degli altri rami del diritto": Art. ROCCO, Le dottrine generali del diritto penale, in Lezioni di diritto penale pronunziate nell’anno accademico 1932-33, raccolte da S. CICALA, Roma, s.d., pp. 24-25; sul punto GRISPIGNI, Diritto penale italiano, vol. I, Milano, 1952 (ristampa della seconda edizione), p. 232, n. 165. Per altre autorevoli adesioni alla concezione ulteriormente sanzionatoria cfr. CARNELUTTI, Il danno e il reato, Padova, 1926, pp. 57, 81 ss., 87, e FROSALI, Reato, danno e sanzioni, Padova, 1932, p. 160 ss., con ulteriori riferimenti bibliografici. Sul punto cfr. anche le pagine di DEL VECCHIO, La giustizia, Bologna, 1924 (estratto da Riv. int. fil. dir., 1923), p. 52 ss., che attribuisce alla giustizia penale un « carattere secondario » che ne fa una « sorta di giustizia seconda » in quanto la sanzione penale « si aggiunge e si sovrappone » ad « una sanzione o coazione civile » « e ad ogni modo non è mai possibile per se solo » (op. cit., p. 54, i corsivi sono dell’A.).
— 1081 — Si deve, in particolare, a Filippo Grispigni (40) una rielaborazione della concezione ulteriormente sanzionatoria secondo i caratteri di un maggiore rigore giuridico-positivo che, con la costante coerenza con le premesse di filosofia e teoria del diritto e la chiara ed inequivocabile affermazione dell’autonomia del diritto penale (41), contribuiscono, a nostro avviso, a sottrarla a molti dei rilievi critici a cui pure si è ritenuto di sottoporla (42). In particolare, la peculiare configurazione del rapporto tra norme extrapenali e norme penali sembra determinante nel porre alla costruzione di Grispigni minori difficoltà nella facile e decisiva verifica del confronto con il diritto positivo (43): la priorità delle norme extrapenali su quelle penali, infatti, non sarebbe storica o cronologica, ma « logico-sistematica » (44) così che le prime (quand’anche abrogate) non necessariamente devono essere (state) esplicitamente previste negli altri settori dell’ordinamento giuridico (45). Le ipotesi di beni che hanno storicamente trovato una tutela immediatamente penale non rappresentano, dunque, un problema nella misura in cui si postula che « una volta intervenuta la norma penale si integrano e completano immediatamente ed automaticamente altri rami del diritto » (46); laddove questo completamento non risulta evidente, resta la impedibilità del fatto di reato da parte delle forze di polizia ad assicurare una sanzione che precede quella penale (47). Ma in questa sede va soprattutto considerato come anche nell’elaborazione di Grispigni la concezione ulteriormente sanzionatoria non rappresenta una teoria della norma giuridica fine a sé stessa, ma assume immediate implicazioni sistematiche puntualmente ed esplicitamente definite. Una delle più rilevanti riguarda proprio le cause di giustificazione: si ritiene, infatti, che l’efficacia che ad esse viene unanimemente riconosciuta nella configurazione del reato anche quando la loro fonte è una norma di un settore dell’ordinamento giuridico diverso da quello penale, « risulterebbe inesplicabile senza il carattere sanzionatorio del diritto penale » (48). In particolare, solo la considerazione per la quale « il divieto penale è un duplicato di un divieto extrapenale » (49) consente di affermare che le cause di giustificazione (40) GRISPIGNI, Il carattere sanzionatorio del diritto criminale, in questa Rivista, 1920, I, p. 225 ss.; ID., Diritto penale italiano, cit., p. 232 ss. (41) Appaiono significative, sotto questo profilo, le posizioni espresse da Grispigni laddove, in esplicita opposizione a Beling, si nega che « le norme, alla cui violazione viene dietro la sanzione criminale, siano le stesse norme del diritto privato o pubblico non penale », in quanto si ritiene che « i precetti giuridici extrapenali hanno valore nel campo del diritto penale [...] nei limiti e coi presupposti ed alle condizioni specificamente indicati dal diritto penale », che, quindi, « determina in modo del tutto autonomo il proprio praeceptum legis, sulla base di quello che è il carattere distintivo del reato, considerato dal punto di vista del contenuto, vale a dire un’offesa, quantitativamente più grave, delle condizioni fondamentali dell’esistenza della vita associata » (GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 235 s.). (42) Per un’autorevole critica alla concezione ulteriormente sanzionatoria del diritto penale cfr. DELITALA, Contributo alla nozione di reato. Il reato come offesa ad un bene od interesse obbiettivamente protetto (1926), in Diritto penale. Raccolta degli scritti, vol. I, cit., pp. 163 ss., 200; ID., Diritto penale, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, pp. 1095 ss., 1098. (43) Il rilievo secondo cui appaiono del tutto eventuali le ipotesi in cui le fattispecie incriminatrici trovano — o hanno trovato — disposizioni analoghe — e, quindi, precedenti — in altri settori dell’ordinamento giuridico aveva ispirato già le critiche alla costruzione belinghiana mosse da Art. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, cit., p. 77; più in generale v. DELITALA, Contributo alla nozione di reato, cit., p. 200; ID., Diritto penale, cit., p. 1098. Da ultimo, sul punto DONINI, Teoria del reato, cit., p. 220. (44) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 236. (45) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 233 s. (46) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 238. (47) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., pp. 246, 251, n. 218; sul punto v. infra rinvio alla nota 58 ss. (48) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 241. (49) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 240.
— 1082 — non sono istituti di diritto penale « bensì dei singoli rami del diritto » e che « la loro efficacia nell’ambito penale è solo mediata, avviene cioè attraverso l’efficacia che esse esercitano negli altri rami del diritto » (50); ed infatti, « se il diritto penale non ha carattere sanzionatorio, non vi è nessuna ragione per negare che, come un’azione può essere lecita penalmente pur essendo illecita civilmente o amministrativamente, così ben potrebbe darsi il contrario e cioè che un’azione fosse illecita penalmente e non anche civilmente » e, dunque, la pretesa di non contraddittorietà tra le disposizioni dell’ordinamento giuridico non avrebbe più alcuna ragion d’essere (51). La tesi secondo cui le origini dell’antigiuridicità generica vanno ricercate nella concezione (ulteriormente) sanzionatoria del diritto penale trova, dunque, un’autorevole ed esplicita conferma nell’interpretazione di Grispigni. Una conclusione altrettanto autorevole è, tuttavia, quella di Delitala che, diversi anni dopo la pubblicazione della sua fondamentale opera, affermava che « ai medesimi risultati si può benissimo giungere per altra via: ad esempio in base al principio, indiscusso e indiscutibile, dell’unitarietà dell’ordinamento giuridico » (52). La soluzione proposta non risulta ulteriormente argomentata, e, d’altra parte, sembra essere rimasta realmente indiscussa presso la nostra dottrina; essa ripete, comunque, conclusioni analoghe sostenute presso la dottrina tedesca, che, tuttavia, a nostro avviso, vanno verificate nella loro compatibilità con i postulati filosofici e, specificamente, metodologici su cui si basa tutta la rielaborazione teleologicamente orientata del sistema penale. 3. Chi, per la prima volta, ha criticamente evidenziato un rapporto di derivazione tra antigiuridicità e concezione sanzionatoria del diritto penale, ha dedotto da questa premessa l’insostenibilità di tutta la costruzione tripartita del reato (53); probabilmente, dalla medesima premessa si potrebbe dedurre, molto più limitatamente, la necessità di rivedere la caratterizzazione generica dell’antigiuridicità o, almeno, alcuni dei suoi corollari (54). Il postulato è, in ogni caso, l’insostenibilità della concezione (ulteriormente) sanzionatoria del diritto penale, che oggi può essere argomentata essenzialmente con due diversi ordini di considerazioni. Come si è già avuto modo di anticipare, nelle posizioni attuali della dottrina l’insostenibilità della concezione sanzionatoria del diritto penale viene affermata soprattutto nell’ambito di valutazioni di ordine sostanziale e, in particolare, per la sua incompatibilità con le necessità costituzionali specifiche del diritto penale — prima fra tutte, l’offensività rispetto a beni giuridici legittimamente tutelabili con la sanzione più grave prevista dall’ordinamento giuridico — che concorrono a caratterizzarlo in termini frammentarietà (55). Si tratta, tuttavia, di quelle stesse specificità che appaiono evidentemente riconosciute nella chiara ed inequivocabile affermazione di Grispigni circa l’autonomia del diritto pe(50) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 256; altrove Grispigni ha espressamente fatto riferimento ad una « doppia antigiuridicità »: op. cit., p. 235 (il corsivo è dell’A). (51) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 241. (52) DELITALA, Diritto penale, cit., p. 1099. (53) Così PAGLIARO, Il fatto di reato, cit., p. 132 s. (54) Nelle posizioni attuali della dottrina, l’opzione per la tripartizione sembra fondata essenzialmente sulla indiscutibile opportunità politico-criminale della separazione tra fatto tipico e scriminanti (fondamentale, in proposito, MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., pp. 1198 s., 1206 ss., 1228 ss.); non sembra, tuttavia, che la stessa separazione debba necessariamente tradursi in quella, evidentemente diversa, tra i giudizi di tipicità e di antigiuridicità e, quindi, a maggior ragione, che quest’ultima debba caratterizzarsi in termini di genericità. (55) Non è un caso, quindi, che, nella prospettiva della concezione sanzionatoria del diritto penale, Binding avesse guardato con sfavore al canone, oggi ritenuto fondamentale, della frammentarietà: sul punto v. supra nota 16.
— 1083 — nale (56). Rispetto ad essa il tenore attuale delle critiche alla concezione sanzionatoria appare, dunque, del tutto inadeguato; risultano, pertanto, tuttora decisivi i rilievi che contro la concezione (ulteriormente) sanzionatoria del diritto penale venivano sollevati quando la sensibilità verso i valori fondamentali del diritto penale non era — e, in assenza di una Costituzione vincolante, non poteva essere — così diffusa come oggi, e che, rinviando alle disposizioni del diritto positivo (57) e, comunque, ai canoni fondamentali del positivismo giuridico, coinvolgevano una delle acquisizioni basilari della cultura giuridica italiana. A questo ordine di valutazioni, infatti, non riesce a sottrarsi nemmeno la concezione ulteriormente sanzionatoria, almeno nei casi in cui le ipotesi di illeciti con oggettività giuridiche ad ampio spettro — che non sembrano trovare altra tutela che quella penale — hanno costretto i sostenitori della teoria ad indicare il precedente normativo delle disposizioni della legge penale nella impedibilità da parte delle forze di polizia e, quindi, nelle disposizioni che la prevedono (art. 1 t.u.l.p.s., capi V e VI del titolo II t.u.l.p.s.) (58): a prescindere dalle questioni poste dalla sua configurazione in termini di sanzione (59), appare, infatti, pienamente condivisibile il rilievo autorevolmente sollevato da chi sottolineava come la descrizione del fatto in una fattispecie di reato sia un precedente logico e non una conseguenza della impedibilità e che, quindi, la impedibilità — e non la pena — dovrebbe essere rappresentata come sanzione ‘‘ulteriore’’ (60). I valori di garanzia legati alla cultura del positivismo giuridico segnano, d’altra parte, un ordine di idee che trova proprio nel diritto penale e nella sua scienza la sua sede più naturale. Non si vede, dunque, alcuna ragione per cui debba restarne estraneo un settore tutt’altro che secondario della teoria del reato, tanto più che proprio la considerazione delle molteplici implicazioni e manifestazioni del positivismo giuridico sembra offrire un preziosissimo strumento per la ricostruzione critica delle principali fasi dell’evoluzione della dottrina dell’antigiuridicità. (56) V. supra nota 41. (57) Sul punto v. supra nota 43. (58) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., pp. 246, 251, n. 218; v. supra nota 47. (59) Sul punto v. le considerazioni critiche di DELITALA, Contributo alla nozione di reato, cit., p. 202, nonché quelle di GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità, Milano, 1964, pp. 131 ss., 138 di MOLARI, Profili dello stato di necessità, Padova, 1964, pp. 156 ss., 158. (60) Così DELITALA, Contributo alla nozione di reato, cit., p. 205 s.; ID., Diritto penale, cit., p. 1098. In senso analogo, GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità, cit., p. 135. Solo in una prospettiva cronologica riferita esclusivamente al momento dell’applicazione della norma, la impedibilità sembra precedere la pena; si tratta, tuttavia, di una prospettiva già rifiutata da Grispigni nella definizione della priorità delle norme extrapenali su quelle penali. In realtà, infatti, a prescindere da qualsiasi considerazione del momento applicativo della norma, anche la priorità dell’impedibilità sulla pena è ricostruita da Grispigni in termini logico-sistematici: anche in questa prospettiva intervengono, però, altre considerazioni a rendere insostenibile la concezione ulteriormente sanzionatoria: se, infatti, « la sanzione non è qualcosa fuori e diversa dal precetto, ma è lo stesso precetto in quanto si attua coattivamente » (GRISPIGNI, Diritto penale italiano, cit., p. 240, n. 181; il corsivo è dell’A.), impedibilità e norma incriminatrice sono inscindibili anche sotto questo profilo in quanto la prima, se è sanzione, è sanzione della seconda che altrimenti non sarebbe precetto giuridico e, dunque, neppure potrebbe essere presa in considerazione in quanto ‘‘diritto’’: il carattere ulteriormente sanzionatorio, allora, potrebbe tutt’al più essere riconosciuto non al diritto penale ed ai suoi precetti primari — che devono pur ricevere in qualche modo il crisma della giuridicità —, quanto, piuttosto, soltanto alla pena. La distinzione tra le fasi della posizione e dell’attuazione della norma rappresenta uno strumento di analisi giuridica sovente utilizzato in dottrina: tra gli altri cfr. PETROCELLI, Riesame degli elementi del reato, in Studi in onore di Antolisei, vol. III, Milano, 1965, p. 10 s., nonché, in riferimento alle funzioni della pena, ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe (1966), in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin-New York, 1973, pp. 1 ss., 12.
— 1084 — In particolare, sembra utile, sotto questo profilo, la definizione dei tre aspetti essenziali del positivismo giuridico, indicati in un criterio per la selezione primaria dell’oggetto dell’indagine giuridica, in una teoria (formale) del diritto oppure, infine, in un’ideologia ovvero in una teoria della giustizia (61). Relativamente alla definizione del momento costitutivo dell’antigiuridicità, le istanze del positivismo giuridico vengono, allora, in considerazione innanzitutto in quanto selezione primaria dell’oggetto di indagine, indicato nel diritto quale è (diritto reale), non solo in quanto contrapposto al diritto quale dovrebbe essere (diritto ideale), ma anche e soprattutto in quanto definito a prescindere dal contenuto specifico delle norme e, quindi, con criteri scientifici che rinviano a fatti accertabili (come, per esempio, forma e procedure di emanazione delle norme, o, al limite, effettività delle stesse), e, comunque, non alla conformità ad un certo sistema di valori (62). Con queste premesse appare evidentemente incompatibile la natura delle Normen del modello fondamentale della concezione sanzionatoria del diritto penale, a cui, posta la mera eventualità di disposizioni di diritto positivo (logicamente) precedenti le disposizioni della legge penale, non riesce a rinunciare neppure la concezione ulteriormente sanzionatoria. In ultima analisi risulta incompatibile con le stesse premesse il ruolo del tutto secondario che entrambe le costruzioni riconoscono alla legge penale, laddove ad essa, referente essenziale del Tatbestand, si nega esplicitamente una funzione « costitutiva » per il tipo di illecito, per attribuirle, invece, una funzione semplicemente « regolativa » (63). In questa prospettiva l’indagine sul momento costitutivo dell’antigiuridicità assume i caratteri di un’indagine sul fondamento del diritto positivo (64) di cui si recupera l’oggetto, sia pur in termini del tutto speculari in quanto coinvolgono non i criteri per la legittimazione sostanziale del diritto positivo, ma quelli per la determinazione di ciò che, prima della legge, si assume contrario al diritto. L’esito è la confusione tra diritto e morale che caratterizza ogni indagine sui confini tra lecito ed illecito condotta a prescindere dal diritto positivo, ovvero dalla netta e prioritaria separazione tra il diritto reale e il diritto ideale e dall’individuazione del primo secondo criteri formali e scientifici; ma, secondo le indicazioni della dottrina, la stessa confusione si (61) Si tratta dell’ormai nota distinzione proposta da BOBBIO, Sul positivismo giuridico, in Riv. fil., 1961, pp. 14 ss., 15 s.; ID., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1972, p. 103 ss. Per una diversa classificazione solo parzialmente analoga v. BARATTA, Positivismo giuridico e scienza del diritto penale, Milano, 1966, p. 5; in riferimento ad ulteriori classificazioni, M.A. CATTANEO, Positivismo giuridico, in Nss. D.I., XIII, Torino, 1966, pp. 315 ss., 320. Contro la distinzione proposta da Bobbio, accusata di ‘‘astrattismo’’, cfr. FASSÒ, Società, legge e ragione, Milano, 1974, p. 55, che, sia pur sotto un profilo non più metodologico ma contenutistico, critica anche la definizione unitaria del positivismo giuridico proposta da SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965, pp. 29 ss., 105 ss., senza, per questo, disconoscere l’impossibilità di prescindere dal positivismo giuridico come espressione razionale di un’ideologia in un sistema di norme scritte, possibile oggetto di confronto scientifico (op. cit., pp. 55 ss., 85). (62) BOBBIO, Sul positivismo giuridico, cit., p. 17 ss.; ID., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., p. 105 ss. Lo stesso tipo di considerazione rappresenta un postulato del positivismo giuridico come teoria del diritto, che storicamente si presenta come definizione del diritto in quanto formato dallo Stato quale potere sovrano capace di esercitare la coazione come momento imprescindibile di giuridicità (BOBBIO, Sul positivismo giuridico, cit., p. 18 ss.; ID., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., p. 107 ss.). (63) BELING, Die Lehre vom Tatbestand, cit., p. 9. (64) Quanto meno significativa appare, in proposito, la posizione dello stesso Beling, laddove considera il problema dell’antigiuridicità in una prospettiva che « sotto il profilo sistematico appartiene alla cosiddetta teoria generale del diritto »: BELING, Grenzlinien zwischen Recht und Unrecht in der Ausbung der Strafrechtspflege, Tübingen, 1913, p. 14; sul punto cfr. GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit und Strafunrechtsausschluß, cit., p. 19.
— 1085 — esprime anche in forme diverse da quelle, note o facilmente immaginabili, della moralizzazione del diritto (65). Tali possono essere quelle del legalismo etico (66) (altrove definito morale legalistica (67)), in cui si risolve lo stesso positivismo giuridico quando, identificando la giustizia con la validità delle norme giuridiche, diventa ideologia. Anche quando si considera « l’azione giusta come adempimento del dovere » e « l’uomo giusto come colui che compie il proprio dovere, prescindendo da ogni considerazione intorno alla natura ed al fine del dovere » (68), risulta, infatti, compromessa la necessaria separazione — e, quindi, l’autonoma e contemporanea applicazione — di criteri di legittimazione interna (o legittimazione in senso stretto, determinata dai criteri di validità delle norme, ossia di conformità a disposizioni di diritto positivo che ne disciplinano la produzione) e di legittimazione esterna del diritto (o giustificazione, determinata da criteri di giustizia) (69); in particolare, se con la moralizzazione del diritto la legittimazione in senso stretto viene assorbita fino a sparire nella legittimazione esterna, accade esattamente il contrario — ovvero la sublimazione della legittimazione interna e la totale assenza di autonomi criteri di legittimazione esterna — con il legalismo etico (70). In quest’ultima forma di confusione tra diritto e morale sembra risolversi la concezione ulteriormente sanzionatoria del diritto penale, anche quando trova adeguati riscontri l’affermazione dell’esistenza di disposizioni normative (logicamente) precedenti le disposizioni (65) In tal senso già PASSERIN D’ENTREVES, La dottrina del diritto naturale (1951), 3a ed., Milano, 1980, p. 93. Le possibili forme di manifestazione della confusione tra diritto e morale appaiono oggi chiaramente definite da FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (1989), 2a ed., Roma-Bari, 1990, p. 199 ss. Sul punto v. anche BARATTA, Positivismo giuridico e scienza del diritto penale, cit., pp. 6 ss., 27 ss. (66) Cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 200, che ripropone le definizioni già utilizzate da BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., p. 81. (67) BARATTA, Positivismo giuridico e scienza del diritto penale, cit., p. 27, che, tuttavia, non la considera un corollario necessario del positivismo giuridico. (68) Così, efficacemente, BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., pp. 80 ss., 81, 110 ss. (69) Sul punto cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 197 ss. che considera la confusione tra i due tipi di legittimazione tipica dei sistemi autoritari (op. cit., p. 200). Per la distinzione tra legalità e legittimità, orientata a criteri sostanzialmente analoghi a quelli che determinano la distinzione tra legittimazione interna ed esterna cfr. FASSÒ, Stato di diritto e Stato di giustizia (1963), in Scritti di filosofia del diritto, a cura di E. PATTARO-C. FARALLI-G. ZUCCHINI, Milano, 1982, II, pp. 669 ss., 675. (70) FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 199 s. Il carattere autoritario del legalismo etico appare evidente nella considerazione di uno degli episodi che lo hanno storicamente realizzato: in particolare appare significativa, in proposito, la specificazione del generico rinvio ai ‘‘principi generali del diritto’’ di cui all’art. 3 delle preleggi del 1865 — che era stato interpretato come un rinvio ai principi del diritto naturale (in tal senso DEL VECCHIO, Sui principi generali del diritto (1921), in Studi sul diritto, vol. I, Milano, 1958, pp. 205 ss., 210 ss., 225 ss.) — in quello, più limitato, ai ‘‘principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato’’ di cui all’art. 12 comma 2 delle disposizioni preliminari al codice civile del 1942 sull’interpretazione della legge (sul punto FASSÒ, Società, legge e ragione, cit., p. 56). Nell’attuale assetto ordinamentale, la soddisfazione dell’esigenza di una definizione valutativa del diritto vigente sembra assicurata dalla Costituzione; il carattere giuridico-positivo di quest’ultima non contraddice un’istanza di chiara matrice giusnaturalistica quale quella di una considerazione critica del diritto vigente: positivismo e giusnaturalismo, infatti, in quanto metodi di indagine giuridica, non risultano incompatibili se è vero che « da questo punto di vista, il giusnaturalismo è, rispetto al positivismo giuridico, null’altro che l’invito rivolto al giurista a tener conto del fatto che dinnanzi al diritto, come a ogni fenomeno del mondo umano, si può assumere, oltre all’atteggiamento dell’indagatore scrupoloso, imparziale, metodico, anche l’atteggiamento valutativo del critico » (BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., p. 141 s.).
— 1086 — della legge penale; lo stesso esito caratterizza anche il modello fondamentale della concezione sanzionatoria se e nella misura in cui si pretende di dedurre le Normen dalle disposizioni della legge scritta (71). Se, infatti, la priorità delle Normen sulle disposizioni di legge viene intesa in termini logico-giuridici, le stesse Normen ripetono, evidentemente, il carattere di giuridicità delle disposizioni del diritto vigente e ciò vale ad affrancarle da ogni connotazione originariamente moralistica. Se, tuttavia, alle Normen così dedotte si attribuisce il ruolo di espressione dei valori fondamentali dell’ordinamento giuridico esse diventano criterio di legittimazione esterna per le disposizioni della legge scritta, ma, a loro volta, non sembrano trovare altro criterio di legittimazione esterna che le stesse disposizioni della legge scritta da cui sono state dedotte: riesce, dunque, impossibile indicare un riferimento esterno del tutto autonomo dalla legge, utile a valutare le Normen secondo criteri di giustizia e assume, invece, un ruolo decisivo la loro legittimazione interna data dal rispetto delle regole del procedimento ermeneutico da parte dell’interprete che le seleziona. Sotto questo profilo, non appare affatto contraddittorio che possa risolversi in un’implicita negazione del positivismo giuridico in quanto separazione tra diritto e morale, la costruzione belinghiana che muove dall’esigenza della massima valorizzazione delle implicazioni del principio di legalità nella teoria del reato: al di là della possibilità di utilizzare una comune terminologia (positivismo giuridico come teoria della giustizia — ovvero come ideologia — e positivismo giuridico come riferimento privilegiato alla legge scritta) (72), appare, infatti, decisiva la considerazione per la quale entrambe le istanze rappresentano forme di espressione del formalismo giuridico (teoria formale della giustizia e teoria formale dell’interpretazione) (73), funzionali, in quanto tali, alla massima realizzazione possibile della descrizione legislativa e, dunque, auspicabili se e nella misura cui sono condivisibili i contenuti delle singole norme giuridiche (74) e se e nella misura in cui si crede nelle potenzialità di completezza e di perenne attualità del diritto positivo. (71) Ad impedire l’involuzione della dottrina dell’antigiuridicità verso forme di moralismo giuridico interviene, infatti, la natura giuridica che, anche nel modello fondamentale della concezione sanzionatoria, le Normen rivendicano chiaramente a sé nel momento stesso in cui fungono da criteri costitutivi di una categoria definita in termini di ‘‘contrarietà al diritto’’ (‘‘Rechtswidrigkeit’’). Bisognerebbe, altrimenti, ridimensionare anche l’argomento ‘‘terminologico’’ secondo una ricostruzione che, sia pur in riferimento a ben altri contesti storico-politici, non appare affatto infondata: la distinzione tra legge e diritto, infatti, è stata consapevolmente teorizzata da chi, investito delle funzioni di sottosegretario al ministero della giustizia del Terzo Reich, affermava nel 1943 che ‘‘il giudice odierno non deve essere un ‘applicatore’ della legge, ma un ritrovatore del diritto’’ (ROTHENBERGER, La situazione della giustizia in Germania, in Riv. dir. pubblico, 1943, pp. 1 ss., 4.; l’evidenziazione grafica è dell’A.), definendo un concetto di diritto che, identificato con « un complesso di principi giuridici anteriori e superiori alle norme poste dallo Stato », permise di considerare, « giocando con le parole », lo Stato nazista come il vero stato di ‘‘diritto’’ in quanto stato etico o di giustizia (cfr. sul punto FASSÒ, Stato di diritto e Stato di giustizia, cit., p. 680 s.; ID., Tra positivismo e nazismo giuridico (1971), in Scritti di filosofia del diritto, II, cit., pp. 919 ss., 925, a cui si rinvia anche per la significativa citazione di Rothenberger. I due contributi sono oggi raccolti in FASSÒ, Società, legge e ragione, cit., pp. 13 ss., 27, 75 ss., 80 ss.). (72) Il riferimento è ancora alla classificazione proposta da BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., pp. 107 ss., 110 ss. (73) BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., pp. 80 ss., 93 ss. (74) Così BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., p. 117. La considerazione della natura intrinsecamente funzionale del diritto positivo impedisce di ritenere queste brevi e sommarie considerazioni sufficienti a dimostrare un orientamento autoritario della costruzione belinghiana; più in generale, appaiono pienamente condivisibili i rilievi di chi, in riferimento alle implicazioni ideologiche del positivismo, ha sottolineato come i suoi postulati etici siano derivati direttamente dal liberalismo e come un obbligo incondizionato di obbedienza non risulta sostenuto da alcuno dei teorici positivisti: BOBBIO, op. cit., p. 116
— 1087 — Ma il positivismo giuridico offre un utilissimo strumento per l’interpretazione dell’evoluzione della dottrina dell’antigiuridicità anche nel suo aspetto specifico di teoria del diritto, diverso sia da quello, ideologico, di teoria della giustizia che da quello, metodologico, di selezione primaria dell’oggetto di indagine: anche sotto questo profilo l’esito della concezione (ulteriormente) sanzionatoria del diritto penale è rappresentato dal legalismo etico. In quanto definitivi di una teoria del diritto, i canoni del positivismo giuridico rendono, infatti, adeguatamente conto di un’attività interpretativa che, nel tentativo di individuare le Normen costitutive dell’antigiuridicità, muove dalle disposizioni scritte della legge per risolversi nella ricostruzione di una più generica volontà o, comunque, di più generiche — se non primarie — opzioni di valore. Si tratta, tuttavia, di un procedimento che, in un contesto normativo caratterizzato dall’assenza di fonti sovraordinate (75), non avrebbe alcuna ragion d’essere e risulterebbe insostenibile, se fosse espressamente rifiutata la premessa — oggi taciuta, ma un tempo pressoché esplicita (76) — per la quale si postula l’esistenza di un soggetto legiferante di cui, in modo evidente soprattutto nel modello fondamentale della concezione sanzionatoria, va ricostruita la volontà a prescindere dalla sua pretesa a realizzarsi, ossia a prescindere dalla funzione minima del meccanismo sanzionatorio. Il modulo argomentativo ripropone chiaramente quello del volontarismo giuridico che, sottolineato dal giusnaturalismo illuministico francese nella definizione del diritto come elemento di laicità (77), trova la sua elaborazione dommatica nella teoria positivistica del diritto (78), che definisce in netta contrapposizione alle concezioni razionalistiche (79). Si tratta di un’elaborazione di teoria del diritto che, storicamente determinata dalle origini s.; resta, tuttavia, la considerazione per la quale potrebbe apparire problematica la definizione positivistica del sistema belinghiano nella prospettiva di chi ha sostenuto una fondazione necessariamente teleologica per la definizione (unitaria) del positivismo giuridico: SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, cit., pp. 37, 145 ss. (75) Conclusioni evidentemente diverse dovrebbero valere in riferimento al nostro attuale assetto ordinamentale basato su una Costituzione rigida e vincolante per la legittimità delle disposizioni delle fonti subordinate: sugli effetti prodotti dal carattere vincolante della Costituzione sul sistema complessivo cfr., per tutti, BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., p. 14; MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale (1995), 2a ed., Napoli, 1997, p. 14; RICCIO, Responsabilità penale, in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991, p. 3; PALAZZO, Valori costituzionali e diritto penale, in AA.VV., L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, a cura di A. PIZZORUSSO-V. VARANO, vol. I, Milano, 1985, pp. 529 ss., 543 ss.). La stessa Costituzione, tuttavia, detta altri criteri per un’autonoma definizione del diritto penale che, in nome di « problemi specificamente penalistici », impedisce la configurazione di obblighi costituzionali di tutela: sul punto PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, pp. 484 ss., 522; nonché FIANDACA, Il ‘‘bene giuridico’’ come problema teorico e come criterio di politica criminale (1982), in AA.VV., Diritto penale in trasformazione, a cura di G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Milano, 1985, pp. 139 ss., 169 e MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1226. (76) Appaiono significati sotto questo aspetto i rilievi di LÖFFLER, Unrecht und Notwehr. Prolegomena zu einer Revision der Lehre von der Notwehr, in ZStW, 1901, pp. 537 ss., 569, laddove afferma che non può esserci contraddizione tra norme di condotta che provengono « dalla stessa bocca ». (77) M.A. CATTANEO, Positivismo giuridico, cit., p. 317. (78) BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., pp. 138, 153. (79) La volontarietà del diritto viene affermata anche nella definizione del positivismo proposta da SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, cit., p. 108 ss., che, tuttavia, distingue la volontarietà che caratterizza la norma in quanto espressione della volontà di una persona — o di quella concorrente di più persone — affinché ci si comporti in un determinato modo, dalla volontarietà che coinvolge, invece, soltanto l’atto della posizione della norma e non il suo contenuto: esso, quindi, può essere interpretato e ricostruito a prescindere dalla volontà di chi ha posto la norma e per il significato che assume in riferimento ad altri indici (sistematici, teleologici ecc.). Entrambe le forme di volontarietà caratterizzano il positivismo giuridico nella ricostruzione proposta da Scarpelli, che, tuttavia, ritiene la prima
— 1088 — dello Stato moderno e dalla relativa monopolizzazione della produzione legislativa (80), « riduce lo stesso positivismo giuridico ad un mero volontarismo statalistico » e la norma giuridica alla posizione di un imperativo, creando, così, « quel mito della volontà dello stato come origine unica del diritto » (81). L’unificazione del potere coercitivo — che, nel rispetto dei canoni dell’indagine positivistica, diventa l’elemento caratterizzante per la definizione di una teoria del diritto — conferma i connotati di unitarietà della volontà legiferante e, con essi, si riflette in quelli dell’ordinamento giuridico e di ciò che con esso contrasta: è, infatti, proprio il ‘‘mito della volontà dello Stato’’ che traspare evidente nelle conclusioni già ricordate di Beling, quando, sottolineando gli elementi di unitarietà del reato, afferma che esso « non viene caratterizzato dalla violazione di questa o quella singola proposizione giuridica, ma la caratteristica essenziale del reato, lo spirito che in esso vive, è il contrasto con la volontà normativa statale » (82). D’altra parte, non sembra politicamente indifferente rinviare al contrasto con la « volontà normativa statale » o, più ‘‘semplicemente’’ — e, comunque, conformemente ad un’elaborazione (non statalistica, ma) razionalistica del concetto di diritto —, al contrasto con le disposizioni della legge scritta: il volontarismo statalistico, infatti, si risolve nella definizione di un fondamento legittimante del diritto che, evidentemente, ne impedisce qualsiasi valutazione critica in termini di giustizia e, dunque, ricorrendo ancora una volta a strumenti ermeneutici già sperimentati, suscettibile di una facile involuzione verso forme, inevitabilmente autoritarie, di legalismo etico. 4. Data l’acquisizione ormai definitiva dell’insostenibilità della concezione (ulteriormente) sanzionatoria del diritto penale, il fondamento teorico della caratterizzazione unitaria e generica dell’antigiuridicità è oggi rappresentato dal dogma dell’unità dell’ordinamento giuridico (83); « elemento essenziale, anche se non esclusivo del comando » e, in proposito, afferma che, comunque, una concezione volontaristica del diritto come insieme di comandi, pur avendo caratterizzato una fase della sua evoluzione, non può più essere attribuita al positivismo giuridico; tanto che « gli autori che pure vanno ancora sotto il nome di giuspositivisti hanno per lo più abbandonato la concezione della norma giuridica quale comando » (op. cit., p. 109), e che la volontà come elemento della definizione di diritto va intesa come « volontà al servizio della ragione » (op. cit., p. 138). Sulle origini del volontarismo giuridico come espressione giuspositivistica dell’illuminismo cfr. M.A. CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, 1966, p. 13 s. Sulla distinzione tra teorie imperativistiche (norma come comando o divieto) e teorie antiimperativistiche (norma come giudizio ipotetico o giudizio di valore) cfr. BOBBIO, Due variazioni in tema di imperativismo (1960), in Studi per una teoria generale del diritto, Torino, 1970, pp. 31 ss., 32. (80) BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., p. 107 s. (81) AGO, Diritto positivo e diritto internazionale, in Scritti di diritto internazionale in onore di Tomaso Perassi, I, Milano, 1957, pp. 1 ss., 14. (82) BELING, Die Lehre vom Verbrechen, cit., p. 127; v. supra nota 38; lo stesso ordine di idee appare, tuttavia, estraneo alla costruzione di Grispigni che appare inidonea ad argomentare la caratterizzazione generica del momento costitutivo dell’antigiuridicità solo nella prospettiva del positivismo giuridico in quanto strumento per la selezione primaria dell’oggetto dell’indagine giuridica. (83) Sul punto cfr., in particolare, GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit und Strafunrechtsausschluß, cit., pp. 22 s., 55 ss., con ampia bibliografia, e KIRCHOF, Unterschiedliche Rechtswidrigkeiten in einer einheitlichen Rechtsordnung, Heidelberg, 1978, p. 5 ss. In riferimento alla manualistica cfr. le inequivocabili considerazioni di JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, Berlin, 1996, p. 327; per conclusioni parzialmente diverse cfr. ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil, I, Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, München, 1997, p. 513 ss. Il riferimento al dogma dell’unità dell’ordinamento giuridico trova autorevoli precedenti in ENGISCH, Die Einheit der Rechtsordnung, Heidelberg, 1935, rist. Darmstadt, 1987, p. 58, e, sia pur in riferimento al ‘‘diritto’’ e non all’ordinamento giuridico, in
— 1089 — sotto questo aspetto, l’indicazione proposta da Delitala (84) sembra essersi affermata come un dato indiscusso nelle posizioni della manualistica, che, tuttavia, di solito utilizza il dogma dell’unità solo per affermare la necessità di verificare alla luce dell’intero ordinamento giuridico l’eventuale esclusione dell’antigiuridicità del fatto tipico e non, quindi, per indicare anche il fondamento ‘positivo’ dell’antigiuridicità generica (85). A tal fine, l’intero ordinamento giuridico avrebbe dovuto rappresentare anche il contesto entro cui collocare le singole norme incriminatrici e sostituire, per questo, il semplice ordinamento giuridico-penale. Quest’ultimo, tuttavia, trova nel tipo di sanzione minacciata un essenziale elemento di unità che, evidentemente, manca nel primo; sembra, infatti, discutibile attribuire del tutto acriticamente all’ordinamento giuridico un carattere di unitarietà, che « appare contrario alle leggi della logica che presiedono al giudizio definitorio », a meno che non si voglia intendere con ciò « la somma aritmetica di varie norme » o « un seguito di determinati articoli che possono addizionarsi fra loro » (86): laddove, infatti, la configurazione unitaria dell’ordinamento giuridico è stata assunta a prescindere dalle implicazioni che essa assume nelle elaborazioni attuali della filosofia del diritto, si è concluso condividendo teorie non normative dell’ordinamento giuridico (87) e affermando che non l’ordinamento giuridico, ma solo « l’istituzione è unità » (88). D’altra parte, solo a determinate condizioni una struttura concettuale elaborata in relazione alle peculiari esigenze della filosofia e della teoria del diritto può essere recuperata in un settore di indagine completamente diverso, esclusivamente penalistico e, quindi, essenzialmente riferito al diritto positivo (che, pertanto, si presuppone già selezionato), quale evidentemente è la teoria generale del reato. Vengono in considerazione, in proposito, i postulati metodologici dell’ormai diffusissima elaborazione dei concetti e delle strutture fondamentali della teoria generale del reato e del sistema penale complessivo, teleologicamente orientata ai principi costituzionali (89). Essi risultano compiutamente definiti nelle teorizzazioni proposte dai filosofi e dai giuristi di ispirazione neokantiana (90) quando il ‘‘ritorno a Kant’’ ed alla sua teoria della conoscenza (91) apparve la strada più adeguata per reagire alla generalizzazione epistemologica e metodologica con cui il positivismo scientifico si era affermato nelle discipline diverse dalle scienze naturali. In particolare, le scienze storiche (92) furono restituite alla loro dignità di autonoma consiNAGLER, Der Begriff der Rechtswidrigkeit, in Festgabe für Frank, vol. I, Tübingen, 1930, rist. Aalen, 1969, pp. 339 ss., 340. (84) V. supra nota 52. (85) Cfr., per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pp. 157, 219. (86) SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917, p. 13. (87) Sulla distinzione tra concezioni normative e non normative dell’ordinamento giuridico cfr., per tutti, MODUGNO, Ordinamento giuridico (dottrine generali), in Enc. dir., XXX, Milano, 1980, pp. 678 ss., 687. (88) SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico, p. 61. (89) Nell’ambito di un’ormai vastissima letteratura resta fondamentale l’opera di BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., pp. 7 ss., 38 ss., 51 ss., 68 ss. (90) In tal senso cfr., per la dottrina italiana, la ricostruzione di MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, p. 68 ss. (91) RICKERT, Der Gegenstand der Erkenntnis. Einführung in die Traszendentalphilosophie (1892), 6a ed., Tübingen, 1928, p. 205; LASK, Rechtsphilosophie (1905), in Gesammelte Schriften, vol. I, Tübingen, 1923, pp. 275 ss., 308 ss. (92) RICKERT, Kulturwissenschaften und Naturwissenschaften (1899), 6a-7a ed., Tübingen, 1926, pp. 7, 51, 78 ss.; la distinzione tra scienze storiche e scienze naturali era già stata delineata da WINDELBAND, Storia e scienza della natura, in Preludi. Saggi e discorsi d’introduzione alla filosofia (1884), a cura di R. ARRIGHI, Milano, 1947, p. 170 ss., che, com’è noto, aveva definito ‘‘nomotetico’’ il metodo delle scienze naturali volte alla ricerca di leggi e concetti generali e ‘‘idiografico’’ quello delle scienze dello spirito volte alla ricerca di singole figure.
— 1090 — derazione scientifica e metodologica, in quanto ritenute indispensabili per la conoscenza di quelle particolarità necessariamente trascurate nella progressiva generalizzazione del metodo positivistico delle scienze naturali (93). Per il diritto e per le altre geschichtliche Kulturwissenschaften (94) fu dunque proposto un metodo che, del tutto autonomo da quello delle scienze naturali, postula la selezione dell’oggetto dell’indagine scientifica sulla base del valore o dell’interesse di riferimento del soggetto empirico della conoscenza. Non si tratta, tuttavia, di una semplice riproduzione dell’oggetto (esterno) della conoscenza, ma di una vera e propria produzione (95), in quanto, in base al medesimo valore di riferimento, all’oggetto della conoscenza vengono attribuite caratteristiche di forma e figura che in origine assolutamente non gli appartengono (96). Se, dunque, ogni settore di indagine scientifica ha i suoi valori di riferimento e se i valori di riferimento determinano le strutture concettuali di quella scienza, è facile comprendere le ragioni per cui, in un clima di acquisito e diffuso razionalismo teleologico, non può essere eccessivamente disinvolta l’utilizzazione di strutture concettuali — come, nel nostro caso, l’unità dell’ordinamento giuridico — in un settore di indagine diverso da quello in cui esse hanno avuto origine. Non sarebbe, in ogni caso, un espediente argomentativo del tutto infondato. Infatti, dalla definizione dei criteri per la formazione teleologica dei concetti, è possibile dedurne precise condizioni di validità. In particolare risulta determinante, in proposito, il rispetto dei valori di riferimento dello specifico settore di indagine al cui interno deve essere accolta la struttura concettuale di cui si discute, e delle relative implicazioni nella definizione di ogni struttura concettuale che in quel settore di indagine viene in considerazione (97). Sembra, dunque, opportuno escludere tra le molteplici argomentazioni addotte a sostegno del dogma dell’unità dell’ordinamento giuridico quelle orientate unicamente alle problematiche relative alle fonti ed alle condizioni di validità e/o di legittimazione sostanziale del diritto positivo (quali possono essere, per esempio, quelle poste agli artt. 134 e 136 Cost.): in una prospettiva di tipo positivistico tali criteri risultano, infatti, sempre prioritari, ma determinanti solo al fine di individuare il diritto vigente. Posto che il fondamento unitario dell’antigiuridicità va individuato sulla scorta del diritto positivo vigente — che, quindi, deve essere stato già selezionato —, sembra, invece, preferibile una prospettiva normativa nella definizione di una teoria dell’ordinamento giuridico (98), tale da configurarlo non come una unità a priori, ma come una unità a posteriori non astratta, ma concreta (99). In tal senso può certamente essere configurata come unità a posteriori quella necessaria ad assicurare le condizioni per l’effettività delle singole disposizioni normative, ovvero la certezza — di immediata e nota rilevanza penalistica — dei criteri che ne regolano l’applicazione: sotto questo profilo si assume l’appartenenza della singola norma ad un ordinamento giuridico che si postula unitario in quanto caratterizzato da completezza e, soprattutto, da coerenza (100). Con la prima si presuppone sempre e comunque una valutazione dell’ordinamento giuridico sulla fattispecie concreta, la quale, secondo i canoni della teoria dello spazio giuridico (93) RICKERT, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in die historischen Wissenschaften (1902), 2a ed., Tübingen, 1913, p. 236 ss.; cfr. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, 4a ed., Berlin-Heidelberg-New York-London-Paris-Tokyo-Hong Kong-Barcelona-Budapest, 1991, p. 93 ss. (94) RICKERT, Kulturwissenschaften und Naturwissenschaften, cit., p. 107; ID., Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., pp. 318 ss. 325 ss. (95) RICKERT, System der Philosophie, Tübingen, 1921, p. 183; ID., Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., p. 246. (96) RICKERT, System der Philosophie, cit., p. 50; ID., Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., pp. 361 ss., 367, 378 ss. (97) In tal senso RICKERT, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., p. 224. (98) BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p. 3 ss. (99) Così MODUGNO, Ordinamento giuridico, cit., p. 702. (100) Sulle caratteristiche essenziali dell’ordinamento giuridico cfr. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., p. 23, passim.
— 1091 — vuoto (101), può essere anche di semplice indifferenza e, quindi, di irrilevanza giuridica; con la seconda, invece, si predispongono i criteri per un’adeguata soluzione delle ipotesi in cui i consociati diventano destinatari di norme di contenuto diverso, se non addirittura contraddittorio. Completezza e coerenza assicurano, insieme, le condizioni per un’efficace realizzazione della funzione di garanzia e di prevenzione della norma incriminatrice (102). Appare pienamente fondata, sotto questo profilo, la rilevanza che viene riconosciuta all’unità dell’ordinamento giuridico nella teoria del reato, quando si afferma che un’ipotesi di causa di giustificazione può essere prevista in qualsiasi settore dell’ordinamento giuridico. Ciò permette di disporre di criteri certi per la soluzione dell’antinomia che, evidentemente, si crea tra la norma incriminatrice e la norma che in qualsiasi altro settore dell’ordinamento giuridico permetta o comandi la stessa condotta. In questi termini appare pienamente condivisibile il principio per il quale l’affermazione dell’antigiuridicità deve « essere mediata » dalla considerazione dell’intero ordinamento giuridico (103); risulta chiaro, infatti, che si tratta di un principio che non ha nulla a che fare con la tesi secondo cui il fatto penalmente tipico e non giustificato contrasta, per ciò solo, con l’intero ordinamento giuridico. Quando per l’elaborazione di una teoria generale del reato non è necessario rinviare ai postulati della coerenza e della completezza dell’ordinamento giuridico, non si vede, dunque, alcuna ragione per cui, nella posizione degli elementi di un problema specificamente penalistico, debba essere riconosciuto un ruolo al dogma dell’unità dell’ordinamento giuridico; diversamente sarebbe rinnovata ancora una volta la confusione tra teoria generale del reato e teoria del diritto che ha innegabilmente caratterizzato la dottrina dell’antigiuridicità sin dalle sue origini (104). D’altra parte, per le ragioni già esposte, neppure appaiono condivisibili le posizioni che recuperano nella teoria del reato l’unità dell’ordinamento giuridico quale corollario necessario dell’unicità del potere legislativo, puntualmente personificato secondo i canoni del volontarismo statalistico. Appare inequivocabile, sotto questo aspetto, non solo l’annotazione critica, già ricordata (105), dell’eventuale, deplorevole contraddizione tra norme di condotta che provengono « dalla stessa bocca », ma anche la considerazione di quella dottrina che ritiene inammissibile che l’ordinamento giuridico contemporaneamente vieti e permetta la stessa condotta (106): risulta, infatti, evidente come, in questo ordine di idee, l’unità dell’ordinamento giuridico venga determinata da criteri che, più o meno espressamente, sono rappresentati dai normali atteggia(101) La teoria dello spazio giuridico vuoto rappresenta un momento fondamentale del superamento della crisi della configurazione tradizionale del dogma della completezza dell’ordinamento giuridico: con il riconoscimento di uno spazio libero dal diritto, infatti, il carattere della completezza non è più riferito al diritto positivo in quanto onnicomprensivo della realtà storica, ma viene limitato allo spazio giuridico pieno, nel cui ambito si evita comunque di riconoscere un ruolo ‘‘legiferante’’ al giudice; sul punto cfr. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., p. 143, che riconduce la teoria a Karl Bergbohm (1892) e, per la dottrina italiana, a Santi Romano (1925). Sulla crisi del dogma della completezza dell’ordinamento giuridico e sulle sue origini storico-sociali cfr. anche PORZIO, Formalismo ed antiformalismo nella storia della metodologia giuridica moderna, Napoli, 1969, p. 124 ss. (102) Considera la coerenza in termini di garanzia MARINUCCI, Cause di giustificazione, cit., pp. 130 ss., 132. (103) BELING, Grenzlinien zwischen Recht und Unrecht in der Ausübung der Strafrechtspflege, cit., p. 12. (104) Per un significativo riferimento testuale cfr. BELING, Grenzlinien zwischen Recht und Unrecht in der Ausübung der Strafrechtspflege, cit., p. 14 dove si afferma che « alla fine conformità al diritto e antigiuridicità rappresentano qualcosa di diverso da ciò che appare nelle singole discipline » secondo una prospettiva che « sotto il profilo sistematico appartiene alla cosiddetta teoria generale del diritto ». Per ulteriori riferimenti bibliografici cfr. GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit und Strafunrechtsausschluß, cit., pp. 13, 15, 19, 29 s.; per la dottrina italiana cfr. DONINI, Teoria del reato, cit., p. 218. (105) V. supra nota 76. (106) In tal senso KERN, Grade der Rechtswidrigkeit, in ZStW, 1952, pp. 255 ss., 262.
— 1092 — menti (ontologici) di una umana volontà, evidentemente riferita alla figura personificata del legislatore (107). Anche il dogma dell’unità dell’ordinamento giuridico risulta, pertanto, inadeguato a fornire un fondamento plausibile a tutti i corollari solitamente ricondotti alla caratterizzazione generica dell’antigiuridicità; in particolare manca ancora un utile riferimento giuridico-positivo per l’affermazione della contrarietà (o altrimenti della conformità) all’intero ordinamento giuridico del fatto penalmente tipico non giustificato (o, viceversa, giustificato). 5. Per quanto concerne, in particolare, la conformità all’intero ordinamento giuridico del fatto penalmente tipico ma giustificato, la considerazione del dato normativo non sembra affatto confermare la conclusione sostenuta dalla dottrina prevalente. Vengono in considerazione, in proposito, le modifiche intervenute con la riforma del codice di procedura penale, che, in particolare, hanno ridefinito la vincolatività del giudicato penale e che oggi rendono improponibili i rilievi di quella parte autorevole della dottrina, che deduceva una conferma dell’efficacia generalizzata delle cause di giustificazione dalla norma di cui all’art. 25 del codice di rito abrogato (108). Sotto la rubrica ‘‘Relazione tra il giudicato penale e l’azione civile’’, la norma disponeva nel senso che « l’azione civile non può essere proposta, proseguita o riproposta davanti al giudice civile o amministrativo, quando in seguito a giudizio è stato dichiarato che il fatto [...] fu compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ». Si trattava, in via immediata, di una disciplina relativa alla proponibilità o proseguibilità dell’azione civile; essa, tuttavia, si risolveva nella generalizzata impossibilità di negare con una sentenza civile l’efficacia giustificante già affermata in una sentenza di assoluzione, grazie al regime di necessaria sospensione del giudizio civile di cui all’art. 24 comma 2 c.p.p. 1930. La riforma del 1988 ha profondamente modificato quest’ultimo aspetto; va, tuttavia, considerato che già sotto il vigore del vecchio codice di rito la rilevanza dell’argomento fondato sull’efficacia del giudicato penale risultava, in realtà, limitata. La norma di cui all’art. 25 del codice abrogato disponeva, infatti, soltanto relativamente all’efficacia delle cause di giustificazione riconosciute in sede penale, mentre non conteneva alcuna indicazione circa l’ipotizzata contrarietà all’intero ordinamento giuridico del fatto penalmente tipico non giustificato o circa la provenienza delle cause di giustificazione dall’intero ordinamento giuridico. Per quest’ultimo aspetto, la deduzione relativa all’efficacia in sede civile delle cause di giustificazione previste per l’illecito penale poteva tradursi in un indice della provenienza della cause di giustificazione civilmente efficaci da qualsiasi settore dell’ordinamento giuridico; restava, invece, del tutto infondata un’analoga conclusione per le cause di giustificazione penalmente efficaci. Ma il valore argomentativo della disciplina dell’art. 25 del codice Rocco andava opportunamente ridimensionato, anche per quanto riguarda l’affermazione dell’efficacia generalizzata delle cause di giustificazione previste per l’illecito penale. Risulta, infatti, evidente che si disponeva l’estensione dei loro effetti al solo illecito civile; anche sotto questo profilo andava, inoltre, presa in considerazione la sentenza della Corte costituzionale n. 165 del 1975 con cui si dichiarava incostituzionale la norma nella parte in cui coinvolgeva nel divieto di proponibilità e proseguibilità anche i « soggetti rimasti estranei al giudizio penale perché non legittimati a costituirsi in esso parte civile, o, comunque, di fatto, non posti in grado di parteciparvi »: nei confronti di questi soggetti, dunque, non poteva essere il riferimento alla norma di cui all’art. 25 c.p.p. 1930 ad im(107) Sul punto cfr. ENGISCH, Die Einheit der Rechtsordnung, cit., p. 54, laddove si afferma che il fondamento di simili affermazioni non è « logico, ma ontologico ». (108) In tal senso MARINUCCI, Antigiuridicità, cit., p. 181; ID., Fatto e scriminanti, cit., p. 1231.
— 1093 — pedire che le stesse cause di giustificazione riconosciute nella sentenza di assoluzione fossero, invece, ritenute irrilevanti in sede civile (109). La possibilità di una difformità tra giudicati civili e penali nella valutazione degli elementi necessari a costituire l’‘‘adempimento di un dovere’’ e l’‘‘esercizio di una facoltà legittima’’, dunque, non appariva affatto esclusa già nella disciplina del codice abrogato. La stessa possibilità risulta oggi chiaramente affermata a seguito della riforma del codice di rito che, sul punto, non si è limitato al pur significativo adeguamento letterale alle indicazioni della Corte costituzionale. Sotto questo profilo, emerge, innanzitutto, la sostanziale riproduzione della disciplina di cui all’art. 25 del codice del 1930 nella disposizione di cui all’art. 652 c.p.p. (110); la norma, tuttavia, si inserisce nel contesto di una completa ridefinizione dei rapporti tra azione civile ed azione penale che, abbandonati i principi unitari della priorità del processo penale e della forza vincolante del relativo giudicato (111), appaiono orientati a criteri di autonomia e separazione (112). Secondo una scelta esattamente contraria a quella di cui all’art. 24 del codice abrogato, la disposizione di cui all’art. 75 comma 2 c.p.p. non prevede, infatti, la sospensione del giudizio civile, ma, in via di principio — ovvero con l’eccezione di cui all’art. 75 comma 3 c.p.p. —, dispone nel senso che « l’azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita in sede penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile » (113): per queste ipotesi l’art. 652 c.p.p. esclude espressamente l’efficacia di giudicato della sentenza di assoluzione che, dunque, secondo quella che oggi rappresenta la regola dei rapporti tra azione civile e processo penale, potrà essere disattesa in sede civile anche nel caso in cui sia motivata dall’adempimento di un dovere o dall’esercizio di una facoltà legittima. A seguito della riforma del 1988, inoltre, sono deducibili altre indicazioni relativamente alla caratterizzazione generica dell’antigiuridicità dalle norme che prevedono l’efficacia nel giudizio disciplinare di una sentenza di assoluzione. La disposizione di cui all’art. 653 c.p.p., infatti, non comprende il caso della assoluzione per adempimento di un dovere o esercizio di una facoltà legittima: anche nel giudizio disciplinare la relativa assoluzione potrà, dunque, essere disattesa. Per quanto concerne, invece, il diverso aspetto della contrarietà all’intero ordinamento giuridico del fatto penalmente tipico non giustificato, appare indicativa la norma di cui all’art. 651 c.p.p. sull’efficacia del giudicato penale di condanna nel giudizio risarcitorio che risulta limitata alla sussistenza del fatto, alla « sua illiceità penale » ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso: sulla base di un dettato normativo quanto meno esplicito, si è ritenuto, in proposito, che la funzione della specificazione del tipo di illiceità sia quella « di rimarcare la possibilità di (109) Corte cost., sent. 26 giugno 1975, n. 165, in Giur cost., 1975, p. 1439 ss. (110) Considerano la norma di cui all’art. 652 c.p.p. un indice della caratterizzazione generica dell’antigiuridicità FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 156 s. Per l’applicazione della disciplina di cui all’art. 652 c.p.p. a tutte le cause di giustificazione di parte generale, v., per tutti, TRANCHINA, L’esecuzione, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. II, Milano, 1996, pp. 527 ss., 551. (111) Sui principi della teoria unitaria GUARNERI, Giudizio (rapporto tra il giudizio civile e il penale), in Nss. D.I., VII, Torino, 1961, pp. 886 ss., 887. (112) Per tutti SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale. Atti del convegno di studio, Trento, 18 e 19 giugno 1993, Milano, 1995, pp. 31 ss., 60. (113) Sul punto SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 52 ss.; sottolinea la rilevanza del tutto secondaria che nel nuovo assetto normativo assume la preoccupazione per l’uniformità dei giudicati anche TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., pp. 3 ss., 22 s. Per un recupero sia pur parziale della sospensione del giudizio civile fondato sull’art. 295 c.p.c. cfr. TERRUSI, Rapporti tra giudicato penale e giudizio amministrativo, in Dig. disc. pen., XI, Torino, 1996, pp. 27 ss., 35 s.; contra TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 27 s.
— 1094 — valutazioni diversificate della liceità/illiceità a fini penali ed extrapenali » (114), così come, in relazione alla disciplina dell’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in giudizi non risarcitori di cui all’art. 654 c.p.p., la stessa dottrina processualistica ha ritenuto che la limitazione ai « fatti materiali » valga ad escludere l’efficacia di giudicato per quanto concerne l’accertamento non solo di elementi soggettivi, ma anche di « giustificazioni giuridiche » (115). Si tratta di disposizioni che definiscono un quadro normativo particolarmente articolato la cui considerazione appare, comunque, sufficiente a verificare le decisive implicazioni che l’allontanamento definitivo dal principio dell’unità della giurisdizione (116) ha comportato sulla caratterizzazione generica dell’antigiuridicità. 6. Sono, dunque, molteplici i profili per i quali risulta oggi non solo inopportuna ma, a nostro modesto avviso, anche normativamente insostenibile una configurazione unitaria dell’antigiuridicità. In ragione della loro fondamentale funzione di selezione primaria dell’oggetto dell’indagine giuridica, appaiono decisive, in proposito, considerazioni di diritto positivo. In base ad esse risulta impossibile attribuire in termini di necessità una caratterizzazione generica al fondamento costitutivo dell’antigiuridicità, così come, dopo la riforma del codice di rito, lo stesso tipo di considerazioni impedisce di estendere all’intero ordinamento giuridico l’efficacia delle cause che escludono l’antigiuridicità del fatto penalmente tipico. Sotto altro profilo, appare evidente che, se l’antigiuridicità non può essere considerata generica nel suo momento costitutivo, ciò che le cause di giustificazione devono escludere non è il contrasto con l’intero ordinamento giuridico, ma, più ‘semplicemente’, il contrasto con il settore dell’ordinamento giuridico in cui si colloca il tipo di illecito a cui esse accedono. In riferimento ad un fatto di reato, le cause di giustificazione escluderanno, quindi, ‘soltanto’ il contrasto con le disposizioni della legge penale e condivideranno, pertanto, le funzioni del diritto e dell’illecito penale (117), che autorevole dottrina ha prioritariamente indicato in quelle della pena (118). (114) Così SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 56; contra FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 157, che anche dall’art. 651 c.p.p. desumono una conferma della caratterizzazione generica dell’antigiuridicità. (115) SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 47. (116) Sul punto SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 34; TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 5, che oppone l’unità della funzione giurisdizionale fondata « sul dato strutturale dell’unità dell’ordinamento giudiziario a cui appartengono i giudici » sancita all’art. 1 della legge sull’ordinamento giudiziario (l. n. 12/1941), all’« ormai screditato dogma dell’unità della giurisdizione »; per la giurisdizione come « unità di distinti » cfr. PISANI, Giurisdizione penale, in Enc dir., XIX, Milano, 1970, pp. 381 ss., 383; GUARNERI, Giudizio (rapporto tra il giudizio civile e il penale), cit., p. 889. Per la prima compiuta teorizzazione normativamente fondata del principio dell’unità della giurisdizione cfr. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, vol. I, 5a ed., Milano, 1923, p. 732 ss. (117) Contra MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1229 con un esplicito rinvio ad AMELUNG, Zur Kritik des kriminalpolitischen Strafrechtssystems von Roxin, in JZ, 1982, pp. 617 ss., 620, che, secondo quanto riportato da Marinucci, attribuisce « solo casualmente » (il corsivo è di Marinucci) funzioni politico-criminali alle cause di giustificazione, ma che, tuttavia, fa riferimento ad una prospettiva amplissima che coinvolge l’intero ordinamento giuridico; non a caso, la ‘‘casuale’’ funzionalizzazione delle cause di giustificazione ad obiettivi di politica criminale viene indicata da Amelung in tutte le ipotesi in cui « il bene giuridico, subordinato ad altri obiettivi di politica del diritto, è tutelato con un divieto penale » (AMELUNG, op. cit., p. 620), che, in altre parole e in un prospettiva più limitata, coincidono con la giustificazione del fatto penalmente rilevante, ovvero con l’interazione delle cause di giustificazione con le norme del diritto penale. Per una piena adesione all’interpretazione di Marinucci v. PULITANÒ, Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Dig. disc. pen., IV, Torino, 1990, p. 322. (118) MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 37 s., passim. Conforme-
— 1095 — D’altra parte, secondo la ricostruzione fin qui proposta, proprio le funzioni della pena rappresentano un argomento adeguato a fondare l’unico corollario a nostro avviso condivisibile della caratterizzazione generica dell’antigiuridicità (119): in quanto perseguite (innanzitutto) con la posizione della norma incriminatrice (120), esse, infatti, risulterebbero evidentemente compromesse dall’assenza di criteri per la soluzione dei casi in cui i consociati diventano destinatari di disposizioni di contenuto diverso ed opposto (norma incriminatrice e norma permissiva). Nella stessa prospettiva, non si vede, tuttavia, alcuna ragione per cui si debba confondere il problema dell’origine delle cause di giustificazione con quello degli effetti che esse producono e, quindi, anche per quest’ultimo aspetto, considerare determinante l’unità dell’ordinamento giuridico (121). Una conclusione diversa sembra poter essere affermata soltanto sul presupposto dell’identificazione dell’illiceità penale non esclusa da cause di giustificazione con l’illiceità ordinamentale (antigiuridicità generica ed unitaria): solo allora avrebbe un senso affermare che le cause di giustificazione, escludendo l’illiceità penale, escludono anche il contrasto del fatto con l’intero ordinamento giuridico. Ma, come si è già avuto modo di verificare, un’affermazione in tal senso non può essere motivata con argomentazioni diverse dalla concezione (ulteriormente) sanzionatoria del diritto penale (che oggi sembra non trovare più alcun sostenitore): in particolare, non sembra sostenibile la deduzione di un contrasto con l’intero ordinamento giuridico dall’innegabile esistenza di cause di giustificazione in grado di escludere qualsiasi tipo di illiceità (122). mente ai postulati metodologici della formazione teleologica, tale conclusione non può non comportare precise implicazioni relativamente alla struttura delle cause per la giustificazione del fatto penalmente tipico: chiaramente in tal senso MOCCIA, op. ult. cit., p. 191 ss. Sul punto v. anche i puntuali rilievi di BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, cit., p. 31 s., che pone in discussione l’‘‘inconfutabilità’’ dell’assunto relativo all’immutabile contenuto delle cause di giustificazione in ogni settore dell’ordinamento giuridico e ritiene contraddittorio attribuire al fatto determinate funzioni politico-criminali, da un lato, e, dall’altro, continuare a considerare unitario il giudizio di antigiuridicità. Non esclude che l’interazione tra le cause di giustificazione e i diversi tipi di illecito dia luogo a differenze nei criteri di imputazione delle prime DONINI, Teoria del reato, cit., p. 218. (119) Così espressamente ed in modo inequivocabile ROXIN, Problemi fondamentali della teoria dell’illecito, cit., p. 40; ID., Strafrecht, cit., p. 514. (120) Sul punto, per tutti, ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe (1966), in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin-New York, 1973, p. 12 ss.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., pp. 115, 121 ss. (121) Cfr. sul punto le inequivocabili considerazioni di Roxin, che esclude che la giustificazione di un fatto penalmente tipico debba essere necessariamente rilevante anche per il diritto civile e/o pubblico, nel cui ambito l’illiceità dello stesso fatto potrebbe restare del tutto impregiudicata: ROXIN, Problemi fondamentali della teoria dell’illecito, cit., p. 40 ss.; ID., Strafrecht, cit., p. 514 ss. Le stesse conclusioni appaiono, in parte, già anticipate nell’opera di chi, nella rigorosa e coerente applicazione del metodo teleologicamente orientato alla teoria del reato, divenne uno dei massimi esponenti della teoria degli elementi soggettivi dell’antigiuridicità: HEGLER, Die Merkmale des Verbrechens, in ZStW, 1915, p. 29, nota 31. (122) È questo, senza alcun dubbio, il caso della legittima difesa. L’autorizzazione a reagire in modo proporzionato per difendersi da un’aggressione ingiusta altrimenti non evitabile esprime, infatti, principi dell’ordinamento giuridico che, secondo una lunga tradizione prima giusnaturalistica e poi illuministica, risultano tanto basilari e legati alla prima origine di ogni ordinamento giuridico da far apparire qualsiasi fatto realizzato in presenza di tutti i presupposti essenziali della scriminante necessariamente conforme all’intero ordinamento giuridico (esemplare, in proposito, la posizione di Grolman che lascia preesistere un diritto di legittima difesa già nello stato di natura: GROLMAN, Grundsätze der Criminalrechtswissenschaft nebst einer systematischen Darstellung des Geistes der deutschen Criminalgesetze (1798), Glashütten im Taunus, 1970, p. 5). In ogni caso, dovrebbero essere ridotte a queste ultime ipotesi le cause di giustificazione propriamente dette, secondo le indicazioni di HIRSCH, La posizione di giustificazione e scusa nel sistema del reato (1990), in questa Rivi-
— 1096 — Se, infatti, una simile causa di giustificazione manca nella fattispecie concreta, la conclusione secondo cui non potrà essere escluso il contrasto con l’intero ordinamento giuridico non significa che, applicando il principio del terzo escluso, esso debba essere affermato. L’adesione alla tesi che afferma l’esistenza di uno spazio giuridico vuoto accanto allo spazio giuridico pieno e che riferisce soltanto a quest’ultimo caratteristiche di completezza, implica il riconoscimento della categoria del giuridicamente indifferente: il rapporto tra conformità e contrarietà al diritto non può, quindi, essere rappresentato in termini di opposizione contraddittoria secondo uno schema logico che costituisce la premessa per l’applicazione del principio del terzo escluso (123). Quest’ultimo, dunque, sarà inapplicabile e la terza soluzione che, diversa sia dalla contrarietà che dalla conformità al diritto, non potrà essere esclusa, sarà proprio l’indifferenza penale e/o civile e/o amministrativa. D’altra parte, secondo le limpide indicazioni di Roxin, l’argomento del terzo escluso vale soltanto laddove è stata già espressa una valutazione negativa sul fatto che, qualora negata, non potrà che essere positiva (124). Posta l’insostenibilità della concezione (ulteriormente) sanzionatoria del diritto penale, la conclusione per la necessaria liceità del fatto sarà, quindi, riferibile soltanto a quel settore dell’ordinamento giuridico al cui interno è stata positivizzata la prima valutazione negativa successivamente smentita: se si nega l’illiceità di un fatto penalmente tipico esso sarà penalmente lecito, senza per questo pregiudicare la possibilità che esso, al tempo stesso, sia civilmente e/o amministrativamente indifferente. Ciò che in conclusione appare insostenibile è una caratterizzazione generica dell’antigiuridicità che, affermata a prescindere da un’attenta considerazione della portata delle singole cause di giustificazione, sembra risolversi in una teoria dell’illecito senza ulteriori specificazioni e si rivela, per questo, coerente con una primaria opzione scientifica estranea a criteri utili all’immediata definizione dell’ambito riservato all’illecito penale. In particolare, l’estensione dell’efficacia delle cause di giustificazione dal fatto penalmente tipico a qualsiasi tipo di illecito ripropone un modello di intervento sanzionatorio che, sia pur nei termini esattamente speculari dell’esclusione dell’illiceità, è sostanzialmente quello del panpenalismo: anche nell’esclusione dell’antigiuridicità è posta, infatti, in termini di inevitabilità un’alternativa che è limitata alla rilevanza penale del fatto o alla sua piena liceità. Laddove quest’ultima soluzione appare inopportuna nella prospettiva della prevenzione generale in quanto aggregazione di consensi (in riferimento alla quale potrebbe, invece, risultare sufficiente il ricorso a misure di tipo amministrativo-disciplinare) (125), la coerente applicazione di tutti i corollari solitamente ricondotti alla caratterizzazione generica dell’antigiuridicità non dovrebbe lasciare altra soluzione che quella della (contemporanea) affermazione dell’esistenza di un fatto (tipico ed antigiuridico) di reato (126). sta, 1991, p. 758 ss., che per la definizione della giustificazione ritiene che « si deve trattare di cause che fanno sì che un comportamento nonostante la sua conformità alla fattispecie sia eccezionalmente compatibile con l’intero ordinamento giuridico » (op. cit., p. 779). (123) Per la definizione delle opposizioni concettuali in termini di contraddittorietà o di contrarietà e per la definizione dell’ambito di applicabilità del principio del terzo escluso cfr., per tutti, COPI, Introduzione alla logica (1961), Bologna, 1964, p. 167 ss., e STRAWSON, Introduzione alla teoria logica, Torino, 1975, p. 22 s. (124) ROXIN, Problemi fondamentali della teoria dell’illecito, cit., p. 38. Sul punto v. anche MARINUCCI, Cause di giustificazione, cit., p. 134. (125) Sui rapporti tra consenso e legislazione penale e sulla necessaria selezioni dei consensi aggregabili con la pena cfr., per tutti, PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, a cura del CENTRO STUDI GIURIDICI CESARE TERRANOVA, Milano, 1993, pp. 167 ss., 191 s. (126) Si ripropone, per questo, la logica dell’aut-aut, già rifiutata quando nella teoria del reato iniziò ad affermarsi la necessità di una graduazione dell’illecito (per tutti ZIMMERL, Strafrechtliche Arbeitsmethode de lege ferenda, Berlin-Leipzig, 1931, p. 132 s.), che, in ragione della diversa afflittività tra sanzioni amministrative, disciplinari, civili e penali, potrebbe essere agevolmente applicata anche all’illecito in senso globale. Abbandonati i canoni
— 1097 — La reale attivazione dello strumento penale potrà, dunque, essere evitata solo ricorrendo a soluzioni che coinvolgono la terza categoria del reato o, altrimenti, utili ad impedire almeno l’esecuzione della pena. In quest’ultima ipotesi, la prassi giudiziaria agevola la già facile supposizione dell’attribuzione a determinati istituti di funzioni reali che non hanno nulla a che fare con gli obiettivi della loro teorizzazione e che, in ultima analisi, si riducono alla predisposizione di un rimedio all’applicazione del tutto inopportuna della sanzione più grave e violenta prevista dall’ordinamento giuridico per un fatto caratterizzato da una limitata dannosità sociale: disfunzioni ed appesantimenti si aggiungono a quelli che già caratterizzano l’attività di tutte quelle istituzioni (non solo carcerarie) deputate alla gestione del settore più delicato del sistema penale complessivo. FRANCESCO SCHIAFFO Dottore di ricerca collaboratore presso la Cattedra di diritto penale dell’Università di Salerno
della logica classica, la considerazione quantitativa dell’illecito postulava l’adesione alla logica dei ‘‘tipi’’ (tipologia) che, in un contesto storico, sociale ed economico caratterizzato da cambiamenti rapidi e continui, risultava più adeguata a seguire il reale andamento della vita e della realtà, la quale non conosce classificazioni e separazioni, ma solo procedimenti evolutivi senza soluzioni di continuità (così RADBRUCH, Klassenbegriffe und Ordnungsbegriffe im Rechtsdenken, in Rev. int. th. droit., 1938, p. 46, dove, anche in riferimento all’illecito, risulta chiaramente delineata la differenza tra i tradizionali concetti classificatori e più ampi concetti ordinatori della tipologia. Sul ‘‘tipo’’ come categoria che, ben oltre la mera assegnazione di predicati, comprende i rapporti reciproci tra determinati oggetti, disponendoli in un ordine lineare e comparativo cfr. OPPENHEIM, Von Klassenbegriffen zu Ordnungsbegriffen, in Travaux du IX Congrès international de philosophie - Congrès Descartes, Paris, 1937, fascicolo VI, pp. 69 ss., 70 — che, comunque, non esclude la possibilità di continuare ad utilizzare anche in questa prospettiva i canoni della logica tradizionale (op. cit., p. 73 s.) —, nonché, più diffusamente, HEMPEL-OPPENHEIM, Der Typusbegriff im Lichte der neuen Logik. Wissenschaftstheoretische Untersuchungen zur Kostitutionsforschung und Psychologie, Leiden, 1936, pp. 21 ss., 40 ss.; sul successo della tipologia nell’ambito dei vari settori scientifici cfr. ENGISCH, Die Idee der Konkretisierung in Recht und Rechtswissenschaft unserer Zeit, 2a ed., Heidelberg, 1968, p. 237 s.).
GIURISPRUDENZA
a) Giurisprudenza costituzionale
CORTE COSTITUZIONALE (26 marzo) 6 aprile 1998, n. 98 Pres. Granata — Red. Mezzanotte Pres. Cons. Ministri (Avv. gen. Stato) Spese giudiziali in materia penale - Anticipazione e recupero da parte dello Stato Obbligo del condannato di rimborso - Non trasmissibilità agli eredi - Omessa previsione - Preteso contrasto con gli artt. 3, 27, 31 Cost. - Illegittimità costituzionale (Cost. artt. 3 comma 1, 27 comma 1, 31 comma 1; c.p. art. 188 comma 2). Spese giudiziali in materia penale - Anticipazione e recupero da parte dello Stato Iscrizione degli articoli di credito nel registro del campione penale - Decesso del condannato in stato di insolvibilità - Annullamento - Conseguente trasmissibilità agli eredi del condannato solvibile dell’obbligazione per le spese - Violazione degli artt. 3 e 27 Cost. - Illegittimità costituzionale conseguenziale (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27; Cost. artt. 3 e 27; r.d 23 dicembre 1865, n. 2701, art 273 primo periodo e secondo periodo). È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., l’art. 188 comma 2 c.p., nella parte in cui non prevede la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del processo penale. I presupposti giuridici della configurazione dell’obbligazione al rimborso delle spese del processo penale come obbligazione civile verso lo Stato posta a carico dell’autore del reato con la sentenza definitiva di condanna sono venuti meno con l’art. 56 della legge sull’ordinamento penitenziario, a mente del quale il debito per le spese di procedimento e di mantenimento è rimesso nei confronti dei condannati e degli internati che si trovino in disagiate condizioni economiche ed abbiano tenuto regolare condotta (il mutamento è già colto nella sent. n. 342 del 1991; applicazione della vecchia configurazione dell’istituto sono le sentt. nn. 30 del 1964, 167 del 1963). Posto che nessuna norma della Costituzione impone che lo Stato esiga dal condannato il rimborso delle spese del processo penale e nessuna postula che tali spese gravino sulla collettività, essendo (sent. n. 45 del 1997) quella delle spese processuali materia nella quale il legislatore, salvo il limite della ragionevolezza, è dotato della più ampia discrezionalità, una volta però che la scelta legislativa sia stata quella di introdurre l’istituto della remissione del debito e una volta che in questo si sia dato rilievo all’esistenza di indici di ravvedimento del condannato e all’esigenza di agevolarne il reinserimento sociale, non può non risentirne l’intera
— 1099 — configurazione dell’obbligazione di rimborso delle spese processuali, sicché la pretesa che tale obbligazione mantenga intatta la sua originaria natura e che essa non venga attratta nell’orbita dell’art. 27 Cost. contraddice al canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative. Si tratta infatti di un’obbligazione che non può non partecipare del carattere della personalità che è proprio di tutte le pene, nessuna delle quali è trasmissibile agli eredi poiché questi non sono autori del reato, né hanno dato in alcun modo causa al processo penale (1). Ai sensi dell’art. 27 l. 11 marzo 1953, n. 87, è costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., l’art. 273 primo periodo r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701, che approva la Tariffa in materia penale, limitatamente alle parole « in istato di insolvibilità », e dell’art. 273, secondo periodo, dello stesso decreto, limitatamente alle parole « l’insolvibilità con dichiarazione della giunta municipale ». La disposizione, secondo la quale l’iscrizione degli articoli di credito nel registro del campione penale è annullato se il condannato è deceduto in stato di insolvibilità, da accertarsi con dichiarazione della giunta municipale, consentendo la trasmissione dell’obbligazione per spese processuali agli eredi del condannato solvibile, contrasta, al pari dell’art. 188 c.p., con il canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative e con il principio secondo il quale anche le sanzioni economiche accessorie alla pena hanno carattere personale (2). (Omissis). — Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 188, comma 2 c.p., promosso con ordinanza emessa il 3 febbraio 1997 dal Pretore di Modena, iscritta al n. 302 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, la serie spec., dell’anno 1997. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1998 il giudice relatore Carlo Mezzanotte. RITENUTO IN FATTO. — 1. Il Pretore di Modena, quale giudice dell’esecuzione, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 188, comma 2, c.p., nella parte in cui, disponendo che non si trasmette agli eredi del condannato l’obbligazione al rimborso delle spese di mantenimento di quest’ultimo negli istituti penitenziari, omette di prevedere l’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligazione al rimborso delle spese del processo penale, in ritenuta violazione degli artt. 8, comma 1, 27, comma 1 e 81, comma 1, Cost. Quanto alla rilevanza della questione, il Pretore osserva che il ricorrente nel giudizio a quo è padre ed erede di una persona che ha subìto più condanne comportanti il pagamento delle spese processuali e che è deceduta senza adempiere a tali obbligazioni e senza che sia stato possibile riscuotere coattivamente il credito dell’erario. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice remittente individua un primo profilo di illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la disposizione impugnata discriminerebbe la posizione degli eredi di chi abbia riportato condanne penali a pene non detentive, o a pena detentiva sostituita con pena pecuniaria o con altra sanzione sostitutiva, o a pena detentiva per altre ragioni non eseguita, rispetto a quella degli eredi di coloro che, condannati a pena
— 1100 — detentiva, abbiano scontato la pena prima del decesso: solo questi ultimi potrebbero essere esonerati dall’obbligo del pagamento delle spese derivanti dalla condanna, mentre i primi riceverebbero un trattamento deteriore, non essendo loro concesso di ottenere nemmeno la remissione del debito qualora versino in disagiate condizioni economiche. Poiché, infatti, la legge (art. 56 l. 26 luglio 1975, n. 354, « Ordinamento penitenziario ») accomuna, ai fini della remissione del debito, le spese processuali e quelle di mantenimento in carcere, I’art. 188, comma 2, c.p., escludendo la trasmissibilità agli eredi del debito per le sole spese di mantenimento in carcere, introdurrebbe per detti debiti una disciplina particolare, discriminando irragionevolmente gli eredi dei debitori delle spese processuali. In sostanza, secondo il giudice a quo, all’uniforme disciplina dell’obbligo di rimborso delle spese processuali e di quelle di mantenimento in carcere, entrambe remittibili nei confronti del condannato in vita, dovrebbe corrispondere una regolazione uniforme dell’obbligo anche per l’eventualità del decesso del condannato prima dell’estinzione delle due obbligazioni. Sotto un diverso profilo, il Pretore rileva che il diverso trattamento sarebbe lesivo anche dell’art. 27, comma 1, Cost., laddove afferma essere la responsabilità penale personale; da tale principio discenderebbe la natura personalissima non solo della sanzione penale, ma anche della condanna penale e delle sue dirette conseguenze, tra le quali dovrebbe rientrare l’obbligo di rimborsare le spese del processo. Il giudice remittente ravvisa infine un ultimo profilo di illegittimità costituzionale nella violazione dell’art. 31, comma 1, Cost., in considerazione del fatto che gravati delle spese di processi che in nulla li riguardano sarebbero, per lo più, familiari del condannato deceduto, nella loro qualità di eredi; si ridurrebbero così le risorse economiche del nucleo familiare per ragioni alle quali esso è del tutto estraneo. 2. È intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione. La disparità di trattamento denunciata dal giudice remittente si fonderebbe, ad avviso dell’Avvocatura, su una comparazione di termini eterogenei: l’accostamento tra spese del processo e spese di mantenimento in carcere operato dall’art. 56 l. n. 354 del 1975, ai fini della remissione del debito, non significherebbe, infatti, che ci si trovi di fronte a obblighi di natura omogenea; anzi, il legislatore avrebbe differenziato il regime delle spese di mantenimento in carcere nella consapevolezza dell’incidenza, nel caso, delle finalità rieducative connesse all’esecuzione della pena. L’art. 56 introdurrebbe, invece, un meccanismo di remissione, operante ex post e in relazione al caso concreto, che avrebbe finalità premiale e di risarcimento del condannato in disagiate condizioni economiche. Si tratterebbe, quindi, di scelte discrezionali del legislatore, giustificate dalle diverse finalità dell’attività che lo Stato esplica relativamente all’accertamento della verità processuale e all’esecuzione della pena irrogata. L’Avvocatura, infine, ritiene infondata la questione in riferimento agli altri parametri, rilevando, quanto alla prospettata violazione dell’art. 27 Cost., che l’obbligo di rimborso delle spese processuali costituirebbe non già esercizio della potestà punitiva, ma effetto risarcitorio civile del reato, e, quanto all’ipotizzata
— 1101 — violazione dell’art. 31 Cost., che la censura si baserebbe su considerazioni di mero fatto, sulle quali non potrebbe fondarsi il sindacato di costituzionalità. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Questa Corte è chiamata a decidere se contrasti con gli artt. 3, comma 1, 27, comma 1, e 31, comma 1, Cost., l’art. 188, comma 2, c.p., nella parte in cui, disponendo che non si trasmette agli eredi del condannato l’obbligo di rimborsare all’erario le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena, omette di prevedere la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del processo penale. 2. La questione è fondata in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. Prima della legge sull’ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975) vi erano ben pochi dubbi circa la natura dell’obbligazione di rimborso delle spese del processo penale: si trattava di un’obbligazione civile verso lo Stato posta a carico dell’autore del reato con la sentenza definitiva di condanna. Era del tutto conseguente alla configurazione giuridica impressale dal legislatore non solo che dell’adempimento di tale obbligazione il condannato rispondesse con tutti i suoi beni, presenti e futuri secondo i principi civilistici della responsabilità patrimoniale, ma che, in caso di morte del debitore, chiamati a rispondere fossero gli eredi. In verità, una qualche peculiarità, rispetto alle comuni obbligazioni civili, era presente fin dalle origini, poiché l’art. 273 della tariffa penale approvata con r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701, tuttora vigente, prevede l’annullamento degli articoli di credito iscritti nel registro del campione penale, oltre che nel caso in cui sia decorsa la prescrizione, in quello in cui il condannato sia deceduto in stato di insolvibilità. Al di fuori di queste ipotesi, l’obbligazione si trasmette agli eredi, secondo le disposizioni del codice civile, sicché la tradizionale qualificazione del debito per spese processuali come obbligazione civile era da considerare appropriata e, al di là della puntuale deroga, coerente con i tratti fondamentali della disciplina positiva. 3. I presupposti giuridici di tale configurazione, alla quale anche la giurisprudenza costituzionale aveva in passato acceduto (sentt. nn. 30 del 1964 e 167 del 1963), sono però venuti meno con l’art. 56 della legge sull’ordinamento penitenziario, a mente del quale il debito per le spese di procedimento e di mantenimento è rimesso nei confronti dei condannati e degli internati che si trovino in disagiate condizioni economiche ed abbiano tenuto regolare condotta. La considerazione dell’istituto della remissione e, soprattutto, dei suoi presupposti oggettivi e soggettivi induce a ritenere che lo stesso debito di rimborso delle spese processuali abbia mutato natura: non più obbligazione civile retta dai comuni principi della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa. Il solo fatto che dal pagamento delle spese processuali il condannato che versi in disagiate condizioni economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare denota il penetrare nel rapporto obbligatorio tra condannato debitore ed erario creditore di una funzione estranea alla generalità dei rapporti di diritto civile; dimostra il sopravanzare di un fine che trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato sull’adempimento delI’obbligo economico. Il rapporto obbligatorio, insomma, viene investito dalla disciplina dell’ordinamento penitenziario in en-
— 1102 — trambi i lati: nel lato passivo la figura del debitore cede di fronte a quella del condannato e nel lato attivo l’erario lascia il campo alla giustizia. Non a caso, ai fini della rimettibilità, il debito per spese processuali viene assoggettato alla medesima disciplina di quello per le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era già riconosciuta proprio dall’art. 188, comma 2, c.p., nonostante la collocazione di quest’ultimo debito tra le obbligazioni civili conseguenti al reato: collocazione che a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 56 dell’ordinamento penitenziario ha perduto la sua, peraltro assai tenue, attitudine qualificatoria. In verità, la giurisprudenza di questa Corte aveva già colto il mutamento imposto dal citato art. 56. Nella sentenza n. 342 del 1991 è stata, infatti, ritenuta irragionevolmente discriminatoria la preclusione della remissione delle spese del processo penale nei confronti di quei condannati i quali, non avendo sofferto (in ragione della non rilevante gravità del reato da loro commesso, della minore loro pericolosità sociale o per qualsiasi altra causa) alcun periodo di carcerazione, apparivano semmai maggiormente meritevoli di un’agevolazione economica che, seppure nella limitata portata dell’istituto, favorisse il loro reinserimento sociale. Pur pronunciando in quell’occasione sul parametro del solo art. 3, questa Corte non aveva mancato di evidenziare le nuove potenzialità dell’istituto della remissione, ispirato da un lato a una finalità premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato, indice di ravvedimento e di avvenuto recupero; e, dall’altro, a una finalità di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata con la rimozione delle ulteriori difficoltà di ordine economico in cui altrimenti verrebbe a trovarsi il condannato in ragione delle sue già disagiate condizioni; ed aveva con ciò stesso, nella sostanza, riconosciuto che il tema dell’adempimento dell’obbligo di pagamento delle spese del processo, dal terreno squisitamente civilistico della responsabilità patrimoniale, dove era stato tradizionalmente collocato, si era spostato, per scelta del legislatore, in quello della pena e delle finalità alle quali essa deve tendere. 4. Tutto ciò, va precisato, non era costituzionalmente dovuto. Nessuna norma della Costituzione impone, infatti, che lo Stato esiga dal condannato il rimborso delle spese del processo penale e nessuna postula che tali spese gravino sulla collettività. Come già questa Corte ha più volte riconosciuto (da ultimo nella sentenza n. 45 del 1997), quella delle spese processuali è materia nella quale il legislatore, salvo il limite della ragionevolezza, è dotato della più ampia discrezionalità. Ma una volta che la scelta legislativa sia stata quella di introdurre l’istituto della remissione del debito e una volta che in questo si sia dato rilievo all’esistenza di indici di ravvedimento del condannato e all’esigenza di agevolarne il reinserimento sociale, non può non risentirne l’intera configurazione dell’obbligazione di rimborso delle spese processuali. La pretesa che tale obbligazione mantenga intatta la sua originaria natura e che essa non venga attratta nell’orbita dell’art. 27 Cost. contraddice al canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative. Si è infatti in presenza di un’obbligazione che non può non partecipare del carattere della personalità che è proprio di tutte le pene, nessuna delle quali è trasmissibile agli eredi poiché questi non sono autori del reato, né hanno dato in alcun modo causa al processo penale. Deve pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., dell’art. 188, comma 2, c.p., nella parte in cui omette di
— 1103 — prevedere la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del processo penale. Resta assorbito ogni altro profilo. 5. In applicazione dell’art. 27 l. 11 marzo 1953, n. 87, deve essere conseguenzialmente dichiarata l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 273 r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701 (che ha natura di decreto legislativo, come risulta anche dall’espressa qualificazione contenuta nell’art. 1 l. 29 giugno 1882, n. 835, di riforma delle tariffe giudiziarie), secondo il quale l’iscrizione degli articoli di credito nel registro del campione penale è annullato se il condannato è deceduto in stato di insolvibilità, da accertarsi con dichiarazione della giunta municipale. Tale disposizione, consentendo la trasmissione dell’obbligazione per spese processuali agli eredi del condannato solvibile, contrasta, al pari del richiamato art. 188 c.p., con il canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative (art. 3 Cost.) e con il principio, risultante dall’art. 27 Cost., secondo il quale anche le sanzioni economiche accessorie alla pena hanno carattere personale. P.Q.M. — La Corte costituzionale, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 188, comma 2, c.p., nella parte in cui non prevede la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del processo penale; dichiara, ai sensi dell’art. 27 l. 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 273, primo periodo, r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701, che approva la Tariffa in materia penale, limitatamente alle parole « in istato di insolvibilità » e dell’art. 273, secondo periodo, dello stesso decreto, limitatamente alle parole « l’insolvibilità con dichiarazione della giunta municipale ».
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Obbligazione al rimborso delle spese processuali e principio di personalità della responsabilità penale.
1. La disciplina dell’obbligo di rimborso delle spese processuali è stata più volte portata all’attenzione della Corte costituzionale. Con la sentenza n. 443 del 1990 (1) — la Corte aveva dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 444 c.p.p. in quanto escludeva che l’imputato sottopostosi al ‘‘patteggiamento’’, benché esente dal pagamento delle spese processuali, potesse essere condannato in sede di procedimento speciale a rimborsare le spese sostenute dalla parte civile. In una successiva sentenza — n. 180 del 21 aprile 1993 (2) — la Corte ha dichiarato incostituzionale l’art. 427 c.p.p. nella parte in cui prevedeva che, nel caso di sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato per non aver commesso il fatto, il giudice condannasse il querelante al pagamento delle spese del procedimento anticipate dallo Stato anche quando risultasse che l’attribuzione del reato all’imputato non fosse ascrivibile a colpa del querelante. (1) In Cass. pen., 1990, p. 372 e in Cass. pen., 1992, p. 525, con nota di IANDOLO PISANELLI, Parte civile ed applicazione della pena su richiesta. (2) La sentenza è pubblicata in questa Rivista, 1993, p. 1405, con nota di GIULIANI, Sull’esenzione del querelante ‘‘incolpevole’’ dalla responsabilità per le spese del procedimento anticipate dallo Stato, alla quale rimandiamo per l’accurata indagine sull’argomento con riferimento alla giurisprudenza formatasi sotto la vigenza del precedente codice.
— 1104 — In una sentenza più vicina cronologicamente a quella che si annota — la n.45 del 1997 — la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 666 c.p.p. nella parte in cui non prevede la condanna al pagamento delle spese processuali per colui che ha proposto un procedimento di esecuzione dichiarato inammissibile o rigettato. Proprio in ques’ultima pronuncia la Corte, rifacendosi alla sua precedente giurisprudenza (Corte cost. n. 134 del 1993 e Corte cost. n. 30 del 1994) ha richiamato un principio consolidato in materia di spese processuali, vale a dire quello secondo cui l’obbligo di pagare le spese del processo grava su chi ha reso necessaria l’attività del giudice (il principio, del resto, è noto in ambito civilistico anche come principio della ‘‘soccombenza’’) (3) e ha altresì affermato che « non si rinviene in Costituzione un principio che faccia obbligo allo Stato di recuperare in ogni caso (corsivo nostro) le spese processuali » (4). 2. Anche lo specifico problema della trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborso delle spese processuali era stato affrontato dalla Corte costituzionale in due sentenze risalenti agli anni sessanta: le nn. 30 del 1964 e 167 del 1963, richiamate dalla stessa Corte. La sentenza in esame, nel dichiarare incostituzionale il comma 2 dell’art. 188 c.p. « nella parte in cui non prevede la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del processo penale », rappresenta un’inversione di rotta rispetto all’orientamento seguito dalla Corte nelle precedenti sentenze su questo argomento e sembra porre una parola definitiva sulla natura dell’obbligo di rimborso delle spese processuali gravante sul condannato. Stupisce, di primo acchito, che la norma dichiarata incostituzionale non contenga alcuna disciplina dell’obbligazione di rimborso delle spese processuali, bensì soltanto quella delle spese di mantenimento negli stabilimenti di pena: in base al comma 1 dell’art. 188, infatti, il condannato deve rispondere di questa obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri; in base al comma 2, tale obbligazione non si trasmette al responsabile civile e agli eredi. Se si eccettuano le norme relative all’ipoteca legale sui beni dell’imputato — artt. 189 e 191 c.p., ora abrogati per l’intervenuta nuova disciplina del codice di procedura penale — non si rinviene nel codice penale nessuna norma che disciplini l’obbligazione di pagare le spese processuali o, che, come accadeva negli articoli sopramenzionati, la riguardi almeno incidentalmente. Una disciplina si ricava indirettamente, invece, dal codice di procedura penale: pur riguardando, com’è naturale, gli obbligati sotto il profilo della condanna al pagamento, tale disciplina è forse più significativa di quanto non appaia a prima vista. Dell’obbligazione al rimborso delle spese processuali si occupano in particolare gli artt. 535 e 541 c.p.p., limitatamente, come già ricordato, al profilo della « condanna » alle spese relative ai reati cui la condanna si riferisce e della « condanna » alle spese sostenute dalla parte civile. Tali obbligazioni, dichiarate con la sentenza di condanna, trovano, secondo l’opinione pressoché unanime della dottrina, la loro fonte nel già ricordato principio della soccombenza, comune anche al rito civile, e, nel silenzio delle norme processualpenalistiche, sono sempre state considerate trasmissibili agli eredi, poiché soggette alla normale disciplina civilistica delle obbligazioni (5). Solo due norme di diritto positivo — una antica, l’altra recente — potevano far sorgere qualche dubbio sulla natura civilistica ‘‘pura’’ di tali obbligazioni. La (3) CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Roma, 1935, p. 164; cfr. inoltre GARAVELLI, Spese giudiziali (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, p. 371. (4) Cfr. Corte cost. 20 febbraio 1997, n. 45, in Giur cost., 1997, p. 432. (5) Cfr. GARAVELLI, Spese giudiziali, cit, p. 371; e dello stesso Autore, Spese del procedimento, in Dig. disc. pen., XIII, 1997, p. 562; U. PIOLETTI, Spese giudiziali (diritto processuale penale), in Nss. D.I., XVII, Torino, 1970, p. 1143.
— 1105 — prima è contenuta nell’art. 273 del r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701 (c.d. tariffa penale), nel quale si prevede l’annullamento degli articoli di credito iscritti nel registro del campione penale « quando il reato sia prescritto ovvero quando il condannato deceda in stato di insolvibilità ». Questa norma lega strettamente l’obbligazione di rimborsare le spese alle vicende del reato e alla situazione personale del reo, al punto da far coincidere con l’estinzione del reato per prescrizione, che segna la rinuncia dello Stato al perseguimento del reato, la contemporanea rinuncia dello Stato al soddisfacimento del proprio credito. Allo stesso modo il legislatore, deceduto il condannato in stato di insolvibilità, rinuncia a rivalersi sugli eredi indipendentemente dalla consistenza del loro patrimonio. La rilevanza di questa disciplina non è sfuggita alla Corte, la quale — nella sentenza in esame — ha però dichiarato incostituzionale anche questa norma limitatamente alle parole « in stato di insolvibilità », rendendo così operante l’annullamento dei suddetti articoli di credito semplicemente con il decesso del condannato e, di conseguenza, intrasmissibile il debito agli eredi anche nel caso in cui gli stessi entrino in possesso di quelle sostanze con le quali il condannato avrebbe potuto onorare il suo debito. L’altra norma in grado di far luce sulla particolare natura dell’obbligazione di pagare le spese processuali è contenuta nell’art. 535 del codice di procedura penale, secondo la quale la sentenza di condanna pone a carico del solo condannato, e non anche del responsabile civile (6) — a differenza di quanto disponeva l’art. 488 comma 3 del codice Rocco —, l’obbligazione di pagare le spese processuali. Prevedendo poi che il condannato sia obbligato solo per le spese processuali « relative ai reati cui la condanna si riferisce » (7), la norma lascia intravvedere, a nostro avviso, che l’obbligazione è strettamente legata al reato e non al procedimento. È pur vero che il comma successivo dell’art. 535, prevedendo alcuni casi di responsabilità solidale (per i concorrenti nello stesso reato e per gli autori di reati connessi) introduce una parziale deroga alla disciplina del comma 1 e sembra contraddirne la logica, ma quale tra le due norme sia più significativa in riferimento alla natura delle spese processuali emergerà più avanti (8). Al di fuori di questi casi, la regola della responsabilità solidale non si applica, pur quando più imputati vengano giudicati in uno stesso giudizio, se non limitatamente alle « spese comuni » (art. 535, ultimo comma) e ciò rafforza ulteriormente, a nostro avviso, l’idea di fondo che non è l’occasione del processo unificato a fondare la responsabilità per le spese. La citata disciplina processuale riflette, se così si può dire, una logica ‘‘personalistica’’, stabilendo uno stretto legame tra la responsabilità per il fatto e l’obbligazione di pagare le spese; d’altra parte, quella disciplina non poteva spingersi fino a esplicitare la natura dell’obbligazione in questione e, soprattutto, non poteva trarne corollari sul terreno del diritto sostanziale. (6) LORUSSO, Commento all’art. 535 c.p.p., in GIARDA-SPANGHER, Codice di procedura penale commentato, Milano, 1997, p. 2378; MANZIONE, Commento all’art. 535 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, V, Torino, 1989, p. 554. (7) Sottolinea questo aspetto MANZIONE, Commento all’art. 535 c.p.p., cit., p. 551. (8) Le diverse ipotesi di connessione tra reati che danno luogo, secondo l’art. 12 c.p.p., alla connessione tra procedimenti e che interessano in questa sede, sono rappresentate dal concorso o cooperazione nel reato, dall’evento determinato da condotte indipendenti e dal caso di reati connessi per scopo o per contesto. Se ci sembra più comprensibile applicare la responsabilità solidale ai casi di concorso o cooperazione nel reato e al caso di evento determinato da più condotte indipendenti perché si tratta di un reato unico realizzato da più persone, appare meno comprensibile la solidarietà, nel caso di connessione per scopo o contesto, poiché in questo caso si tratta di reati diversi e, pertanto, vengono addebitate in solido a ciascun imputato anche le spese occorse per l’accertamento dei reati commessi dagli altri. Sulla connessione cfr. di BUGNO, Commento all’art. 12, in GIARDA-SPANGHER, Codice di procedura penale, cit., p. 75 e MACCHIA, Commento all’art. 12 c.p.p., in AMODIO-DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, p. 75 e in particolare nota (5).
— 1106 — Ora, l’esigenza di rimodellare secondo quella logica la disciplina sostanziale relativa alle spese del procedimento è, probabilmente, parsa alla Corte costituzionale così forte da indurla a intervenire, attraverso una sentenza additiva, su una norma che pure non riguardava direttamente le spese processuali, ma ne faceva risaltare l’irragionevole disparità di trattamento rispetto a situazioni analoghe. 3. Ma quale il ragionamento condotto dalla Corte? La Corte individua due profili di incostituzionalità, in questo accogliendo appieno i motivi di rimessione del giudice a quo. Con il primo motivo si deduceva una irragionevole disparità di trattamento tra la disciplina delle spese processuali e la disciplina delle spese di mantenimento negli stabilimenti di pena. Entrambe sono infatti rimettibili, ai sensi dell’art. 56 l. 26 luglio 1975, n. 354, nei confronti del condannato in vita quando questi si trovi in « disagiate condizioni economiche » e abbia tenuto « regolare condotta »; ma qualora il condannato sia deceduto senza estinguere tali obbligazioni, solo le spese di mantenimento negli stabilimenti di pena risultano intrasmissibili ai sensi dell’art. 188 c.p. comma 2. Il secondo profilo di incostituzionalità ravvisato dal giudice a quo e accolto dalla Corte riguarda invece l’art. 27 comma 1 Cost., che afferma il carattere personale della responsabilità penale. Il connotato della ‘‘personalità’’ riguarda anche la responsabilità per le obbligazioni di mantenimento negli stabilimenti di pena: proprio per questo l’art. 188 comma 2 c.p. dichiara la relativa obbligazione intrasmissibile agli eredi e al responsabile civile. L’inserimento di detta obbligazione tra « le conseguenze civili del reato » perde, secondo la Corte, a fronte della disciplina riservatale, la sua già sbiadita attitudine classificatoria (9). La necessità di un uguale trattamento tra le due obbligazioni, di rimborso delle spese di mantenimento e processuali, si giustifica, allora, per la loro uguale natura. Questi dunque i passaggi fondamentali del ragionamento della Corte costituzionale: — l’istituto della remissione del debito, che ha natura premiale, si applica sia all’obbligo di rimborso delle spese di mantenimento negli stabilimenti di pena, sia all’obbligo di rimborso delle spese processuali; — ciò significa che il debito di mantenimento e di rimborso delle spese processuali hanno natura simile a quella della pena: si tratta, cioè, per usare le parole della Corte, di « sanzioni economiche accessorie alla pena, in qualche modo partecipi del regime giuridico e delle finalità di questa », in particolare della finalità di rieducazione che la Costituzione all’art. 27 comma 3 attribuisce alla pena; il carattere della personalità che la Costituzione assegna alla pena si comunica inevitabilmente anche alle obbligazioni al rimborso delle spese di mantenimento e delle spese processuali: ove l’intrasmissibilità venga dichiarata esplicitamente per le spese di mantenimento (art. 188 c.p.) (10), lo stesso deve, dunque, accadere per le obbligazioni di rimborso delle spese processuali. 4. Secondo la Corte, la materia delle spese processuali è sempre stata ‘‘terreno neutro’’, al quale nemmeno la Costituzione ha imposto una particolare con(9) Anche l’obbligazione di rimborso delle spese di mantenimento è sempre stata considerata un’obbligazione di carattere civile: cfr. BARTOLETTI, Commento all’art. 188, in PADOVANI, Codice penale, Milano, 1997, p. 838 e CESARIS, Spese e remissione del debito nel sistema penitenziario, in Dig. disc. pen., XIII, 1997, 564. (10) E, infatti, proprio argomentando dal fatto che il legislatore le applica il principio di personalità autorevole dottrina attribuisce, pur con qualche cautela, alla sanzione del rimborso delle spese di mantenimento la natura di sanzione penale: cfr. PAGLIARO, Sanzione penale, in Enc. giur. Treccani, XXVIII, Roma, 1992, p. 5.
— 1107 — notazione: solo l’entrata in vigore dell’art. 56 dell’ordinamento penitenziario ha fatto chiarezza sulla natura di queste obbligazioni, mutamento che già non era sfuggito alla Corte allorché aveva dichiarato incostituzionale proprio l’art. 56 l. n. 354 in quanto non prevedeva che le spese del procedimento potessero essere rimesse al condannato anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare (11). Muovendo dalla disciplina della remissione del debito, la Corte si spinge, dunque, fino a dare una definizione della natura dell’obbligazione di pagare le spese processuali. Si tratta, come si è detto, non di obbligazione civile, bensì di « sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa ». Da questa definizione alla configurazione dell’obbligazione del pagamento delle spese processuali come sanzione penale il passo è breve: infatti, se non si tratta di conseguenza civile da reato, né, evidentemente, di una sanzione amministrativa, non rimane che la configurazione come sanzione penale. E, del resto, che l’obbligo di rimborso delle spese del procedimento e di mantenimento negli stabilimenti di pena fossero sorretti da una comune ratio sanzionatoria era ben chiaro anche al legislatore del ’30. Come si legge nella Relazione al Progetto preliminare del codice penale: « L’articolo (...) si occupa dell’obbligo del condannato verso lo Stato di rimborsare le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena. Disposizione nuova e di alto valore etico... Lo stesso principio che sorregge il diritto dello Stato al rimborso delle spese del processo vale anche per il ricupero di quelle del mantenimento del colpevole » (12). D’altra parte, quale sia la logica che accomuna le due obbligazioni, agli occhi del legislatore del 1930, risulta dalla Relazione al Progetto definitivo: « ... l’esplicita dichiarazione che il condannato è obbligato... a provvedere... a rimborsare allo Stato le spese del proprio mantenimento ‘‘offre’’ chiara la visione delle finalità morali e patrimoniali che ispirano il sistema adottato dal Progetto... È stato... mio intendimento di limitare l’obbligazione al rimborso delle spese di mantenimento solo al condannato, escludendone gli eredi ed il responsabile civile, per non offendere, sia pure indirettamente, il carattere personale, afflittivo della pena » (13). L’istituto della remissione del debito di cui all’art. 56 della l. n. 354 del 1975 ha ulteriormente definito i contorni di queste due ‘‘obbligazioni anomale’’, però in un contesto mutato dall’intervento della Costituzione, che ha sancito all’art. 27 comma 3 il principio rieducativo della pena e, al comma 1, il principio di personalità della responsabilità penale. La sostanziale natura ‘‘penale’’ dell’obbligo di rimborso delle spese processuali sostenute dallo Stato è stata poi ‘‘intuita’’ dal nuovo codice di procedura penale e, non a caso, risulta particolarmente evidente proprio nella disciplina del procedimento speciale di applicazione della pena su richiesta di cui all’art. 444 c.p.p.: in questa sede la logica deflattiva del processo, e al contempo premiale nei confronti del reo che richiede la sottoposizione a una pena, esclude la condanna al rimborso delle spese processuali con l’unica eccezione, dopo la sentenza n. 443 del 1990, di quelle sostenute dalla parte civile (14). Con la sentenza della Corte costituzionale che si annota, l’obbligazione di pagare le spese processuali si inquadra così a pieno titolo in quella nozione di ma(11) Corte cost. n. 342 del 1991, in Cass. pen., 1992, p. 27. (12) Cfr. Relazione al Progetto preliminare di un nuovo codice penale, Roma 1927, p. 183. (13) Cfr. Relazione sul Libro I del Progetto definitivo di un nuovo codice penale, 1929, pp. 234235. (14) L’unico rimborso addebitabile in questo caso è quello delle spese della custodia delle cose sequestrate che non sono considerate, però, spese del procedimento: cfr. RIVELLO, Commento all’art. 265, in GIARDA-SPANGHER, Codice di procedura penale commentato, cit., p. 947.
— 1108 — tière pénale che la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo utilizza ormai da tempo e nella quale rientrano sia la pena in senso stretto, sia la misura di sicurezza, sia la sanzione amministrativa. Anzi, questa ‘‘sanzione economica accessoria alla pena’’ viene coperta dal principio ‘‘garantistico’’ della personalità della responsabilità penale — di cui all’art. 27 comma 1 della Costituzione — nell’aspetto minimale di intrasmissibilità della sanzione, principio che, pur espressamente enunciato per la sanzione amministrativa (per la quale vale anche il principio di colpevolezza) (15) dall’art. 7 della l. 24 novembre 1981 n. 689, non è stato mai ricollegato all’art. 27 comma 1 della Costituzione (16). Si pone, di conseguenza, il problema della compatibilità con questo assetto della disciplina prevista dall’art. 535 comma 2 c.p.p. che contempla, come si è detto, alcuni casi di responsabilità solidale per il pagamento delle spese: il principio della personalità della responsabilità e il principio di solidarietà difficilmente possono coesistere in riferimento alla medesima sanzione, tanto più se questa ha carattere penale e il principio di personalità della responsabilità deriva direttamente dalla Costituzione (17). Sarà dunque compito del legislatore apportare le opportune modifiche alla disciplina processualistica. Alla Corte costituzionale va, in definitiva, riconosciuto il merito di aver risolto una situazione di incontrovertibile disparità e di aver tirato le somme da una legislazione frammentaria rimodellandola in modo coerente. 5. Ancora un’osservazione. La Corte parla genericamente di « spese processuali », ma è doveroso ritenere che, date le premesse della disciplina degli artt. 535 e 541 c.p.p. e la logica che ha ispirato l’innovativa sentenza della Corte, la pronuncia abbia efficacia limitata a una sola categoria di spese processuali: quelle sostenute dallo Stato; rimangono invece estranee alla decisione della Corte le « spese sostenute dalla parte civile » (18). Le spese processuali del primo tipo gravano infatti sul solo condannato, secondo il disposto dell’art. 535 del codice di procedura penale, mentre delle seconde risponde solidalmente anche il responsabile civile, secondo l’art. 541 del codice di procedura penale: in assenza di previsione contraria, deve ritenersi che le spese sostenute dalla parte civile siano trasmissibili agli eredi come ogni altra obbligazione civile. È, dunque, il creditore dell’obbligazione — cioè lo Stato — che fa la differenza. Il rimborso dovuto alla parte privata del processo, la parte civile, mantiene immancabilmente il suo carattere privato. 6. Il ragionamento svolto dalla Corte, fondandosi sulla distinzione tra carattere civile e carattere penale (delle sanzioni), suggerisce qualche considerazione su un’altra conseguenza della condanna per il reato: l’obbligazione alle restituzioni e al risarcimento del danno da reato, ovverosia le c.d. sanzioni civili da reato, di cui all’art. 185 c.p. (15) Cfr. PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, p. 190 ss. Si consenta di rinviare sul punto anche a BARBIERI, Le sanzioni regionali dopo la legge 24 novembre 1981, n. 689, in DOLCINI-PADOVANI-PALAZZO, Sulla potestà punitiva dello stato e delle regioni. Una ricerca sulle fonti del diritto penale e del diritto sanzionatorio amministrativo, Milano, 1994, p. 246. (16) Cfr. PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 146 ss. (17) Anche la l. 24 novembre 1981, n. 689, da cui si ricava il principio di colpevolezza per l’illecito amministrativo e che prevede espressamente che l’obbligazione di pagare la sanzione pecuniaria non si trasmette agli eredi (art. 7) prevede alcuni casi di responsabilità solidale (art. 6), ma questi sono comunque eccezionali e, tranne che per l’ipotesi della responsabilità dell’imprenditore (art. 6 comma 3), rappresentano casi di responsabilità per propria negligenza: cfr. PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 192; inoltre, il principio di personalità della sanzione applicabile alla sanzione amministrativa non ha, come già ricordato, rango costituzionale. (18) Cfr. per una classificazione esaustiva delle spese giudiziali U. PIOLETTI, Spese giudiziali, cit., p. 1143.
— 1109 — Ad esse, da sempre affiancate alla pena e al pagamento delle spese processuali come componente strutturale del complessivo ‘‘debito con la giustizia’’ del reo, già da tempo sono stati attribuiti compiti importanti di supporto alle funzioni politico-criminali della pena (19); non a caso, di questo istituto civilistico il diritto penale moderno aspira ad appropriarsi (20). La sentenza n. 98 del 1998 della Corte costituzionale, riconoscendo una valenza penale, nonostante la collocazione codicistica nell’ambito delle conseguenze civili del reato, anche alla meno ‘‘connotata’’ conseguenza del reato — l’obbligazione a pagare le spese processuali anticipate dallo Stato — sembra, per contrasto, sottintendere che tutto ciò che è destinato a soddisfare la parte privata, sia il risarcimento del danno, sia, crediamo, il rimborso delle spese processuali sostenute dalla parte civile, non può che mantenere un’anima civilistica: anche il risarcimento del danno non patrimoniale da reato, a cui il codice penale si riferisce al comma 2 dell’art. 185, norma che rappresenta l’ipotesi principale di risarcibilità di questo tipo di danno, anche se non l’unica (21), rimarrebbe immancabilmente una conseguenza civile del reato e, come può dedursi a contrario dalla sentenza che si annota, proprio l’assenza nel sistema normativo di un qualsivoglia indizio di intrasmissibilità della relativa obbligazione potrebbe costituire conferma del suo carattere non penale (22). La netta separazione tra conseguenze penali e conseguenze civili del reato, fondata non sulle ‘‘etichette’’ che le accompagnano, ma sui principi che le governano rimane chiaramente segnata nel sistema penale e la scansione all’interno delle spese processuali tra spese sostenute dallo Stato (che gravano sul solo condannato) e spese sostenute dalla parte civile (che gravano anche sul responsabile civile) operata dal codice di procedura penale non ne costituirebbe che l’ultima conferma. Tuttavia, a ben vedere, i successivi interventi della Corte costituzionale su alcune norme processuali, richiamati in apertura di questo commento, si prestano anche a una diversa lettura. Brevemente: la sentenza con cui la Corte ha dichiarato incostituzionale la norma che obbligava il querelante al pagamento delle spese processuali quando il procedimento si concluda con la formula « per non aver commesso il fatto » - n. 180 del 1993 — ha sottolineato l’esigenza di un minimum di colpa in capo al querelante perché gli possa essere imputato il pagamento delle spese processuali, evi(19) Cfr. GREGORACI, Della riparazione del danno nella funzione punitiva, Torino, 1903, p. 10 ss.; BRUSA, Efficacia della riparazione del danno privato nella repressione dei delitti contro la proprietà, in Riv. pen., vol XXIX, p. 10 ss.; GAROFALO, La riparazione alle vittime del delitto, Torino, 1887 in cui si proponeva che il risarcimento del danno sostituisse le brevi pene carcerarie nei piccoli delitti commessi da delinquenti occasionali; FERRI, Principi di diritto criminale, Torino, 1928, p. 577 ss. Sottolineano i risvolti politico-criminali delle sanzioni civili da reato deducendoli dalla scelta del legislatore di collocare nel codice penale la relativa disciplina MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1999, p. 254; cfr. inoltre ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in questa Rivista, 1993, p. 865 ss. (20) Alludiamo alle tesi elaborate circa le possibili funzioni del risarcimento del danno in sostituzione alla pena o come pena elaborate in Germania: cfr. Alternativ Entwurf Wiedergutmachung (AEWGM), München, 1992; ROXIN, Risarcimento del danno e fini della pena, in questa Rivista, 1987, p. 3 ss.; SESSAR, Schadenwiedergutmachung in einer künftigen kriminalpolitik, in Festschrift für Karl Leferenz zum 70o Geburtstag, Heidelberg, 1983, p. 145 ss. (21) Cfr. BONILINI, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, p. 311 ss.; SCOGNAMIGLIO, Il risarcimento del danno morale (contributo alla teoria del danno extracontrattuale), in Riv. dir. civ., 1957, p. 309 ss. (22) Nella dottrina penalistica una voce autorevole — PAGLIARO, Sanzione penale, cit., p. 6 — sostiene che il risarcimento del danno non patrimoniale sia una sanzione penale; lo stesso Autore, però, deduce la natura di sanzione penale dell’obbligazione di rimborsare le spese di mantenimento in carcere proprio dall’intrasmissibilità agli eredi di questa, secondo il disposto dell’art. 188 comma 2 c.p., oggi dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte perché non estende tale intrasmissibilità anche all’obbligazione di pagare le spese processuali (ID., Sanzione penale, cit., p. 6).
— 1110 — tando così una mera imputazione su base oggettiva (si legga dunque: il pagamento delle spese ha natura sanzionatoria e, pertanto, non può essere assegnato par cascade a chi ha messo legittimamente e incolpevolmente in moto la macchina giudiziaria). Ancora: la sentenza con cui la Corte ha dichiarato incostituzionale l’art. 444 c.p.p. in quanto non prevedeva a carico dell’imputato che si sottopone a patteggiamento il pagamento delle spese in favore della parte civile sottolinea che l’interesse della parte civile, almeno sotto questo limitato aspetto, non può essere travolto dalle esigenze premiali o di economia processuale. Questa seconda pronuncia fa, dunque, risaltare l’indefettibilità del soddisfacimento degli interessi civili. È forse scontata questa indefettibilità alla luce della attuale normativa penale? Forse no, anche se il legislatore del ’30 ha chiaramente enunciato all’art. 198 c.p. che « l’estinzione del reato o della pena non importa l’estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato »: ma questo significa solo che la giustizia civile fa comunque il suo corso indipendentemente dalle ’‘vicende’’ processuali del reato e del reo. Letta ‘‘in prospettiva’’, questa norma può invece significare che lo Stato può rinunciare ad esercitare fino in fondo la sua potestà punitiva, ma alla vittima il danno subito va comunque risarcito. È forse proprio questa irrinunciabilità del risarcimento che può costituire un’ipotesi di lavoro per il legislatore futuro: naturalmente, per il legislatore penale. MARIA CRISTINA BARBIERI Ricercatore di diritto penale nell’Università di Trieste
— 1111 — b) Giudizi di Cassazione
CORTE DI CASSAZIONE — Sez. VI — ud. 31 ottobre 1996 (dep. 6 febbraio 1997) Pres. Pisanti — Rel. Candela — P.M. Martuscello (parz. diff.) Greco Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Omesso versamento dell’assegno stabilito nella sentenza di divorzio - Trattamento sanzionatorio - Pene previste dall’art. 570, secondo comma - Applicabilità. Il rinvio dell’art. 12-sexies l.d. (art. 21, l. n. 74 del 6 marzo 1987) alle pene previste dall’art. 570 c.p., deve intendersi fatto a quelle comminate dal secondo comma, trattandosi di violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale (1). (Omissis). — Antonio Greco venne condannato dal Pretore di Roma con sentenza in data 13 dicembre 1993 alla pena condizionalmente sospesa di giorni 15 di reclusione, per il reato di cui all’art. 570 c.p., in relazione all’art. 12-sexies, l. n. 898/1970, « per non aver interamente corrisposto al proprio coniuge divorziato la quota fissata nella sentenza di divorzio emessa il 14 novembre 1989 dal Tribunale di Roma ». La Corte d’Appello di Roma, adita dal Greco, confermò detta decisione con sentenza in data 20 novembre 1995, contro la quale il Greco ha proposto ricorso per Cassazione. (Omissis). Con un secondo motivo il ricorrente lamenta difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione della sola pena pecuniaria, alternativamente prevista dalla legge per il reato de quo. (Omissis). — Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, il rinvio dell’art. 12-sexies citato alle pene previste dall’art. 570 c.p. deve intendersi fatto a quelle comminate dal secondo comma, trattandosi di violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale. Andava pertanto inflitta anche la pena pecuniaria prevista congiuntamente a quella detentiva, ma sul punto vige il divieto della reformatio in peius. (Omissis).
—————— (1)
La sanzione di cui all’art. 12-sexies l.d.
1. La sentenza della Cassazione in epigrafe, merita di essere segnalata per la novità della questione affrontata (1): l’applicazione, in caso di violazione dell’art. (1) Non risultano precedenti giurisprudenziali editi sull’applicazione dell’art. 12-sexies l.d. In dottrina, si vedano: N. BARTONE, La riforma della legislazione sul divorzio: aspetti penali, in Giust. pen.,
— 1112 — 12-sexies l.d. — vale a dire di mancato pagamento dell’assegno al coniuge divorziato — delle sanzioni previste dall’art. 570, comma secondo, n. 2, c.p. Come è noto, il generico richiamo, quoad poenam, operato dall’art. 12-sexies l.d. all’art. 570 c.p. — ad una norma, cioè, che prevede pene diverse: reclusione alternativa alla multa, al primo comma, e reclusione congiunta alla multa, al secondo comma — rende di difficile determinazione la sanzione applicabile. Occorre stabilire, invero, a quale delle due pene edittali si riferisca l’art. 12-sexies l.d. L’indeterminatezza della sanzione non è, d’altra parte, l’unico difetto della norma, che risulta certamente mal formulata (2), che presenta errori (3), in cui la condotta è descritta in maniera generica (4), in cui è dubbia anche l’identificazione dell’oggetto giuridico tutelato (5); che pone, in definitiva, numerosi problemi interpretativi, prestandosi a letture diverse. La scarna motivazione della sentenza in esame, d’altra parte, non si rivela di grande aiuto per una rilettura della disposizione, ed il risultato a cui la decisione perviene — apprezzabile, anche se minoritario in dottrina — merita di essere considerato alla luce di una, pur sommaria, ricostruzione della norma. 2. Il legislatore, a distanza di quindici anni dall’entrata in vigore della legge sul divorzio, con l’art. 12-sexies l.d. — che racchiude una norma aggiunta con l’art. 21 della l. n. 74 del 6 marzo 1987 — dà soluzione esplicita alla questione della tutela penale dell’assegno di divorzio, questione che aveva avuto in giuri1985, I, c. 152 ss.; T. DELOGU, Commento all’art. 570 c.p., in Comm. dir, it. fam., diretto da G. Cian-G. Oppo-A. Trabucchi, Dir. pen., VII, Padova, 1995, p. 529 ss.; F. FIERRO CENDERELLI, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, p. 767 ss., spec. p. 778 ss.; A. GIUSTI, Commento all’art. 12-sexies l.d., in Nuove leggi civ. commentate, 1987 p. 1023 ss.; A. LANZI, Commento all’art. 12-sexies l.d., in Comm. riforma del divorzio, Milano, 1987, p. 152 ss.; M. MIEDICO, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Dig., Disc. pen., XV, Torino, 1999, p. 190 ss., spec. p. 203; T. PADOVANI, Commento all’art. 12-sexies l.d., in Comm. dir. it. fam., diretto da G. Cian-G. Oppo-A. Trabucchi, VI, 1, Padova, 1993, p. 533 ss.; A. PISANI, Sulla tutela penale della mancata corresponsione all’ex-coniuge dell’assegno di divorzio, nota a Corte Cost., 31 luglio 1989, n. 472, in Cass. pen., 1990, p. 374 ss.; E. QUADRI, La nuova legge sul divorzio, I, Profili patrimoniali, Napoli, 1987, p. 147 ss. e, dello stesso Autore, Assegno di divorzio e tutela penale tra presente e futuro, in Foro it., 1985, II, c. 539 ss.; G. SERVETTI, La riforma della legge sul divorzio: una nuova fattispecie incriminatrice, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 973 ss.; F. UCCELLA, Sulla penalizzazione della mancata corresponsione all’ex-coniuge dell’assegno di divorzio, nota a Cass. pen., 30 aprile 1979, in Cass. pen., 1981, p. 1053 ss.; P. ZAGNONI BONILINI, La tutela penale del coniuge divorziato, in G. BONILINI-F. TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, in Comm. cod. civ., dir. da P. Schlesinger, Milano, 1997, p. 865 ss. (2) Sottolinea la scarsa chiarezza e tassatività della fattispecie, dopo aver posto in dubbio la sua conformità alla Costituzione, T. DELOGU, op. cit., p. 541. Particolarmente critica, G. SERVETTI, op. cit., p. 973, che sottolinea la scarsa attenzione del legislatore in ordine ai problemi di coordinamento con le altre figure di reato, problemi aggravati da imprecisione terminologica e da una affrettata e non sufficientemente meditata redazione del testo normativo. (3) Basti rammentare, che soggetto attivo del reato proprio di cui all’art. 12-sexies l.d. può essere solo chi è tenuto alla prestazione dell’assegno di divorzio, vale a dire l’ex-coniuge obbligato, non il coniuge, come impropriamente prevede la norma incriminatrice, non possedendo più, l’obbligato, detta qualità. (4) Innanzitutto, non si può non sottolineare come la disposizione punisca la generica mancata corresponsione dell’assegno, dovuto a norma degli artt. 5 e 6 l.d., senza porre alcun limite quantitativo all’omissione, con conseguenti dubbi nel caso di piccole irregolarità nelle prestazioni, di lievi ritardi nei pagamenti, di inosservanza, in genere, delle disposizioni giudiziali concernenti l’assegno. Ancora: l’uso del verbo « sottrarsi (all’obbligo) », che potrebbe significare, semplicemente, non adempiere all’obbligo, ma potrebbe anche alludere alla necessità che il comportamento dell’obbligato assuma carattere fraudolento. Non ultimo, punendo l’art. 12-sexies l.d. il mero inadempimento dell’obbligo di pagare l’assegno stabilito dal giudice civile in sede di divorzio, quid iuris nell’ipotesi di sopravvenuta impossibilità ad adempiere, dopo l’emanazione della sentenza di divorzio? Su tali questioni, si vedano, in dottrina: T. PADOVANI, op. cit., p. 537 ss.; G. SERVETTI, op. cit., p. 978 ss.; P. ZAGNONI BONILINI, op. cit., p. 881 ss. (5) Per un quadro delle diverse posizioni assunte, dalla dottrina, sul bene giuridico tutelato dall’art. 12-sexies l.d., v. P. ZAGNONI BONILINI, La tutela penale del coniuge divorziato, cit., p. 876 ss.
— 1113 — sprudenza, negli anni precedenti, soluzioni antitetiche. È noto, infatti, come, ad un primo orientamento giurisprudenziale, secondo cui la mancata corresponsione dell’assegno di divorzio all’ex-coniuge non si reputava configurasse il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare (6), ne seguì uno diametralmente opposto, che affermò permanere gli obblighi di assistenza economica tra i coniugi anche dopo lo scioglimento del matrimonio, con la conseguente applicazione dell’art. 570, n. 2 del secondo comma, c.p. (7). L’intervento delle Sezioni Unite (8), che ritennero inapplicabile l’art. 570 c.p., in quanto norma riferibile soltanto a quelle condotte poste in essere da un soggetto che possegga e conservi la qualità di coniuge — e sufficiente lo strumento civilistico di tutela dell’assegno di divorzio (9) — pose, sì, fine alla querelle giurisprudenziale, ma indusse il legislatore ad intervenire. Scartata la soluzione che giuridicamente appare più corretta, lasciare, cioè, nella sfera dell’indifferente penale il mancato pagamento dell’assegno, le possibilità che il legislatore aveva a disposizione erano due: riformulare l’art. 570, n. 2 del secondo comma, c.p., in modo da tener conto anche della situazione del divorziato, ovvero prevedere una norma ad hoc. Si è seguita questa seconda via, e con l’art. 12-sexies l.d. « non si è inteso ampliare l’area di applicazione della disposizione penalistica, dovendosi intendere il richiamo alle sole pene previste nell’art. 570 c.p., quale conferma che la violazione degli obblighi di assistenza familiare riguarda sempre e soltanto le relazioni fondate sul coniugio o derivanti dalla filiazione, e non anche i rapporti che residuano tra i coniugi divorziati » (10). Ed è proprio l’affermata autonomia dell’art. 12-sexies l.d. dall’art. 570 c.p. quoad factum, che rende più complesso l’impegno dell’interprete. La punibilità della generica mancata corresponsione dell’assegno di divorzio, (6) Pret. Torino, 22 giugno 1977, in Dir. fam., 1978, p. 578 ed ivi, 1979, p. 126 ss., con nota critica di G. TRANCHINA, La mancata corresponsione dell’assegno di divorzio all’ex-coniuge di fronte all’art. 570 c.p. V. anche il commento, a tale decisione, di G. PUCCI, Mancata corresponsione dell’assegno periodico al coniuge divorziato: inadempimento civile o reato?, ivi, 1979, p. 131 ss. (7) In tal senso: Cass. pen., 30 aprile 1979, in Cass. pen., 1981, p. 1053 ss., con nota critica di F. UCCELLA, Sulla penalizzazione della mancata corresponsione all’ex-coniuge dell’assegno di divorzio, cit.; Cass. pen., 19 febbraio 1981, in Cass. pen., 1982, p. 1179, distingue le ipotesi in cui l’assegno è concesso in funzione assistenziale da quelle in cui ha carattere puramente risarcitorio, ritenendo ipotizzabile il reato soltanto nel primo caso. Trib. Palermo, 11 febbraio 1981, in Dir. fam., 1981, p. 559 ss., ritiene applicabile l’art. 570, secondo comma, c.p., nell’ipotesi di mancata corresponsione dell’assegno al coniuge che versi in istato di bisogno, dopo aver negato l’applicabilità dell’art. 388 c.p., sia per la diversità del bene giuridico tutelato da quest’ultima norma, sia per la specificità degli elementi costitutivi del reato. (8) Sez. un. pen., 26 gennaio 1985, in Cass. pen., 1985, p. 1342 e in Foro it., 1985, II, c. 537, con nota di E. QUADRI, Assegno di divorzio e tutela penale tra presente e futuro, cit. Già aveva negato l’applicabilità dell’art. 570 c.p., sulla base della mancanza del presupposto soggettivo del reato, costituito dalla qualità di coniuge, Cass. pen., 23 novembre 1983, in Foro it., 1984, II, c. 302 ss. e in Dir. fam., 1984, p. 442, con nota di F. DALL’ONGARO, Il secondo comma dell’art. 570 c.p. e la mancata corresponsione dell’assegno di divorzio. (9) Quanto affermato nella sentenza delle Sezioni Unite — sia sulla non applicabilità dell’art. 570 c.p., al coniuge divorziato, sia sul punto di ritenere sufficiente lo strumento civilistico di tutela dell’assegno — rispecchia l’orientamento dottrinale dominante, secondo cui il nuovo modello familiare proposto dal legislatore civile non tollera una troppo ampia criminalizzazione dei comportamenti tenuti nell’ambito familiare. Sul punto, v.: N. BARTONE, La riforma della legislazione sul divorzio: aspetti penali, cit., c. 152; G. CONTENTO, Riforma del diritto di famiglia e disciplina penalistica dei rapporti familiari, in Dir. fam., 1979, p. 167 ss.; F. FIERRO CENDERELLI, Profili penali del nuovo regime dei rapporti familiari, Milano, 1984, p. 145 e, della stessa A., Violazione degli obblighi di assistenza familiare, cit., p. 778; E. QUADRI, Assegno di divorzio e tutela penale tra presente e futuro, cit., c. 540; V. SCORDAMAGLIA, Prospettive di nuova tutela penale della famiglia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 366 ss., spec. p. 374; F. UCCELLA, Sulla penalizzazione della mancata corresponsione all’ex-coniuge dell’assegno di divorzio, cit., p. 1054; P. ZAGNONI BONILINI, La tutela penale del coniuge divorziato, cit., p. 865 ss., e p. 873. (10) Così nei lavori preparatori, che possono leggersi anche in L. BARBIERA, Il divorzio dopo la seconda riforma, Bologna, 1988, p. 165.
— 1114 — senza alcun limite quantitativo all’omissione (11), rispetto alla punibilità del comportamento consistente nel far mancare i soli mezzi di sussistenza, la maggiore tutela apprestata, quindi, all’ex-coniuge ed ai figli di genitori divorziati, rispetto a quella offerta al coniuge separato ed ai figli minori nel momento della separazione, la previsione di tutela per i figli maggiorenni, ex art 12-sexies l.d., che non sono, viceversa, tutelati, ex art. 570, n. 2, secondo comma, c.p. (12), ha fatto sorgere il dubbio, che la nuova disciplina si risolva in un’irrazionale discriminazione, sotto il profilo della tutela penale, tra la posizione del separato e quella del divorziato. Sembra che, in presenza di rapporti conseguenti alla dissoluzione della famiglia, la tutela sia maggiore rispetto a quella accordata a rapporti ancora radicati in un vincolo matrimoniale persistente. Investita della questione di legittimità costituzionale in relazione al principio di eguaglianza, la Corte costituzionale ne ha dichiarata l’infondatezza, sulla base della non omogeneità delle situazioni, tutelando, l’art. 12-sexies l.d., un rapporto di credito, e l’art. 570 c.p. un rapporto personale tuttora in atto (13). La motivazione della Corte Costituzionale lascia perplessa la dottrina (14), che non può non rilevare lo squilibrio, per eccesso, della tutela penale accordata al soggetto beneficiario dell’assegno di divorzio rispetto a quella concessa al titolare dell’assegno di separazione, e interrogarsi su quale sia la sanzione riferibile alla violazione dell’art. 12-sexies l.d., dato il generico rinvio all’art. 570 c.p. Il dubbio relativo a quale delle due comminatorie edittali si riferisca l’art. 12sexies l.d., ha stimolato una censura di incostituzionalità con riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost. Secondo la Corte Costituzionale, tuttavia, « essendo due soltanto, e ben nettamente contrapposte, le possibilità interpretative cui dà luogo il rinvio dell’art. 12-sexies l.d., non di indeterminatezza si tratta, ma di un normale dubbio interpretativo. Scegliere la soluzione preferibile alla stregua del sistema, è compito specifico dell’interprete, e, quindi, nella specie del giudice ordinario, in conformità a quanto accade ogni volta in cui si debbano applicare disposizioni dalla lettura non pacificamente univoca » (15). Pur non persuadendo l’argomentazione della Corte Costituzionale, in quanto sembra che la garanzia sancita dall’art. 25, secondo comma, Cost., in ordine alla predeterminazione legale della pena, imponga al legislatore di definire la sanzione in modo che non siano consentiti dubbi, l’interprete deve assumere il non facile (11) La dottrina non ha mancato di sottolineare la indeterminatezza della fattispecie, concretandosi la condotta nella mancata somministrazione dell’assegno, e l’angusto spazio di indagine lasciato al giudice penale, se si considera che la determinazione di quanto dovuto come assegno spetta unicamente al giudice del divorzio. Problemi interpretativi si pongono, ad esempio, nelle ipotesi di sopravvenuta impossibilità ad adempiere, nel caso di irregolarità o ritardi nelle prestazioni, nell’ipotesi di dichiarazione di fallimento del coniuge obbligato a somministrare l’assegno. Su tali questioni, si vedano: T. DELOGU, op. cit., p. 541 ss.; T. PADOVANI, op. cit., p. 539; P. ZAGNONI BONILINI, op. cit., pp. 882-884. (12) Sulla differente tutela riservata, dagli artt. 12-sexies l.d. e 570 c.p., ai figli minori ed a quelli di età maggiore, si rinvia a P. ZAGNONI BONILINI, op. cit., p. 885 ss. (13) Corte Cost., 31 luglio 1989, n. 472, cit., p. 379. La sentenza può leggersi anche in Foro it., 1990, I, c. 1815 ss., con nota di E. QUADRI, Legittimità costituzionale della nuova tutela penale del divorziato, e in Dir. fam., 1990, p. 5 ss. con nota di F. DALL’ONGARO, Sulla dubbia legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della vigente legge sul divorzio. (14) Critico, nei confronti della sentenza della Corte, è T. PADOVANI, op. cit., p. 537, che, partendo dalla diversità delle situazioni, affermata dalla Corte, si chiede se sia plausibile che la tutela assuma dimensioni inverse rispetto alla « consistenza » delle situazioni tutelate: maggiore là dove difetta un sostrato familiare, e minore là dove esso ricorre. Si vedano, altresì, le considerazioni di T. DELOGU, op. cit., pp. 536-537, che si augura un nuovo intervento della Corte Costituzionale volto a modificare il suo primo giudizio, o una modifica da parte del legislatore per rimuovere tale situazione di disparità. (15) Così Corte Cost., 31 luglio 1989, n. 472, cit. Una valutazione critica della decisione della Corte, su tale punto, si veda in T. PADOVANI, op. cit., p. 541.
— 1115 — compito di identificare la pena applicabile in caso di violazione dell’art. 12-sexies l.d. Sul punto, a tutt’oggi, non può dirsi si sia giunti, in dottrina, ad un risultato univoco. 3. La soluzione, avanzata da alcuni interpreti (16), sembra relativamente semplice, se si considera il capoverso dell’art. 570 c.p. come circostanza aggravante dell’ipotesi semplice di reato prevista al primo comma della stessa norma (17), in quanto il richiamo, operato dall’art. 12-sexies l.d., non può essere che alla pena prevista nell’ipotesi semplice, e quindi alla reclusione in alternativa alla multa. L’idea, che le fattispecie contemplate dal secondo comma dell’art. 570 c.p. costituiscano circostanze aggravanti, però, è molto contrastata (18), e non sembra potersi accettare. Mettendo, infatti, a confronto gli elementi strutturali della pretesa fattispecie base con quelli delle pretese fattispecie circostanziate, risulta subito evidente, che, fra quella e queste, manca quel rapporto di specialità che deve sussistere tra fattispecie semplice e fattispecie aggravate, e che consiste nel fatto che i dati aggravanti devono costituire esclusivamente una specificazione, un particolare modo di essere, una variante della gravità offensiva, di elementi già presenti nel reato semplice. Ciò non è nell’art. 570 c.p.; infatti, le ipotesi di cui al secondo comma presentano elementi strutturali che non figurano in quella di cui al primo comma: maggiore ampiezza della cerchia degli autori e delle persone offese; diversità di contenuti della fattispecie di malversazione e dilapidazione dei beni del figlio minore o del coniuge rispetto a quella di cui al primo comma; differenti interessi costituenti l’oggetto giuridico tutelato; diverse modalità esecutive previste per la condotta tipica di ogni fattispecie. Tutto ciò induce a concludere nel senso, che l’articolo in esame contempli tre titoli delittuosi autonomi (19), con la evidente conseguenza, che gli elementi costitutivi del reato autonomo di « mancata prestazione dei mezzi di sussistenza » possono ricavarsi soltanto, per il rispetto del principio di tassatività, dalla specifica disposizione che lo prevede, appunto il n. 2 del capoverso dell’art. 570 c.p., sicchè non avrebbero alcuna rilevanza gli elementi descritti nelle altre disposizioni dell’art. 570 c.p., relative a differenti ipotesi di reato. Ci si avvede agevolmente, che, se tale conclusione è esatta, la scelta della sanzione da riferire alla violazione dell’art. 12-sexies l.d. diviene più difficoltosa, in quanto si deve optare per la sanzione prevista, in una delle diverse, autonome, (16) A. LANZI, op. cit., p. 153. Ritiene che il capoverso dall’art. 570 c.p. preveda circostanze aggravanti, A. COSSEDDU, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Noviss. Dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, p. 1137 ss., spec. p. 1141. (17) La tesi, che non ha trovato seguito in giurisprudenza, è stata, però, recentemente accolta da Cass. pen., 23 gennaio 1997, in Cass. pen., 1998, p. 2024, n. 1149. (18) V.: F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, XII ed. a cura di L. Conti, Milano, 1996, pp. 471-472; T. DELOGU, op. cit., p. 382; F. FIERRO CENDERELLI, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, cit., p. 778; S. LARIZZA, Violazione degli obblighi di assistenza familiare: i limiti della tutela penale, nota a Cass. pen., 14 giugno 1996, in Cass. pen., 1997, n. 1510, p. 2723; V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, aggiornato da P. Nuvolone e G.D. Pisapia, VII, Torino, 1984, p. 886; A. VALLINI, La violazione dei c.d. « obblighi di assistenza materiale » e l’errore inerente a fattispecie connotate da disvalore etico, nota a Cass. pen., 26 aprile 1995, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 935, spec. pp. 938-939. (19) La soluzione, prospettata da una parte della dottrina — in primis, G.D. PISAPIA, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, p. 668 — e suffragata da alcune decisioni giurisprudenziali, tesa a ravvisare, nelle articolate previsioni dell’art. 570 c.p., non già una pluralità di distinte ipotesi incriminatrici, bensì tre distinte modalità di realizzazione di un’unica fattispecie di reato, d’altra parte, non convince. I dubbi avanzati sulla correttezza di tale lettura dell’art. 570 c.p., sono numerosi; non ultimo, quello basato sulla diversa pena prevista per la fattispecie di cui al primo comma rispetto a quelle previste per le fattispecie di cui al secondo comma: quando un unico titolo delittuoso comprende in sé più fattispecie alternative, la pena è la medesima. Sul punto, in dottrina, v. T. DELOGU, op. cit., p. 381; S. LARIZZA, op. cit., p. 2724; A. VALLINI, op. cit., pp. 938-939.
— 1116 — ipotesi di reato sanzionate all’art. 570 c.p., e non è ammissibile il riferimento alla ipotesi prevista, dal primo comma, come fattispecie base. 4. Parte della dottrina (20), pur partendo dal presupposto che le fattispecie previste nell’art. 570 c.p. diano luogo a titoli autonomi di reato, ritiene applicabile alla fattispecie di cui all’art. 12-sexies l.d. la pena prevista dal primo comma, vale a dire la comminatoria alternativa. Sulla base della considerazione che il coniuge separato è tutelato, penalmente, soltanto nel caso di mancata prestazione dei mezzi di sussistenza, mentre al divorziato la tutela è apprestata qualora non venga corrisposto l’assegno postmatrimoniale, a prescindere dalle condizioni economiche in cui versa, si afferma che, in presenza di rapporti conseguenti alla dissoluzione della famiglia, la tutela è maggiore rispetto a quella accordata a rapporti ancora radicati nel matrimonio. Orbene, se si applicassero le pene previste dall’art. 570, secondo comma, c.p., la stessa sanzione sarebbe posta a tutela di situazioni eterogenee, ma sottoposte ad un trattamento inverso rispetto al loro intrinseco valore: più rigido nel caso di famiglia ancora sussistente, in quanto la tutela è circoscritta ai soli mezzi di sussistenza, più ampio nel caso di divorzio, perché la tutela è estesa all’intero assegno stabilito a norma degli artt. 5 e 6 l.d. L’attribuire a tali differenti comportamenti un identico trattamento sanzionatorio, pertanto, sarebbe « assurdo » (21), per cui, secondo tale dottrina, non si può che concludere nel senso dell’applicabilità, in caso di violazione dell’art. 12-sexies l.d., della sanzione prevista dal primo comma dell’art. 570 c.p. Solo così operando, all’eterogeneità della situazione di riferimento corrisponderebbe una diversità di sanzioni, tale da escludere l’irragionevole parificazione del trattamento punitivo (22). 5. Tale assunto non convince, se si parte dal presupposto che l’art. 570 c.p. preveda tre distinte ipotesi di reato — non potendo, il richiamo all’art. 570 c.p., essere fatto che in ragione della stessa ratio: tutela dei diritti di natura patrimoniale del coniuge divorziato e separato e quindi alla fattispecie prevista dall’art. 570, n. 2, cpv. c.p. — e sembra piuttosto un escamotage dell’interprete per ovviare al rilevante squilibrio per eccesso, della tutela penale accordata al titolare dell’assegno di divorzio rispetto a quella concessa al beneficiario dell’assegno da separazione personale. Allo scopo di rendere omogenea l’applicazione delle due norme, si è anche prospettata, in dottrina (23), una suggestiva lettura dell’art. 12-sexies l.d.: il riferimento operato da tale disposizione all’art. 570 c.p., non sarebbe soltanto quoad poenam, ma anche quoad factum. L’innesto, sul tronco dell’art. 570, secondo comma, n. 2, c.p., della nuova previsione normativa, renderebbe applicabile anche all’ex-coniuge il delitto di violazione degli obblighi di assistenza materiale, con la conseguenza, che anche per il coniuge divorziato l’importo dell’assegno stabilito dal giudice civile non acquista decisiva rilevanza ai fini della ricorrenza del reato (20) T. PADOVANI, op. cit., p. 536 ss. e F. FIERRO CENDERELLI, op. cit., pp. 778-779. Sembrano propendere per tale soluzione, anche E. QUADRI, La nuova legge sul divorzio, I, cit., p. 164 e A. PISANI, Sulla tutela penale della mancata corresponsione all’ex-coniuge dell’assegno di divorzio, cit., p. 386. (21) Così si esprime F. FIERRO CENDERELLI, op. cit., p. 779. (22) T. PADOVANI, op. cit., p. 541, sottolinea come l’opzione in favore del quadro edittale più grave dovrebbe poggiare sull’analogia contenutistica tra la fattispecie dell’art. 570, secondo comma, n. 2, c.p., e quella dell’art. 12-sexies l.d. Si tratterebbe, però, di analogia in malam partem, come tale vietata in diritto penale. Qualora, invece, si sostenesse che non intervenga una vera integrazione analogica, ma solo un criterio interpretativo basato sull’affinità sostanziale delle figure criminose, nel contesto di un’opzione imposta dal generico riferimento legislativo, l’Autore replica che tale scelta non può essere risolta, « incrementando » la gravità di una sanzione, in via esegetica. (23) A. GIUSTI, Commento all’art. 12-sexies l.d., cit., p. 1030 ss.
— 1117 — in questione; ciò che è rilevante, è l’accertamento in concreto sia della situazione di assoluta necessità del soggetto passivo, sia della mancata prestazione dei mezzi di sussistenza, l’ammontare dei quali può anche non coincidere con il quantum dell’assegno di divorzio, così come liquidato in sede civile. L’applicazione delle sanzioni previste dal secondo comma dell’art. 570 c.p. sarebbe, in tal caso, scontata. Tale lettura dell’art. 12-sexies l.d. sembra però, oggi, improponibile, prevedendo la disposizione un’autonoma fattispecie incriminatrice, compiutamente delineata nei suoi requisiti tipici ed irriducibile, sul piano dei contenuti lesivi, a quella descritta dall’art. 570 c.p. (24). 6. Corretta, invece, sembra la soluzione adottata dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza che si annota, vale a dire, l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 570, secondo comma, c.p., trattandosi di violazione di obbligo di natura economica, non di assistenza morale. La pur sintetica motivazione lascia chiaramente intendere come, a parere della Corte, l’art. 570 c.p. preveda più ipotesi di reato distinte, e sia quindi necessario, attraverso una interpretazione sistematica, determinare a quale di tali fattispecie l’art. 12-sexies l.d. faccia riferimento. La Corte sembra aderire a quella dottrina (25), che, partendo dalla considerazione che il giudice, ogni volta che deve applicare ad una fattispecie concreta una norma penale incriminatrice, deve, interpretando la norma, determinare gli elementi fondamentali della fattispecie legale ed esaminare se essi ricorrano nella fattispecie concreta, così che questa possa essere sussunta sotto quella legale, e soltanto dopo questo controllo, applicare la pena prevista nella fattispecie legale, stabilendone in concreto l’ammontare, afferma non essere diverso, nel caso che qui interessa, il procedimento logico da seguire. Il giudice non dovrà far altro che percorrere il procedimento: interpretazione-sussunzione, nei confronti di ognuna delle fattispecie legali contenute nella norma alla cui pena rinvia l’art. 12-sexies l.d., per stabilire in quale di esse la fattispecie concreta possa essere sussunta. Solo così procedendo il giudice applicherà la pena prevista dal legislatore, in conformità con quanto stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost. Seguendo tale procedimento, se si esamina in quale delle tre fattispecie previste dall’art. 570 c.p. possa venire sussunto l’inadempimento dell’ex-coniuge, non si può concludere se non nel senso, che possa esserlo soltanto sotto la fattispecie descritta dall’art. 570, n. 2, secondo comma, c.p., e, quindi, non si potrà che applicare, in caso di violazione dell’art. 12-sexies l.d., la pena prevista dal secondo comma dell’art. 570 c.p., vale a dire, cumulativamente, la pena detentiva e quella pecuniaria. A chi obietta (26) la impraticabilità di tale soluzione, poggiando, l’opzione in favore del quadro edittale più grave, sull’analogia contenutistica tra la fattispecie dell’art. 570, n. 2, secondo comma, c.p., e quella dell’art. 12-sexies l.d., e trattandosi di analogia in malam partem, si può ribattere che non di analogia si tratta, perché nella specie non esiste il presupposto indefettibile dell’applicazione analogica, la lacuna normativa da colmare, essendo la regola, che il giudice deve seguire per determinare la sanzione, indicata dal legislatore attraverso il rinvio quoad poenam (27). Va rammentato, inoltre, che anche la lettera dell’art. 12-sexies l.d. sembra confermare la conclusione, a cui si è giunti attraverso l’interpretazione sistematica proposta, essendo il rinvio quoad poenam, operato dalla norma, « alle pene previ(24) T. PADOVANI, op. cit., p. 540. (25) T. DELOGU, op. cit., p. 537 ss. (26) T. PADOVANI, op. cit., p. 541. (27) T. DELOGU, op. cit., p. 540.
— 1118 — ste dall’art. 570 c.p. », ove l’uso del plurale non può che riferirsi alla applicazione congiunta di reclusione e multa. 7. Questa soluzione, che sembra preferibile sia in base all’interpretazione sistematica, sia in base alla lettera della disposizione, può essere avvalorata da qualche ulteriore considerazione, deducibili dal confronto tra l’art. 12-sexies l.d. e l’art. 570 c.p. La tutela penale che l’art. 12-sexies l.d. garantisce al coniuge divorziato, ai figli minori ed a quelli maggiorenni, economicamente non autosufficienti, potendosi estendere ben oltre i mezzi di sussistenza — coprendo l’intera obbligazione pecuniaria integrante gli assegni di cui agli artt. 5 e 6 l.d. — è maggiore rispetto a quella offerta, dall’art. 570, n. 2 del secondo comma, c.p. al coniuge separato ed ai discendenti minori (28), essendo, quest’ultima, circoscritta ai soli mezzi di sussistenza. Tutto ciò può essere criticabile in quanto poco rispondente al criterio di proporzione, ma è innegabile abbia un ben preciso significato: il legislatore ha riconosciuto peculiare importanza all’assegno di divorzio, quale espressione del vincolo di solidarietà, post-coniugale, ed ha inteso tutelarlo con particolare rigore; rigore, che trova coerente espressione nelle sanzioni previste dall’art. 570, secondo comma, c.p. (29). Alla stessa conclusione portano alcune considerazioni sull’oggetto giuridico tutelato dall’art. 12-sexies l.d. Il tentativo, infatti, di ricercare l’oggetto di tutela al di fuori di quella solidarietà familiare che non viene meno neanche con lo scioglimento del matrimonio, sembra poco convincente. Poco appagante è la tesi secondo cui l’art. 12-sexies l.d. prevede un delitto contro l’amministrazione della giustizia (30), sia perché a tale conclusione non sembrano condurre le ragioni politiche e giuridiche dell’incriminazione, sia perché nessun rapporto sembra sussistere tra le condotte descritte negli artt. 12-sexies l.d. e 388 c.p. (31). L’identificare, d’altra parte, l’oggetto giuridico tutelato dall’art. 12-sexies l.d. in un rapporto di credito (32) — così come sembra emergere dai lavori preparatori (33) e confermato dalla Corte Costituzionale (34) — è passibile di molteplici obiezioni. Innanzitutto, non si comprende la criminalizzazione del mancato pagamento di un debito, essendo tale l’assegno di divorzio, quando altri debiti, con effetti egualmente o maggiormente gravi nel contesto sociale, non sono (28) Quanto ai figli minori, si pone anche la questione dei possibili rapporti tra le due disposizioni, per la parte in cui possono risultare concorrenti. I figli minori di genitori divorziati, infatti, sono tutelati sia dall’art. 570, n. 2, secondo comma, c.p. non essendosi mai dubitato che tale norma sanzioni l’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza ai discendenti, di età minore, di genitori divorziati, sia dall’art. 12-sexies l.d., che sanziona la mancata corresponsione dell’assegno di cui all’art. 6 l.d. Le due fattispecie, dunque, risultano astrattamente applicabili allo stesso fatto, quando il comportamento dell’obbligato sia tale da far mancare ai figli minori anche i mezzi di sussistenza. Il problema sembra risolvibile sulla base del concorso apparente di norme. Sulle diverse posizioni dottrinali al riguardo, v. P. ZAGNONI BONILINI, La tutela penale del coniuge divorziato, cit., p. 886, note 57-58. Diversa la questione quanto ai figli di età maggiore, che non sono tutelati dall’art. 570, n. 2 del secondo comma, c.p. e lo sono invece dall’art. 12-sexies l.d., qualora non abbiano acquisito, incolpevolmente, autonomia patrimoniale, e fino al conseguimento della stessa. La differente tutela per i figli, nei confronti dei quali nulla dovrebbe risultare modificato per effetto della pronuncia di divorzio, ha fatto dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies l.d. messo a confronto con l’art. 570 c.p., per il diverso trattamento stabilito nei confronti del genitore divorziato e di quello separato. Sulla poco convincente soluzione adottata da Corte Cost., 31 luglio 1989, n. 472, cit., v. P. ZAGNONI BONILINI, op. cit., p. 887. (29) A soluzione opposta giunge parte della dottrina. Cfr. supra, par. 4, testo e nota 20. (30) A. LANZI, Commento all’art. 12-sexies l.d., cit., p. 154; G. SERVETTI, La riforma della legge sul divorzio, cit., p. 981. (31) Sul punto, sia consentito rinviare alle considerazioni svolte nel mio La tutela penale del coniuge divorziato, cit., pp. 877-878. (32) In dottrina, E. QUADRI, La nuova legge sul divorzio, cit., p. 157. Sembra aderire a tale tesi anche F. FIERRO CENDERELLI, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, cit., p. 779. (33) V. supra, nota 10. (34) Corte Cost., 31 luglio 1989, n. 472, cit., p. 379.
— 1119 — ancorati a garanzia penale (35). L’inadempimento di un’obbligazione, soltanto se assuma connotazioni particolari — o per le modalità di realizzazione, si pensi all’insolvenza fraudolenta, o per la natura della prestazione, si pensi ad alcuni debiti fiscali o previdenziali — può essere rilevante penalmente. Così non è per l’assegno di divorzio. Per di più, il relativo credito è già particolarmente garantito, sol che si consideri che, alla normale tutela civile, l’art. 8 l.d. aggiunge una serie di misure civili, lato sensu preventive e repressive (36). Confrontando, inoltre, le norme incriminatrici previste dagli artt. 12-sexies l.d. e 570, n. 2 del secondo comma, c.p., e le situazioni tutelate dalle stesse, tale prospettazione non può che risultare irragionevole. Appare azzardato, invero, reputare che un diritto di credito possa essere tutelato maggiormente rispetto agli obblighi di assistenza materiale imposti dal matrimonio. Ne discende, che, se il bene, che l’art. 12-sexies l.d. si propone di garantire, non si può individuare se non nella solidarietà familiare (37), esso non è dissimile da quello tutelato dall’art. 570, secondo comma, c.p., e ciò sembra confermare la scelta sanzionatoria. Merita ricordare, infine, che le critiche, che non si possono non condividere, con cui la dottrina (38) ha accolto la scelta di prevedere come reato l’inadempimento dell’assegno di divorzio, non hanno scoraggiato i compilatori del progetto del nuovo codice penale (39), che hanno previsto nella stessa fattispecie incriminatrice la punibilità della violazione degli obblighi di assistenza economica, « consistente nel far mancare i mezzi di sussistenza... al coniuge anche se separato o al divorziato... », correggendo quelle differenze di tutela presenti oggi, ma ponendo sullo stesso piano il coniuge, anche se separato, ed il divorziato, a conferma di una troppo marcata tutela penale della famiglia e di una troppo ampia criminalizzazione dei comportamenti familiari, che mal si concilia sia con il modello familiare proposto dal legislatore civile (40), sia, in una prospettiva più generale, con la tendenza a considerare la tutela penale come extrema ratio (41). PIERA ZAGNONI BONILINI Ricercatore confermato di Diritto Penale nell’Università di Parma
(35) Avanzano tale dubbio: A. GIUSTI, op. cit., p. 1029; A. LANZI, op. cit., p. 154; T. PADOVANI, op. cit., p. 535. (36) In tal senso, v. T. PADOVANI, op. cit., p. 536. (37) In dottrina, sono numerose le posizioni in tal senso, pur sulla base di considerazioni in parte diverse. Si vedano: T. PADOVANI, op. cit., pp. 535-536; A. GIUSTI, op. cit., p. 1030; T. DELOGU, op. cit., pp. 533-534; P. ZAGNONI BONILINI, op. cit., p. 881. (38) In tal senso, si vedano: F. FIERRO CENDERELLI, op. cit., p. 778; A. GIUSTI, Commento all’art. 12-sexies l.d., cit., p. 1027; S. LARIZZA, Violazione degli obblighi di assistenza familiare: i limiti della tutela penale, cit., p. 2728; E. QUADRI, La nuova legge sul divorzio, cit., p. 153 ss.; P. ZAGNONI BONILINI, La tutela penale del coniuge divorziato, cit., p. 865 ss. (39) Si veda il testo dell’art. 90, in La riforma del codice penale, in Documenti Giustizia, Roma, 1992, n. 3, p. 432. (40) Si rinvia a P. ZAGNONI BONILINI, La tutela penale del coniuge divorziato, cit., p. 865 ss. (41) Il dibattito dottrinale sul punto è ricco; v.: F.C. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 453 ss.; T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, ivi, 1992, p. 419 ss.; L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni in tema di « crisi della sanzione »: la diaspora del sistema commisurativo, ivi, 1994, p. 419; G. NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, ivi, 1995, p. 315 ss.; G. DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, ivi, 1996, p. 21 ss.
— 1120 — CASSAZIONE PENALE — Sez. II — 27 febbraio 1997, n. 172 Pres. Consoli — Ric. Zampella Circostanze del reato - Concessione delle attenuanti generiche - Silenzio dell’imputato - Diniego (c.p.artt. 62-bis e 133). Ai fini della concessione o del diniego della circostanza delle attenuanti generiche è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p. quello che ritiene prevalente e atto a consigliare o meno la concessione del beneficio (1). Il silenzio dell’imputato può essere valutato sul piano del comportamento processuale, ai fini della concessione del beneficio previsto dall’art. 62-bis c.p., sintomo di negativa personalità o di capacità a delinquere (2). (Omissis). — Ricorre per Cassazione lo Zampella deducendo: (Omissis). b) Violazione degli artt. 606, lett. b) ed e) c.p.p., 62-bis, 81, 132 e 133 c.p. Per il ricorrente, i giudici del secondo grado avrebbero ‘‘illogicamente ed immotivatamente negato la concessione delle attenuanti generiche ‘per il precedente penale specifico e la descritta condotta processuale’ ’’; e tale illogicità conseguirebbe al fatto che l’imputato ha subito solo una condanna nel 1988 e non ha altri precedenti giudiziari, e nella circostanza che dal suo silenzio non avrebbero potuto essere tratti argomenti contro di lui, atteso che trattasi di espressione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito. (Omissis). Quanto alla prima parte del secondo motivo di ricorso, osserva la Corte che i giudici del secondo grado hanno fornito adeguata motivazione in ordine alla mancata concessione, in favore dello Zampella, del beneficio di cui all’art. 62-bis c.p.; essi hanno, infatti, affermato che ‘‘l’imputato, per il precedente specifico riportato e la descritta condotta processuale, non merita le circostanze attenuanti generiche’’. « Ora, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche basta che il giudice del merito prenda in esame quello tra gli elementi indicati nell’art. 133 c.p., che ritiene prevalente ed atto a consigliare o meno la concessione del beneficio; ed anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti stesse ». Né è sostenibile che il silenzio dell’imputato non possa essere valutato sul piano del comportamento processuale ai fini della concessione del beneficio previsto dall’art. 62-bis c.p.; ed infatti, sempre secondo una giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio aderisce, ‘‘l’orientamento penale nel riconoscere all’imputato il diritto al silenzio ed alla menzogna che non sconfini nella calunnia nonché alla reticenza sul proprio operato, dà al giudice la facoltà di valutare il comportamento tenuto durante lo svolgimento del processo; ne consegue che è legittimo il diniego delle circostanze attenuanti generiche e della declaratoria di prevalenza delle medesime motivato sulla negativa personalità dell’imputato stesso o sulla capacità a delinquere desunta dal descritto comportamento processuale’’ (Cass. pen., sez. II, 21 marzo 1990, n. 10891, RV 185019). (Omissis).
— 1121 — (1-2)
Le attenuanti generiche e il silenzio dell’imputato (*).
1. La Corte di Cassazione in poche, frettolose, battute liquida la questione estremamente delicata sottoposta al suo esame: in linea con un orientamento giurisprudenziale sostanzialmente consolidato, conferma il provvedimento impugnato nella parte in cui aveva deciso il diniego delle circostanze attenuanti generiche, in relazione alla condotta processuale tenuta dall’imputato, avvalsosi della facoltà di non rispondere, nel corso del processo. Facoltà che l’ordinamento espressamente riconosce all’art. 64, comma 3o, c.p.p., in base al quale « prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che, salvo quanto disposto dall’art. 66, comma 1o, ha facoltà di non rispondere e che, se anche non risponde, il procedimento seguirà il suo corso ». In particolare, si legge nella parte motiva della pronuncia, che ‘‘fedelmente’’ riproduce il testo di altra precedente decisione: « l’ordinamento penale nel riconoscere all’imputato il diritto al silenzio e alla menzogna che non sconfini nella calunnia nonché alla reticenza sul proprio operato, dà al giudice la facoltà di valutare il comportamento tenuto durante lo svolgimento del processo; ne consegue che è legittimo il diniego delle circostanze attenuanti generiche e della declaratoria di prevalenza delle medesime motivato sulla negativa personalità dell’imputato stesso o sulla capacità a delinquere desunta dal descritto comportamento processuale ». L’affermazione per le premesse su cui si fonda e le conseguenze che implica, va ben oltre la portata del singolo caso, finendo per involgere e ‘‘capovolgere’’ i fondamenti stessi del processo penale. Con un argomentare solo apparentemente ‘innocente’, infatti, i giudici di legittimità spazzano via i secoli di lotte combattute per l’affermazione di un processo nel quale l’imputato da oggetto in balìa dell’imperscrutabile volontà di un giudice-inquisitore, diventa soggetto al pari dell’accusa e contribuisce con questa alla elaborazione della « verità » processuale da sottoporre al vaglio del giudice. In una parola, per l’affermazione del ‘giusto processo’, con tutte le molteplici conseguenze che ne discendono come naturali corollari in termini di garanzie processuali: principio di oralità-immediatezza; principio del contraddittorio; diritto di difesa; presunzione di non colpevolezza. In uno scenario processuale nel quale l’imputato non più oggetto da utilizzare come strumento ad eruendam veritatem, in vista di una decisione da raggiungere a qualunque costo, ma del quale può essere soltanto — è — parte (dunque non è l’imputato ad essere al servizio del processo, ma è il processo che è al servizio dell’imputato), il diritto al silenzio si configura quale irrinunciabile aspetto del diritto di difesa che per risultare effettivo, deve essere necessariamente garantito in tutte le sue possibili modalità di estrinsecazione. Ma la previsione del diritto al silenzio si lascia cogliere in un valore ed una portata ancora più pregnanti se, sganciata per un attimo dal principio nemo tenetur se detegere di cui costituisce diretta applicazione, viene posta in relazione con lo schema triadico del garantismo processuale accusatorio, dove per la rigida separazione dei ruoli tra gli attori del processo e delle funzioni loro assegnate, è ontologicamente esclusa « qualunque collaborazione dell’imputato con l’accusa che sia il frutto di captazioni o patteggiamenti tanto più se svolti nell’ombra » (1). Si vuole dire cioè che per essere compreso nella sua integralità, il diritto al silenzio deve essere considerato in una duplice prospettiva: la prima più stretta(*) A Fabiola, amica silenziosa dei giorni senza sole. (1) L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1992, 624.
— 1122 — mente attinente, appunto, al diritto di difesa dell’imputato, cui l’ordinamento deve garantire la possibilità di praticare la linea difensiva ritenuta più idonea, con il solo limite rappresentato dai delitti di calunnia e di autocalunnia. Nella seconda, invece, il diritto al silenzio si delinea come il segnale indiretto, ma ugualmente significativo, della scelta fatta a monte dal sistema di ripudiare qualunque forma di contrattazione e di scambio tra le parti o tra il giudice e l’imputato. « Purtroppo la pratica della contrattazione e dello scambio tra confessione e delazioni da una parte e impunità e riduzioni di pena dall’altra è sempre stata una tentazione ricorrente nella storia del diritto penale: della legislazione e più ancora della giurisdizione... Il solo modo per sradicarla sarebbe l’assoluto divieto legale di accordare qualunque rilevanza penale al comportamento processuale dell’imputato, anche ai fini della della determinazione giudiziaria della pena » (2), entro il cosiddetto Spielraum. Ora, non c’è dubbio che quando, come nel caso in esame, l’esercizio del ius tacendi viene considerato sfavorevolmente agli effetti della valutazione della personalità dell’imputato sul piano del diritto penale sostanziale ai sensi dell’art. 133 c.p., si finisce in definitiva proprio con il sanzionare la mancata collaborazione dell’imputato stesso, il quale rifiutandosi di rispondere alle domande dell’accusa, impedisce al P.M. di trarre dall’interrogatorio elementi in qualche modo utili anche alla elaborazione della sua tesi. Condividere la chiave di lettura sostenuta dalla Suprema Corte conduce a risultati fuorvianti, perché in profonda contraddizione con i principi del sistema: anzitutto, si introduce una forma subdola di intimidazione nei confronti dell’imputato, visto che, di fatto, gli si fa ‘‘pagare a caro prezzo’’ il compimento di una scelta che, invece, è nel suo pieno diritto operare per espressa previsione di legge; inoltre, si rinnega la valenza dell’interrogatorio quale strumento di difesa. Il tutto sullo sfondo di una non ammessa, ma necessariamente implicita, tendenza volta ad assecondare, anche a costo di forzare il dato normativo, quell’articolato e complesso fenomeno della cosiddetta legislazione premiale che ormai percorre trasversalmente il sistema, penale e processuale penale, con una serie di norme che, ruotando intorno al binomio premio-delazione, risultano in vario modo finalizzate ad incentivare la collaborazione probatoria dell’imputato con l’autorità giudiziaria (3). La sentenza considerata, come anticipato, si inserisce nel quadro del filone giurisprudenziale che, maturato già sotto il vigore del codice abrogato, ha progressivamente contribuito a svilire la funzione di garanzia del diritto al silenzio. Nel caso che qui interessa, la Corte di Cassazione sulla base delle affermazioni riportate, agevolmente approda alla conclusione criticata attraverso il collegamento con l’ultimo dei criteri indicati dall’art. 133, comma 2o, c.p.. Tale norma, come è noto, include tra gli indici da cui desumere la capacità a delinquere, anche la condotta contemporanea o susseguente al reato; ed è proprio nello specifico contesto di tale elemento che i giudici di legittimità ritengono di poter attribuire (2) Ancora L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, cit., 625. (3) Si vedano al riguardo le acute osservazioni di G. INSOLERA, Omnis tenetur se detegere?, in Crit. dir., 1997, 64 ss., che nel titolo volutamente provocatorio dato al suo scritto, stigmatizza l’involuzione degenarativa prodotta nell’ordinamento dalla legislazione premiale che, da fenomeno dell’« emergenza », è diventato ordinario criterio-guida di politica criminale, sovvertendo i principi del sistema. Secondo l’Autore, « sono state in particolare le sentenze costituzionali nn. 254 e 255 del 1992 a congegnarsi in modo esemplare con l’inarrestabile espandersi della delazione premiata. A prescindere dal loro contenuto specifico, deleterio per la struttura accusatoria, esse infatti danno la prevalenza ad una finalità di ricerca della verità liberata da metodi legali di accertamento e convalidazione ». Si sottolinea, ancora, in questa prospettiva, il nesso indissolubile che lega il dilagare della delazione premiata alla signoria del P.M.: « il peso della prima nel processo, con la pratica vanificazione del diritto di difesa, è direttamente proporzionale ai privilegi accordati al secondo nel simulacro di un rito accusatorio ».
— 1123 — rilevanza al silenzio dell’imputato, che evidentemente reputano idoneo a sostanziare il parametro fissato ex lege. Se ai fini della eventuale applicazione delle « generiche » non può essere escluso a priori il ruolo che può esercitare il comportamento processuale dell’imputato da valutarsi in riferimento alla condotta tenuta dopo la commissione del reato, e in particolare durante il processo, tuttavia è con estrema cautela che si dovrà procedere in tal senso: infatti, è una via questa che può prestarsi ad un indiretto ma pericoloso condizionamento del diritto di difesa. Il problema, allora, diventa quello di delineare il contenuto del comportamento processuale dell’imputato che sia suscettibile di essere discrezionalmente valutato dal giudice, senza però che ciò comporti una lesione della garanzia sancita costituzionalmente. Per giungere ad un corretto inquadramento dei rapporti tra il beneficio sanzionatorio di cui all’art. 62-bis c.p., l’esercizio del ius tacendi e il diritto di difesa, in grado di evidenziare le eventuali interferenze e, per così dire, i possibili ‘‘punti di frizione’’ tra i rispettivi ambiti di operatività, è utile soffermarsi brevemente sulla disposizione codicistica delle attenuanti generiche. 2. Come oramai è stato chiarito da tempo, se le circostanze attenuanti generiche condividono con la disciplina generale dettata in materia la comune esigenza del maggiore adeguamento possibile della pena al caso concreto, la ragion d’essere dell’art. 62-bis c.p. risiede nella « impossibilità di prevedere in anticipo i valori che possono rivelarsi con il loro significato positivo soltanto in una concreta situazione » (4). Attraverso la loro previsione, si dà ingresso nell’ordinamento a quei « dati ricchi di valore connessi con lo svolgersi dell’azione criminosa che danno alla disobbedienza un suo particolare significato nel caso concreto... esse rientrano dunque nel momento della colpevolezza per adeguare il giudizio alla riprovevolezza della condotta » (5). La norma sulle attenuanti generiche si configura, perciò, quale autentica ipotesi di discrezionalità: il legislatore nella impossibilità, da un lato, di tipizzare in via generale ed astratta le infinite varietà di situazioni che possono accompagnare, di volta in volta, la singola condotta criminosa, rivelandone una minore riprovevolezza, ma nella consapevolezza, dall’altro, di tradire la funzione stessa del diritto ove tralasciasse la considerazione di quei fattori in grado di giustificare una diminuzione della pena, affida al giudice il compito di rilevare il valore attenuante direttamente dall’esperienza, attraverso l’esame dell’azione in concreto. Ancorata alla premessa indimostrata per cui la discrezionalità del giudice penale non può sussistere se non inserita in un sistema di limiti delineati dalla legge, entro i quali la legge stessa offre, in linea di principio, dei criteri sui quali soltanto potrà articolarsi il potere discrezionale (6), la speculazione intorno a questo istituto si è sviluppata nella preoccupazione costante di imbrigliare appunto questo potere riconosciuto dalla legge al giudice. Sicché, paradossalmente, può dirsi che la ‘‘storia’’ delle attenuanti generiche sia per certi versi rappresentata proprio dalla ‘‘storia’’ dei limiti via via individuati a tale scopo. In questa prospettiva, si è ritenuto di poter attribuire all’art. 133 c.p. e ai criteri in esso previsti per la commisurazione della pena, una parte fondamentale nel funzionare come predeterminazione normativa cui rapportare la norma sulle generiche, sempre nel presupposto di una sua apparente vaghezza, superabile soltanto attraverso il collegamento con altre disposizioni del codice che espressamente in(4) M. MASSA, Le attenuanti generiche, Napoli, 1959, 121. (5) M. MASSA, Le attenuanti generiche, cit., 212. (6) M. MASSA, Le attenuanti generiche, cit., 26.
— 1124 — dicano i criteri nel cui àmbito circoscritto e ben definito può esercitarsi il potere discrezionale del giudice. L’art. 133 c.p. non soltanto non è in grado di vincolare il giudice quando deve ricercare e concedere le attenuanti generiche, ma nemmeno riesce a limitare le sue diverse possibilità in sede di graduazione della pena: infatti, praticamente non c’è elemento che non sia riconducibile ad una delle categorie elencate dalla norma (7). Appunto in questa genericità l’art. 133 c.p. realizza la sua funzione, « perché altrimenti rischierebbe di tradire il suo compito di orientamento nella individuazione della colpevolezza per una giusta commisurazione della pena proporzionata » (8). Proprio il collegamento con l’art. 133 c.p. dimostra che la specifica realtà normativa delle generiche va ricercata al di fuori delle norme scritte, poiché ribadisce l’incapacità della norma scritta a raggiungere le infinite condizioni in cui l’azione si realizza e si presenta al mondo delle valutazioni. Se è così, il potere discrezionale previsto dall’art. 62-bis c.p. lungi dal risultare arbitrario, costituisce anch’esso esercizio di potere vincolato, soltanto che in questo caso i limiti invece di essere normativi e perciò tipizzati una volta per tutte ex lege, sono rappresentati dalle strutture di valore del fatto, che il giudice dovrà individuare in relazione ad ogni singolo episodio criminoso per poi darne conto nella motivazione. Accennato brevemente all’autentica ragion d’essere che ispira la norma sulle attenuanti generiche e viste le riserve cui dà luogo il collegamento instaurato con l’art. 133 c.p., l’interrogativo iniziale deve essere rimeditato, tenendo conto che in tanto una circostanza indipendente e, addirittura, successiva all’azione delittuosa del reo — come può essere, appunto, il contegno assunto dall’imputato nel corso del processo — potrà presentare un valore rilevante per l’attenuazione della pena, in quanto sia in grado di proiettare « una luce favorevole su questa azione rivelando una personalità degna di ricevere una benevola considerazione dell’ordinamento » (9). Ciò che conta dunque è la possibilità di ravvisare un comportamento riferibile alla personalità del soggetto, tale da evidenziare un minore grado della sua disobbedienza. Al riguardo, le condotte ipotizzabili e tutte, in qualche modo, astrattamente riconducibili al criterio della condotta susseguente al reato, previsto dall’art. 133 c.p. quale possibile indice della capacità a delinquere del reo, sono la confessione, il silenzio, il perdono della parte offesa, la contumacia e la latitanza. Tuttavia, per ciascuna delle situazioni prospettate si impongono riflessioni diverse tra loro: infatti, se tutte quante corrispondono ad altrettante modalità in cui può manifestarsi il comportamento dell’imputato che partecipi al processo o che, viceversa, si astenga dal prendervi parte, certamente ognuna di esse, per la profonda differenza che le contraddistingue, possiede una sua autonoma e specifica valenza, oltre ad essere produttiva di sue peculiari conseguenze. Non c’è dubbio, infatti, che proprio alla luce di quanto si è detto a proposito della ratio che giustifica l’attenuazione della pena ai sensi dell’art. 62-bis c.p., lo stato di latitanza, ad esempio, consistendo nella volontaria inosservanza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, configura un comportamento che consente un giudizio negativo sulla capacità a delinquere del colpevole e costituirà, dunque, una valida ragione per negare le generiche. Diversamente, invece, deve dirsi per la mancata comparizione personale nel processo che rappresenta l’esercizio di un diritto riconosciuto all’imputato. Riguardo, poi, al perdono eventual(7) F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, 73. (8) M. MASSA, Le attenuanti generiche, cit., 71. (9) M. MASSA, Le attenuanti generiche, cit., 214-215.
— 1125 — mente prestato dalla vittima, occorre precisare che in tanto potrà rilevare a favore dell’imputato determinando parere positivo in ordine alla concessione delle generiche, in quanto si tratti di cosiddetto perdono meritato, cioè di un perdono dovuto non alla magnanimità dell’offeso, ad uno slancio generoso ed altruistico del suo animo, ma ascrivibile alla condotta del colpevole che dimostrando resipiscenza e partecipazione al male commesso, se ne sia reso degno. Le considerazioni appena svolte a proposito del perdono conservano il medesimo valore quando è in gioco la confessione, con riferimento alla necessità di operare valutazioni diverse a seconda delle motivazioni individuali da cui scaturisce; a maggior ragione oggi che ci si trova a dover fare i conti con il delicatissimo e quanto mai problematico fenomeno del cosiddetto pentitismo. Non si può ignorare, limitatamente al profilo che qui interessa, che un intero settore dell’ordinamento, per di più in sempre crescente espansione, è permeato dal criterio della delazione premiata: è ovvio che questa circostanza non potrà non inquinare, almeno in astratto, il giudizio sulla metamorfosi morale del soggetto, di cui la confessione intesa come ammissione del male — delitto — commesso, può essere presumibile indice. Né al diritto penale del fatto, né ad un processo penale di tipo accusatorio interessano le ragioni personali che hanno spinto l’individuo a ritornare sui suoi passi; non è possibile tuttavia prescindere dal minore disvalore del fatto che l’interruzione dell’attività criminosa da un lato, e la dichiarazione della propria colpevolezza dall’altro, esprimono, anche se ovviamente sotto profili diversi. Nel primo caso, per l’attenuata messa in pericolo del bene tutelato dalla norma incriminatrice; nel secondo caso, invece, come si è tentato di spiegare in precedenza, in considerazione della capacità che una condotta successiva ed estranea al delitto ha di mitigare il contenuto della disobbedienza e, dunque, la misura del rimprovero. Un diritto penale laico e secolare, dal quale è stata bandita ogni finalità trascendente o metafisica, depurato da istanze di catarsi del reo nell’ottica dell’emenda, si disinteressa del tipo di ragione, morale o utilitaristica, che ha indotto il soggetto a interrompere l’esecuzione della condotta tipica o a impedire il verificarsi dell’evento; quel che conta è soltanto che il delitto non sia stato consumato. Il requisito della volontarietà che deve connotare ex art. 56, comma 2o e 3o, c.p. tanto la desistenza quanto il ravvedimento operoso, va accertato indipendentemente « dal giudizio sulla meritevolezza dei motivi che hanno indotto l’agente a mutare proposito » (10); è necessario, però, che il comportamento dell’agente corrisponda ad una libera scelta: non risulterebbero integrate né l’una né l’altra delle due situazioni, in presenza di « circostanze esterne che obiettivamente ostacolano la consumazione del delitto » (11). A prescindere dal fondamento politico-sostanziale (12) e dall’inquadramento dommatico che non gioca alcun ruolo nel mo(10) G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995, III ed., 426-427. Non importa se il desistente rinuncia alla realizzazione dell’azione perché i proprietari della villa dove voleva commettere il furto sono inaspettatamente rimasti in casa, rendendo assai rischioso il compimento dell’iter criminis; è sufficiente che in quel momento desista dall’azione intrapresa, non ha importanza se anche al solo scopo di rimandarla in presenza di condizioni più propizie per la sua riuscita, ove « è evidente che il differimento non implica il pentimento », così F. RAMACCI, Corso di diritto penale. Reato e conseguenze giuridiche, vol. II, Torino, 1993, 211. (11) Ancora G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., 427. (12) La teoria tradizionale, fondata sulla opportunità dettata da valutazioni di politica criminale ritenute prevalenti sull’esigenza retributiva, di prospettare tramite lo sconto sanzionatorio ‘‘ponti d’oro al nemico che fugge’’ come « controspinta psicologica alla spinta criminosa » (G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, cit., 425), fa leva sulla funzione general-preventiva della pena. Più recentemente si è esattamente osservato che « come è pluridimensionale (retributivo, generalpreventivo, specialpreventivo) il fondamento della pena, così è parimenti pluridimensionale il fondamento della rinuncia ad essa », cfr. F.
— 1126 — mento dell’interpetazione (13), l’inequivoco minore grado di lesività per il bene giuridico protetto insito e nel tentativo compiuto e nel delitto impedito, si ripercuote sul regime sanzionatorio della pena-base prevista per il delitto, attenuandola. 3. Sul versante processuale, diversamente dal sistema inquisitorio che fagocita acriticamente qualunque notizia di provenienza dall’imputato che, comunque carpita, consegna al giudice l’appiglio iniziale cui ancorare il dipanarsi delle congetture successive, il processo di parti rimane neutrale rispetto alla confessione, che non possiede efficacia se disgiunta nella sua valutazione da ulteriori elementi di riscontro. Superata l’epoca storica della confessione intesa come ‘‘regina delle prove’’, pilastro fondante sul quale ruotava l’intera ricostruzione del fatto e tramontato con essa il trattamento dell’imputato come testis contra se (14), l’ammissione della propria responsabilità trova spazio all’interno del codice vigente soltanto nel giudizio direttissimo, quale possibile presupposto per la sua instaurazione, ove sia resa nel corso dell’interrogatorio condotto dal P.M. ex art. 449, comma 5o, c.p.p. In tutti i casi diversi da questo, la confessione riveste rilevanza di indizio: il giudice, ai fini dell’accertamento del fatto, non può attestarsi sulle posizioni sulle quali il reo confesso ha riferito, tralasciando la ricerca di quel quid pluris rappresentato dagli altri elementi di prova che confermino l’attendibilità di quanto dichiarato. In particolare, questa regola di valutazione probatoria vale nell’ipotesi della chiamata in correità. Impossibile soffermarsi data l’economia del presente lavoro, sulle proporzioni e la complessità dei problemi che questa tematica di grave attualità pone, ma non si può non sottolineare che proprio in considerazione del criterio della corrispettività sul quale è strutturata la legislazione premiale — beneficio elargito in funzione della collaborazione prestata — l’indagine sulla credibilità del ‘‘pentito’’ va condotta tenendo conto anche delle motivazioni utilitaristiche che possono averlo determinato a collaborare con il suo interlocutore. E il legislatore pur nell’incapacità di avvalersi di strumenti alternativi a quello premiale, comunque sa bene che « spesso i pentiti sono infidi, sono manipolatori di verità, sono cercatori di depistaggi, sono simulatori incalliti, sono assetati di vendetta, sono inquinatori della realtà... in grado di reggere il confronto anche con abili investigatori » (15); perciò, nella stessa legge con la quale ha introdotto una circostanza attenuante speciale di natura premiale a favore degli appartenenti alla criminalità mafiosa (16), ha predisposto altresì due ‘‘contromisure’’ per prevenire in qualche MANTOVANI, Diritto penale, Padova, III ed., 1992, 455; così anche T. PADOVANI, Diritto penale, III ed., Milano, 1995, 357. (13) Si discute se la desistenza costituisca causa sopravvenuta di non punibilità o causa speciale di estinzione del delitto tentato; nel recesso, tradizionalmente, si ravvisa invece una circostanza attenuante, l’unica attenuante speciale e ad effetto speciale del tentativo (F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 455; C. FIORE, Diritto penale. Parte generale, vol. II, Torino, 1995, 73; T. PADOVANI, Diritto penale, cit., 360; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, V ed., Milano, 1996, 536; contra F. RAMACCI, Corso di diritto penale, cit., 206-207, che critica tale consolidata opinione e configura il recesso come elemento specializzante appartenente alla struttura del delitto impedito, il quale « diversifica la particolare fattispecie di tentativo nel quale l’evento non si verifica perché impedito dalla controazione del colpevole ». (14) Per una analisi storica della evoluzione della considerazione dell’imputato come fonte di prova nel processo penale dell’età moderna si veda A. GIARDA, Persistendo ’l reo nella negativa, Milano, 1980; P. MARCHETTI, Testis contra se, Milano, 1994. (15) E. MUSCO, Collaboratori di giustizia tra pentimento e calunnia, in Le risposte penali all’illegalità, Tavola rotonda nell’ambito della Conferenza annuale della Ricerca organizzata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dalla Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2 aprile 1988, Relazione di sintesi, 4. (16) Il riferimento è alla legge n. 203 del 1991, il cui art. 8 prevede: « per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti dell’imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiu-
— 1127 — modo i rischi legati a collaborazioni non genuine e, quindi, a dichiarazioni non veritiere: da un lato, inasprendo la pena prevista per il delitto di calunnia quando risulta che il colpevole ha commesso il fatto allo scopo di usufruire dei benefici della legislazione premiale; prevedendo, dall’altro, la revisione della sentenza di condanna in danno dell’imputato, qualora l’attenuante della collaborazione sia stata concessa per effetto di dichiarazioni false o anche soltanto reticenti. Tornando, infine, al diritto al silenzio, che esso non possa prestarsi all’uso che ne fa la Cassazione contro l’individuo, è addirittura scontato: non può ammettersi, a meno che il sistema non voglia rinnegare se stesso e cadere in contraddizione, l’attribuzione di un diritto in capo all’imputato e, nel contempo, fare dipendere dal suo esercizio valutazioni sfavorevoli agli effetti della determinazione della pena. Insomma, non si può togliere dopo, con una mano, quello che è stato dato prima con l’altra. Come si è anticipato, attraverso la facoltà di non rispondere prevista a favore dell’imputato, trova riconoscimento all’interno dell’ordinamento il principio nemo tenetur se detegere: riprendendo la disposizione già contenuta nel codice Rocco, il codice del 1988 oltre che dare attuazione alla garanzia costituzionale sancita dall’art. 24, comma 2o, Cost., fino a ricomprendervi il diritto di difendersi tacendo, consacra il principio secondo cui l’imputato non può costituire fonte di prova contra se, « espressione di una fondamentale esigenza di civiltà giuridica, prima ancora che un canone irrinunciabile in un processo di parti » (17). Passando, nell’elaborazione dottrinale, attraverso la teorizzazione di un dovere testimoniale in capo all’imputato prima (18), e di un onere di verità a suo carico dopo (19), sul piano del diritto positivo si arrivò alla affermazione della libertà dell’imputato di astenersi dal rispondere accompagnata dall’obbligo dell’avvertimento circa la relativa facoltà, soltanto nel 1969, con la legge n. 932 che aggiunse al corpo dell’art. 78 c.p.p. 1930 il comma 3o, in base al quale « l’autorità giudiziaria o l’ufficiale di polizia giudiziaria, prima che abbia inizio l’interrogatorio, in qualsiasi fase del processo deve avvertire l’imputato, dandone atto nel verbale, che egli ha la facoltà di non rispondere,... ma che se non risponde, si procederà oltre nelle indagini istruttorie ». Tenuto conto dell’impianto normativo nel quale la modifica si inseriva, la disposizione si poneva in termini fortemente innovativi, assumendo « il significato di una decisa sterzata verso la costruzione di un processo adeguato ad una società che tutela come sommi valori la libertà e la dignità dell’individuo » (20). Con la norma sulla facultas tacendi il legislatore dell’epoca introduceva un istituto che, sia pure nel ristretto ambito disciplinatorio, esprimeva una diversa posizione dell’imputato all’interno del processo, ribaltando la dimensione del suo rapporto con l’autorità: con una anticipazione di quasi vent’anni rispetto all’adozione del sitando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà ». Il testo del dettato normativo ci consegna di fatto una fattispecie delativa, i cui elementi costitutivi sono la dissociazione e la collaborazione; ne scaturisce un anomalo strumento di indagine processuale che non influendo, al solito, sulla offensività del fatto commesso, si sostanzia in una nozione astrattamente indefinibile: soltanto il grado di sviluppo della singola vicenda investigativa potrà determinare il livello di ‘‘concretezza’’ dell’aiuto necessario ad attingere la soglia richiesta dalla legge per l’‘‘elargizione della ricompensa’’. (17) M. CERESA GASTALDO, Diritto al silenzio, aspettative di « collaborazione » dell’imputato e controlli sull’impiego della custodia cautelare, in questa Rivista, 1993, 1161. (18) F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, vol. II, Roma, 1947, 165. (19) G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, vol. I, II ed., Milano, 1966, 437. (20) V. GREVI, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972, 75.
— 1128 — stema accusatorio, la previsione del diritto al silenzio rompeva gli schemi inquisitori del codice Rocco per consentire all’imputato di scegliere liberamente se assumere o meno un atteggiamento collaborativo e, dunque, di avvalersi dell’interrogatorio come mezzo di difesa e non già di subirlo come mezzo di prova. Per lo meno sul piano dommatico, la riforma introdotta nel 1969 scioglie le incertezze sulla qualificazione dell’interrogatorio, la cui funzione auto-difensiva, pur non rinnegata, veniva ambiguamente fatta coesistere con quella di mezzo di prova; l’espressa previsione del diritto al silenzio sanciva la valenza dell’interrogatorio quale ulteriore strumento a disposizione dell’imputato, predisposto per una tutela del diritto di difesa a tutto tondo. Tuttavia, il mancato coordinamento con le altre disposizioni già regolanti la materia, vanificava di fatto la portata dell’intervento legislativo, riproponendo la dibattuta questione circa la valutabilità e, quindi, la natura delle dichiarazioni rese dall’imputato: interrogatorio, dunque, esclusivamente strumento di difesa, potenziale fonte per ulteriore ricerche, oppure mezzo di prova in senso proprio e, perciò, legittimo fondamento per la decisione del giudice? In armonia con la indicazione della legge-delega che imponeva al delegante di adottare una « disciplina delle modalità dell’interrogatorio in funzione della sua natura di strumento di difesa », il legislatore del 1988 sembra aver risolto l’interrogativo a partire da un primo non trascurabile elemento di carattere sistematico: la collocazione della normativa sul punto non più tra le disposizioni dedicate alle prove come nel codice del ’30, ma nell’àmbito delle norme poste a garanzia dello status dell’imputato quale naturale controparte del P.M. e, dunque, titolare di diritti e facoltà attribuiti per un effettivo esercizio del suo ruolo di antagonista rispetto alla parte pubblica, finalizzato a contrastarne con efficacia l’azione: sia attivamente, attraverso la conduzione di un’autonoma inchiesta difensiva, sia passivamente, per l’assenza di obblighi, quanto meno diretti, di cooperazione e partecipazione collaborativa all’attività dell’accusa. La libertà di autodeterminazione, l’unica tra quelle fondamentali assolutamente incoercibile di cui l’imputato gode, dal momento che persino quella personale è suscettibile di limitazioni prima della condanna, copre legittimandola la via del silenzio. Intesa quest’ultima, però, non quale semplice espressione della facoltà di non autoincriminarsi, ma assai più significativamente come possibilità di decidere liberamente in quale modo muoversi nel processo: se impegnarsi in una ‘‘difesa attiva’’, o se, invece, instaurando un rapporto collaborativo con la controparte, esserne il diretto interlocutore. Nella prima ipotesi rientra la praticabilità del silenzio quale possibile modalità di esplicazione della linea difensiva perseguita, considerando — giova ricordarlo — che l’interrogatorio, quando il P.M. decida di fare ricorso ad esso, ha luogo solitamente nelle prime battute della fase investigativa, quando per la disciplina che regola il regime di segretezza interna, la persona sottoposta a indagini può essere davvero ancora all’oscuro di tutto. Inutile dire che, in casi di questo genere, ‘‘il silenzio è d’oro’’. Quando, poi, il P.M. conduca l’interrogatorio attenendosi al disposto dell’art. 416, comma 1o, c.p.p., è intuibile che l’indagato avvertito della facoltà di non rispondere, se ne avvarrà. Salvi i casi di lampante e incontrovertibile estraneità ai fatti oggetto dell’addebito (21), in tutti gli altri la difesa, a discovery non ancora attuata, difficilmente si arrischierà in risposte che potrebbero in futuro rivelarsi avventate o controproducenti. Chiara sotto il profilo teorico-dommatico almeno nelle intenzioni del dele(21) Per fare un esempio banale, si pensi all’imputato al quale viene contestato un determinato fatto risalente alla stessa data nella quale egli, sulla base di prove documentali, può dimostrare che si trovava in tutt’altro luogo da quello della commissione della presunta fattispecie criminosa.
— 1129 — gante, la valenza dell’interrogatorio appare offuscarsi nel percorso normativo tracciato dalle disposizioni del codice che ne contraddicono a tratti la natura difensiva. Per una verifica in tal senso, occorre tenere presente la pluralità di tappe situate lungo l’iter procedimentale, nelle quali può realizzarsi; dalle singole peculiarità di ciascuna, discende una serie di connotazioni che ne determinano il mutevole atteggiarsi di volta in volta. 4. Si è appena accennato all’interrogatorio che l’autorità inquirente deve condurre, pena la nullità della richiesta di rinvio a giudizio secondo il testo riformato dell’art. 416, comma 2o, c.p.p.; la modifica introdotta dalla legge n. 234 del 1997 si iscrive, coerentemente con la ratio che ispira l’istituto in esame, in un’ottica garantistica poiché volta ad assicurare l’obbligo della preventiva contestazione dell’addebito rispetto alla formulazione dell’imputazione che segna l’esercizio dell’azione penale, secondo la modalità tipizzata dall’art. 416 c.p.p. Se poi all’intento del legislatore di rafforzare il contraddittorio attraverso l’anticipazione temporale del contatto tra accusa e difesa con la comunicazione dell’addebito provvisorio, siano davvero conseguiti i risultati sperati, diverso è il discorso. Come è stato segnalato in sede di primo commento dell’innovazione, per quanto condivisibile nell’intento, l’iniziativa del legislatore dell’estate ’97 rivela una serie di incongruenze sistematiche e di coordinamento sfuggite alla attenzione dei redattori (22). Se è vero che l’obbligo di preventiva contestazione dell’addebito cui la disposizione integrativa è strumentale, esprime la volontà di rafforzare la garanzia del contraddittorio come diritto all’informazione, in modo da consentire al soggetto coinvolto nelle indagini di anticipare il momento in cui iniziare a predisporre la propria difesa, tuttavia per la sfasatura che viene a determinarsi con gli altri meccanismi informativi già presenti nel procedimento e che la novella non ha risolto, di fatto il soggetto presentatosi a rendere l’interrogatorio attraverso l’invito a comparire, non potrà far altro che prendere atto della imputazione che sta per essere formalizzata a suo carico (23). Oltre all’ipotesi per così dire ‘‘classica’’ di interrogatorio con cui l’accusa, nel corso delle indagini preliminari, ‘‘tasta il polso’’ dell’imputazione e la difesa conosce gli estremi dell’addebito che gli viene contestato, la fase investigativa e quella che scatta con l’esercizio dell’azione penale, conoscono ulteriori figure di interrogatorio: anzittutto, quello c.d. di garanzia previsto dall’art. 294 c.p.p nei confronti della persona sottoposta a misura cautelare ad opera del g.i.p., il quale attraverso l’interrogatorio del soggetto deve valutare la sussistenza delle condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari che sole possono legittimare il permanere dello status in vinculis. Proprio a ribadirne la proiezione funzionale in chiave di garanzia difensiva, la (22) La prima impressione che si ricava leggendo la nuova disposizione è che, per quanto inconsapevolmente, sia stato compiuto « un passo verso il ritorno al passato ». Affiora il sospetto che, pur nel lodevole intento di aprire nuovi spazi al diritto di difesa, sia stato conseguito l’obiettivo opposto, si sia introdotto, cioè, un meccanismo di ‘‘ratifica’’ dell’operato della polizia giudiziaria e dell’ufficio del pubblico ministero in tema di acquisizione probatoria » (A.A. DALIA, La contestazione dell’imputazione provvisoria dell’addebito, in AA.VV., La modifica dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa. Commento alla legge 16 luglio 1997, n. 234, Milano, 1997, 190). Ci sembra, allora, di poter intravedere anche in questo ennesimo intervento manipolativo del codice una ulteriore spia a conferma di quella logica del c.d. ‘‘garantismo inquisitorio’’, che ha fatto il suo ingresso con la legge n. 332 del 1995. (23) « Se le indagini si sono svolte in forma riservata, il termine fissato dal legislatore non è stato superato e, quindi, la persona sottoposta alle indagini non è avvisata della richiesta di proroga, non v’è stata occasione per la richiesta di certificazione del registro delle notizie di reato o per la presentazione spontanea, è difficile ipotizzare che l’indagato si possa difendere adeguatamente in sede di interrogatorio e, soprattutto, che questo atto serva, così come negli auspici manifestati nel corso dei lavori parlamentari, a scongiurare l’esercizio dell’azione penale », così A.A. DALIA, La contestazione dell’imputazione provvisoria, cit., 207.
— 1130 — legge n. 332 del 1995 è intervenuta per correggere un’incongruenza che faceva registrare sul punto il testo originario della disposizione secondo cui l’interrogatorio condotto dal P.M. poteva anche precedere quello del giudice, a condizione che non ne ritardasse il compimento. Oggi, invece, in ogni caso l’interrogatorio del g.i.p. deve procedere quello di competenza del P.M., i cui termini di espletamento, peraltro, nella stessa ottica, sono stati ridotti sempre ad opera della legge n. 332 da sette a cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia in carcere. Come è noto, anche nel corso dell’udienza preliminare si potrà procedere all’interrogatorio, ma solo l’imputato può farne richiesta, senza che la parte avversaria possa in alcun modo interferire su tale decisione; è questa la peculiarità che fanno registrare l’art. 420 c.p.p. e l’art. 422 c.p.p., ove il giudice disponga il supplemento istruttorio in caso di empasse decisionale. A conferma della specialità della disciplina in questa sede, si pongono le stesse modalità di assunzione che non ricalcano quelle ordinarie poiché estromettono il P.M., chiamando in causa per la sua conduzione direttamente il giudice, al quale peraltro dovranno rivolgersi il titolare dell’azione penale e tutti i difensori delle parti private per le eventuali domande che intendono porre al neo-imputato, il quale resta comunque libero rispetto a ciascuna domanda di rispondere o meno. Ad incrinare, però, questa configurazione apparentemente assoluta in termini difensivi che l’interrogatorio sembrebbe avere nell’ambito dell’udienza camerale, intervengono le previsioni sulla disciplina delle letture: l’art. 513, comma 1o, c.p.p. autorizza la lettura di quanto affermato in udienza preliminare se l’imputato in dibattimento è contumace, assente o rifiuta di sottoporsi all’esame e l’art. 503, comma 3o, c.p.p. ammette l’utilizzazione a fini contestativi delle dichiarazioni rilasciate durante l’interrogatorio in udienza. Il processo accusatorio fa a meno del contributo dell’imputato per la ricostruzione del fatto; diversamente, in quello di tipo inquisitorio, l’apporto conoscitivo proveniente dall’imputato, ritenuto il depositario della verità, rappresenta l’obiettivo primario da raggiungere, non importa con quali mezzi, compreso il ricorso a « metodi e tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti » (24), di cui il vigente art. 64, comma 2o, c.p.p. vieta qualunque forma di utilizzazione, anche con l’eventuale consenso dell’interrogato, che, perciò, « fruisce di una garanzia indisponibile al riguardo » (25). Anche se, come sempre purché ve ne sia l’intenzione, mille sono i modi per tradire lo spirito della legge e a ben poco può valere l’affermazione di un principio se c’è la volontà di aggirare la norma che lo pone, piegandola a fini diversi, magari opposti, a quelli effettivamente perseguiti; come non richiamare proprio con riferimento all’aspetto che qui interessa, la prassi giurisprudenziale degenerativa da cui è scaturita la modifica dell’art. 274 c.p.p.? Dilatando l’ambito della esigenza cautelare consistente nel pericolo di inquinamento probatorio sino a strumentalizzare l’adozione della misura restrittiva allo scopo di ottenere ammissioni di responsabilità circa l’addebito contestato, si è arrivati ad utilizzare in funzione intimidatoria lo spettro della custodia in carcere o del suo protrarsi, per far ‘‘ravvedere’’ l’indagato che avesse scelto di tacere o, comunque, di non collabo(24) In verità, la storia del processo penale fa registrare l’utilizzo di strumenti di coartazione ben più invasivi di quelli vietati oggi dal codice, preclusi ovviamente non per l’« assunto di inaffidabilità scientifica di determinati metodi o tecniche nel procurare dichiarazioni veritiere... ma per una scelta morale rispetto alla quale è indifferente il grado di sicurezza dei risultati che con un certo intervento sul soggetto la scienza possa dare: nel rapporto con l’autorità la persona non deve subire alcuna manipolazione », così O. DOMINIONI, Commento agli artt. 64 e 65, in AA.VV., Commentario al nuovo codice di procedura penale, a cura di E. AMODIO - O. DOMINIONI, vol. I, Milano, 1989, 403. (25) R. KOSTORIS, Commento agli artt. 64 e 65, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. I, Torino, 1989, 328.
— 1131 — rare. Un operato di questo genere non soltanto è maturato in spregio dei valori della Costituzione e del ‘giusto processo’, ma ha permesso di « teorizzare la legittimità del riferimento al rifiuto di rispondere come sintomo delle esigenze cautelari, quasi che l’imputato avesse, se non un dovere, un onere di collaborazione. La custodia cautelare viene così a trasformarsi apparentemente, da mezzo per tutelare la prova, a mezzo per ottenere la prova (sotto forma di dichiarazioni da parte di chi vi è sottoposto) » (26). L’art. 3 della legge 8 agosto 1995, n. 332 è intervenuto per arrestare il diffondersi di questo percorso applicativo, a tal fine specificando che « le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti ». Sulla effettiva necessità di tale precisazione che il legislatore ha ritenuto di dover introdurre, qualche perplessità residua: reale esigenza normativa quella di ridefinire l’esigenza cautelare, oppure operazione di facciata dal valore più che altro simbolico? Certo, considerando le disposizioni già presenti nel codice sulla facoltà di non rispondere e sul diritto a non autoincriminarsi cui fa da sfondo il monito della Relazione al progetto preliminare circa l’assoluto divieto di « un’utilizzazione delle cautele a scopi, più o meno direttamente, estorsivi di confessioni » (27), l’utilità della ulteriore sottolineatura in qualche modo sfugge. La formula, è stato affermato, « è assolutamente vuota in senso cognitivo, dato che nulla aggiunge a quanto già risultava dall’originario dettato codicistico » (28); è « una classica norma ‘‘bandiera’’ » (29), poiché si limita a ribadire quello che appariva già scontato « in virtù dei ben noti principi generali in tema di diritto al silenzio dell’imputato, non già sulla scorta di quest’ultimo maldestro inserimento normativo, di per sé idoneo semmai ad accreditare interpretazioni di tenore controproducente » (30). Infatti, come è stato acutamente osservato, la linea che distingue la rilevanza del silenzio da quella della collaborazione è assai sottile, sicché se il contegno collaborativo del soggetto in vinculis è in grado di fugare il pericolo di inquinamento probatorio facendogli riacquistare la libertà, « viene istintivo compiere il salto logico e concludere che la detenzione è in realtà il prezzo del silenzio; ed è possibile che, talvolta, proprio questo sia il tacito messaggio lanciato dagli organi inquirenti » (31). 5. Abbandonata la pretesa metafisica della verità assoluta ed oggettiva, e con essa la concezione della prova intesa come accertamento tecnico imperniato sullo schema sillogistico, il metodo probatorio di cui il processo di parti si serve per arrivare alla più realistica e ‘‘terrena’’ meta della verità processuale, affida l’elaborazione della conoscenza giudiziale al confronto dialettico delle tesi contrapposte prospettate dalle parti. Le quali, muovendosi ognuna lungo le coordinate che delineano le rispettive posizioni all’interno della dinamica prcocessuale, si atti(26) G. ILLUMINATI, Commento all’art. 3, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, 67. (27) Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazz. uff., 24 ottobre 1988, n. 250, Suppl. ord., n. 2, 74. (28) P. FERRUA, Poteri istruttori del pubblico ministero e nuovo garantismo: un’inquietante convergenza degli estremi, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella legge 8 agosto 1995, n. 332, Milano, 1996, 264. (29) V. GREVI, Più ombre che luci nella legge 8 agosto 1995, n. 332 tra istanze garantistiche ed esigenze del processo, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella legge 8 agosto 1992, n. 335, Milano, 1996, 7. (30) Ancora V. GREVI, Più luci che ombre nella legge 8 agosto 1995, n. 332 tra istanze garantistische ed esigenze del processo, cit., 8. (31) Così P. FERRUA, Poteri istruttori del pubblico ministero e nuovo garantismo: un’inquietante convergenza degli estremi, cit., 265.
— 1132 — vano per individuare e reperire gli elementi di prova capaci di sostenere la propria tesi e fronteggiare le obiezioni provenienti da quella opposta; sicché, alla fine, l’enunciato formulato dall’accusa e convalidato dal giudice, potrà dirsi « ‘vero’ quando lo confermino le prove assunte e sopravviva alle confutazioni » (32). Nel rispetto della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza, è la parte pubblica che deve fornire gli elementi di prova in grado di fondare la condanna dell’incriminato, che non può mai essere chiamato a costituire fonte di prova contra se. Nel progressivo ritagliarsi, attraverso la composizione del mosaico probatorio di cui accusa e difesa sono artefici, delle fonti del convincimento necessarie per il provvedimento finale, non c’è spazio per le notizie e le voci carpite in segreto ed unilateralmente, cioè da una parte soltanto e, perciò, sottratte alla regola della verifica nel contraddittorio dell’istruzione dibattimentale, innanzi all’organo della decisone. Le parti, tramite la ricerca delle fonti di prova e il loro contributo alla formazione delle prove stesse, « che si incentra nell’apporto argomentativo, volto ad illustrare il significato della prova, ossia la rilevanza che questa può assumere sul tema dell’accusa nel senso dell’implicazione o dell’esclusione » (33), permettono al giudice, in ossequio al principio di oralità-immediatezza, di maturare il suo convincimento esclusivamente sulla base delle prove assunte in sua presenza, senza l’interferenza di precedenti mediazioni ad opera di organi diversi da quello funzionalmente competente ad emettere la sentenza. In un contesto del genere, quale vorrebbe essere quello introdotto nel 1988, è conseguenza immediata dei principi naturali del processo e del fine cui sono preordinati — l’autenticità del giudizio quale, unica, suprema garanzia per l’individuo che il processo deve subire — l’irrilevanza, per lo meno con riferimento all’iniziale delinearsi dell’ipotesi d’accusa, del sapere della persona interrogata, salvo che la stessa non voglia spontaneamente rilasciare dichiarazioni ritenute utili alla propria difesa o, al più, eccezionalmente, dichiarazioni confessorie. Il quadro che ci consegna l’attuale assetto normativo appare, invece, lontano dallo schema ideale che pretende un processo di parti, che sia coerente con i principi che ne stanno alla base; nonostante « un cordone sanitario circondi l’imputato » (34), meccanismi inquisitivi, direttamente o indirettamente, predisposti per il recupero del suo sapere in vista della conoscenza del fatto oggetto della imputazione, sono disseminati lungo l’arco della vicenda processuale, nei passaggi salienti che ne segnano la ricostruzione: indagini preliminari, prove, letture dibattimentali. Tra questi, qui interessano maggiormente quelli che penalizzano la scelta dell’imputato di non rispondere nel corso dell’interrogatorio oppure di non sottoporsi ad esame in dibattimento. Premesso l’espresso riconoscimento del diritto al silenzio operato dall’ordinamento come corollario delle funzione difensiva dell’interrogatorio, occorre soffermarsi sulle disposizioni che regolano tale strumento nel corso della fase investigativa e del suo speculare in quella dibattimentale, per (32) P. FERRUA, Studi sul processo penale. II. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., 60. (33) Ancora P. FERRUA, Studi sul processo penale. II. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., 77. (34) A. BERNASCONI, La collaborazione processuale, cit., 301. Il riferimento è agli artt. 62, 63 e 64 c.p.p. che prevedono rispettivamente il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato, il diritto alla non autoincriminazione e il diritto al silenzio. Ancora, dalla lettura congiunta degli artt. 63 e 65 c.p.p. in materia di dichiarazioni autoindizianti emerge una disciplina che garantisce colui che originariamente sentito come persona informata sui fatti, renda dichiarazioni da cui scaturiscano elementi di reità a suo carico. Si tratta di un nucleo normativo che costituisce un reticolo di garanzie a beneficio di chi è imputato e di chi lo può diventare, impedendo che ognuna delle molteplici sfaccettature in cui la linea difensiva è suscettibile di manifestarsi, possa risultare vanificata da norme di ‘‘aggiramento’’ che, ad esempio, consentano la testimonianza sulle dichiarazioni rese dall’imputato o dall’indagato che ‘‘abbia parlato’’, o che non garantiscano sotto ogni possibile angolatura l’esercizio del ius tacendi nei confronti di chi, viceversa, abbia deciso di non rispondere alla autorità procedente.
— 1133 — avere conferma della presenza di norme che aggirandolo, ne rendono in parte illusoria la garanzia, sicché, a dispetto di tutti i discorsi sull’oralità quale punto d’approdo della riforma verso un processo fatto per l’imputato e non contro di lui, è agevole constatare che ogni sua parola potrà trovare in qualche modo eco in dibattimento. Sia quelle dette che quelle non dette. Queste ultime possono prestarsi ad una illegittima utilizzazione nei confronti dell’imputato, rilevando come argomento di prova a contrario, oppure mettendolo in cattiva luce per l’‘‘ostruzionismo’’ praticato; il che è ciò che si è puntualmente verificato nella vicenda esaminata, concretizzandosi nel parere negativo in ordine alla concessione delle generiche. Sicché il silenzio che per coerenza rispetto ai principi inviolabili di cui costituisce diretta derivazione — il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza — non dovrebbe essere sintomatico di nulla, può diventare al contrario molto ‘‘eloquente’’. Costituisce punto fermo della elaborazione teorica sul tema del diritto al silenzio, la conclusione che dal suo esercizio non possono derivare effetti in qualunque modo pregiudizievoli per colui che se ne avvale, pena la totale vanificazione del diritto stesso (35). Le prime, invece, possono riaffiorare ove l’imputato, dopo aver risposto in sede di interrogatorio, preferisca non sottoporsi ad esame durante l’istruttoria dibattimentale; in un caso di questo genere, l’art. 513, comma 1o, c.p.p. autorizza il giudice, su richiesta di parte a disporre la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese durante la fase investigativa che, pertanto, dispiegheranno efficacia nei suoi confronti. Con il che risulta lampante il boicottaggio della libertà riconosciuta all’imputato di decidere, senza temere ripercussioni indirette, se optare o meno per l’esame ovvero se consentire alla richiesta fatta in tal senso da una delle altre parti. E dire che il legislatore, oltre a configurare espressamente tale atto come mezzo di prova volontario (art. 503, comma 3o, c.p.p.), si è preoccupato di tutelare, sebbene in modo non organico, il requisito della volontarietà e ha previsto la possibilità dell’accompagnamento coattivo dell’imputato contumace o assente per l’assunzione di qualunque prova necessiti della sua presenza, fatta eccezione per l’esame (art. 490 c.p.p.). Dovrebbe apparire evidente come tale esclusione sia espressione della logica garantistica connaturale alla funzione autodifensiva dell’esame, in contrasto con l’efficacia intimidatoria e, dunque, con il condizionamento psicologico che dall’accompagnamento manu militari può derivare (36). Sembra evidente che alla base delle previsioni codicistiche richiamate e dell’orientamento maturato in seno alla giurisprudenza di cui la pronuncia in commento costituisce espressione (37), vi è una mal celata volontà tesa a favorire con(35) V. GREVI, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, cit., 128 ss.; M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, 334 ss. (36) Si vedano al riguardo le osservazioni di M. NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, 76-77, il quale dopo aver evidenziato l’intrinseca contraddittorietà di una previsione quale quella dell’art. 132 c.p.p., che consente di condurre con la forza, davanti all’accusa, quella stessa persona alla quale è riconosciuto il diritto di non rispondere, rileva che l’art. 376 c.p.p. pur subordinando l’iniziativa del P.M. all’autorizzazione del g.i.p., comunque « altera la funzione autodifensiva dell’interrogatorio, a favore della ricerca della verità, anche con mezzi coercitivi sulla persona indiziata ». L’art. 490 c.p.p., poi, come accennato nel testo, eccettuando l’esame dal novero degli atti per i quali può disporsi l’accompagnamento, si riallinea con l’ottica accusatoria che ripudia la concezione dell’imputato come oggetto di prova, ma limitatamente al dibattimento e solo per l’imputato che sia contumace o assente. Infine, in relazione all’incidente probatorio, l’art. 399 c.p.p. con « una soluzione intermedia assai opinabile » (M. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 77), consente soltanto l’accompagnamento che riguardi l’esame concernente la posizione del coimputato nello stesso procedimento. (37) In proposito si tenga conto altresì quale ulteriore indice di un atteggiamento comunque teso a sminuire la portata del diritto in esame, della disparità di vedute che dottrina e giurisprudenza fanno registrare in ordine alle conseguenze derivanti dall’omesso avvertimento da parte dell’autorità che conduce
— 1134 — dotte collaborative da parte dell’imputato, al di là di ogni ammissibile estensione di quella logica cooperatoria che presiede alcuni settori dell’ordinamento, con riferimento sia all’imperversante modulo ‘‘premio-delazione’’, sia anche all’innaturale convergere di volontà distinte proprio dei riti alternativi al dibattimento. In realtà, si tratta di profili talmente differenziati, che ogni loro eventuale commistione è da ritenere improponibile. Un conto, infatti, è l’ottica dell’accordo che intercorre tra le parti e, quindi, del sovrapporsi delle funzioni contrapposte, ragione giustificatrice degli sbocchi procedimentali che sfociano nella ‘‘giustizia negoziata’’, altro e affatto diverso aspetto è la trasposizione nell’ambito dell’iter procedimentale ordinario, modellato secondo i principi del processo di parti, di criteri di omologazione dei ruoli e degli obiettivi propri di accusa e difesa, intrinsecamente antagonistici e, pertanto, inconciliabili. Che poi a questo traguardo si arrivi soltanto per vie traverse, sanzionando l’atteggiamento dell’imputato che in un modo o nell’altro si riveli di scarso sostegno alla tesi d’accusa, non attenua la misura della deviazione dal percorso obbligato tracciato dai principi del sistema accusatorio. Anzi, come accade per tutto quanto rileva in forma occulta, questa pratica risulterà forse ancora più insidiosa. Del resto, come potrebbe essere diversamente per quello che ammantato della sacralità inviolabile di ciò che costituisce esercizio di un diritto, si ritorce contro colui che se ne avvale? (38). 6. Attenzione particolare merita il tema del diritto al silenzio dell’imputato in riferimento alla distinzione tra fatto proprio e fatto altrui, che si impone in tutte le vicende processuali che vedano come parti la figura del coimputato e quella dell’imputato di procedimento connesso o collegato, sottoposte ad esame ex art. 210 c.p.p. (39). Come anche di recente ribadito, « il rischio dell’autoincriminazione... viene ril’interrogatorio circa la facoltà di non rispondere. A differenza della dottrina che inquadra tale omissione tra le nullità di ordine generale ex art. 178, lett. c), c.p.p. (R.E. KOSTORIS, Commento agli artt. 64 e 65, cit., 332), o a quelle a regime intermedio di cui all’art. 180 c.p.p. (O. DOMINIONI, Commento agli artt. 64 e 65, cit., 404), i giudici di legittimità sulla base del prevalente orientamento consolidatosi nel vigore dell’abrogato art. 78, comma 3o, c.p.p. 1930, la riconducono alla categoria della mera irregolarità formale (Cass., Sez. VI, 12 novembre 1991, in Cass. pen., 1994, 98, con nota critica di M. COLAMUSSI, Interrogatorio dell’imputato e omesso avvertimento della facoltà di non rispondere, cui si rinvia per la rassegna bibliografica e giurisprudenziale). (38) Benché, oggi, le tecniche tese ad aggirare la garanzia del silenzio siano assai più raffinate, non sembrano in fondo così lontane le atmosfere inquisitorie, quando in assenza di una confessione tempestiva, si dosava sapientemente il profilarsi di oscuri presagi, ove il reo si ostinasse a tacere o ad essere reticente. L’indagatore richiamava severo il sospetto parricida Dmitri Fëdorovic̆ Karamazov per le lacune del suo racconto e ammoniva: « permetteteci, egregio signore di avvisarvi e di rammentarvi ancora una volta, se voi non lo sapeste, che è vostro pieno diritto non rispondere alle domande che vi vengono sottoposte, e noi, reciprocamente non abbiamo alcun diritto di estorcervi delle risposte, se voi ricusate di rispondere per una ragione o per l’altra. Spetta decidere al vostro personale discernimento. Ma quel che spetta a noi, è di prospettarvi ben chiaro, in un caso come questo, e di spiegarvi in modo evidente quanto grande sia il danno che vi procurate da voi rifiutandovi di rendere questa o quella testimonianza », Fëdor DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Torino, 1981, 615. (39) Per la bibliografia essenziale si veda L. D’AMBROSIO, Commento all’art. 210 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. II, Torino, 1989, 507; A. GIARDA, Commento all’art. 210, in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, Milano, 1998, 774; V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato » nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, 1150; ID., Facoltà di non rispondere delle persone esaminate ex art. 210 c.p.p. e letture dei verbali delle precedenti dichiarazioni, in questa Rivista, 1992, 1123; M. NOBILI, Commento all’art. 513, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. V, Torino, 1991, 436; ID., Commento all’art. 513, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, II aggiornamento, Torino, 1993, 265; M. FERRAIOLI, Dubbi sull’acquisibilità delle dichiarazioni in precedenza rese dall’imputato (o coimputato) che rifiuti l’esame in dibattimento, in Giur. cost., 1992, 1949; M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, Milano, 1994.
— 1135 — tenuta per implicito estesa anche al fatto altrui. Alla base vi è la ben nota difficoltà di distinguere, sul piano dell’accertamento storico (ad esempio nel caso di concorso di persone nel reato, ovvero in presenza di altre ipotesi di connessione di procedimenti), tra l’area del fatto proprio e l’area del fatto altrui, da cui si desume la normale sussistenza di un interesse dell’imputato a tacere anche sul fatto altrui, per evitare spiacevoli ripercussioni a proprio danno » (40). Ma al di là della esigenza derivante da siffatta circostanza, nessun motivo di diverso tipo dovrebbe poter sottrarre l’imputato dal dovere di testimoniare rispetto al fatto altrui, con tutta la serie di obblighi che vi si ricollegano secondo le disposizioni generali sulla testimonianza; « in tanto ha senso riconoscere all’imputato il diritto al silenzio sul fatto altrui, in quanto si tratti di una garanzia funzionale alla tutela del diritto al silenzio sul fatto proprio » (41). Le regole in materia sono state oggetto di ripetuti e repentini cambiamenti ad opera sia del legislatore che del giudice delle leggi. Prima dell’ultima sentenza costituzionale in argomento cui si accennerà tra breve, ove l’imputato, dopo aver reso dichiarazioni anche sul fatto altrui durante l’interrogatorio espletato nel corso delle indagini o della udienza preliminare, rifiutasse di sottoporsi ad esame, scattava la disciplina dell’art. 513, comma 1o, c.p.p. così come modificato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267; la norma innovata se ammetteva l’utilizzabilità delle dichiarazioni contra se, sanciva però l’inutilizzabilità delle stesse dichiarazioni ove riguardassero il fatto altrui, cioè di persona diversa dal dichiarante, salvo che questi esprimesse parere favorevole alla loro utilizzazione (42). Nella diversa ipotesi di dichiarazioni rese dall’imputato di un procedimento connesso o collegato avvalsosi della facoltà di non rispondere in dibattimento, l’art. 513, comma 2o, c.p.p. — sempre secondo il testo novellato del ’97 — subordinava la lettura dei verbali contenenti tali dichiarazioni all’accordo delle parti. Da questa regola di esclusione probatoria scaturiva « una situazione singolare per cui in simili ipotesi l’attribuzione all’imputato del diritto al silenzio sul fatto altrui non è funzionale alla garanzia dello stesso imputato dichiarante rispetto al fatto proprio, bensì produce esclusivamente l’effetto di impedire l’impiego processuale delle sue precedenti dichiarazioni nei confronti di soggetti terzi non coinvolti, non essendosi potuto esercitare il contraddittorio riguardo ai temi oggetto di tali dichiarazioni. Col risultato, in molti casi, di eliminare dal processo degli elementi probatori decisivi a carico di terzi in forza di una garanzia attribuita all’imputato per tutelare se stesso in ordine al fatto proprio, non già per tutelare i terzi coimputati in ordine alle loro proprie responsabilità » (43). Proprio su quest’ultimo aspetto tra gli altri si è soffermata la Corte costituzionale nella articolata sentenza n. 361 (44), con la quale è tornata a pronunciarsi in (40) V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in Le risposte penali all’illegalità, Tavola rotonda nell’ambito della Conferenza annuale della ricerca organizzata dal Consiglio Nazionale delle ricerche e dall’Accademia dei Lincei, Roma, 2 aprile 1998, Relazione di sintesi, 2, ora in questa Rivista, 1998, 1129. (41) Ancora V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., 2. (42) G. RICCIO, Letture più circoscritte e forme ‘‘alternative’’ di acquisizione probatoria, in Diritto penale e processo, 1997, n. 10, 1176 ss.; M. BARGIS, Le dichiarazioni del coimputato, Relazione tenuta nell’ambito del Convegno La disciplina della prova nei paesi dell’Unione europea, Ischia, 2-3-4 luglio 1998; M. FERRAIOLI, Il nuovo sistema delle letture dibatimentali, in AA.VV., Le innovazioni in tema di formazione della prova nel processo penale, Milano, 1998, 103; A. GIARDA, Le « novelle » di una notte di mezza estate, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, 137; G. GARUTI, Commento all’art. 513, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, IV aggiornamento, Torino, 1998, 108; F. PERONI, La nuova disciplina delle letture di dichiarazioni provenienti dall’imputato, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, 149. (43) V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, cit., 2-3. (44) Corte cost., 2 novembre 1998, n. 361, in Guida al dir., 1998, n. 44, 20 ss. Per i primi com-
— 1136 — merito all’art. 513 c.p.p. con riferimento alle risoluzioni del legislatore dell’estate ’97, dichiarando l’illegittimità del comma 2o, ultimo periodo, della norma in questione, nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura si applica l’art. 500, commi 2-bis e 4o c.p.p. Allineate sulla stessa ‘‘lunghezza d’onda’’ le ulteriori censure di illegittimità relative agli artt. 210 e 238, comma 4o, c.p.p., da cui esce diversamente dimensionata la posizione del dichiarante coimputato o imputato di un procedimento connesso (45). Rispetto allo schema normativo così innovato, c’è da interrogarsi sul tipo di ripercussioni suscettibili di prodursi riguardo al diritto al silenzio, non senza premettere che qualsiasi tentativo di risposta in merito non può non tenere conto dalla figura assolutamente peculiare — viene da dire tutta italiana (46) — dell’imputato-dichiarante erga alios. Lo spazio crescente che questo ibrido giuridico trova nel nostro quotidiano giudiziario è legato alle esigenze di politica criminale, il cui incombere soltanto ne può, se non giustificare, almeno in parte spiegare, un così ampio riconoscimento da parte del sistema. Prescindendo da esse e dal diffusivo modulo ‘collaborazionistico’ che hanno introdotto, riesce difficile comprendere la legittimità di un dichiarante ‘‘ad intermittenza’’ che, quando decida di tacere dopo aver precedentemente riferito sulle responsabilità di altri, è poi sottratto alle regole ordinarie della testimonianza, per quanto non vi siano dubbi che il silenzio è garantito soltanto contro il rischio di autoincriminazioni e non per coprire responsabilità di terzi estranei che, se accusati, devono poter confutare in contraddittorio ciò che viene loro addebitato. La particolarità di questo soggetto, « che è al tempo stesso imputato e testimone, avente peraltro tutti i diritti del primo e nessun dovere del secondo » (47), costituisce la premessa dell’iter logico seguito dalla Corte che, promuovendone l’equiparazione, ritiene di poter bilanciare gli interessi confliggenti che introduce nel processo — il diritto di difesa nella duplice angolazione, da un lato, del diritto di non autoincriminarsi in capo al dichiarante erga alios e, dall’altro, del diritto del menti alla pronuncia in esame si vedano M. CHIAVARIO, Una nuova svolta nella tormentata vicenda del regime di utilizzabilità delle dichiarazioni di coimputati e di imputati in procedimenti connessi: impressioni congetture e suggestioni ‘‘a prima lettura’’ sulla sentenza n. 361 del 1998 della Corte costituzionale, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, Torino, 1998, IV aggiornamento; S. CORBETTA, Il Commento, in Il Corr. giur., 1998, 1420; G. FRIGO, Un’involuzione dell’impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, in Guida al dir., 1998, n. 44, 61; P. GIORDANO, Una scelta coerente con il sistenB processuale che elimina le incongruenze della riforma, in Guida al dir., 1998, n. 44, 70; E. MARZADURI, Il diritto al silenzio del coimputato, in Diritto penale e processo, 1998, 1512; A. NAPPI, La decisione della Corte costituzionale sull’art. 513 c.p.p.: un’importante innovazione che lascia aperti molti problemi, in Gazz. giur., 1998, n. 40; P.P. RIVELLO, La possibiltà di procedere al controesame salva il principio del contraddittorio, in Guida al dir., 1998, n. 44, 65; I. RUSSO, Complessa e di difficile lettura la sentenza costituzionale sull’art. 513 c.p.p., in Guida al dir., 1998, n. 45, 3; P. TONINI, Il diritto a confrontarsi con l’accusatore, in Diritto penale e processo, 1998, 1506. (45) L’art. 210 c.p.p. è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non ne è prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria e alla polizia giudiziaria su delega del P.M.; è stata infine dichiarata la illegittimità dell’art. 238, comma 4o, c.p.p. nella parte in cui non prevede che, qualora in dibattimento la persona esaminata a norma dell’art. 210 c.p.p. rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza di consenso dell’imputato alla utilizzazione si applica l’art. 500, commi 2-bis e 4o, c.p.p. (46) Per un quadro dell’istituto sotto il profilo del diritto comparato, in particolare P. TONINI, Imputato « accusatore » ed « accusato » nei principali ordinamenti dell’Unione Europea, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, 261; M.E. CATALDO, Imputato e « testimone assistito » nel processo penale francese, ivi, 285; R. ORLANDI, Coimputato e imputato connesso nel processo germanico, ivi, 299; C. VETTORI, Diritto dell’imputato a confrontarsi con colui che lo accusa e diritto al silenzio: l’ordinamento inglese, ivi, 273. (47) A. GIARDA, Le « novelle » di una notte di mezza estate, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, 140.
— 1137 — destinatario delle dichiarazioni di sottoporle al vaglio del contraddittorio davanti al giudice della decisione — attraverso l’estensione della disciplina delle contestazioni, così da garantire « sia il diritto dell’imputato dichiarante di avvalersi della facoltà di non rispondere, sia il diritto al contraddittorio dell’imputato destinatario delle dichiarazioni, nel rispetto del principo della formazione dialettica della prova in dibattimento ». Al di là della soluzione specifica che la Corte costituzionale ha dato al caso sottopostole, necessariamente vincolata tra l’altro ai limiti del suo sindacato, crediamo comunque che la pronuncia in esame debba porsi come un input significativo per un ripensamento complessivo della materia, che si muova nella direzione di una netta differenziazione dei ruoli, in capo all’imputato che renda dichiarazioni sulla responsabilità propria ed altrui; in questa seconda ipotesi dovendosi applicare la disciplina generale sulla testimonianza nei confronti di chi non può non assumere la qualità di teste quando, dopo aver liberamente deciso di ‘parlare’, lo faccia in ordine alle responsabilità di terze persone. 7. Certamente non sarà sfuggito che, nonostante l’impostazione sostenuta dalla Suprema Corte non sia stata condivisa, tuttavia ci si è mossi fin qui sul piano del suo stesso argomentare, in un certo senso ‘‘reggendone il gioco’’. Si vuole dire, cioè, che per quanto le ragioni sulla cui base i giudici hanno creduto di dover rifiutare la concessione delle generiche, siano state fin qui criticate, tuttavia ad una considerazione più attenta della sentenza in esame ci si avvede chiaramente che nel caso concreto non vi era proprio alcun elemento in grado di giustificare l’applicazione del beneficio sanzionatorio, perché evidentemente nella condotta del soggetto non era possibile cogliere alcun significato di minore disvalore dell’azione. In realtà, per una perdurante incomprensione dell’effettivo significato delle attenuanti generiche, queste vengono richieste, allora, con lo stesso automatismo con cui si ricorrerebbe a una formula di rito, per non rinunciare ad una possibilità che la legge prevede e grazie alla quale ottenere una riduzione di pena. Ma è evidente che così argomentando il ricorso a questo particolare tipo di circostanza è operato come se si trattasse di un espediente al quale genericamente appellarsi per fruire di una pena più mite, a prescindere dalla sussistenza in concreto di un fattore dal valore attenuante. Riemerge, dunque, il fraintendimento di fondo che circonda l’istituto: quando non ci sono altri elementi corcostanziali rilevanti tra quelli tassativamente descritti dal codice cui potersi appigliare, ci si aggrappa come estremo rimedio alle « generiche » pur di ottenere un alleggerimento del carico sanzionatorio, scambiando l’ipotesi di discrezionalità contemplata dall’art. 62-bis c.p. per l’attribuzione al giudice di un mero potere di indulgenza. In tale modo, la ratio legis della previsione sulle attenuanti viene del tutto oscurata per dare rilevanza al solo profilo della occasio legis, cioè del fine politico per cui la norma in quesione fu inserita nel ’44 nell’originario impianto codicistico del 1930: quello di predisporre uno strumento in grado di mitigare l’inasprimento sanzionatorio caratterizzante l’involuzione in senso autoritario del sistema voluto dal legislatore dell’epoca. I due piani del discorso, però, proprio perché nettamente distinti non possono essere sovrapposti o annullati, nell’ottica di un’autonoma considerazione, l’uno a scapito dell’altro; l’autentica ragion d’essere delle modalità di formulazione della fattispecie di cui all’art. 62-bis c.p. e le infinite potenzialità che la norma riserva per cogliere gli altrettanto illimitati significati di valore che la realtà offre, si perdono dove ci si fermi a questa visione riduttiva dell’istituto. RITA LOPEZ Ricercatrice di Procedura Penale nell’Università di Roma ‘‘Tor Vergata’’
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Un’« azione comune » dell’Unione Europea sull’assistenza giudiziaria in materia penale. Nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee n. L 191 del 7 luglio 1998 è pubblicato il testo dell’« azione comune » (98/427/GAI) adottata dal Consiglio il 29 giugno, sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, relativamente alla « buona prassi nell’assistenza giudiziaria in materia penale ». Questi sono, in sostanza, le regole e gli impegni enunciati allo scopo di sostanziare una tale prassi: Art. 1. Dichiarazioni di buona prassi. — 1. Ciascuno Stato membro deposita presso il segretariato generale del Consiglio dell’Unione europea, entro dodici mesi dall’entrata in vigore della presente azione comune (1), una dichiarazione di buona prassi nell’eseguire le rogatorie degli altri Stati membri, compresa la trasmissione dei risultati, e nel trasmettere agli altri Stati membri richieste di assistenza giudiziaria in materia penale. 2. (...). 3. Senza pregiudizio delle disposizioni del progetto di convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea e fatta salva la dichiarazione allegata alla presente azione comune (2) le dichiarazioni di ciascuno Stato membro di cui al paragrafo 1 includono l’impegno a promuovere la seguente prassi secondo la propria legislazione nazionale e le proprie procedure legali: a) ove lo Stato membro richiedente ne faccia richiesta, ad accusare ricevuta di tutte le rogatorie e domande scritte in merito all’esecuzione delle rogatorie, salvo nel caso in cui venga inviata rapidamente una risposta circostanziata; lo Stato membro richiedente può non richiedere di accusare ricevuta salvo nel caso in cui esso abbia contrassegnato « urgente » la rogatoria o, a suo parere, le circostanze rendono necessario accusare ricevuta; b) nell’accusare ricevuta delle rogatorie e domande di cui al presente paragrafo, a fornire alle autorità richiedersi il nominativo e i dati, compresi i numeri di telefono e fax, dell’autorità e, ove possibile, della persona responsabili dell’esecuzione della rogatoria; c) a dare priorità, qualora la legislazione dello Stato richiesto non vi osti, alle rogatorie chiaramente contrassegnate « urgenti » dalle autorità richiedenti e a trattare le rogatorie, siano esse contrassegnate « urgenti » o meno, in modo non meno favorevole rispetto alle richieste analoghe fatte nello Stato membro richiesto per conto delle autorità di detto Stato; d) nel caso in cui all’assistenza richiesta non possa essere dato seguito in tutto o in (*) A cura di MARIO PISANI. (1) L’entrata in vigore è prevista (art. 3) a decorrere dal giorno della pubblicazione. (2) Si tratta di una dichiarazione della Germania, del seguente tenore: « La Germania dichiara che le autorità tedesche accuseranno ricevuta ai sensi dell’art. 1, § 3, lettere a) e b) (...) qualora esse ritengano che ciò sia utile per accelerare l’esecuzione della rogatoria in questione o della domanda scritta ».
— 1139 — parte, a trasmettere alle autorità richiedenti una relazione scritta o orale precisando le difficoltà riscontrate e offrendosi, ove possibile, di valutare assieme alle autorità richiedenti come esse possano essere risolte; e) nel caso in cui sia prevedibile che l’assistenza non possa essere fornita o non possa essere fornita completamente entro il termine fissato dallo Stato membro richiedente e che ciò comprometterà i procedimenti in corso nello Stato membro richiedente, a trasmettere prontamente alle autorità di quest’ultimo una relazione scritta o orale nonché qualsiasi ulteriore relazione da esse richiesta precisando quando si prevede di fornire l’assistenza richiesta; f) a trasmettere le rogatorie non appena sia individuata la specifica assistenza necessaria, e, qualora la rogatoria sia contrassegnata « urgente » o sia indicato un termine, a motivare l’urgenza o il termine; la dichiarazione deve includere l’impegno a non contrassegnare « urgente » le rogatorie di importanza minore; g) a garantire che le rogatorie siano trasmesse in base al trattato pertinente o ad altri accordi internazionali; h) nel trasmettere le rogatorie, a fornire alle autorità richieste il nominativo e i dati compresi i numeri di telefono e fax, dell’autorità e, ove possibile, della persona responsabili dell’invio della rogatoria. Art. 2. Riesame delle prestazioni. — Fatto salvo il meccanismo di valutazione dell’applicazione e dell’attuazione a livello nazionale degli impegni internazionali in materia di lotta contro la criminalità organizzata, creato dall’azione comune 97/827/GAI, del 5 dicembre 1997, ciascuno Stato membro riesaminerà periodicamente la propria conformità alla dichiarazione di cui all’art. 1. Il meccanismo di tale riesame è determinato da ciascuno Stato membro tenendo conto del regime relativo all’assistenza giudiziaria in materia penale in esso vigente. Art. 3. Rete giudiziaria europea. — Il segretariato generale del Consiglio dell’Unione europea metterà a disposizione della rete giudiziaria europea (prevista nella raccomandazione n. 21 del piano d’azione del Gruppo ad alto livello « Criminalità organizzata ») (3), non appena saranno depositate, le dichiarazioni di cui all’art. 1. La rete valuta attentamente le dichiarazioni in base alle sue competenze e alla sua esperienza e può presentare le proposte che ritenga appropriate per migliorare l’assistenza giudiziaria in materia penale, compresa l’individuazione di metodi comuni per la valutazione delle prestazioni. (Omissis). Riciclaggio ed offerta di assistenza internazionale. 1. Al declino, nel nostro ordinamento interno, dell’istituto d’ancien régime rappresentato dall’« estradizione offerta » (v. Reati di « mercenarismo » ed offerta di estradizione, in questa Rivista, 1999, p. 736), fa da contrappunto l’affermarsi, nell’ordinamento dei rapporti internazionali europei, del nuovo istituto dell’offerta di cooperazione. Intendiamo riferirci all’art. 10 della Convenzione europea (Strasburgo, 8 novembre 1990) in tema di riciclaggio, ricerca, sequestro e confisca dei proventi di reato (4), nel quale si prevede un’offerta spontanea, senza previa richiesta, di informazioni a favore di altra Parte contraente della Convenzione. Tale offerta, che è previsto sia tale da far salvi le indagini e i procedimenti interni, può (3) La « rete giudiziaria europea » è stata istituita con l’« Azione comune » 98/428/GAI, avente la stessa data della precedente, e pubblicata sullo stesso numero L191 della « Gazzetta ». La sua entrata in vigore è stata prevista (art. 13) « un mese dopo la data di pubblicazione ». (4) Per il testo della convenzione v. PISANI-MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 662 ss.
— 1140 — concernere informazioni su « strumenti » (5) o su proventi, allorquando la Parte contraente « ritiene che la comunicazione di tali informazioni potrebbe aiutare la Parte ricevente ad iniziare o a svolgere indagini o procedimenti, ovvero potrebbe portare ad una richiesta di quest’ultima Parte ai sensi delle disposizioni » del capitolo III (6). Va anche aggiunto che, nel conferire « piena ed intera esecuzione » alla Convenzione (7), con l. 9 agosto 1993, n. 328, il nostro Paese ha contestualmente previsto, per l’adeguamento alla convenzione medesima, una serie di modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale, senza però dare attuazione al predetto art. 10. 2. Il tema dell’offerta di cooperazione è stato oggetto di un’elaborata decisione del Tribunale Federale elvetico in data 8 aprile 1999 (presid. Aemisegger; giudici Feraud, JacotGuillarmod, Catenazzi e Favre). Va premesso che la Legge federale sull’assistenza internazionale in materia penale (AIMP) del 1981 contiene un art. 67 a), che — proprio ispirandosi all’art. 10 della sopra richiamata Convenzione europea in tema di riciclaggio — ha concretato una tra le principali innovazioni apportate dalla novella del 1996 (v. in Ind. pen., 1996, p. 793): una innovazione che ancor meglio risalta se si considera che essa comportava un superamento di quello che era ritenuto il principio-base della cooperazione internazionale, secondo cui lo Stato richiesto agisce su domanda dello Stato richiedente (8). 3. Il Tribunale (segue una nostra traduzione) ha stabilito, fra l’altro (consid. 4 b), che « il deposito antecedente di una domanda di assistenza non esclude ipso facto la possibilità di una trasmissione spontanea ulteriore di informazioni alle autorità dello Stato richiedente ». In concreto, ed in sintesi (consid. 6 d): « l’autorità svizzera incaricata delle indagini penali potrà trasmettere informazioni e mezzi di prova in applicazione dell’art. 67 a AIMP, alle condizioni stabilite da questa norma, anche con modalità informali. Essa, tuttavia, ogni volta deve inoltrare all’autorità straniera una relazione scritta delle informazioni trasmesse. L’esigenza di una comunicazione scritta si impone allo scopo di garantire la protezione ottimale dei diritti delle parti nella procedura straniera, la quale deve rispettare i principi processuali fissati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal Patto ONU sui diritti civili e politici (art. 2 lett. a AIMP). In tal modo, la persona accusata (5) Si intendono per « strumenti » (art. 1 lett. c della conv.) « qualsiasi bene usato o destinato a essere usato, in qualsiasi modo, in tutto o in parte, per commettere uno o più reati ». (6) Sull’importanza, d’ordine storico e d’ordine pratico, di tale previsione v. P. BERNASCONI, Il nuovo diritto europeo sul sequestro e il depistaggio di valori patrimoniali provento di reato, in Riv. trim. dir. pen. dell’econ., 1992, p. 99, p. 251 ss.; NILSSON, in DE GUTTRY-PAGANI (a cura di), La cooperazione tra gli Stati in materia di confisca dei proventi di reato e lotta al riciclaggio, 1995, p. 231 ss., p. 247. (7) Cfr. La ratifica della Convenzione di Strasburgo (1990) in tema di riciclaggio, in Ind. pen., 1993, p. 751. (8) Art. 67a. Trasmissione spontanea di mezzi di prova e di informazioni. — 1. L’autorità di perseguimento penale può trasmettere spontaneamente a un’autorità omologa estera mezzi di prova acquisiti per la propria inchiesta, se ritiene che tale comunicazione sia idonea a: a) promuovere un procedimento penale, o b) facilitare un’istruzione penale pendente. 2. La trasmissione di cui al capoverso 1 non ha alcun effetto sul procedimento penale pendente in Svizzera. 3. Senza il consenso dell’Ufficio federale nessun mezzo di prova può essere trasmesso ad un altro Stato con il quale non esiste alcun accordo internazionale. 4. I capoversi 1 e 2 non si applicano ai mezzi di prova inerenti alla sfera segreta. 5. Informazioni inerenti alla sfera segreta possono essere fornite se permettono allo Stato estero di presentare una domanda d’assistenza giudiziaria alla Svizzera. 6. Ciascuna trasmissione spontanea deve essere registrata in un verbale.
— 1141 — all’estero — o ogni altra parte di questo procedimento — potrà, consultando il dossier penale contenente la relazione scritta della trasmissione spontanea, conoscere l’origine e il contenuto delle informazioni raccolte grazie alla collaborazione delle autorità elvetiche. Essa potrà, se del caso e secondo le forme del diritto straniero, opporsi all’utilizzazione delle informazioni che fossero state ottenute in modo illegale. L’autorità svizzera che comunica spontaneamente delle informazioni all’estero stenderà immediatamente il verbale indicato nell’art. 67 a.6), che in ogni caso inoltrerà all’Ufficio Federale unitamente alla copia della nota trasmessa alle autorità straniere, rendendo così visibile la dicitura trasmissione spontanea ». Ed ancora (consid. e): « Le persone in rapporto alle quali sono state trasmesse spontaneamente delle informazioni in applicazione dell’art. 67 a AIMP — o di ogni altra norma analoga contenuta in un trattato — non potrebbero tuttavia pretendere di poter ricorrere contro tali comunicazioni. Un tale intervento nella procedura d’assistenza sarebbe contraria alla volontà del legislatore e allo scopo della legge. Essa comporterebbe inoltre un rischio elevato di abuso quando, come nel caso di specie, non è la persona accusata nel processo penale straniero che intende opporsi alla trasmissione spontanea, ma sono dei terzi. Non è poi necessario esigere, dall’autorità di esecuzione che trasmette spontaneamente informazioni e mezzi di prova in base all’art. 67 a AIMP, una notifica alle persone interessate di una copia della comunicazione scritta inoltrata alle autorità straniere: una tale misura andrebbe al di là di ciò che è necessario per la protezione di queste persone e, in definitiva, porterebbe ad accordare loro il diritto di ricorrere contro la trasmissione spontanea, cosa che, invece, la legge ha proprio voluto escludere ». La conferma dell’atto d’accusa nei confronti di Milosevic (9). 1. Il 22 maggio 1999, in applicazione dell’art. 19 dello Statuto [del Tribunale Penale internazionale per l’ex-Jugoslavia], il Procuratore ha trasmesso l’atto d’accusa a scopo di esame e conferma, ed ha anche richiesto l’emissione di un certo numero di ordinanze conseguenti. 2. L’art. 47 B) del Regolamento precisa che il Procuratore deve allegare all’atto d’accusa degli elementi giustificativi che, a termini dell’art. 47 E), dovranno essere esaminati dal giudice designato. Secondo la giurisprudenza del Tribunale, il giudice Hunt ha ritenuto che scopo di questi elementi non sia quello di rimediare all’insufficienza dei fatti materiali esposti, ma piuttosto quello di venir loro in appoggio. In base all’art. 19.1 dello Statuto, si deve dar corso al procedimento quando i fatti materiali indicati nell’atto d’accusa costituiscono un insieme attendibile che, nell’assenza di elementi contrari addotti dall’accusato, siano in grado di offrire una base plausibile per accertare la sua colpevolezza. Il giudice Hunt ha ritenuto, inoltre, che non compete al giudice designato esaminare la forma dell’atto d’accusa, che, a termini dell’art. 72 A) del Regolamento, fa parte delle attribuzioni della Camera di prima istanza. Avendo poi esaminato l’atto d’accusa e la documentazione annessa ed avendo sentito personalmente il Procuratore, il giudice Hunt ha ritenuto che, alla luce dei fatti materiali esposti nell’atto d’accusa c’era materia per dar corso al procedimento sull’insieme dei capi d’accusa e che a supporto di questi fatti esistessero degli elementi di prova. Egli ha pertanto confermato l’atto d’accusa. 3.
A termini dell’art. 47 H) del Regolamento, dopo che l’atto d’accusa sia stato confer-
(9) Si tratta di un résumé dell’ordinanza del giudice David Hunt, in data 24 maggio 1999, nei confronti di Slobodan Milosevic + 4 (Aff. n. IT - 99.37.1).
— 1142 — mato, il giudice designato può deliberare un mandato d’arresto che comporta, in applicazione dell’art. 55 A), un’ordinanza ai fini della consegna dell’accusato al Tribunale. In base all’art. 55 D), il mandato può essere trasmesso, fra l’altro, alle autorità nazionali dello Stato sul territorio del quale l’accusato risiede o ha avuto la sua ultima residenza conosciuta, o sul territorio del quale il cancelliere ha motivo di ritenere che possa trovarsi. Nel caso della Repubblica Federale di Jugoslavia, il giudice Hunt ha ritenuto, come il Procuratore, che, tenuto conto delle alte funzioni governative e militari svolte dagli accusati, il Ministro della giustizia fosse l’autorità maggiormente in grado di dare esecuzione ai mandati. Il giudice Hunt ha inoltre ordinato che, in base all’art. 55 D) del Regolamento, delle copie certificate conformi dei mandati d’arresto venissero trasmesse ai vari Stati membri dell’organizzazione delle Nazioni Unite ed alla Confederazione Elvetica. Il Procuratore aveva fatto rilevare che il potere previsto nell’art. 55 D) è esteso e dev’essere distinto da quello enunciato all’art. 61 D). In quest’ultimo caso, la Camera di prima istanza delibera un mandato d’arresto internazionale se il mandato deliberato in base all’art. 55 D) non è stato eseguito entro un termine ragionevole. L’art. 54 accorda inoltre al giudice il potere di emettere ogni ordinanza necessaria per la preparazione e lo svolgimento del processo. Nella misura in cui non vi può essere processo senza accusato, un mandato d’arresto internazionale trova dunque giustificazione. Il giudice Hunt ha fatto proprie queste considerazioni. Egli ha inoltre ritenuto che, a termini dell’art. 29.2 dello Statuto, gli Stati membri dell’ONU siano tenuti a dare seguito a tutte le ordinanze a fini di arresto o detenzione di una persona. La cooperazione richiesta, invece, alla Confederazione Elvetica si atteggia come una « domanda di assistenza ». 4. Il giudice Hunt ha inoltre ordinato che tutti gli Stati membri dell’ONU compiano delle inchieste volte ad accertare se gli accusati posseggono dei beni sul loro territorio e, in caso affermativo, adottino delle misure conservative allo scopo di bloccare questi beni. Il Procuratore aveva inoltre fatto rilevare che le misure richieste impedirebbero agli accusati di utilizzare tali beni per sottrarsi all’arresto. Il giudice Hunt ha preso in considerazione il fatto che l’art. 61 D) del Regolamento autorizza una Camera di prima istanza ad ordinare il blocco dei beni in uno stadio leggermente posteriore, quando il mandato d’arresto deliberato in base all’art. 55 non è stato eseguito entro un termine ragionevole. Tuttavia, questo primo articolo non va interpretato come una limitazione dei vasti poteri riconosciuti al giudice all’art. 19.2 dello Statuto, e ripreso negli artt. 54 e 47 H) i) del Regolamento. In conseguenza, il giudice ha ordinato il blocco dei beni, senza pregiudizio — ha precisato — dei diritti dei terzi. 5. Il giudice Hunt ha inoltre emesso un certo numero di ordinanze di segretazione a termini degli artt. 53, 54 e 55 D) del Regolamento. In base all’art. 53, l’emissione di un’ordinanza di segretazione non può aversi se non quando lo esigano delle circostanze eccezionali e l’interesse della giustizia. Nel suo esame della richiesta del Procuratore, il giudice Hunt non si è pronunciato sulle eventuali conseguenze politiche e diplomatiche della segretazione di un atto d’accusa. Attesi i rischi di rappresaglia nei confronti del personale degli Stati e dell’ONU presenti nella ex-Jugoslavia, egli ha tuttavia ordinato la segretazione dell’atto d’accusa, dei mandati d’arresto e degli altri documenti relativi fino a quando la missione dell’ONU che vi si trova lasci la Repubblica Federale di Jugoslavia. Tuttavia, egli ha autorizzato il Procuratore, nel frattempo, a far conoscere l’esistenza di questi documenti al Segretario generale delle Nazioni Unite ed ai governi il cui personale o i cui agenti rischino di essere oggetto di misure di rappresaglia o di intimidazione (10). (10) Dal Corriere della Sera del 5 luglio 1999 (sotto il titolo: Kosovo, nei campi della strage, a firma di R. Orizio): l’accusa, contro Milosevic e gli altri quattro leader, sarebbe
— 1143 — 6. Da ultimo, visto il grave rischio incombente sull’integrità fisica di numerosi testimoni residenti sui territori dove gli accusati esercitano il loro potere, il giudice Hunt ha pure emesso un’ordinanza di segretazione dei documenti annessi dal Procuratore all’atto d’accusa. Se una parte soltanto degli accusati dovesse venire arrestata, può essere che l’ordinanza debba essere modificata e che diventi allora necessario adottare delle misure volte a proteggere l’identità dei testimoni, perché gli accusati arrestati possano essere informati degli addebiti mossi nei loro confronti. (Trad. da Nations Unies - Tribunal Pénal international pour l’ex-Jugoslavie, Bulletin Judiciaire, n. 5 - Résumés de la Jurisprudence du Tribunal en mai 1999, p. 4). Una direttiva in tema di condannati del Tribunale per i fatti dell’ex-Jugoslavia. La prospettiva, precorritrice e in qualche modo un po’ prematura, dello statuto e del trattamento, nelle istituzioni penitenziarie dei Paesi ospitanti, dei condannati da parte dei tribunali penali internazionali (sul tema v. MARINARI, The Treatment of Prisoners in Transnational Penitentiary Institutions, in Cahiers de Déf. Sociale, 1998, p. 83), sembra aver guadagnato un nuovo piccolo traguardo. Il 7 aprile 1999, il presidente del Tribunale dell’Aja per i fatti dell’ex-Jugoslavia, ha emanato (in base all’art. 19 B del Regolamento di procedura e di prova, all’art. 28 dello Statuto e agli artt. 123-125 del Regolamento) una « direttiva pratica » concernente « la valutazione delle domande di grazia, di commutazione della pena e di liberazione anticipata delle persone condannate dal Tribunale Internazionale » (per il testo della direttiva v. Tribunal Pénal International pour l’ex-Jugoslavie - Bulletin Judiciarie, n. 4/1999, p. 2). Ricordiamo che l’art. 125 del cit. Regolamento stabilisce: « Allo scopo di valutare l’opportunità di una grazia o di una commutazione di pena, il Presidente del Tribunale tiene conto, fra l’altro, della gravità del reato commesso, del trattamento concesso ai condannati che si trovino nella stessa situazione, della volontà di reinserimento sociale di cui il condannato dà prova, così come della serietà e dell’ampiezza della cooperazione fornita al Procuratore ». Aut dedere aut judicare (tra Francia e Stati Uniti) e una trasferta di giudici all’estero. « (...) C’est pourtant un procès bien singulier qui, s’est ouvert, vendredi 4 juin, devant la cour d’assises de Paris. Pendant deux semaines, les cinq femmes et quatre hommes qui composent le jury sont invités à voyager à travers les Etats-Unis. Thierry Gaitaud en a peu dit. Pourtant, les faits qui lui sont reprochés sont lourds. Il est accusé d’avoir assassiné sa maîtresse, Susan Belasco, et la fille de celle-ci, Melinda, âgée de trois ans. Le 19 juin 1992, les policiers de San Diego ont découvert, à son domicile, les deux corps en état de décomposition. Enceinte de plus de huit mois, la jeune femme a été frappée puis asphyxiée. La fillette semble avoir été étouffée (...). Pour la justice française, pas question d’extrader Thierry Gaitaud aux Etats-Unis. Un principe universellement admis veut en effet que l’on n’extrade pas ses propres ressortissants vers un pays étranger. Or le suspect, né aux Etats-Unis de père béarnais et de mère marocaine, dispose de la nationalité française. Cest donc à la maison d’arrêt de la Santé que quella di « Crimini contro l’umanità e violazioni delle leggi e degli usi di guerra per i fatti commessi in Kosovo dall’inizio del ’99: avrebbero pianificato, preparato e istigato a eseguire la pulizia etnica con omicidi, persecuzioni e deportazioni ». Il mandato d’arresto internazionale « indica Milosevic come responsabile per la deportazione di 740mila Kosovari e l’omicidio di almeno 340 persone (...). Il Tribunale dell’Aja indica in dettaglio solo alcune prove dei crimini di guerra e contro l’umanità, raccolte durante i bombardamenti dai servizi segreti di Usa e Gran Bretagna anche attraverso i satelliti. Ora tocca agli investigatori sul campo finire il lavoro di ricerca ».
— 1144 — Thierry Gaitaud a passé cinq ans et demi, et devant une juridiction française qu’il comparaît aujourd’hui, selon des principes bien différents de ceux de la justice américaine. Certes, le district attorney, ou plutôt son adjointe, Mary-Ellen Barrett, est là. Une table a meme été installée pour elle, à droite, face au président Yves Corneloup. Mais pas question pour elle d’interrompre l’audience par un de ces célèbres ‘‘Objection, votre honneur!’’. La jeune femme blonde n’est là que comme témoin, et c’est l’avocat général Philippe Bilger qui soutient l’accusation. Une justice française, donc, mais sensiblement particulière. Le président l’a dit d’emblée: le dossier sur lequel il s’appuie « n’est un dossier ». Les témoignages recueillis par les policiers américains n’ont en effet aucune valeur probante, la procédure ne les entourant pas des mêmes précautions. C’est donc pendant l’audience, à la manière des procès d’outreAtlantique, que les preuves seront passées en revue. Du shérif au coroner (médecin légiste) des enquêteurs aux divers témoins, 25 personnes témoigneront, interrogées par le président, les avocats de la défense et l’avocat général ». (N. HERZBERG, La cour d’assise de Paris juge Thierry Gaitaud, accusé d’un double meurtre aux Etats-Unis, in Le Monde 6-7 giugno 1999, p. 11). Italia - Perù: assistenza giudiziaria e trasferimento di condannati e di minori. Nei rapporti tra Italia e Perù era in vigore, in tema di assistenza giudiziaria, soltanto una convenzione per lo scambio delle sentenze penali, sottoscritta a Lima il 12 luglio 1935, ed entrata in vigore in pari data (11). Il 24 novembre 1994 è stato firmato, a Roma, un ben più ampio Trattato di assistenza giudiziaria in materia penale e, insieme, un Trattato sul trasferimento di persone condannate e di minori in trattamento speciale. Di entrambi è stata autorizzata la ratifica con l. 24 marzo 1999, n. 90 (in Gazz. Uff. 14 aprile 1999, n. 86). Era stato contemporaneamente firmato anche un trattato di estradizione, tanto che, nell’apposito comunicato del nostro ministero di grazia e giustizia si era detto: « I tre accordi costituiscono un significativo passo nell’evoluzione dei rapporti di collaborazione tra i due paesi per una più efficace lotta alla criminalità e pongono le premesse per la soluzione di alcuni casi di cittadini di ciascuno Stato detenuti nelle prigioni dell’altra Nazione ». Tra questi casi figurava quello di Maria Gabriella Guarino, condannata a venti anni di carcere per attività sovversiva in Perù (12). L’innovazione più caratteristica — nella tematica del trasferimento delle persone condannate (13) — è rappresentata dall’estensione della possibilità di trasferimento, alla stregua dell’art. 11 del secondo trattato, all’ipotesi del « minore in trattamento speciale », come tale intendendosi (art. 1, sub 6) « una persona minore di età che stia scontando una misura privativa della libertà inflitta con una decisione giudiziaria definitiva per aver commesso un fatto che l’ordinamento penale qualifica come reato » (14). (11) Per il testo v. PISANI-MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 246. (12) Italia - Perù: il caso di Maria Gabriella Guarino, in Ind. pen., 1995, p. 158. Per gli sviluppi del caso (riduzione della pena a mesi 17, seguita dall’espulsione e dal rientro in Italia) v. ibid, p. 798. (13) Su tale tematica v., da ultimo, la raccolta dal titolo Convenzioni sul trasferimento delle persone condannate, a cura di Elena Zanetti (Milano, 1999, pp. XII - 276). (14) Nella diversa ottica dell’« affido agli organi di protezione sociale e di educazione dello Stato di appartenenza » (Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia) v. i provvedimenti riportati — sotto il titolo: Minorenni nomadi e affido alla Stato di appartenenza — in Ind. pen., 1990, p. 403.
— 1145 — Estradizione e pena di morte nei rapporti Italia-Repubblica Federale Jugoslava. Pubblichiamo il testo della sentenza 3 febbraio 1999 della Corte d’appello di Milano, sez. V (presid. Riccardi; rel. Budano), concernente la richiesta di estradizione nei confronti di Miko Velimirovic: « 1. Con documentata richiesta del 9 gennaio 1998, il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte, richiamate le sottese domande del Ministero italiano di grazia e giustizia e del Governo della Repubblica Federale di Jugoslavia, ha invocato una deliberazione favorevole di questa Corte all’estradizione di Velimirovic Miko verso lo Stato straniero, per essere ivi giudicato per concorso in omicidio aggravato, concorso in omicidio aggravato mediante istigazione, tre episodi di tentato omicidio aggravato in concorso mediante istigazione, concorso in attentato alla pubblica incolumità, acquisto e detenzione non autorizzati di armi da fuoco, munizioni e materiale esplosivo — il tutto come da mandato di cattura n. Ki 4/98 emesso, il 22 gennaio 1998, dal Giudice istruttore del Tribunale circondariale di Cacak —. A sostegno della richiesta, il Procuratore Generale ha dedotto: che ‘‘nella procedura de qua trova applicazione la convenzione multilaterale europea firmata a Parigi il 13 dicembre 1957’’; che ‘‘nel caso di specie ricorre il requisito della doppia incriminabilità’’; che ‘‘i reati commessi non sono di natura politica’’, né « prescritti secondo la legge italiana’’; che ‘‘il richiesto non è cittadino italiano’’; che ‘‘per i reati di omicidio ovvero tentato omicidio di cui all’art. 47 capoverso 2 punto 4 del codice penale della Repubblica di Serbia, in riferimento all’art. 19 (tentativo), all’art. 23 (istigazione) e all’art. 24 (aiuto) del codice penale della RF di Jugoslavia, è prevista la pena [della] reclusione [a partire] da un minimo di 10 anni oppure la pena di morte’’, ma che, per l’art. 539 capoverso 3 della legge jugoslava sul procedimento penale, ‘‘se l’estradizione è concessa a determinate condizioni per quanto riguarda il tipo e la durata della pena che si può sentenziare ossia effettuare, e verrà accettata a tali condizioni, nell’emanare la sentenza il Tribunale sarà legato alle dette condizioni, e nel caso in cui si tratta di effettuare la pena già sentenziata, il Tribunale che ha giudicato nell’ultima istanza cambierà la sentenza e la renderà conforme alle condizioni di estradizione’’; che ‘‘il Ministero federale di giustizia ha garantito che, nei confronti di Velimirovic Miko, non sarà sentenziata ovvero effettuata la pena di morte nel caso venga acconsentita la sua estradizione a tale condizione »; che, pertanto, ‘‘non ricorre alcuna causa ostativa all’accoglimento della richiesta dell’Autorità jugoslava, subordinatamente alla condizione che in caso di condanna ... non venga inflitta la pena di morte’’. 2. Fissata udienza, debitamente comunicata, di trattazione della richiesta, si è proceduto all’esame relativo con rito camerale — presenti il rappresentante della pubblica accusa ed il difensore di fiducia del Velimirovic, che hanno concluso come da verbale, nonché il Velimirovic personalmente, che ha dichiarato d’opporsi all’estradizione —; e, all’esito, la Corte si è riservata di decidere. 3. A scioglimento di tale riserva, il Collegio deve osservare: Come già rilevato, fondatamente, dal Procuratore Generale, agli effetti che in questa sede rilevano non vi sono ragioni ostative all’accoglimento della richiesta di estradizione, ai sensi della Convenzione Europea di Parigi 13 dicembre 1957 e dell’art. 705 c.p.p., purché al Velimirovic, in caso di condanna, non venga inflitta la pena di morte: nella specie, infatti, la previsione (già richiamata) dell’art. 539 cpv. 3 della legge jugoslava sul procedimento penale, imponendo all’autorità giudiziaria procedente di non irrogare la pena di morte o, se già irrogata, di sostituirla con altra conforme alle condizioni dell’estradizione, cambia il segno delle ‘‘assicurazioni’’ dello Stato richiedente in ordine alla non irrogazione e/o esecuzione della pena di morte, conferendo a tali ‘‘assicurazioni’’ — già fornite nel caso in esame (v. nota 25 settembre 1998 dell’Ambasciata della Repubblica Federale jugoslava in Italia) — il significato di presupposto ordinamentale di operatività della ridetta previsione normativa, dunque il rilievo di un dato destinato ad integrare il precetto penale ed a fare espungere, dal
— 1146 — precetto medesimo, ogni riferimento alla pena di morte come a pena edittale applicabile — conformemente al principio di legalità —, anziché il rilievo (ritenuto insufficiente da Corte costituzionale 27 giugno 1996, n. 223 (15)) di una occasionale garanzia pattizia ancorata a discrezionali determinazioni delle autorità richiedenti — determinazioni queste, invece, problematiche quanto alle fonti della sottesa legittimazione e malcerte (specialmente in uno stato di diritto improntato al principio della separazione dei poteri) quanto all’effettiva attuabilità —. Secondo certa prospettazione difensiva, in verità, non potrebbe dirsi eliso, comunque, il rischio che, in violazione delle norme di legge, l’estradando venga assoggettato, di fatto, ad un trattamento (sanzionatorio o di altra natura) ben diverso da quello legale. Ma una tale evenienza — non suffragata da concludente comprova e confliggente, chiaramente, con il dato normativo (che esclude, come detto, la stessa possibilità di un accadimento quale quello ipotizzato) —, sfugge alla sfera di cognizione dell’autorità giudiziaria — chiamata a decidere, per forza di cose, alla stregua delle leggi vigenti e degli acquisiti elementi probatori — e si affida, semmai, alla valutazione politica dell’autorità di governo richiesta, che, nell’esercizio delle sue potestà, potrà stabilire se fare o non fare concreta consegna dell’estradando all’autorità richiedente. 4. Le assorbenti considerazioni innanzi svolte dispensano dall’esame di ogni altra questione, giustificando il mantenimento dell’estradando nell’attuale stato di custodia cautelare in carcere e il sequestro di eventuali corpi di reato e/o di cose pertinenti ai reati per i quali l’estradizione è autorizzata. P.q.m., la Corte, visto l’art. 704 c.p.p.: a) dichiara che nulla osta all’estradizione, verso la Repubblica Federale jugoslava, di Velimirovic Miko (meglio generalizzato in atti), in relazione a tutti i reati indicati in motivazione ed a condizione che nei confronti dello stesso non venga applicata, in caso di condanna, la pena di morte; b) conseguentemente, dispone il mantenimento dell’estradando nell’attuale stato di custodia cautelare in carcere ed il sequestro di eventuali corpi di reato e/o di cose pertinenti ai reati per i quali l’estradizione è autorizzata ». Una commissione di studio ministeriale. Al momento di andare in macchina, apprendiamo che, con decreto del 30 luglio 1999, il ministro Diliberto ha costituito, presso il Ministero, una « Commissione di studio incaricata di provvedere allo studio ed alla redazione di schemi di testi normativi per l’adeguamento della vigente normativa agli atti internazionali concernenti l’Italia in materia processuale penale (16), nonchè allo studio dei necessari aggiornamenti del libro XI del codice di procedura penale ». La Commissione — presieduta dal consigliere di cassazione dott. Giuseppe La Greca — presenta un elevato numero di componenti, pari a 21 (indicati in premessa come docenti e magistrati esperti nello specifico settore). La conclusione dei lavori è prevista per il 31 luglio 2000.
(15) Si fa riferimento alla sentenza intervenuta nel famoso « caso Venezia »: in ordine al quale ci sia consentito rinviare a quanto s’era avuta occasione di scrivere in Ind. pen., 1996, p. 671 ss. (16) Il testo del decreto (abbiamo riportato l’art. 1) presenta una probabile volontaria sfasatura rispetto ad una delle sue premesse, atteso che in essa si fa riferimento all’esigenza di adeguamento « in materia penale e processuale penale ».
DOTTRINA
LA GIUSTIZIA PENALE NEI CONFRONTI DEI MEMBRI DEGLI ORGANI COLLEGIALI (*)
1. I poteri del singolo amministratore e la regola della collegialità nell’attività del consiglio di amministrazione. — Una ponderata valutazione degli orientamenti assunti dalla giurisprudenza degli ultimi vent’anni relativamente alla responsabilità penale di amministratori e sindaci di società commerciali comporta necessariamente un preventivo esame degli effettivi poteri che, già alla stregua della normativa civilistica, fanno capo a ciascun amministratore (e a ciascun componente del collegio sindacale) di qualsiasi società di capitali: occorre cioè verificare rigorosamente quelli che sono i poteri ‘‘individuali’’ dei singoli componenti di un organo collegiale, quale il consiglio di amministrazione, che — per opinione comunemente ricevuta, e fatta salva l’ipotesi dell’amministrazione delegata — agisce soltanto collegialmente. A questo proposito si è talora sostenuto in dottrina che mentre il dovere dell’amministratore ha per contenuto solo la vigilanza sul generale andamento della gestione sociale, l’estensione del potere sarebbe invece rimessa alla ‘‘più ampia discrezionalità’’ di ciascun singolo amministratore, il quale potrebbe trasformare la sua vigilanza ‘‘da sintetica in analitica’’ e spingersi fino a svolgere un’indagine penetrante, di carattere minuziosamente inquisitorio, su singoli affari, soprattutto se necessaria (o ritenuta tale) per realizzare la vigilanza sul generale andamento della gestione. Di qui il diritto, che a ciascun amministratore spetterebbe, di assistere alle riunioni del comitato esecutivo (e di essere quindi preavvisato); l’eguale diritto che a ciascun amministratore spetterebbe di assistere alle riunioni ‘interne’ di direttori e dirigenti, nonché di esaminare, in piena libertà e senza restrizioni nelle modalità e nei metodi di indagine, qualsivoglia documento, contabile e non, relativo all’attività d’impresa, e di ottenere quindi dalla società ‘‘gli strumenti, anche materiali e ambientali’’ utili ai fini di una ‘‘serena e non disturbata ed efficiente esplicazione del suo potere’’ (1). Su questa stessa linea si è posta anche la giurisprudenza di merito quando ha sancito ‘‘il diritto dell’amministratore di accedere alla sede e (*)
Dal volume Il governo delle banche in Italia, a cura di F. RIOLO e D. MASCIAN-
DARO, Edibank, Milano, 1999.
(1)
DALMARTELLO, PORTALE (1980), in Giur. comm., I, p. 795 ss.
— 1148 — alla documentazione della società anche individualmente, e il correlativo obbligo della società di consentirgli — previo congruo preavviso — di realizzare il controllo sui dati contabili e documentali che rappresentano l’andamento generale della gestione e di consultare le persone preposte responsabilmente ai servizi amministrativi e contabili’’: il tutto, beninteso, nel rispetto delle ‘‘esigenze di funzionamento dell’impresa’’ (2). Ma siffatto orientamento non può essere condiviso. Giustamente si è replicato che avendo il legislatore richiesto la vigilanza ‘‘sul generale andamento della gestione’’, la norma dell’art. 2392 c.c. ha inteso evitare che gli amministratori debbano attivarsi al punto da dover vigilare sui singoli atti, anziché sugli aspetti realmente salienti: ai singoli amministratori non si fa quindi carico di una permanente attività di controllo, che significherebbe manifestamente una costante interferenza nei confronti dell’operato degli amministratori delegati, bensì di un dovere di sorvegliare che la gestione si svolga in modo conforme all’interesse sociale. Un controllo individuale, analitico e, in genere, extra-collegio non è ammissibile perché, oltre a determinare una situazione di disagio nell’amministratore delegato, farebbe perdere a costui e ai maggiori suoi collaboratori una infinità di tempo. E ciò appare agevolmente censurabile sol che si consideri che se tutti i componenti dell’organo amministrativo ritenessero essere loro diritto-dovere procedere in tal modo, l’esecutivo cesserebbe di occuparsi della gestione aziendale per dedicarsi all’informativa degli amministratori (3). Altro che rispetto delle esigenze di funzionamento dell’impresa, come assai ingenuamente indicato dalla surriferita giurisprudenza. Vero è che un’iniziativa autonomamente assunta in via individuale è consentita dall’art. 2403, comma 3, c.c. unicamente ai membri del collegio sindacale, i quali, per l’appunto, possono ‘‘procedere, anche individualmente, ad atti d’ispezione e di controllo’’: ciò conferma che per i consiglieri di amministrazione conserva intatta la sua validità la regola della collegialità, pienamente adeguata, oltre tutto, a garantire la piena osservanza del dovere di vigilare sul generale andamento della gestione. La regola della collegialità, d’altra parte, non impedisce affatto al singolo amministratore di assumere tutte quelle iniziative reputate utili od opportune ad assicurare quella vigilanza: alle eventuali richieste di informazioni o di consultazione di documenti l’amministratore delegato o il direttore generale non risponderanno infatti direttamente all’amministratore richiedente, bensì riferendo unicamente al consiglio nella prima riunione dell’organo amministrativo successiva al ricevimento di detta richiesta. Con vantaggio di tutti, e soprattutto di quanti in seno al consiglio non si (2) Così Trib. civ. Milano, 17 marzo 1986, richiamata adesivamente dalla sentenza penale dello stesso Tribunale in data 16 aprile 1999, in Riv. soc., 1994, p. 1077, sulla quale cfr. al successivo par. 2. (3) GRASSETTI (1980), in Giur. comm., I, p. 807 ss.
— 1149 — fossero resi conto dell’importanza di quanto richiesto dal più solerte collega: grazie precisamente alla regola della collegialità, che delle vicende societarie vuole che agli amministratori venga comunque riferito in consiglio, indipendentemente dal soggetto che abbia offerto l’occasione per l’informativa. Ciò che quella regola non consente è dunque la ispezione personalmente svolta dall’amministratore (non munito di delega), per le ovvie ragioni cui già si è accennato. Un concetto questo, espresso molto bene quando si è scritto che ‘‘pur essendo vero che l’istruttoria occorrente all’esercizio della vigilanza sul generale andamento della gestione è un diritto individuale di ogni amministratore, resta però che è nel consiglio che tale istruttoria deve svolgersi; è questo che stabilisce le modalità dell’esercizio dell’istruttoria medesima (ma senza, ovviamente, potere con ciò ridurne l’ampiezza); è sempre il consiglio che deve concretamente decidere quando e come debba iniziarsi e svolgersi tale istruttoria, eventualmente delegando all’uopo alcuni dei suoi componenti (ma senza potere escludere quelli che chiedono di prendervi parte). In questo senso deve dirsi che anche il potere di vigilanza è collegiale’’, perché pur avendo anche il singolo amministratore un diritto all’istruttoria, ‘‘non la può svolgere direttamente perché è soggetto al vincolo della collegialità: solo nel caso che il consiglio lo autorizzi, il singolo amministratore acquisisce poteri individuali di istruttoria’’ (4). 2. Gli orientamenti della giurisdizione penale: l’inquietante caso del Banco Ambrosiano. — Ciò premesso, e chiarito altresì, per quanto necessario, che l’eventuale insoddisfazione per le informazioni fornite non autorizza sicuramente l’amministratore ‘‘interpellante’’ a spingersi oltre fino a esercitare ‘‘di mano propria’’ i pretesi poteri di ispezione e acquisizione di quanto ritenuto utile per una risposta tranquillante ai propri dubbi e sospetti, non rimane che ripercorrere criticamente le indicazioni della giurisprudenza scegliendo, per verificarne l’ortodossia, un caso giudiziario decisamente emblematico: il dissesto del Banco Ambrosiano e la conseguente sua messa in liquidazione coatta amministrativa. Si è appena citata, a proposito degli ampi poteri individuali degli amministratori deleganti, la sentenza 16 aprile 1992 del Tribunale di Milano che aveva condannato per bancarotta fraudolenta (delitto notoriamente doloso) tutti gli amministratori e sindaci di quell’Istituto di credito: sulla base, fondamentalmente, proprio di un omesso esercizio di quegli ampi poteri che sarebbero stati invece idonei a prevenire la perpetrazione degli atti distrattivi del patrimonio sociale. E gli estremi di una responsabilità (4) Così SCOTTI CAMUZZI (1980), in Giur. comm., I, p. 788. Sul punto cfr. ora anche PEDRAZZI (1995), Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, Zanichelli, Bologna, p. 279.
— 1150 — penale sono stati rinvenuti in una serie di circostanze di fatto che attesterebbero appunto la sistematica violazione del dovere di vigilanza quali, tra le altre: a) l’approvazione di delibere particolarmente impegnative sul piano finanziario mediante ‘‘una frettolosa lettura del verbale predisposto’’, nonostante b) l’accendersi sempre più frequente, via via che si approssimava il manifestarsi del dissesto, di ‘‘segnali di allarme’’ relativamente al settore dell’esercizio del credito, e nonostante, ancora, c) in quello stesso periodo il presidente del consiglio di amministrazione della banca fosse stato arrestato per violazioni di norme valutarie, con conseguente d) intensificarsi della ‘‘campagna’’ della Banca d’Italia ‘‘per ottenere notizie sul comparto estero e un riassetto del medesimo in linea con le esigenze di legalità e trasparenza’’. Un quadro complessivo, pertanto, di colpevole inerzia oggettivamente inquadrabile nei parametri della negligenza, e possibile fonte, quindi, di una responsabilità — a tutto concedere — meramente civile: come hanno potuto, quei giudici, individuare invece un comportamento improntato a dolo, anzi fraudolentemente orientato? Nulla di più convincente, per persuadersi del contrario, che riferirsi testualmente alla stessa sentenza allorquando rileva come tali ‘‘indicatori’’ non potessero che ‘‘essere valutati nel loro convergente e univoco significato resistendo alla tentazione dell’utilizzo di una tecnica logico/interpretativa assolutamente inaccettabile, volta a enucleare e superare, svilendone l’intrinseca univocità, i singoli elementi, e prescindendo completamente, e invero un po’ rozzamente, dall’unico processo logico ammesso nella ricostruzione di qualunque fatto processualmente soggetto a valutazione, vale a dire l’esame congiunto e comparato dei vari indizi, al fine di verificare l’esistenza di assonanze induttive tali da eliminare alla fine qualunque possibilità di diversa interpretazione logica del loro verificarsi, alternativa al risultato psicologistico addebitato all’imputato in punto di sussistenza dell’elemento psicologico del reato’’. Improbabile cavare qualcosa di serio da una prosa tanto oscura quanto involuta: la sola idea chiara che vi traspare è il disegno di trasformare una condotta macroscopicamente colposa in un atteggiamento dolosamente — anzi, fraudolentemente — orientato, onde poter dichiarare integrato l’elemento soggettivo richiesto dalla contestata norma incriminatrice per la punibilità del fatto. Ma pure a questo riguardo è quanto mai opportuno riprodurre le sequenze argomentative adottate in sentenza per approdare al prefissato traguardo della responsabilità a titolo di dolo: c’è di che rabbrividire a oltranza. Osserva infatti il Tribunale di Milano che ‘‘la ferma determinazione a porsi in una situazione idonea a non percepire
— 1151 — e valorizzare il significato dell’indicatore d’allarme, equivarrebbe a non concretamente attivarsi — percepito il segnale — per evitare il pregiudizio del patrimonio sociale o ridurne le conseguenze in puntuale adempimento degli obblighi previsti dall’art. 2392 c.c.’’. Si direbbe, se non si è inteso male il ‘‘pensiero’’ del giudicante, trattarsi di una sorta di actio libera in causa: proprio come nell’ipotesi dell’addetto agli strumenti di viabilità e sicurezza delle ferrovie che, per far deragliare il treno, si ubriaca onde ‘‘porsi nella situazione idonea’’ a non manovrare lo scambio. È così? Chissà. Sembra comunque davvero fantasioso evocare (sia pure implicitamente, così almeno sembra) l’art. 87 c.p. per scorgere condotte ‘‘fermamente determinate’’ a commettere reati a carico di consiglieri di amministrazione di una banca, in realtà soltanto professionalmente impreparati a tale bisogna e ciecamente fiduciosi in chi, per tanti anni, aveva procurato loro modesti emolumenti e ai soci adeguati dividendi. Ma c’è di meglio (si fa per dire). Perché, proprio ‘‘su questo punto’’ — ossia sulla ‘‘ferma determinazione a porsi in una situazione idonea’’ — il Tribunale in questione ‘‘non pretermette di accennare alla consonanza di accenti rilevabile nella giurisprudenza assolutamente prevalente, dove la ragionevole possibilità per l’amministratore estraneo alla concreta amministrazione delegata, di rilevare l’illiceità lato sensu del comportamento distrattivo addebitabile al delegato è senz’altro equiparata alla consapevolezza concretamente raggiunta dal singolo componente del consiglio ». Per il Tribunale, insomma ‘‘l’atteggiamento positivamente connivente degli amministratori si pone quale fatto oggettivamente collegato da adeguato nesso causale all’illecita attività dell’amministratore delegato, collocandosi alla serie causale produttiva dell’evento quale momento di rafforzamento della volontà criminosa del suddetto organo sociale’’ Così che ‘‘il dolo degli amministratori ha subito un progressivo incremento di intensità in diretta correlazione coi puntuali atteggiamenti di collaborazione fattiva tenuti dagli amministratori’’. 3. La ‘‘soluzione’’ offerta dai giudici di primo grado. — Affermazioni, queste, a tal punto mostruose da imporre una pausa di riflessione: non già per tacere, sgomenti, di fronte a tanto disinvolto scempio di millenari principi di diritto e delle più elementari regole morali, ma per esprimere l’allarmata preoccupazione per la più pericolosa delle sopraffazioni ai danni del cittadino: quella giudiziaria. Non esiste arroganza che non debba incontrare limiti di sopportabilità, e quando quei limiti vengano varcati a spese della libertà personale del singolo il silenzio, più o meno compiacente, si addice unicamente a chi sia privo di ogni senso di responsabilità. In tempi di maggiore onestà, infatti, si era soliti insegnare che la
— 1152 — ‘‘possibilità’’ di rendersi conto delle conseguenze del proprio comportamento (commissivo od omissivo) stava a fondamento della responsabilità semplicemente colposa, perché ciò che era ‘‘possibile’’ prevedere era per ciò stesso prevedibile: la prevedibilità dell’evento era pertanto considerata il primo passo per ipotizzare una colpa penalmente rilevante. Ma, come è ben noto, allorquando la norma incriminatrice preveda il fatto esclusivamente come reato doloso, l’astratta prevedibilità, ossia la ‘‘possibilità’’ di rilevare le conseguenze del proprio o dell’altrui comportamento dannoso o pericoloso, non basta più: così come non sarebbe più sufficiente neppure la concreta previsione dell’evento dannoso se a quella previsione non si accompagnasse altresì la preventiva accettazione del rischio che l’evento dannoso possa poi verificarsi quale conseguenza, prevista appunto, della propria condotta. Ma ora non è più così. La giurisprudenza più sensibile e progredita, superato ogni sbarramento reazionario segnato dal monotono e ormai obsoleto principio di legalità (ritenuto non idoneo o comunque poco incline al soddisfacimento di esigenze di giustizia ‘‘sostanziale’’), statuisce ora l’assoluta irrilevanza della concreta rappresentazione dell’evento dannoso o pericoloso, dal momento che la ‘‘ragionevole possibilità’’ di rilevare l’altrui condotta illecita deve ritenersi, ormai, ‘‘senz’altro equiparata alla consapevolezza concretamente raggiunta’’ di quell’illecito. Non solo, ma il non aver rilevato ciò che si aveva la ‘‘ragionevole possibilità di rilevare’’ si collocherebbe — stante la sua qualità di fattore ‘‘positivamente connivente’’ — nella ‘‘serie causale produttiva dell’evento quale momento di rafforzamento’’ della altrui volontà criminosa. Come dire, volendo usare un linguaggio meno arruffato: continuate pure, amministratori deleganti, a non accorgervi delle malefatte dell’amministratore delegato (e dei suoi eventuali complici), poiché il vostro sonnolento atteggiamento, lungi dall’essere espressione di una negligenza penalmente irrilevante, costituisce al contrario un ‘‘progressivo incremento di intensità’’ del dolo. Con tutte le conseguenze ex art. 133, comma 1, n. 3, c.p. Eppure questo singolare prodotto di intelligenza combinatoria rispecchierebbe tuttavia una ‘‘consonanza di accenti nella giurisprudenza assolutamente prevalente’’, come già si è riferito: può darsi, se il Tribunale di Milano ha inteso richiamarsi alla ‘‘fondamentale’’ (così la ha definita) sentenza della Corte regolatrice in data 26 gennaio 1990, relativa al dissesto delle banche di Sindona. Se il riferimento è esatto va allora soggiunto che su quel responso e sulla ricorrente equivoca equiparazione, in esso contenuta, fra l’obbligo di vigilanza da un lato e il dovere di attivarsi dall’altro, già esprimemmo ampie riserve, testualmente osservando che ‘‘se l’obbligo di attivarsi presuppone ovviamente che l’amministratore sia venuto a conoscenza dell’esistenza di atti pregiudizievoli per gli interessi societari, l’omessa vigilanza, al contrario, quale espressione di un atteggiamento negligente (e pertanto tipica-
— 1153 — mente colposo), esclude la consapevolezza di quegli atti e, conseguentemente, una responsabilità penale ipotizzabile soltanto a titolo di dolo. A meno che si accerti in fatto che l’amministratore negligente si era rappresentato la possibilità che altri, profittando del suo comportamento negligente, avrebbero posto in essere atti dannosi costituenti reato: ma di siffatta concreta rappresentazione di altrui condotte criminose non c’è la minima traccia nella surriferita decisione. Dopo di che è più che legittimo il sospetto che, in virtù del comodo (ma alquanto scandaloso) espediente alla stregua del quale ‘‘gli amministratori non potevano non sapere’’, si sia realmente operato quell’‘‘illegittimo trasferimento da una responsabilità per colpa a una responsabilità per dolo’’ cui ha fatto cenno (ancorché per escluderlo) il giudice di legittimità (5). I giudici del Tribunale di Milano avevano però sottolineato la circostanza che gli ‘‘indicatori di allarme’’ sono stati molteplici e, una volta ‘‘percepiti’’, gli amministratori avrebbero dovuto correre ai ripari, quanto meno per cercare di attenuare le conseguenze della mala gestio giusta quanto prescritto dall’art. 2392 c.c. Il non essersi attivati allo scopo significa quindi aver accettato il rischio del verificarsi dell’evento dannoso prospettato dai numerosi ‘‘indicatori’’, con la conseguenza di doverne rispondere anche penalmente alla stregua del principio sancito dall’art. 40, cpv., c.p. Senonché, anche sotto il profilo meramente linguistico poco o nulla può significare aver ‘‘percepito’’ un determinato messaggio (o una serie di molteplici messaggi) se, ancora una volta, non si dà atto che l’amministratore non soltanto si è rappresentata la possibilità del verificarsi degli eventi pregiudizievoli ipotizzati dagli ‘‘indicatori di allarme’’, ma ha altresì accettato il rischio del loro verificarsi. In altre parole, se, in fatto, l’amministratore ha sì materialmente percepito quanto l’‘‘indicatore’’ aveva voluto richiamare alla sua attenzione, ma lo ha ritenuto — sia pure irragionevolmente — del tutto infondato, non si capisce come possa essere seriamente prospettata una responsabilità penale per delitto doloso anziché, semplicemente, una responsabilità esclusivamente civile. La concreta rappresentazione dell’evento dannoso così come la accettazione del rischio del suo verificarsi non sono un optional o, peggio, elementi che si possano disinvoltamente presumere ma circostanze di fatto la cui presenza deve essere di volta in volta accertata: è infatti assai difficile immaginare che un amministratore possa essere disponibile a restare in carica allorquando, percepito il messaggio allarmistico, ne condivida i contenuti e abbia quindi consapevolezza della disastrosa gestione attuata dall’amministratore delegato o dalla direzione generale dell’istituto di credito. Così come sarebbe altrettanto, se non an(5)
Cfr. Riv. soc., 1992, p. 1031.
— 1154 — cora più difficile, escludere che a certe affermazioni di mero comodo, quali quelle qui esaminate, sia stato fatto ricorso proprio per l’impossibilità di rintracciare altrimenti gli elementi costitutivi di qualsiasi illecito penale punibile esclusivamente a titolo di dolo. È naturalmente possibile ‘‘argomentare’’ anche diversamente purché, si abbia almeno quel tanto di ‘‘sensibilità’’ per riconoscere che si va contrabbandando come dolo ciò che in realtà è soltanto applicazione non richiesta di una non prevista responsabilità oggettiva per fatto altrui. 4. La presenza di ‘‘indicatori di crisi’’ quale prova del dolo nella inerzia degli amministratori secondo i giudici di appello. — Si ingannerebbe tuttavia chi, a questo punto, pensasse che nei successivi gradi di giudizio si sarebbe posto rimedio a tanta spregiudicatezza. Con sentenza del 10 giugno 1996 (6) la Corte di Appello di Milano ha infatti confermato integralmente la surriferita decisione dei giudici di primo grado, sul rilievo che per giungere ‘‘al cuore del problema’’ (e non divagare in censure più o meno inutili, ci permettiamo soggiungere) sarebbe bastato ancorare ‘‘l’affermazione di responsabilità degli amministratori in relazione e in conseguenza dell’inadempimento degli obblighi legislativamente previsti dalle norme di diritto societario, dalle norme speciali di diritto bancario e di quelle convenzionali, regolanti la vita delle società’’. E poiché, sugli amministratori gravava ‘‘un preciso e ineludibile dovere di vigilare sul generale andamento della gestione sociale e di attivarsi fruttuosamente per impedire il compimento o comunque per arginare gli effetti pregiudizievoli alla società e ai terzi’’, ne conseguiva che la violazione dell’obbligo di vigilanza avrebbe costituito ‘‘il fondamentale presupposto della responsabilità solidale degli amministratori in campo civile e, altresì, della loro responsabilità nel settore penale’’: violazione — tiene quella Corte a precisare — in fatto pacifica, dal momento che la discussione su quanto veniva deliberato dal consiglio di amministrazione ‘‘si riduceva alla frettolosa lettura del verbale predisposto’’, con conseguente sistematica approvazione di ogni delibera ‘‘senza alcun intervento da parte dei consiglieri’’. A dissipare il sospetto che la condotta in tal modo descritta potesse, a tutto concedere, fondare il ragionevole presupposto di una responsabilità per colpa e, quindi, una responsabilità unicamente civile per l’eventuale danno che ne fosse derivato, la Corte milanese rassicura gli incerti e i dubbiosi sottolineando puntigliosamente l’‘‘atteggiamento rigoroso’’ della giurisprudenza nell’‘‘escludere un diretto rilievo della volontà in capo all’imputato della produzione del dissesto ovvero della consapevolezza del dissesto quale conseguenza dell’atto pregiudizievole al patrimonio dell’impresa. Invero. è proprio l’atto pregiudizievole, vale a dire l’effetto dell’atto (6)
In Riv. soc., 1992, p. 274 ss.
— 1155 — sulla garanzia patrimoniale dei creditori, l’oggetto della ricerca in punto di elemento psicologico. Appare evidente la differenza tra la consapevolezza del dissesto, quale impotenza patrimoniale dell’impresa a far fronte alle obbligazioni, e la rappresentazione della natura pregiudizievole rispetto al patrimonio sociale del singolo atto distrattivo, senza alcun riferimento a una situazione patologica la cui prospettazione non è richiesta per la affermazione di responsabilità’’. Giusto (diciamo così, almeno per il momento). Ma da quale elemento o circostanza sarebbe balzata fuori proprio quella ‘‘rappresentazione della natura pregiudizievole, rispetto al patrimonio sociale, del singolo atto distrattivo’’? Semplicissimo, sembra voler insegnare la Corte: più che sufficiente, anche a suo giudizio, ‘‘la presenza sempre più massiccia, esplicita e inquietante degli indicatori della crisi gestionale che, assolutamente univoci nel trasmettere un chiaro messaggio d’allarme, dovevano essere valutati nella loro convergente significatività ». E se quella valutazione, sia pure con grave e imperdonabile colpa degli amministratori, fosse mancata? Essere venuti materialmente a conoscenza di quei segnali non significa affatto — già lo si è constatato — averli altresì valutati come avvertenza di situazione di oggettiva pericolosità per la sopravvivenza dell’impresa bancaria; e non sembra decorosa metodologia giocare col termine ‘‘percezione’’ per sottrarsi alla puntuale verifica della effettiva ‘‘rappresentazione della natura pregiudizievole di ogni singolo atto distrattivo’’ in capo a ciascun componente del consiglio di amministrazione. E l’abuso di quella metodica è tanto più grave perché, ancora in tempi recenti, la dottrina non ha mancato di ricordare che ‘‘la ‘percezione’ è una ‘conoscenza di primo momento’, è cioè un principio di conoscenza: come tale impone che si adempia al dovere di vigilanza, ovvero che ci si adoperi, per quanto possibile, al fine di maturare quella compiuta e effettiva conoscenza che, sola, e a differenza della mera ‘percezione’, integra il necessario presupposto del dovere di intervento. Il cosiddetto ‘segnale di allarme’ altro non è che l’indicazione di un pericolo, che, se recepito, altro non può significare se non un sospetto che vi sia qualcosa da conoscere. Ciò non significa ancora che vi sia una concreta possibilità di conoscenza né tantomeno una effettiva conoscenza. Il ‘segnale d’allarme’ è un generatore di sospetto genericamente prodromico alla conoscibilità. Rispetto a questo indice di rischio il soggetto può rimanere inattivo, oppure attivarsi e maturare la conoscenza o attivarsi e non riuscire a conoscere: se viene a conoscenza può, nuovamente rimanere inattivo oppure fare quanto gli è possibile al fine di impedire, eliminare o attenuare. Se a carico dell’amministratore l’oggetto del dovere di vigilanza è l’atto pregiudizievole, il ‘segnale di allarme’ deve dunque, per essere rilevante, essere, innanzitutto, indice di rischio di un preciso atto pregiudizievole, ovvero di un fatto-reato determinato. Se, rispetto a un siffatto ‘se-
— 1156 — gnale di allarme’, l’amministratore si attivi e venga a conoscenza della commissione di un atto pregiudizievole senza tuttavia adoperarsi per impedirlo o per eliminare o attenuare le sue conseguenze, allora sarà a ogni effetto corresponsabile della sua commissione. Se invece resti inattivo, porrà in essere un comportamento colpevole quante volte la mancata percezione gli sia addebitabile a titolo di colpa, ovvero se, pur in presenza dell’effettiva possibilità di recepirlo come tale, ovvero come indice rivelatore di uno specifico fatto-reato, non abbia fatto proprio quanto l’adempimento del dovere di vigilanza avrebbe richiesto: il mancato adempimento dell’obbligo di intervento sarebbe allora addebitabile all’amministratore in quanto responsabile di non aver maturato quella conoscenza, presupposto del dovere di intervento, che l’espletamento dell’obbligo di vigilanza avrebbe reso possibile’’ (7). Ma si resta pur sempre in queste ultime ipotesi nell’ambito di una responsabilità a titolo di colpa se il fatto è previsto dalla norma penale anche come reato colposo. Avvalersi pertanto della nota ‘‘clausola di stile’’ secondo la quale gli amministratori ‘‘non potevano non rendersi conto’’ delle anomalie rinvenibili nei singoli atti oggetto di delibera, nonostante fossero palesemente contrastanti con le ‘‘regole che presidiano l’esercizio del credito’’, significa accertare quanto basta per impostare un’azione di responsabilità in sede civile, ma men che nulla per farne discendere una responsabilità penale per delitto doloso. A meno che la Corte, convinta di disporre di un asso nella manica, avesse creduto — come già i primi giudici — di poterlo reperire ribadendo a propria volta che ‘‘la stessa giurisprudenza equipara la ragionevole possibilità per l’amministratore estraneo alla concreta gestione delegata, di rilevare l’illiceità lato sensu del comportamento distrattivo addebitabile al delegato alla consapevolezza concretamente raggiunta dal singolo componente del consiglio di amministrazione’’. Dopo di che non meraviglia più nessuno che anche la sentenza di appello avesse potuto ravvisare nel ‘‘dolo’’ (come sopra identificato) degli amministratori ‘‘un progressivo incremento di intensità in diretta correlazione con i puntuali atteggiamenti di collaborazione fattiva tenuta dagli amministratori’’. Ma si è fatta pure qualche osservazione alquanto curiosa per quanto attiene poi alla posizione dei membri del collegio sindacale. La Corte, infatti, premesso un ampio sermone sui compiti e obblighi propri dell’organo di controllo (che in questa sede non mette conto di riferire, stante la assoluta ininfluenza di essi), ha rilevato che ‘‘ogni verbale delle riunioni di quel collegio recava la prova di entusiastiche approvazioni di quella gestione, che essi avevano consapevolmente rinunciato a controllare nei mo(7)
Cfr. ACCINNI (1992), in Riv. soc., pp. 1522-1523; nonché, da ultimo, anche PE-
DRAZZI, op. cit., p. 277.
— 1157 — menti più salienti e significativi’’. E così, i verbali plaudenti, che fino a ieri potevano tutt’al più attestare irresponsabile superficialità e inidoneità all’assolvimento delle proprie funzioni, costituiranno invece, d’ora innanzi, prova del dolo: tanto più intenso, naturalmente (per dirla con l’art. 133 c.p.), quanto più entusiasta e calorosa l’adesione del collegio sindacale all’operato degli amministratori. No comment, dicevano gli inglesi. Ed è bene non aggiungere altro. 5. L’accertamento del dolo sulla base di un criterio statistico nella sentenza del giudice di legittimità. — Approdata la vicenda in Cassazione, il metro di valutazione dell’operato degli amministratori non ha subìto mutamenti rispetto alla valutazione effettuata nei precedenti giudizi di merito: ancora una volta mere presunzioni di consapevolezza della mala gestio dell’amministratore delegato, e quindi di correità con lo stesso, ricavate da una serie di circostanze di fatto che avrebbero potuto essere utilizzate indifferentemente, e forse con maggiore efficacia, per scagionare i prevenuti dagli addebiti loro contestati. Volendo procedere per sintesi, ecco un succinto campionario degli ‘‘indici rivelatori’’ del ‘‘dolo’’: a) avere manifestato solidarietà con l’amministratore delegato in tutte le iniziative da costui assunte; b) non aver preso alcuna iniziativa, per contro, neppure quando la stampa aveva diffuso gli elenchi degli affiliati a una nota loggia massonica, nonostante taluni di loro avessero fruito di cospicui finanziamenti per portare a termine l’operazione di controllo di una società editoriale da parte dell’amministratore delegato della banca finanziatrice; c) aver solidarizzato con l’amministratore delegato anche quando fu incarcerato per infrazioni valutarie connesse alla gestione della banca, opponendosi altresì alla sua sostituzione onde evitare che potessero apparire fondate le accuse che in quel procedimento la Procura aveva formulato; d) aver manifestato stupore e indignazione allorquando l’istituto centrale, presa cognizione delle ragioni per le quali un consigliere si era dimesso da amministratore, ebbe a manifestare dubbi sulla capacità degli organi collegiali preposti alla amministrazione della banca di assumere, responsabilmente, autonome determinazioni; e) non aver mai formulato rilievi e proposte che in qualche modo potessero costituire motivo di ripensamento o, per lo meno, di maggiore attenzione, venendo meno in tal modo ai propri doveri d’ufficio, pur non potendo non aver percepito il pregiudizio che talune operazioni avrebbero provocato all’istituto di credito (8). Per il Supremo Collegio, pertanto, da una ‘‘analisi corretta’’ di sif(8) Cfr. Cass. 22 aprile 1998, in Guida al diritto, a cura de Il Sole-24 Ore, 29 agosto 1998, n. 33, p. 120 ss.
— 1158 — fatte ‘‘risultanze’’ ‘‘derivava’’ necessariamente, quale ‘‘risultato logico’’ di quella analisi, e individuando nel dolo eventuale l’elemento psicologico che aveva animato la condotta degli imputati, la colpevolezza degli amministratori. Premesso infatti che ‘‘la linea di demarcazione fra il dolo eventuale e la colpa, pur quando questa sia carica della previsione dell’evento, è individuata nel diverso atteggiamento psicologico del soggetto che nel primo caso accetta il rischio che si realizzi un evento diverso non direttamente voluto, mentre, nella seconda ipotesi, nonostante l’identità della previsione, l’agente respinge il rischio, perché confida nelle sue concrete possibilità di controllare l’esecuzione dell’azione in modo che questa non produca effetti diversi’’, ne consegue che ‘‘comune al dolo eventuale e alla colpa con previsione dell’evento, è proprio la previsione degli effetti della condotta che sono e restano diversi rispetto a quelli voluti; ma ciò che diverge il dolo dalla colpa è l’accettazione del rischio, accettazione che deve essere presente nel dolo e assente, invece, nella colpa’’. Affermazioni per vero impeccabili: purché quando si proceda agli accertamenti relativi si abbia scrupolo di verificare, prima ancora dell’accettazione del rischio la previsione stessa dell’evento dannoso o pericoloso. Orbene a questo riguardo la Corte regolatrice osserva che ‘‘la prova del dolo eventuale può essere tratta soltanto da elementi sintomatici che debbono essere precisi e significativi, giacché tutti gli elementi psicologici non possono che essere ricostruiti affidandosi alla sintomaticità delle modalità intrinseche o estrinseche della condotta: e in tale prospettiva si e mossa l’indagine dei giudici di merito che da un lato hanno utilizzato, e con congrua valutazione, le circostanze estrinseche della condotta degli imputati e rivelatrici della cattiva gestione e degli effetti negativi ch’essa produceva sull’affidabilità dell’azienda di credito, e, dall’altro, hanno dato rilievo alla condotta dell’imputato dopo aver indicato, e con esauriente motivazione, le ragioni per le quali ogni amministratore non poteva ignorare quale era il rischio delle operazioni effettuate e ciò nonostante approvate, con la consapevole accettazione degli effetti pregiudizievoli che sarebbero scaturiti da finanziamenti erogati senza adeguate istruttorie, senza precostituirsi congrue garanzie e in Paesi a basso sviluppo economico; sicché, non occorreva uno sforzo di immaginazione nel prevedere che trattavasi di erogazioni senza ritorno e, quindi, compiute per finalità che nulla avevano a che vedere con quelle speculative, proprie di un istituto bancario che impegnava nei finanziamenti il denaro dei risparmiatori’’. Concludono sul punto i giudici di legittimità rilevando che ‘‘non si è confusa la conoscibilità potenziale degli effetti pregiudizievoli di quelle disinvolte operazioni con l’effettiva loro previsione, ma questa concreta previsione ha rappresentato nella ricostruzione dei giudici di merito la fondamentale premessa delle conclusioni alle quali sono pervenuti’’.
— 1159 — È certamente vero che nei giudizi di merito non si è fatta alcuna confusione fra la conoscibilità degli effetti pregiudizievoli e la concreta previsione degli stessi: anche in quei precedenti giudizi si è infatti data per scontata la concreta previsione di quegli effetti per il solo fatto che apparivano a tal punto prevedibili da doverli ritenere come concretamente previsti. Un criterio meramente statistico, dunque, scopertamente basato, in quanto tale, sull’id quod plerumque accidit: che con l’accertamento del dolo non ha assolutamente nulla a che spartire. Perché, si può anche concedere — con tutte le riserve del caso — che nessuna norma incriminatrice richiede un nesso causale tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa e che, quindi, né la previsione della insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell’atto dispositivo, né la percezione della sua stessa preesistenza nel momento del compimento dell’atto, possono essere condizioni essenziali dell’antigiuridicità penale della condotta: ma nessun accorgimento dialettico potrà mai legittimare l’introduzione di un criterio a sfondo statistico in luogo del concreto accertamento volta per volta, in capo all’amministratore, della previsione dell’effetto dannoso di ogni singola operazione deliberata dal consiglio di amministrazione. Se di questa elementare esigenza si fosse tenuto il debito conto la stessa Corte di Cassazione si sarebbe risparmiata l’infelice sortita — per giustificare la reiezione del ricorso di un amministratore — degli ‘‘accorgimenti contabili che non potevano certo sfuggire all’attenzione di un esperto banchiere, che operava in quella stessa area di mercato’’: osservazione validissima, se evocata per attestare una grave negligenza ai fini del risarcimento del danno: non però per accreditare una correità in una condotta delittuosa che lo stesso legislatore ha richiesto che sia ‘‘fraudolentemente’’ orientata. 6. Doveri e compiti del collegio sindacale nell’insegnamento della corte regolatrice. — Di tutt’altro livello, per ciò che concerne funzioni e responsabilità del collegio sindacale, sono invece i rilievi svolti dalla Corte regolatrice. Richiamandosi al costante orientamento del giudice di legittimità, tanto in sede penale quanto in quella civile, il Supremo Collegio ha sottolineato che ‘‘l’obbligo di vigilanza dei sindaci e del collegio sindacale non è limitato al mero controllo contabile, ma deve anche estendersi al contenuto della gestione, perché la previsione della prima parte del primo comma dell’art. 2403 c.c. dev’essere correlata con quella del terzo e del quarto comma dello stesso articolo che conferiscono ai sindaci il poteredovere di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni quando queste possono suscitare, per le modalità della loro scelta o della loro esecuzione, alcune perplessità. ‘‘L’ampio spettro dei loro poteri è delineato da quella norma con indubbia precisione: essi debbono controllare l’amministrazione della so-
— 1160 — cietà, vigilare sull’osservanza della legge, accertare la regolare tenuta della contabilità, la corrispondenza del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite alle risultanze dei libri contabili, controllare l’esistenza dei valori e dei titoli di proprietà e per l’esercizio di tutte queste complesse funzioni possono procedere in qualsiasi momento, e anche individualmente, ad atti di ispezione nonché chiedere informazioni agli amministratori sullo svolgimento di alcune operazioni. Il controllo sindacale, quindi, se non investe, in forma diretta, le scelte imprenditoriali, neppure si esaurisce in una mera verifica formale, quasi a ridursi a un riscontro contabile nell’ambito della documentazione loro messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione, tant’è vero che la legge distingue il controllo sull’amministrazione dalla vigilanza sull’osservanza formale delle norme, e li abilita a chiedere notizie sull’andamento delle operazioni, a ricevere denunce da parte dei soci su fatti censurabili nell’esercizio della impresa, e li obbliga a riferire nella relazione al bilancio sui concreti ed effettivi risultati dell’esercizio sociale’’. ‘‘Non può quindi fondatamente contestarsi che l’ordinamento imponga loro l’obbligo di impedire che gli amministratori compiano atti contrari alla legge e agli interessi della società e dei soci’’: per cui ‘‘se questo è il quadro di riferimento generale dell’estensione dell’obbligo di vigilanza dei sindaci per tutte le società, esso assume peculiari connotazioni che ne esaltano l’ampiezza, allorquando la società è preposta alla gestione di una banca in quanto alla normativa generale, predisposta dal codice civile, si aggiunge quella bancaria, sensibile alle peculiari caratteristiche delle funzioni che essa deve assolvere e agli interessi generali che deve perseguire’’. D’altra parte, soggiunge la sentenza della Cassazione, ‘‘la gestione di una banca non sarebbe neppure concettualmente immaginabile se dissociata dall’obbligo del rispetto di una particolare prudenza: operazioni che in una comune società finanziaria sarebbero definite brillanti escogitazioni di chi è pronto ad accollarsi un alto coefficiente di rischio nella prospettiva di ottenere ottimali risultati, e quindi rilevanti profitti, assumono i connotati negativi dell’imprudenza se riferiti a una banca, la cui funzione impone la conservazione costante della possibilità concreta di far fronte agli impegni assunti, e quindi della non dispersione delle proprie risorse finanziarie’’. Ne consegue — prosegue la Corte — ‘‘che alla specificità delle funzioni amministrative di una banca non può che corrispondere un’analoga specificità del controllo sindacale che con la prima si armonizzi, come un’attenta dottrina ha già avuto modo di porre in evidenza nell’illustrare il quadro normativo di riferimento dell’attività sindacale quando questa deve svolgersi sull’amministrazione di una banca. E di tale realtà si è reso interprete il nuovo Testo Unico in materia bancaria e creditizia, stabi-
— 1161 — lendo con quali specifiche modalità si deve attuare un costante raccordo funzionale tra il controllo interno dei sindaci e quello esterno della Banca d’Italia, prevedendo addirittura specifiche sanzioni penali per la mancata osservanza delle modalità con le quali tale raccordo funzionale deve attuarsi, perché ogni irregolarità sia tempestivamente segnalata alla Banca d’Italia. ‘‘In questa specifica materia non è, come pur da taluno si è affermato, che varia il grado di diligenza che si richiede al collegio sindacale di una banca rispetto a quello che in generale è riconducibile nell’ambito della previsione del secondo comma dell’art. 1176 c.c., ma vero è invece che lo stesso ordinamento pur senza modificare la disciplina generale, ha aggiunto obblighi e responsabilità specifiche che sono indissociabili dalla speciale disciplina di tale delicato settore dell’economia che, più di ogni altro, è sensibile alla connotazione pubblica degli interessi in gioco: ed è per questo che nelle banche la specificità e la profondità del controllo sindacale è strettamente connessa alla presenza della normativa altrettanto specifica sulla vigilanza esterna della Banca d’Italia: l’oggetto del controllo e le modalità del suo esercizio ne risultano ampliate, proprio perché l’uno e le altre debbono adeguarsi alle disposizioni delle autorità creditizie, e sovrintendere sempre alla regolare gestione della banca, con la conseguenza che il controllo dev’essere penetrante e capillare, perché soltanto in tal modo può essere efficace per prevenire ogni evento che esponga a rischio l’attività dell’azienda e le legittime aspettative dei soci e dei creditori’’. Alla luce delle suesposte considerazioni la Corte regolatrice ha pertanto ritenuto responsabile dei reati ascrittigli anche l’unico componente del collegio sindacale rimasto coinvolto nel procedimento (gli altri sindaci, probabilmente, si saranno avvalsi dell’applicazione della pena su richiesta ex artt. 444 ss. c.p.p.), avendo constatato che lo stesso ‘‘non solo non ha esteso la sua doverosa attività di controllo alla gestione dell’azienda, ma neppure ha effettuato una mera ricognizione formale della documentazione disponibile, perché non ha formulato mai alcun rilievo in relazione alle pur numerose operazioni finanziarie che risultavano deliberate, benché nei fascicoli mancasse ogni informazione sulla solvibilità dei destinatari e benché alcune delle garanzie offerte apparissero manifestamente incongrue rispetto alla consistenza dell’impegno assunto dalla banca’’: in un periodo — ricorda la Corte — nel quale ‘‘la Banca d’Italia si era particolarmente attivata nel richiamare l’attenzione degli amministratori sulle esposizioni estere, ritenute eccessive, nonché sull’abituale reticenza nell’esaudire le sue legittime e preoccupate richieste di informazioni’’, oltre alla ‘‘provocatoria richiesta’’, rivolta anche ai sindaci, per sapere se pure loro fossero ancora in grado di esercitare responsabilmente le loro funzioni. Si può ben capire lo stato di disagio in cui deve essersi trovato anche
— 1162 — il giudice di legittimità nel constatare prove tanto imponenti di sistematica negligenza nell’adempimento di così delicati doveri d’ufficio. Ma altrettanto disagio, e forse più ancora, si avverte nell’immaginare che quella macroscopica serie di omissioni debba inevitabilmente comportare l’inequivoca previsione di un possibile dissesto della banca e un’altrettanto inequivoca accettazione del rischio del suo verificarsi: per rassegnarsi a simile risultato occorrerebbe aver invero accertato che tutti quegli amministratori e sindaci erano in realtà ben lieti di continuare a rimanere del tutto inerti nelle loro cariche fino, appunto, al ‘‘previsto’’ dissesto aziendale, anche a costo di essere poi chiamati a risponderne tanto sotto il trascurabile profilo della libertà personale quanto sotto quello, ancor più trascurabile, di natura patrimoniale. Tutto è possibile: ma fantasia e immaginazione, per estrose che siano, hanno anch’esse limiti invalicabili. 7. L’aberrante equiparazione della colpa al dolo: la prova di un fatto surrogata dalla prova della possibilità di quel fatto. — Se quanto testé riferito risponde realmente, per quanto concerne la vicenda esaminata, allo ‘‘stato dell’arte’’, v’è allora da chiedersi per quale ragione in sede giudiziaria il comportamento di sindaci e amministratori sia oggetto di una valutazione che, anche quando apparentemente rispettosa della situazione di fatto nei suoi termini rigorosamente oggettivi, non coincide tuttavia minimamente — per ciò che attiene all’elemento soggettivo dei reati contestati — con gli schemi propri della normativa applicata, ma ne costituisce anzi aperta violazione. Quello qui preso in considerazione non è infatti un caso isolato, ma è piuttosto l’ultimo di una serie che, iniziata ‘‘alla grande’’ con il crak delle banche del Gruppo Sindona (Banca Unione e Banca Privata Finanziaria), sembra voler precisamente disegnare, in piena comunità di intenti da parte della magistratura requirente con quella giudicante, le cosiddette linee-guida, osservando le quali pervenire, a colpo sicuro, all’accertamento della responsabilità di bancari maldestri coinvolti dal dissesto di un’azienda di credito. Eppure, ancora negli anni Sessanta non erano fuori moda certe buone maniere che suggerivano, allorquando una società commerciale fosse stata dichiarata insolvente, di operare assai opportunamente, soprattutto nell’ambito della collaterale indagine istruttoria penale, una netta distinzione fra coloro che avessero effettivamente gestito gli affari sociali e quanti ne fossero rimasti estranei. Si trattava di un criterio che se per un verso poteva, nell’ottica di una responsabilità penale a titolo di dolo, ‘‘privilegiare’’ gli amministratori privi di deleghe operative, dall’altro consentiva di estendere la responsabilità, quali concorrenti nel reato, alla dirigenza e ai più stretti collaboratori dell’amministratore delegato: un criterio, dunque, ben altrimenti consapevole della realtà societaria e assai più
— 1163 — rispettoso, quindi, della finalità stessa della norma penale quante volte in essa fosse unicamente prevista una responsabilità per delitto doloso. Ritorna perciò l’interrogativo iniziale, rivolto a chiarire appunto cosa sia mai accaduto in questi ultimi trent’anni per giustificare un mutamento di rotta che, inspiegabile alla stregua della normativa vigente, è comunque particolarmente allarmante per le conseguenze che rischia di poter provocare. Salvo errore l’inversione di tendenza ha avuto un avvio alquanto singolare negli anni Settanta: nel corso di un’indagine istruttoria a carico di un importante istituto di credito di diritto pubblico per i delitti di peculato e falso in bilancio, gli amministratori erano stati inizialmente indagati per non aver controllato l’operato del direttore generale; ma successivamente, senza che alcun elemento nuovo fosse intervenuto a dimostrare una diversa e più grave configurabilità del fatto nei suoi momenti oggettivo e soggettivo, il giudice istruttore provvedeva a modificare l’originaria imputazione trasformando l’omesso controllo dell’operato altrui in volontà di erogazione di fondi con la consapevolezza dell’inesistenza di sufficienti garanzie. Non era, e ancor meno lo sarebbe ora, possibile stabilire se la genesi di quel mutamento di indirizzo fosse da rintracciare nelle carte processuali piuttosto che in preoccupazioni di natura politica. Quello che era certo già allora è semmai il progressivo ritrarsi dei galantuomini dalle cariche societarie: alle quali invece, prima o poi, avrebbero finito coll’aspirare soltanto professionisti faccendieri e avventurieri della finanza, adusi al rischio largamente retribuito e senza alcun patrimonio morale personale da salvaguardare (9). Perché questo, e non altro, è il prevedibile epilogo di un indirizzo giurisprudenziale che ritiene più efficace — e fors’anche più agevole — amministrare giustizia prescindendo totalmente da una rigorosa verifica delle condotte volta a volta tenute dai singoli amministratori, onde livellarle poi tutte unificandole corme esclusiva manifestazione di quell’elemento soggettivo del reato costituito, ovviamente, dal dolo. Ma l’equiparazione di fondo tra colpa e dolo non esaurisce i termini del problema, perché, anche quando, al solo scopo di poter addebitare un atteggiamento dolosamente orientato, non si abbiano a disposizione dichiarazioni plaudenti o solidarizzanti di sindaci e amministratori, l’inquirente non si sentirebbe per questo disarmato: al traguardo dell’affermazione di colpevolezza egli perverrebbe ugualmente in base al principio che nei consigli di amministrazione tutto si sa perché tutto vien detto e di ogni cosa si è dettagliatamente informati. È anzi diffuso convincimento che non vi può essere iniziativa delittuosa o comunque pregiudizievole agli interessi sociali che non sia stata previamente ordita nel consiglio di ammi(9)
Cfr. Riv. soc., 1981, p. 142.
— 1164 — nistrazione. Senza possibilità di salvezza neppure per l’amministratore che risultasse normalmente assente dalle riunioni di consiglio, nulla importando che per quella posizione di latitante egli fosse all’oscuro di ciò che nel frattempo in seno all’organo collegiale si stava tramando: se, in omaggio all’obbligo di diligente esecuzione del mandato affidatogli dall’assemblea, quell’amministratore avesse scrupolosamente partecipato alle riunioni consiliari avrebbe potuto rendersi conto di quanto si andava perpetrando ai danni della società, e una volta che se ne fosse reso conto avrebbe potuto fare il possibile per impedire il verificarsi del danno o quanto per attenuarne le conseguenze. E si ingannerebbe, naturalmente, chi pensasse che quell’amministratore negligente potrebbe al più andare incontro a una responsabilità civile per il danno cagionato: con quelle sistematiche assenze dalle riunioni di consiglio egli si è infatti volontariamente posto nella condizione di non poter sapere ciò che si sarebbe eventualmente deliberato ai danni della società, accettando in tal modo, implicitamente, il rischio che potessero anche essere commessi fatti costituenti reato (quale, in ipotesi, l’adozione di una delibera nell’interesse di uno o più amministratori in conflitto con l’autentico interesse sociale: art. 2631 c.c.), senza nulla poter fare al riguardo nonostante l’esplicita disposizione dell’art. 2392 c.c. Ed è proprio con la spendita di quella e altre consimili formulette, contrabbandate per l’occasione come dolo indiretto o eventuale, che l’inquirente ha creduto di sistemare la propria buona coscienza e di impartire in pari tempo una giusta lezione alla cattiva coscienza degli amministratori. Per buone peraltro che si vogliano reputare le intenzioni dei giudicanti, la ‘‘soluzione’’ prospettata è nondimeno inquietante, in quanto non basta affatto essere consapevoli della propria condotta negligente perché l’inquirente possa sentirsi autorizzato a supporre, a carico dell’amministratore negligente, la previsione della commissione di fatti illeciti da parte degli altri amministratori: se l’amministratore assente non si fosse rappresentato nulla di tutto ciò, il problema della colpevolezza (a titolo di dolo, s’intende) neppure si porrebbe, e il ‘‘dolo’’ in quel bizzarro modo individuato può essere tranquillamente riposto in soffitta. Questo fin tanto che anche la lingua italiana continuerà a insegnare che una cosa è ‘‘poter (astrattamente) prevedere’’ e altra ‘‘aver (concretamente) previsto’’ (10) (10) È doveroso richiamare, a questo proposito, una voce in ambito giudiziario decisamente fuori dal coro dei promotori della citata giurisprudenza: cfr. JACOVIELLO (1998), Il falso in bilancio nei gruppi di società: come il processo penale modifica il diritto penale, in Cass. pen., 1998, p. 3161, quando scrive che ‘‘Il dolo eventuale sta progressivamente diventando un istituto di diritto processuale probatorio. Ecco un eloquente fenomeno di perversione concettuale. Il dolo eventuale aveva originariamente una sua base fenomenica, era cioè un fenomeno psichico reale. Ma essendo un fenomeno interiore, provarlo era impresa strenua. I meccanismi del processo l’hanno trasformata prima in un dolus in re ipsa e poi in un
— 1165 — La surriferita ‘‘soluzione’’ è d’altronde scorretta anche sotto un altro profilo, quale quello rappresentato dal tenace pregiudizio in virtù del quale sarebbe sufficiente far parte del consiglio di amministrazione per essere ritenuti edotti di tutto ciò che, nel bene come nel male, dovesse accadere nella società. E la scorrettezza, prima ancora che nell’assurda presunzione che gli amministratori sappiano e debbano realmente sapere tutto ciò che dovesse verificarsi in ambito societario, sta nel ritenere che all’organo collegiale in questione spettino compiti e funzioni che ad esso sono in realtà del tutto estranei. Un esame, anche sommario, di un qualsiasi organigramma delle funzioni centrali di ogni azienda creditizia che sia adeguatamente strutturata per soddisfare, con la necessaria efficienza, alle esigenze dell’istituzione e a quelle della propria clientela, consente infatti di verificare come la maggior parte dei servizi e dei prodotti finanziari offerti non possa in alcun modo essere sottoposta al controllo, preventivo o successivo, di nessun consiglio di amministrazione. Procedendo per rapidissima sintesi si constata che, normalmente, le funzioni centrali sono accorpate in due distinti gruppi: il gruppo delle risorse, da un lato, e quello del mercato (o degli affari), dall’altro. Al primo gruppo fanno solitamente riferimento, per non citare che i più importanti, la direzione amministrativa e bilancio, il controllo di gestione, la segreteria e affari generali, la direzione del personale e l’organizzazione; al secondo gruppo fanno invece riferimento, tra gli altri, il servizio di finanza d’impresa, la direzione crediti, la direzione borsa e titoli e la direzione commerciale, dalla quale dipendono il corporate banking, il private banking, il retail banking e la direzione marketing. Ora, non tutte le ricordate direzioni di settore e i citati servizi riferiscono normalmente al consiglio di amministrazione, ma unicamente — di regola, almeno — alla direzione amministrativa, alla direzione crediti e al servizio controllo di gestione. Tutte le altre avranno contatto diretto, attraverso naturalmente la direzione generale, quante volte dovessero avere problemi di natura finanziaria od operativa, nel senso che per migliorarne l’efficienza si rivelasse necessario procedere a investimenti, con conseguente impegno di risorse finanziarie nel primo caso, ovvero al trasferimento o all’assunzione di personale dirigenziale nel secondo caso. E in entrambe queste ipotesi il consiglio di amministrazione risponderà in prima persona degli impegni assunti. congegno elusivo della prova. Si dice: quel fatto in quelle circostanze era prevedibile: chiunque lo avrebbe previsto: dunque — applicando una generalizzazione empirica — se era prevedibile e chiunque lo avrebbe previsto, allora è ragionevole pensare che anche tu lo hai previsto; e poiché hai agito nonostante tale previsione, vuol dire che hai accettato il rischio dell’evento. Alla difesa, pertanto, il compito di provare il contrario. Col risultato, per nulla edificante, che ‘‘il dolo eventuale diventa così un’eventualità di dolo. Basta provare questa eventualità per provare il dolo. Nel processo la prova di un fatto (il dolo) viene surrogata dalla prova della possibilità del fatto’’. Parole quanto basta esemplari, per aggiungervi chiosa.
— 1166 — In assenza dunque di particolari problemi la soluzione dei quali appartenga all’esclusiva competenza del consiglio di amministrazione, tutti i servizi della banca rispondono, giorno dopo giorno, unicamente alla direzione generale nonché, quando sia previsto dallo statuto e sia stato nominato dal consiglio, all’amministratore delegato, al quale spetterà poi di decidere se portare ugualmente il problema all’esame del consiglio di amministrazione per la relativa delibera ovvero per la ratifica di quanto eventualmente deliberato nel frattempo in via d’urgenza dal comitato esecutivo. Tutta l’operatività giornaliera dell’azienda bancaria si svolge quindi sotto la vigilanza delle diverse direzioni di settore, che riferiscono poi alla direzione generale per opportuna informativa ovvero per i provvedimenti d’urgenza che si rendessero necessari: il che null’altro significa se non questo e cioè che l’intera gestione creditizia non può essere né diretta né controllata dal consiglio di amministrazione della banca se non quando, a scadenza mensile, l’attenzione degli amministratori sarà portata sui risultati conseguiti. Un intervento diretto, di carattere gestionale, da parte degli amministratori può quindi aversi soltanto per quegli atti che sono di sua esclusiva competenza quali, esemplificando, la redazione del progetto di bilancio di fine esercizio, la redazione della relazione semestrale (per i soggetti che ne fossero obbligati), l’erogazione dei crediti oltre un certo importo, la dismissione di immobili o di partecipazioni mobiliari, le spese per investimenti che (come quelle alle quali si è già fatto cenno) non attengano alla gestione corrente. Con un’avvertenza: al consiglio di amministrazione non è in alcun modo possibile verificare se quanto risulta dall’istruttoria di una determinata pratica corrisponda a verità, oppure no. L’organo collegiale non può pertanto non fare necessario affidamento sulla correttezza degli uffici che per competenza hanno proceduto alla relativa istruttoria; né a esso potrebbe rimproverarsi di non aver tenuto conto di eventuali, ancorché eventualmente copiosi, ‘‘indicatori di allarme’’: perché, se detti indicatori non riguardano specificamente una determinata pratica di fido ma intendono semplicemente richiamare l’attenzione degli amministratori sul grado di affidabilità di certa clientela, sarebbero segnali che, seppur in ipotesi veridici, non esprimerebbero tuttavia sufficiente attendibilità per indurre gli amministratori a una sorta di rinvio generalizzato e indifferenziato di tutte le pratiche agli uffici operativi competenti per un’improbabile revisione e correzione di dati che, se effettuata, il consiglio di amministrazione non sarebbe poi neppure in grado di contestare e correggere. Vero è che, oltre alle suaccennate incombenze che concernono pur sempre, fondamentalmente, l’ordinaria amministrazione della banca, sono prerogativa tipica del consiglio di amministrazione lo studio e l’esame delle strategie e delle conseguenti iniziative che valgano a rafforzare l’azienda sui mercati e a migliorare l’efficienza dei servizi. Valutare l’oppor-
— 1167 — tunità dell’apertura di nuovi sportelli, la possibilità di acquisizioni o di aggregazioni con altre istituzioni creditizie, nonché l’assunzione di ogni altra iniziativa che, con lo sviluppo dell’azienda, offra altresì una prospettiva di aumento della redditività: questi, e non altri, sono i suoi compiti primari. Se gli si chiede invece di comportarsi, in ordine a ogni più piccolo e meno piccolo fatto gestionale dell’azienda, come se dovesse sistematicamente diffidare della capacità e integrità morale dei suoi operatori, allora conviene dirlo esplicitamente: ma non da parte del giudice, bensì del legislatore. Al quale, per l’occasione, si potrà anche suggerire di dettare le nuove regole in tema di dolo (con particolare riguardo al dolo indiretto o eventuale) nonché in ordine al suo concreto accertamento, in modo da far felicemente coincidere, in giuliva ‘‘consonanza di accenti’’, il diritto vigente con quello vivente. ALBERTO CRESPI
IL « GIUDICE UNICO » NEL QUADRO DEL SISTEMA PENALE (*)
SOMMARIO: 1. Premesse retrospettive. — 2. Il « giudice unico » e l’efficienza del sistema giudiziario. — 3. Collegialità in primo grado e norme costituzionali. — 4. La disciplina del « giudice unico » entro la crisi del processo penale. — 5. Quale « giudice unico di primo grado »? — 6. Il ridimensionamento della garanzia della collegialità: perimetro ed effetti. — 7. La dichiarata problematicità della nuova disciplina nel suo complesso. — 8. Considerazioni finali (anche con riferimento alla corte d’assise).
1. Premesse retrospettive. — Per conferire una nota retrospettiva di relatività, ma anche un maggior spessore, all’attuale tematica del « giudice unico », sarà il caso di ricordare subito che questa tematica viene piuttosto da lontano, o, per meglio dire, ci riporta alla preistoria del codice di procedura penale vigente. Infatti, già nell’ampia relazione che, nel 1976, il Consiglio Superiore della Magistratura aveva dedicato alla riforma dell’ordinamento giudiziario, era stata prospettata l’idea del « giudice unico di prima istanza », e cioè la scomparsa del pretore penale, e la sua metamorfosi nel tribunale monocratico, da differenziare e giustapporre al tribunale collegiale. Il disegno riformatore era poi esteso fino a prevedere l’istituzione — si diceva — nelle « attuali sedi di preture più importanti », di sezioni distaccate del competente ufficio circoscrizionale di prima istanza, e, insieme, il mantenimento, entro la competenza collegiale, del giudizio « sui reati più gravi, esclusi dalla competenza delle corti d’assise » (1). Un tale programma era stato preso in esame, ma poi, in sede di attuazione della legge-delega del 1974, accantonato per le sue rilevanti implicazioni di complessità, anche se in qualche misura assecondato nell’ampliamento della competenza del pretore, sia dal punto di vista quantitativo che dal punto di vista qualitativo (2). Il C.S.M., a parte alcune successive prese di posizione di tono minore, ebbe poi a rilanciare il programma del « giudice unico » a distanza (*) Relazione al Convegno, promosso dalla Associazione tra gli studiosi del processo penale, sul tema: « Il giudice unico nel processo penale » (Como, 24-26 settembre 1999). (1) C.S.M., L’adeguamento dell’ordinamento giudiziario ai principi costituzionali e alle esigenze della società, 1976, p. 235. (2) PISANI, Il « Progetto preliminare » del 1978 e l’ordinamento giudiziario, in Studi parmensi, 1980, e, poi, in Introduzione al processo penale, 1988, p. 195.
— 1169 — di vent’anni, allorquando, nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, datata 1996, prospettava due interventi riformatori come « essenziali »: « la riscrittura della geografia giudiziaria; la creazione del giudice unico di primo grado ». A questo secondo intervento — per il caso che non si fosse ritenuta opportuna la contemporaneità degli interventi — veniva anzi attribuita una priorità d’ordine logico, in quanto tema di ordinamento giudiziario (3); e ciò pur senza voler trascurare l’autorevole richiamo della Corte costituzionale, contenuto nella sentenza n. 184/1974, secondo cui « qualunque norma sul processo presuppone che vi sia una organizzazione giudiziaria, e quindi un ordinamento giudiziario, ma non è in alcun modo condizionata, dovendo viceversa l’ordinamento giudiziario — così continuava la Corte — adeguarsi alle esigenze funzionali derivanti dai codici di rito, in genere, e da quelle di competenza in special modo » (4). 2. Il « giudice unico » e l’efficienza del sistema giudiziario. — Venendo ai giorni nostri, la circolare 21 maggio 1999 del Ministero della giustizia (in Gazz. Uff. n. 119 del 24 maggio) presenta in questo modo la riforma in itinere: « Si tratta, nel suo aspetto essenziale, di una riforma ordinamentale, che unifica in un solo ufficio la giurisdizione ordinaria di primo grado. L’unificazione — così specificano le tre scriventi Direzioni Generali — che comporta la soppressione di 165 Preture Circondariali e di 100 Procure presso le Preture, la chiusura di 203 sezioni distaccate di Pretura, la trasformazione di altre 218 di esse in ben più consistenti sezioni distaccate di tribunale, rappresenta una prima razionalizzazione del reticolo giudiziario e una concentrazione delle limitate risorse umane e materiali disponibili, al fine di accrescere l’efficienza e la funzionalità del sistema giudiziario ». Si tratta, dunque, se ci è consentita una parafrasi, di un riconoscimento significativo dell’esigenza di guardare all’amministrazione della giustizia anche, ed in particolare, sotto il profilo organizzativo. Un profilo per così dire laico, più disincantato rispetto ai c.d. riti processuali e ai processi che si « celebrano », e, piuttosto, congeniale alle società industriali di tipo avanzato, e che purtuttavia impone di restare avvertiti dell’esigenza (3) C.S.M., Giudice unico di primo grado e revisione della geografia giudiziaria, 1996, p. 12 ss., p. 68. Sul problema della revisione delle circoscrizioni giudiziarie avevano particolarmente insistito le sentenze n. 496/1990 e n. 131/1996 della Corte costituzionale. Quanto invece, più particolarmente, al nostro argomento, ricordiamo che esso aveva costituito oggetto del terzo tema (Le juge unique ou la collégialité du tribunal) del secondo congresso dell’A.I.D.P. (Bucarest, 1929). (4) Su tali interconnessioni lo scrivente si permette di fare rinvio alla relazione generale da lui svolta al XIV congresso dell’A.I.D.P. (Vienna, 1989), e pubblicata sotto il titolo I rapporti tra l’organizzazione giudiziaria e il processo penale, 1990.
— 1170 — di premunirsi, con una sorta di « supplemento d’anima », contro i rischi della completa desacralizzazione e della banalizzazione burocratica. 3. Collegialità in primo grado e norme costituzionali. — Un primo problema che il legislatore si deve essere posto, e che, comunque, l’interprete è chiamato a porsi, è se il programma del « giudice unico di primo grado », così come delineato, in primis, dalla legge-delega 16 luglio 1997, n. 254, fosse assecondato o, viceversa, contrastato, dal vigente assetto della disciplina costituzionale. La risposta al quesito non è di quelle che consentono margini di opinabilità. La regola della collegialità, invero, non è delineata dal costituente come imprescindibile per il giudizio penale di primo grado (e qualcuno aggiunge: neanche per il giudizio d’appello). Ad una tale configurazione obbligata non può portare, infatti, l’art. 97, comma 1o, non essendo né testualmente né ontologicamente richiesta dalle finalità del « buon andamento dell’amministrazione » nel comparto « giustizia ». E del resto è ben nota la costante giurisprudenza della Consulta che esclude la regola costituzionale del « buon andamento » dall’ambito della funzione giurisdizionale, compresi i criteri di ripartizione delle competenze tra organi giudiziari (ord. n. 257/1995; sent. n. 281/1995; e, da ultimo, sent. n. 381/1999). Troppo tenue, nel senso di una presunta, e pur derogabile, regola generale, della collegialità, è, d’altronde, l’elemento esegetico che si pensava di ricavare dall’art. 106, comma 2o, nel suo prevedere la possibilità che la legge sull’ordinamento giudiziario ammetta « la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli ». Ciò significa — si è ritenuto — che il costituente ipotizzasse l’esistenza di controversie necessariamente attribuite a giudici collegiali. Ma è anche vero che, al contempo, il costituente autorizza espressamente l’espletamento delle funzioni da parte di giudici singoli: e resta dunque irrisolto il problema di quali debbano essere i criteri per ripartire le funzioni giudiziarie tra questi giudici singoli ed i giudici collegiali (5). 4.
La disciplina del « giudice unico » entro la crisi del processo pe-
(5) La regola della collegialità emerge invece, sia pure in forma indiretta, per quanto concerne la Cassazione, come risulta correlando l’art. 106, comma 3o — nel suo prevedere la possibilità di nomina, « per meriti insigni », di (singoli) « consiglieri di cassazione » — con l’art. 111, comma 2o e comma 3o, dove, ai fini del « ricorso in Cassazione », questo organo è necessariamente profilato in composizione collegiale. La collegialità, nelle forme della composizione mista (giudici professionali e giudici laici), è prevista come regola — per « los actos de impartir justicia » — nell’art. 124, comma 4o, della Costituzione cubana del 1992.
— 1171 — nale. — La figura e la disciplina del giudice unico di primo grado vengono oggi calate dal legislatore, con intendimenti per lo meno terapeutici, entro le difficoltà e gli affanni che caratterizzano il nostro attuale processo, colpito da una sorta di crisi del decimo anno: una crisi che è sotto gli occhi di tutti, o almeno di coloro che sono disposti ad avvertirla. A ben riflettere, due vizi di fondo ostacolano le magnifiche sorti e progressive del codice che continuiamo a designare come « nuovo ». Da un lato un errore storico, attivato da una premessa acritica: quella della disarticolazione tra la disciplina d’ordine sostanziale, che sarebbe destinata ai c.d. delinquenti (forse afflitti, e forse no, da stigmate lombrosiane) e la disciplina del processo, angelicamente destinata, invece, alle « persone per bene » (tanto « per bene » che, a volte, per preservarle dal male che le circonda, sembra giusto collocarle, come dicevano i costituenti, in « carcerazione preventiva » ...). Anche alla luce di stereotipi, ripetitivi e sclerotizzati, di tal genere, è parso non inopportuno far precedere tout court la modifica, per non dire la palingenesi, delle regole del processo rispetto a quelle del diritto sostanziale, così trascurando l’intrinseca e solidale unitarietà del sistema penale, in quanto — direbbe Kelsen — insieme di elementi interagenti. Dall’altro lato, nel disegno riformatore si annida un errore di prospettiva, posto che si è voluto attingere dalla modellistica dei sistemi accusatori di common law senza fare i conti con il canone rigido dell’obbligatorietà dell’azione penale. Si badi: è ormai risaputo che, negli Stati Uniti, giunge alla fase del giudizio non più di un 10% all’incirca degli « affari penali ». Ma non si è riflettuto abbastanza sul fatto che quel 10% è, per così dire, già sfoltito alla base, proprio in forza del canone della discrezionalità dell’azione penale. L’assetto del nostro processo accusatorio italian style, per un verso si è fatto carico solo del processo di primo grado, ereditando dal deprecato ventennio autoritario, ma anche dal meno deprecato trentennio repubblicano e democratico, le inveterate strutture dei processi in fase d’impugnazione; per altro verso si è affidato, per il suo stesso funzionamento, o — come piace dire — per la sua efficienza complessiva, alla gamma multicolore e dispersiva dei procedimenti speciali, che di « accusatorio » non riflettono nemanco l’ombra, e neppure celano un solo palpito di nostalgia. Secondo le notizie che con qualche intermittenza giungevano dai laboratori delle strategie legislative, per una prima fase di restyling si era puntato, con l’apprestamento di appositi « pacchetti », sulla disciplina deflattiva dei procedimenti speciali. È sopravvenuta poi una seconda e diversa fase, nella quale si è mutato completamente registro. Forse per un’accresciuta sfiducia nella produttività dei pacchetti di cui si diceva; forse ricordando, con animo grato, le proposte e gli appelli del C.S.M., si
— 1172 — è pensato di puntare alla strategia — e non si vuol dire alla parola d’ordine — del « giudice unico ». È stato reso noto il decreto ministeriale del 10 gennaio 1998, col quale si definivano, con rinvio ad un allegato A), i programmi e le priorità del Ministero di grazia e giustizia — ancora non lo si chiamava, in conformità alla Costituzione (artt. 107, comma 2o, e 110), Ministero della giustizia — per l’anno 1998. « La strategia della giustizia — si è scritto — prevede come indirizzo assolutamente prioritario (la sottolineatura è nostra) dell’azione del Ministero l’attività di natura normativa ed amministrativa necessaria per dare concreta ed effettiva attuazione alle importanti riforme: a) dell’istituzione del giudice unico di primo grado; b) delle sezioni stralcio presso i tribunali [civili] » (6). Il ricordo delle prese di posizione del C.S.M. deve però avere fatto dimenticare, almeno in una prima fase (e per quanto meglio si spiegherà in seguito), il qui già richiamato insegnamento della Corte costituzionale del 1974, secondo il quale la disciplina delle funzioni — e dunque la regola processuale — deve avere priorità logica rispetto alla disciplina degli organi, e dunque dell’ordinamento giudiziario. L’evoluzionismo alla Lamark, che vorrebbe affidata alle funzioni la creazione degli organi, o sia pure l’atteggiamento asettico, che porterebbe a considerare materia indifferente e trascurabile l’interrelazione tra gli uni e le altre, non possono trovare molto spazio tra le buone regole della vita associata. 5. Quale « giudice unico di primo grado »? — Sembra opportuna, a questo punto, una ricognizione di quali siano, secondo la legge in itinere, gli organi giudiziari investiti dal disegno dell’« unificazione », e di quali siano la direzione e l’ambito dell’« unificazione » medesima, nei suoi riflessi d’ordine sistematico. A) A cominciare dalla rubrica, la legge-delega 16 luglio 1997, n. 254, concerne l’« istituzione del giudice unico di primo grado », e intende dunque lasciare indenni gli assetti ordinamentali e processuali relativi alla fase delle impugnazioni. La legge-delega, inoltre (art. 19, comma 1, lett. c), in conformità agli originari suggerimenti del C.S.M., impone di lasciare « salve », così sottraendole al programma innovativo, « la composizione e le attribuzioni della corte d’assise » (e così si comincia con l’accreditare, tra l’altro, una nozione debole di competenza, appunto attenuata nella forma più vaga delle « attribuzioni »). Altrettanto indenni, rispetto al programma innovativo, sono lasciati — per via del silenzio serbato in proposito tanto nella delega, quanto nel (6) p. 39.
Giudice unico e sistema penale (Quad. della Camera Penale di Milano), 1999,
— 1173 — decreto legislativo che le dà attuazione (d.l.vo 19 febbraio 1998, n. 51) — sia il tribunale per i minorenni, la cui storia e la cui disciplina degli « affari penali » (d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448) sottolineano, con la specialità della materia, la particolare autonomia dell’organo giudicante, che il tribunale di sorveglianza, il quale pure presenta, rispetto al tribunale ordinario, spiccate note di autonomia (art. 20, l. 10 ottobre 1986, n. 663). Ad essere interessato dal programma innovativo, per ciò che concerne gli organi, è dunque, tra le varie tipologie di tribunale, soltanto il tribunale ordinario, ferma peraltro restando la composizione collegiale del tribunale del riesame (artt. 179-181, d.l.vo n. 51/1998). B) Quanto poi alle direzioni lungo le quali si è voluto attuare « il modello del giudice unico », la linea di fondo è stata quella — previa soppressione dell’ufficio del pretore (art. 1.1, lett. b della legge-delega; artt. 1, d.l.vo n. 51/1998) e conseguente trasferimento delle relative competenze al tribunale ordinario — di strutturare quest’ultimo secondo una duplice composizione, collegiale e monocratica, del risultante organo unitario, pur sempre designato come tribunale. Tra i due tipi di composizione, collegiale e monocratica, le ritenute esigenze di semplificazione e di efficienza hanno fatto privilegiare la composizione di tipo monocratico, con effetti di sostanziale ridimensionamento, rispetto al passato, della componente collegiale. Il criterio adottato, in prima approssimazione, dalla delega, è stato infatti quello di ritagliare e circoscrivere l’ambito decisorio del tribunale in composizione collegiale entro una serie di ipotesi, riguardanti, in primo luogo, l’applicazione delle misure di prevenzione, non solo personali ma anche reali; e poi, quanto alle figure di reato, entro una serie tendenzialmente chiusa di fattispecie, affidando poi « tutti i restanti reati » (art. 1.1, lett. d) al tribunale in composizione monocratica. La maggior parte delle fattispecie riportate alle attribuzioni della composizione collegiale sono state designate nominativamente, e dunque con un grado di specificità assai superiore a quanto imporrebbero i criteri costituzionali di una legge-delega. Il sistema di determinazioni, per così dire, bloccate che in tal modo ne risultava — e che poi è stato fedelmente riprodotto nel decreto legislativo di attuazione — era però notevolmente attenuato da due importanti specificazioni integrative. Prima specificazione: quella attinente all’attribuzione, al tribunale collegiale, della cognizione (art. 1.1, lett. c, n. 3) di « ogni delitto punito con la pena della reclusione superiore nel massimo a vent’anni »: che era un modo piuttosto mellifluo di dire che, per converso, e salvo le attenuazioni o varianti emergenti dal contesto, al di sotto del livello dei vent’anni di pena trovava spazio — e che nessuno si strappasse le vesti! ... — l’ambito cognitivo del c.d. tribunale in composizione monocratica. Un’espres-
— 1174 — sione, a dir vero, un po’ solenne, quest’ultima, usata per ammantare e sublimare le eventuali debolezze di un giudice consegnato alla sua solitudine. Seconda specificazione: quella attinente alla possibilità, da gestirsi ad opera del legislatore delegato, di attribuire alla composizione collegiale anche (art. 1.1, lett. c, n. 7) « altre eventuali fattispecie caratterizzate da particolare allarme sociale o rilevanti difficoltà di accertamento » (7). Tra le fattispecie che la delega faceva oggetto di assegnazione « bloccata » al tribunale collegiale, merita un cenno particolare quella — contenuta nell’art. 1, n. 6, e poi ribadita nel nuovo art. 33-bis, lett. i) del codice (art. 169, d.l.vo. n. 51/1998) — relativa ai « delitti previsti dalla l. 20 giugno 1952, n. 645, attuativa della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione », in tema di rifondazione fascista. Merita un cenno in quanto la competenza per i delitti previsti « dalle leggi » attuative della disposizione predetta era stata assegnata, dall’art. 5, lett. d) del codice, alla corte d’assise — le cui attribuzioni la legge-delega del 1997 in linea generale intendeva fare salve — sempre che si trattasse di delitti per i quali « sia stabilita la pena della reclusione non inferiore nel massimo a dieci anni ». Se ne deve pertanto concludere che, per tali ultime ipotesi, resta per l’appunto ferma la competenza della corte d’assise, introdotta ex novo con la disciplina differenziata del codice 1988, mentre, per le restanti e meno gravi ipotesi, si ritorna all’art. 7 della legge del 1952, il qualle attribuiva al tribunale la cognizione dei delitti previsti nella legge medesima. Si viene ora a specificare che, a decidere, debba essere il tribunale in composizione collegiale. Tra le fattispecie che il legislatore della riforma ha voluto, per contro, escludere da quelle che sono state chiamate le « riserve di collegialità », qualche virile lamentazione merita forse la conseguente attribuzione al tribunale monocratico della cognizione in ordine ai reati commessi a mezzo della stampa: una materia tanto costituzionalmente « sensibile » che, per l’appunto, aveva visto l’attivazione degli stessi costituenti, a Costituzione ultimata, per la stesura delle « Disposizioni sulla stampa », contenute nella l. 8 febbraio 1948, n. 47 (8). 6.
Il ridimensionamento della garanzia della collegialità: perimetro
(7) Nel parere, in data 26 novembre 1997, sullo schema di decreto legislativo recante « Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », il C.S.M. lamentava la « estrema genericità » di questi due criteri di delega (Documenti Giustizia, n. 7/1998, p. 668). (8) Questo aspetto non era stato preso in considerazione dalla Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 233 disp. attuaz. c.p.p., il quale confermava, traendolo dall’art. 21 della l. n. 47 del 1948, la specialità del « rito direttissimo » per i reati commessi col mezzo della stampa.
— 1175 — ed effetti. — Non è certo la prima volta che il legislatore del processo penale interviene energicamente per un riassetto della disciplina della collegialità. Siamo in molti a ricordare i « Provvedimenti urgenti in materia processuale e di ordinamento giudiziario » contenuti nella l. 8 agosto 1977, n. 532, che riduceva da cinque a tre i componenti delle corti d’appello, e da sette a cinque i componenti della corte di cassazione in sezione semplice. Ma, ovviamente, un conto è, in una prospettiva di efficienza (9), ridurre le quote numeriche della collegialità, e un conto è, invece, abolirle radicalmente. E non per nulla, questo della collegialità è stato sùbito uno dei temi della polemica, nel corso della quale — è forse superfluo ricordarlo — si sono segnalati gli esponenti della classe forense. Non solo, infatti, come portato della tradizione, ma anche come dato di esperienza, la collegialità, in materia penale, è sentita e vissuta, anche nei giudizi di primo grado, come una garanzia preziosa. « ... un lavoro che quando il giudice è solo, deve per forza fare da solo; ma dovendosi fare da più giudici nello stesso tempo e luogo perché non deve essere fatto da ciascuno ad alta voce? Il beneficio — a scriverne in questi termini era Francesco Carnelutti — è, così, di far rivivere, ancora una volta, nella diversità delle persone il processo dialettico; difatti la discussione tra i giudici prolunga la discussione avvenuta tra le parti al dibattimento » (10). E ciò — riteniamo di poter aggiungere — è tanto più vero per il fatto che, anche nella deliberazione collegiale disciplinata dal « nuovo » codice, si realizza quella che ben si può definire come una « collegialità rafforzata »: « Tutti i giudici enunciano le ragioni della loro opinione e votano su ciascuna questione qualunque sia stato il voto espresso sulle altre » (art. 527, comma 2). Quanto poi all’inconveniente della collegialità rappresentato — vi dedicava qualche particolare attenzione Calamandrei, ma con prevalente riferimento al processo civile (11) — dal rischio che la collegialità sminuisca, o deresponsabilizzi, l’impegno del singolo magistrato, v’è da dire che, (9) Delle innovazioni di cui nel testo si era opportunamente scritto che « moltiplicano le possibilità di impiego dei magistrati nei collegi giudicanti per consentire una più efficiente distribuzione del lavoro giudiziario » (AMODIO, in AMODIO-DOMINIONI-GALLI, Nuove norme sul processo penale e sull’ordine pubblico, 1987, p. 130). (10) CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, vol. IV, 1949, p. 58. È ben nota la sia pur breve difesa della collegialità fatta da Mario Pagano, Considerazioni sul processo criminale, capit. XXIV (Del collegio e della ricusa dei giudici), in PAGANO, Opere filosofico-politiche ed estetiche, 1837, p. 543. (11) CALAMNDREI, Indipendenza e senso di responsabilità del giudice, in Processo e democrazia, 1954, p. 82. Per la stretta correlazione tra collegialità e oralità v. CHIOVENDA, Relazione sul pro-
— 1176 — appunto, di un semplice inconveniente si tratta, che nulla rileva, fra l’altro, di contro all’esigenza sentita dal legislatore penale di approntare, e di rafforzare, una specifica tutela (si veda l’art. 685 c.p., nella stesura successiva alla l. 24 novembre 1981, n. 689) dedicata al segreto della camera di consiglio, proprio e soltanto in materia penale. E del resto, se la collegialità non costituisse — pur senza, come s’è visto, una « copertura » di carattere costituzionale — una garanzia di ponderazione della deliberazione, sarebbe piuttosto difficile spiegare come, sia pure in chiave di semplificazione efficientistica, la collegialità sia stata mantenuta già in grado d’appello, per non dire delle deliberazioni della Corte di cassazione e, su un diverso piano, delle deliberazioni del tribunale del riesame. Né, d’altro canto, può portare lontano l’argomento che qualcuno offre per elidere, o magari appena per attenuare, l’impatto negativo che il ridimensionamento della collegialità a giusto titolo determina negli operatori: l’argomento rappresentato dalla circostanza che già nelle ipotesi ordinarie di giudizio c.d. abbreviato (12) abbiamo un giudice monocratico, il giudice dell’udienza preliminare, che può raggiungere livelli elevati di penalizzazione. L’argomento, invero, perde rilievo ove si pensi che la definizione anticipata del procedimento, con la connessa riduzione premiale della pena, è, in quelle ipotesi, effetto della richiesta dell’imputato il quale, col consenso del p.m., volontariamente rinuncia, per sua libera scelta, alla garanzia della collegialità. A) Ad ogni modo, prima di recriminare, anche a ragione, contro l’eccessivo ridimensionamento della collegialità, l’interprete è chiamato a prendere atto che tale garanzia ha finito con l’ottenere, al di là delle restrizioni ipotizzate all’inizio, dei significativi riconoscimenti in sede di decreto delegato. Si vuole con ciò alludere: — al criterio adottato, agli effetti dell’attribuzione al tribunale in composizione collegiale, per la determinazione della pena (art. 33-bis, comma 2, c.p.p.): un criterio « massimalistico », che porta a comprimere e contenere una dilatazione, che diversamente sarebbe stata esorbitante, delle attribuzioni in capo al tribunale monocratico; — alla scelta, si direbbe orientata in un’ottica di tipo criminologico, e ad ogni modo espressa da parte delle Camere (13), di affidare al tribugetto di riforma del procedimento elaborato dalla Commissione per il dopo guerra (1919), in Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), vol. II, 1993, p. 40. (12) Inutilmente si era proposto di denominare questo procedimento — del resto secondo quanto risulta per la sede pretorile nell’art. 556, comma 1 — come « procedimento anticipato ». (13) Il parere favorevole della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
— 1177 — nale in composizione collegiale, in corrispondenza alle ipotesi di reato oggetto di apposita « riserva » in tal senso, anche le fattispecie analoghe a livello di tentativo (art. 33-bis, comma 1, c.p.p.); — alla scelta, influenzata dai pareri espressi da parte del C.S.M. e dalla Camera dei Deputati, di attribuire « in ogni caso al collegio » l’esecuzione, allorquando quest’ultima concerne « più provvedimenti emessi dal tribunale in composizione monocratica e collegiale » (art. 665, comma 4-bis, c.p.p.) (14). La nota della collegialità emerge e risalta anche in due altre formulazioni conseguenti all’attuazione della delega: — la formulazione dell’art. 167, che sostanzialmente tiene ferma la disciplina dell’art. 15 del codice, nel suo prevedere che per tutti i procedimenti connessi la competenza per materia spetta alla corte d’assise, e dunque ad un organo collegiale (il che potrebbe essere particolarmente apprezzato nell’ipotesi in cui uno o più dei procedimenti oggetto della vis attractiva fossero di competenza del tribunale in composizione monocratica); — la formulazione dell’art. 168, che, spersonalizzando la nozione di « medesimo giudice » risultante, nella disciplina della « riunione di processi », dal comma 1 dell’art. 17, prevede la vis attractiva del tribunale in composizione collegiale, tenendo ferma tale composizione « anche nel caso di successiva separazione ». B) Il venir meno o la riduzione della collegialità, che già di per sé suonano in perdita sul piano delle garanzie, almeno secondo una visione ottimale dei rapporti Stato-cittadino, nel quadro odierno della disciplina normativa del « giudice unico » fanno risentire effetti inappaganti — ma con una punta di enfasi possiamo definirli perversi — almeno sotto due profili. B.1) Primo profilo: l’effetto di trascinamento che la perdita di collegialità comporta agli effetti del procedere, ovvero del c.d. rito. In troppo ligia conformità — effettivamente emendabile — col principio enunciato nell’art. 1, lett. e), della delega, negli artt. 190 e seguenti del decreto delegato, ed a modifica del l. VII del codice, si è stabilito — quanto al procesullo schema di decreto legislativo, formulato nella seduta del 19 dicembre 1997, recava come prima condizione che venisse « previsto il riferimento ai delitti sia tentati che consumati per i reati da attribuire alla cognizione del tribunale, in composizione collegiale »; in termini analoghi si esprimeva, tre giorni dopo, la Commissione Giustizia del Senato: v. in Documenti Giustizia, n. 3/1998, c. 677 e c. 692. (14) Nel parere indicato a nota (7) (loc. cit., c. 672), di contro alla soluzione semplificatrice adottata, nello schema di decreto, nel senso della composizione monocratica per il procedimento di esecuzione, il C.S.M. formulava l’auspicio di « una soluzione diversificata, attraverso la previsione della collegialità del giudice dell’esecuzione, quando collegiale sia stato il giudice che ha pronunciato la sentenza »; in termini analoghi (loc. cit., c. 690) si esprimeva poi il parere della Camera dei Deputati. L’art. 206 del decreto delegato ha invece, alla fine, adottato una soluzione unificata, nel senso della collegialità.
— 1178 — dimento davanti al tribunale monocratico — che nelle materie — ripetiamoci: fino al livello di 20 anni di reclusione — nelle quali il tribunale opera in composizione monocratica si osservano le norme processuali pro tempore vigenti « per il procedimento innanzi al pretore ». Fino a che ci si limitava, come nella già citata relazione del C.S.M. datata 1996, a proporre il cambiamento di nome al pretore, per sostituirlo con quello di « giudice monocratico istituito presso l’ufficio unico di primo grado », ma ferma restando la competenza in ordine alla rosa dei reati enunciata nell’art. 7, si poteva anche comprendere la proposta che il giudice monocratico... semplicemente vestito di nuovo continuasse ad applicare « il rito attualmente previsto per i procedimenti disciplinati dagli artt. 549 ss. c.p.p. e per i quali non vi è, e continuerà a non esservi, udienza preliminare » (15). Quando, invece, come è poi avvenuto, per il nostro giudice monocratico non è cambiata soltanto la veste, ma, per continuare la metafora, sono cambiate la bilancia e la spada affidate alle sue mani, la perdita delle garanzie del procedimento, conseguente ed affiancata a quella della garanzia della collegialità, viene ad attingere livelli di degrado francamente non tollerabili. Va però anche notato che non sono mancate le reazioni di contro al criterio minimalistico stabilito e consentito dalla legge-delega. E per non dire di quelle prospettate nella pubblicistica, o negli incontri degli operatori, basterà ricordare le reazioni, più o meno tempestive, che sono venute da sedi qualificatissime. Dalla Camera dei Deputati, in primo luogo, che, sia pure soltanto in sede di preambolo (16), nel parere sullo schema di decreto legislativo prospettava « l’urgente necessità della ridefinizione del rito penale dinanzi al giudice monocratico, in modo da assicurare un livello adeguato di garanzie » (ma qualcuno si potrebbe anche domandare dove mai fossero gli scriventi commissari al momento dell’approvazione, operata a larghissima maggioranza, della legge-delega), e, poi, nella più onesta lagnanza contenuta nell’omologo parere senatoriale. Ricordato che, nel corso della discussione sulla legge-delega era prevalsa l’opinione « che fosse più opportuno utilizzare il modello del processo pretorile in quanto esso appariva strutturato su criteri di maggiore semplicità e celerità », i senatori davano poi conto dei risultati di una successiva e « più attenta lettura »: « ... appare indispensabile ridisegnare il sistema processuale pretorile introducendo momenti di garanzia già presenti nell’attuale rito di tribunale. Si prospetta quindi — questa la conclusione — la necessità di un intervento (15) C.S.M., Giudice unico, ecc., cit., p. 84. (16) Il punto in questione, infatti, non era fatto oggetto di concrete proposte, formulate, come per altre ipotesi, a titolo di « condizione » cui veniva subordinato il parere favorevole (v. il cit. parere della Commissione Giustizia, c. 675).
— 1179 — legislativo che corregga l’impostazione processuale delineata dalla leggedelega... ». Il governo è rimasto piuttosto sordo rispetto a questa prospettata necessità di intervento correttivo, e, alla fine di una prima parte dell’itinerario, la situazione è rimasta sicut erat in principio, anche se, nella relazione sul decreto legislativo, la « necessità » dell’intervento correttivo prospettata dal Senato veniva profilata, a futura memoria, come emergente « opportunità di ridisegnare il rito pretorile ». Solo più tardi, come testualmente risulta dalla già richiamata circolare del 21 maggio 1999, si è mutato decisamente avviso. E premesso che, secondo gli artt. 190 e seguenti del decreto legislativo del 1998, il tribunale in composizione monocratica, competente per i reati elencati nell’art. 169 dello stesso testo, « giudica secondo il rito pretorile », si è ritenuto che, a tale riguardo, si imponesse un ripensamento. « È stato ritenuto da molti — così si scrive — e, ciò che più conta, dalla Camera dei Deputati — la quale ha approvato il d.d.l. 411/C, attualmente all’esame del Senato — che il rito pretorile non appare idoneo ad assicurare un livello adeguato di garanzie in rapporto a tipologie di reati di rilevante gravità ». Ne è discesa una più globale consapevolezza, così sintetizzata: « Si è preso atto della impossibilità di rendere efficace l’aumento di monocraticità del giudice in materia penale ». Da qui il differimento (d.l. 24 maggio 1999, n. 145: art. 3, comma 3) al 2 gennaio 2000 della operatività degli artt. 33-bis e 33-ter, introdotti dall’art. 169 del decreto legislativo, « nonché di altre poche disposizioni connesse (artt. 220, 221 e 222, comma 2) », e la correlativa disciplina di carattere transitorio. Nello stesso preambolo del citato decreto legge — che sarà poi convertito nella l. 22 luglio 1999, n. 234 — si motivava esplicitamente la straordinaria necessità ed urgenza dell’indicato differimento « in vista dell’approvazione definitiva della riforma del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, attualmente in fase di avanzato esame da parte del Parlamento ». B.2) Un secondo profilo inappagante del nuovo assetto « tribunale collegiale-tribunale monocratico » è rappresentato dall’abbassamento del livello di rigore relativo alle ipotesi di non corretta applicazione delle regole di ripartizione interna. Muovendo dall’ottica di tipo ordinamentale, alla quale attinge l’originario art. 33 del codice nei suoi commi 1 e 2, e come ossessionato dalla disciplina delle nullità generali ed assolute, il legislatore del nuovo comma 3 viene a dirci che « Non si considerano altresì attinenti alla capacità del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante le disposizioni sull’attribuzione degli affari penali al tribunale collegiale o monocratico ».
— 1180 — Un certo stupore colpisce chi, magari sospinto semplicemente dal senso comune, stenta a persuadersi che la composizione monocratica o collegiale non metta in gioco una questione di « numero dei giudici », quasi che dunque, per stare appunto ai numeri, 1 sia uguale a 3, e 3 sia uguale ad 1. Nel suo più volte citato parere sullo schema del decreto legislativo, il C.S.M. ha mostrato di sostanzialmente condividere la scelta governativa, escogitando la tesi secondo cui si tratterebbe di « una sorta di nullità, a regime intermedio, rilevabile dal giudice o eccepibile dalle parti solo entro limiti ben determinati » (17): quelli poi delineati nei nuovi artt. 33-quinquies e seguenti (18) sulla falsariga e secondo la tempistica della disciplina dell’incompetenza per territorio o derivante da connessione (art. 21, commi 2 e 3, c.p.p.). Senonché, uno sforzo interpretativo del genere, oltretutto sterile di risultati (19), tradisce una palese forzatura, del tutto antagonistica rispetto alla regola fondamentale della tassatività, e quasi dunque fosse possibile far circolare nel sistema delle pseudonullità in incognito. E ci si può invece domandare se non fosse, e non sia, soluzione più conveniente ed adeguata quella che, pur senza fare non pertinente richiamo al criterio costituzionale del « giudice precostituito », senza andare troppo lontano si modelli alla luce della categoria scientifica dell’incompetenza funzionale, sulla falsariga della disciplina relativa alla incompetenza per materia, con gli opportuni adattamenti rettificativi. Del resto, può ben valere, ai fini dell’assimilazione competenza per materia — attribuzioni funzionali, uno schema di discorso di tipo analogico, come tranquillamente si è pensato di poter proporre per gli eventuali conflitti (sic) tribunale collegiale — tribunale monocratico, da ritenersi disciplinabili — si è detto — entro la categoria dei « casi analoghi » di cui al comma 2 dell’art. 28 c.p.p. (20). 7.
La dichiarata problematicità della nuova disciplina nel suo com-
(17) Loc. cit., c. 672. (18) La numerazione procede fino al 33-nonies (recte: novies). Ma sarebbe anche ora che il legislatore, più o meno progressista, dell’avvenire abbandonasse senz’altro questo tipo di numerazione in latinorum, per seguire i più sobri criteri europei (e dunque per scrivere: 33.1, 33.2... 33.9). (19) A sospingere su questa linea è forse stato il tenore letterale dell’omologa previsione riguardante il processo civile (v. nuovo art. 50-quater c.p.c.), dove espressamente si parla di « nullità » derivante dall’inosservanza delle regole di ripartizione tra composizione collegiale (art. 50-bis) e composizione monocratica (art. 50-ter); salvo poi, peraltro, abrogato il pur recente art. 274-bis, inglobare tale « nullilà » nella singolare disciplina dell’art. 161, primo comma, c.p.c. (20) V., sub. 4.1.2, la Relazione al d.l.vo 19 febbraio 1998, n. 51 (in Documenti Giustizia, cit., p. 538).
— 1181 — plesso. — Il complesso normativo che va sotto il nome del « giudice unico » (21), ad onta, o ad attenuazione, di un qualche trionfalismo che lo accompagna, non nasconde, ed anzi dichiara, la problematicità del suo fare i conti con i dati concreti e, appunto, con l’efficienza, che dovrebbe rappresentare la sua bussola. Un primo momento essenziale in cui tale problematicità è perfino dichiarata, sotto il tenue velame di una « norma finale », è rappresentato dall’indicata scissione tra l’entrata in vigore della nuova disciplina e la sua efficacia: una scissione — foriera, d’altronde, di proroghe quanto mai necessarie — attinta, più che dai canoni dell’una o dell’altra superiore circolare, dalle categorie para-giuridiche del pensiero debole. Un secondo momento significativo e qualificante, nello stesso ordine di idee, è rappresentato dalla testuale previsione contenuta nell’art. 1, comma 4, della legge-delega, nel suo prevedere che il Governo possa emanare, sulla scorta di determinati criteri, delle « disposizioni correttive » della nuova normativa. E ciò entro « due anni dalla data di entrata in vigore » della nuova disciplina: termine che l’art. 3-ter, comma 1, del d.l. 24 maggio 1999, così come convertito nella l. 22 luglio, n. 234, ha poi pensato bene di differire alla data (meno prossima) della sua efficacia. 8. Considerazioni finali (anche con riferimento alla corte d’assise). — L’istituzione del « giudice unico di primo grado » in sedi ufficiali è stata segnalata come una svolta ovvero come una riforma « epocale », e addirittura come « una rivoluzione copernicana ». Forse le parole sono andate al di là delle intenzioni: il sole e la terra sono ancora, a Dio piacendo, al loro posto, e non sembra proprio che il De revolutione orbium coelestium, datato 1543, a firma di Nicola Koppernigk, di Thorn sulla Vistola, renda desiderabile una qualche reiterazione. Va da sé, tra l’altro, che gli accresciuti poteri del giudice unico in versione monocratica, per un verso raccomandano, ed impongono, livelli ottimali di preparazione e di professionalità di questo « uomo solo » che (21) Già la lett. h) dell’art. 1 della delega conferiva al governo il compito di « prevedere che il giudice per le indagini preliminari sia diverso dal giudice dell’udienza preliminare »: e la previsione è stata attuata (art. 171 d.l.vo) con la nuova configurazione dell’art. 34, comma 2-bis, c.p.p., poi oggetto della disciplina transitoria contenuta nell’art. 3-bis della l. 22 luglio 1999, n. 234. Si tratta, peraltro, di disciplina piuttosto eccentrica rispetto al programma del « giudice unico », posto che concerne, se mai, anziché un giudice... unificato, un giudice sdoppiato. Risultato utile di tale sdoppiamento è, ad ogni modo, la sempre più accentuata caratterizzazione dei distinti ruoli del giudice « per le indagini preliminari » (art. 328) e del giudice dell’udienza preliminare, quale giudice, se mai, delle, o sulle, indagini preliminari, in vista dei successivi adempimenti.
— 1182 — può essere il magistrato, e, d’altro canto, suggeriscono la massima prudenza nell’eventuale modifica del giudizio d’appello. Per intanto va detto che i tempi più lunghi consentiti dalle proroghe, fino al 2 gennaio 2000 (e magari oltre), della nuova disciplina, anche a tempi ravvicinati, e in mancanza di soluzioni più drastiche, potranno almeno facilitare delle opportune modifiche rettificative. Ne segnaliamo due, tra le più importanti ed urgenti: una qualche possibile, ed anche molto consistente, riduzione dell’arco di attribuzioni demandato al tribunale in composizione monocratica, ad oggi innalzato fino al livello, francamente eccessivo, di 20 anni di reclusione; una nuova disciplina, nella direzione qui sopra ipotizzata, dell’inosservanza delle regole in tema di corretta ripartizione delle funzioni all’interno del tribunale. Siamo venuti anche segnalando che, per i casi meno gravi previsti in tema di « riorganizzazione del disciolto partito fascista », si è operato un trasferimento di competenza dalla corte d’assise al tribunale (in composizione multipla). Il che ci offre lo spunto per avanzare di nuovo una proposta, a lungo termine, sicuramente impolitica (ma anche Thomas Mann, si licet, era un impolitico): quella di un ulteriore passo, più o meno copernicano, nella strategia del « giudice unico », nel senso della soppressione della corte d’assise, con assorbimento della medesima entro le attribuzioni o competenza funzionale del tribunale in composizione collegiale. E, in effetti, la filosofia che ispira la composizione della corte d’assise è, oggi, in gran parte superata. Essa — sarà il caso di ripeterlo — era legata: sul piano istituzionale, alla premessa del giudice in toga quale rappresentante del sovrano, fonte della giustizia; sul piano tecnico-giuridico, alla ritenuta possibilità di scindere nettamente giudizio di fatto e giudizio di diritto; sul piano sociologico, all’immagine del giudice togato come avulso dal proprio tempo e rigido « sacerdote di Temi » fino ai limiti del disumano. Si tratta, va da sè, di questioni antiche quanto opinabili. Ma, per l’appunto, dovendo scegliere un’opinione, di contro a quella, tradizionale e conservatrice, non esente da accenti demagogici, a chi vi parla sarà permesso di aderire all’opposta opinione di Adolfo De Marsico e di Arturo Carlo Jemolo. Che era poi anche l’opinione — con buona pace dei proceduristi — di Honoré de Balzac, quando parlava della « coscienza che ogni uomo mette a compiere i doveri che egli ama, e che accompagna gli scienziati nella scienza, gli artisti nell’arte, i giudici nella giustizia » (22). E che è stata, poi, da ultimo, e proprio in occasione delle dispute in(22) Per i riferimenti v. PISANI, Problemi della giurisdizione penale, 1987, p. 107 ss. Si può convenire con SCAPARONE, Elementi di procedura penale, 1999, p. 71: « oggi il dibattito intorno alla struttura della corte d’assise ha perso la drammaticità che lo caratterizzava in passato, giacché la generale democratizzazione delle istituzioni giudiziarie attenua l’ur-
— 1183 — torno alla nostra materia, anche l’opinione tendenzialmente e a grande maggioranza espressa da un numero significativo di operatori, magistrati ed avvocati, giovani e meno giovani (23). Per giungere alla prospettata soppressione, col conseguente assorbimento, non sembra affatto necessaria (ma anche se lo fosse, non sarebbe certo motivo di scandalo) la revisione dell’art. 102, comma 3o, Cost., vero essendo che nel medesimo — oltre che nei relativi lavori preparatori — non si parla affatto di una necessaria partecipazione popolare nella forma dell’attuale corte d’assise. Ma per concludere limitatamente alla tematica del « giudice unico » quale si viene atteggiando secondo i modelli di fine secolo, ci piace farlo, — pensando a quanto si è fatto, a quanto già si sta facendo, per dar corpo alle discipline collaterali, ed a quanto ancora si potrà, ed anzi si dovrà fare — con le parole con le quali Warren E. Burger concludeva, nell’agosto 1970 a St. Louis, un suo discorso al congresso annuale dell’American Bar Association, intitolato « Lentezza e rapidità del processo penale » (24): « ... Naturalmente, l’efficienza non può essere da sola l’elemento più importante in un sistema di giustizia penale. Il lavoro dei tribunali deve essere efficiente senza mettere a repentaglio le garanzie fondamentali del cittadino ». MARIO PISANI
genza di riservare il giudizio sul fatto ai giudici popolari e l’opinione pubblica anzi apprezza il contributo di razionalità che i giudici togati possono recare alla valutazione della prova ». (23) Se ne veda il riepilogo a cura di AMODIO (Verso il giudice unico tra brividi e grandi incertezze), alla fine (pp. 235-236) del volume qui cit. a nota (6). (24) V. Ind. pen., 1971, p. 339 ss.
IL DOCUMENTO DELLA COMMISSIONE GROSSO SULLA RIFORMA DEL DIRITTO PENALE: METODO DI LAVORO E IMPOSTAZIONE GENERALE (*)
1. Ogni analisi critica del documento della Commissione Grosso (1) deve tenere presente che esso ancora non costituisce un Progetto di leggedelega per un nuovo codice penale. Esso è — lo dichiara apertamente, e tale infatti doveva essere secondo il decreto ministeriale di nomina — una Relazione indicativa degli orientamenti e delle priorità di una riforma della parte generale del codice penale, con qualche accenno anche ai criteri ai quali dovrebbe ispirarsi la disciplina della parte speciale. Come tale, dunque, deve essere valutato. Come tale, vi sono punti da condividere, e altri meno. Ma dico subito che, a mio personale parere, i pregi prevalgono sui difetti. 2. Per l’indagine sulla impostazione e sul metodo seguiti nella Relazione Grosso, può essere utile operare un confronto tra le linee guida generalissime ivi contenute, quelle proprie del Progetto Pagliaro (2) e quelle del Progetto Riz (3). Come termine di confronto assumerei un appunto che, verso la fine dei lavori della nostra Commissione io ebbi a preparare (mi sembra fosse destinato a un comunicato stampa, ma comunque esso è stato archiviato al Ministero tra i lavori interni della Commissione stessa): appunto, nel quale enunciavo i criteri fondamentali della riforma proposta. Essi erano testualmente i seguenti: a) attuazione dei principi costituzionali (in particolare: artt. 25 e 27 Cost.); b) soddisfare i bisogni di tutela giuridica di una società postindustriale; (*) Scritto destinato agli Studi in onore di Antonino Pensovecchio. (1) La Relazione della Commissione Grosso è pubblicata in questa Rivista, 1999, p. 600 ss.; ed è leggibile nel sito Internet www.giustizia.it/. (2) Testo e Relazione sono pubblicati in Giust. pen., 1994, II, p. 88; nonché nel sito Internet www.giustizia.it/. (3) Pubblicato in questa Rivista, 1995, p. 927, nonché nel sito Internet www.parlamento.it/.
— 1185 — c) contenere il numero delle incriminazioni entro lo stretto indispensabile (norma penale come ultima ratio); d) assicurare, per quanto possibile, certezza ed eguaglianza del diritto; e) evitare l’applicazione di sanzioni penali a fatti di nulla o scarsa lesività; f) adeguare le sanzioni penali e la loro tipologia all’effettivo disvalore di ogni singolo fatto, g) dare piena realizzazione al principio di colpevolezza; h) delineare l’impianto stesso del codice penale secondo una prospettiva nella quale il punto di riferimento sia la persona umana, e non lo Stato. ([Nel Progetto,] non solo è nuovo l’ordine delle incriminazioni, ma lo è il loro accorpamento, di guisa che ne deriva un sistema penale totalmente riformato rispetto a quello del codice Rocco. Anche la variazione del numero delle incriminazioni è significativa in questo senso: aumentata la tutela della persona umana); i) restituire al codice penale una posizione centrale nell’ordinamento, in modo da contrastare il pericolo di decodificazione; l) evitare riforme ispirate al solo scopo di adeguare la legislazione a una dogmatica penalistica particolare. La politica criminale dev’essere il solo faro della riforma; m) ottenere, nella legge-delega, il giusto livello di determinatezza, capace cioè di indicare al legislatore delegato principi e criteri direttivi senza peraltro contenere in sé l’intero articolato del codice. Ebbene, se accantoniamo momentaneamente gli ultimi due punti, si può tranquillamente affermare che anche la Relazione Grosso si è ispirata ai medesimi principi. Qualcuno di essi è espressamente enunciato; qualche altro si ricava dal contesto; ma non può esservi alcun dubbio che proprio questi abbiano costituito le linee direttive dell’elaborato della Commissione Grosso. Lo si ricava pure dalla presentazione effettuata dal prof. Grosso su una nota rivista (4). Come, del resto, sostanzialmente analoghi erano i Principi e le Regole generali previsti nel paragrafo III del Progetto Riz. 3. Se le linee guida sono fondamentalmente eguali tra il Progetto Pagliaro e la Relazione Grosso, ci si può chiedere da che cosa dipendano le differenze. Le cause principali di queste sono, a mio parere, fondamentalmente due: a) la composizione delle rispettive Commissioni; b) il fatto che nel primo caso la stesura del Progetto ha comportato la formulazione di un articolato, mentre nel secondo ci si è limitati a presentare una rela(4) 1117 s.
C.F. GROSSO, Per un nuovo codice penale, in Diritto penale e processo, 1999, p.
— 1186 — zione che potesse servire da orientamento per una successiva stesura del testo della legge-delega. 4. Per precisa scelta del Guardasigilli dell’epoca, prof. Giuliano Vassalli, la Commissione ministeriale che stese il Progetto Pagliaro fu una Commissione ristretta. Lo stesso prof. Vassalli spiegò, nel momento in cui insediava la Commissione, che lo schema del disegno di legge-delega avrebbe potuto essere preparato da funzionari del Ministero, ma di avere preferito che la sua elaborazione fosse effettuata da una Commissione di professori universitari di diritto penale, per la maggiore autorevolezza che il disegno governativo avrebbe così assunto davanti alle Camere. Inoltre, egli precisò di avere nominato una Commissione formata da pochi professori (soltanto 7), piuttosto che una Commissione più vasta, per la ragione che — in quella fase e soltanto in quella fase — il numero limitato dei componenti avrebbe conferito al lavoro una maggiore scioltezza (come è naturale, nel caso di approvazione della legge di delega da parte delle Camere, il compito di stendere l’articolato sarebbe stato assegnato a una Commissione più vasta, nella quale non solo fosse presente una rappresentanza più estesa dei professori universitari di diritto penale, ma avessero spazio pure le altre componenti della vita giuridica). Al contrario, la Commissione Grosso è composta — se si tiene conto pure del Comitato scientifico — da ventisei persone, tra professori universitari, magistrati, avvocati e funzionari del Ministero. Questo numero e l’eterogeneità dei commissari, anche se assicurano la partecipazione e l’integrazione di esperienze diverse, hanno tuttavia il difetto di rendere assai meno spedito ed agevole lo svolgimento dei lavori. È vero che, per recuperare efficienza, la Commissione si è divisa in sottocommissioni; ma ciò ha provocato un altro inconveniente. I lavori delle diverse sottocommissioni (integrati da qualche osservazione di singoli commissari) non hanno raggiunto tutti il medesimo livello qualitativo. E, anche nel metodo e nelle scelte di politica criminale vi si riscontra qualche diversità. Inoltre, i documenti delle singole sottocommissioni risentono delle visioni personali di chi (per lo più, un singolo commissario) li ha materialmente stesi. E la relazione finale, redatta dal prof. Grosso, anche se ha smussato certe asperità, tuttavia non ha potuto evitare l’emergere di alcuni contrasti di fondo, i quali hanno fatto sì che a volte non si potesse neppure indicare una proposta di politica criminale come fatta propria dalla Commissione nel suo complesso. 5. Conseguenza, poi, del limitato compito che il Ministro ha affidato alla Commissione, quello cioè di tendere non alla formazione del progetto di legge-delega, ma soltanto ‘‘alla stesura di un documento nel quale siano esposti gli orientamenti e le priorità di una riforma di parte
— 1187 — generale e di parte speciale del codice penale e siano inoltre prospettati gli eventuali criteri di un disegno di legge-delega’’, è la circostanza che i lavori della Commissione non siano potuti pervenire sino a formulare l’articolato del Progetto. Peraltro, è da ritenere che a costituire un ulteriore grave ostacolo in tal senso — altrimenti, nulla avrebbe impedito che, nel corpo della relazione, si inserisse un buon numero di proposte di articoli — sia stata la sopra rilevata eterogeneità della Commissione, con la conseguente difficoltà a raggiungere visioni unitarie sui problemi specifici affrontati. Il vero punto critico di ogni proposta legislativa non è costituito tanto dalle relazioni che possono accompagnare il progetto, quanto dal testo dell’articolato proposto. Se non si raggiunge un’omogeneità negli intenti da trasfondere nel testo di legge, tanto meno sarà possibile formulare un testo sul quale possano convergere i consensi dei componenti la Commissione, o almeno della loro maggioranza. D’altra parte, io credo che, per un giurista (a differenza che per il politico), quello che conta davvero è il testo della legge. Perciò, quando avevo l’onore di presiedere la Commissione per la legge-delega, raccomandavo a tutti i suoi componenti di formulare soltanto proposte che fossero accompagnate da una bozza dell’articolo da inserire nel Progetto. In questo modo, risultava sempre ben chiaro a noi stessi il fine del nostro lavoro e, insieme, balzavano subito agli occhi vantaggi e svantaggi di ogni testo proposto. Un ulteriore merito di questo modo di procedere è stato quello di evitare il pericolo di divagazioni e sconfinamenti dal tema, che avrebbero intralciato e rallentato i lavori della commissione, rendendoli poco fruttuosi. La discussione sui testi proposti è stata sempre molto ampia e approfondita, di guisa che la Commissione è rimasta sempre sovrana degli argomenti trattati, rielaborando anche profondamente le tracce presentate, in modo che il testo approvato rispecchia sempre l’opinione complessiva della Commissione, e non il punto di vista particolare del singolo commissario relatore. 6. Dicevo sopra che i criteri fondamentali delle riforme proposte dalla Commissione Pagliaro, dalla Commissione Riz e dalla Commissione Grosso sono eguali nella loro sostanza, salvo due eccezioni. Si comprende ora il perché della prima differenza. Poiché la Commissione Grosso non ha formulato una vera e propria proposta di legge-delega, ovviamente non ha potuto porsi il problema di ottenere, nella legge-delega, il giusto livello di determinatezza, capace cioè di indicare al legislatore delegato principi e criteri direttivi, senza peraltro contenere in sé l’intero articolato del codice. Al tempo stesso, ma per una ragione opposta, il problema non si è posto per la Commissione Riz, la quale ha steso direttamente — sia pure per la sola parte generale — l’articolato del codice penale.
— 1188 — Su questo tema, è necessario ribadire che, nel nostro ordinamento costituzionale, la via della legge-delega è la sola percorribile. Infatti, la nostra Costituzione richiede l’approvazione articolo per articolo, e con votazione finale, di ogni legge (art. 72, primo comma, Cost.) e, quindi, anche di un intero codice, qualora lo si voglia portare direttamente all’approvazione delle Camere. Ciò rende praticamente impossibile l’approvazione diretta, da parte del Parlamento, di un nuovo codice penale o di una larga riforma del codice vigente. Non importa se in aula o in Commissione, l’adozione di tale procedura richiederebbe, per l’approvazione di centinaia di articoli, un dispendio di tempo non compatibile con le funzioni delle Camere e delle loro Commissioni: in più, comporterebbe la possibilità che qualche singolo articolo non sia approvato, oppure lo sia in una stesura che non si accorda con le rimanenti disposizioni, in entrambi i casi distorcendo — per il nesso inscindibile che lega tra loro le disposizioni di un codice — il senso di altri articoli. Come bene disse il Villa, Relatore della Commissione parlamentare che redasse il codice Zanardelli, ‘‘bisogna essere affatto digiuni di scienza giuridica per sostenere che si possa facilmente far salva l’opera di un codice in un’Assemblea politica. L’opera di un codice è opera pensata, è opera studiata, è opera alla quale una lieve modificazione di forma potrebbe alterarne in parte l’economia’’ (5). Né varrebbe obiettare che il Progetto Riz è riuscito ad ottenere l’approvazione della Commissione Giustizia del Senato nel corso della XII legislatura. Intanto, il Progetto Riz comprendeva la sola parte generale del codice e, pertanto, era di ampiezza piuttosto ridotta. Ma, soprattutto, a chi scruti con disincanto i lavori parlamentari appare chiaro che l’approvazione in Commissione Giustizia è potuta avvenire solo perché, fino a quel momento, l’attenzione delle forze politiche non si era fermata sul Progetto. Altrimenti, le differenze di opinione sarebbero state enfatizzate, vi sarebbero stati schieramenti contrapposti e irriducibili nella Commissione Giustizia e, alla fine, la parte soccombente si sarebbe avvalsa dell’art. 72, terzo comma, Cost., il quale stabilisce che ‘‘fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della Commissione richiedono che sia discusso e votato dalla Camera stessa ovvero che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto’’. In pratica, un piccolo nucleo, anche eterogeneo, di parlamentari avrebbe finito col trasferire la discussione in aula, rendendo così impossibile l’approvazione del nuovo codice. La successiva sorte del Progetto Riz conferma queste nostre perples(5) Questa citazione testuale è tratta da CRIVELLARI, Il codice penale per il Regno d’Italia, I, Torino, 1890, p. CLXXX.
— 1189 — sità. Le Camere sono state sciolte e, quindi, il Progetto è decaduto. Ripresentato poi in sede referente alla Commissione Giustizia del Senato in data 26 gennaio 1999 (S 3718), non ne è stato neppure iniziato l’esame. Di tutto ciò sono stati ben consapevoli il Ministro Flick e, almeno in origine, il suo successore Diliberto, quando hanno, rispettivamente, formato e confermato la Commissione Grosso, affidandole il compito di prospettare gli eventuali criteri di ‘‘un disegno di legge-delega’’ (e non del testo di un nuovo codice). Certo, questo strumento non è il migliore in astratto. Infatti, esso espone a qualche rischio. Soprattutto, a quello di una non perfetta coincidenza della legge delegata con il contenuto della legge-delega: il che, tra l’altro, potrebbe dare luogo a un numero eccessivo di impugnazioni innanzi alla Corte costituzionale. Inoltre, se gli articoli della legge-delega non sono accorpati in modo più o meno artificioso, al momento della loro approvazione parlamentare possono riprodursi, sia pure in scala ridotta, gli inconvenienti legati all’approvazione articolo per articolo del testo del codice. Ma, se non il migliore concepibile in astratto, lo strumento della legge-delega è oggi l’unico disponibile nell’ordinamento costituzionale italiano, se si vuole davvero formare un nuovo codice penale che sostituisca il codice Rocco. Non posso condividere, poi, l’idea — ora fatta propria dal Guardasigilli — di affidare alla Commissione Grosso il compito di redigere direttamente l’articolato di un Progetto di una parte generale del codice penale (non di una legge-delega) da sottoporre al Parlamento. Anche se può essere vero che l’articolato consentirà un più approfondito dibattito, bisogna pur sempre considerare che il compito di una Commissione Ministeriale orientata alla riforma deve tenere presenti soprattutto le possibilità parlamentari di approvare la riforma stessa. A meno di intendere l’articolato come una base per formulare su di esso una legge-delega. Inoltre, oramai da tempo in dottrina ci si è convinti che non è possibile una buona riforma del codice penale, ove non si affrontino insieme parte generale e parte speciale. Se poi si entra nell’ordine di idee di apportare modifiche alla Costituzione, si può suggerire di introdurre nel nuovo testo costituzionale una deroga, per tutti i testi particolarmente complessi (e non soltanto per i testi unici, ai quali sembra limitata la previsione dell’art. 92 del Progetto Boato di riforma costituzionale), al principio generale che le leggi debbano essere approvate articolo per articolo. La recente riforma del regolamento della Camera, pur movendosi sulla strada giusta, non è ancora sufficiente, perché si infrange contro il limite posto nell’art. 72, primo comma, Cost. L’esperienza recente di altri Paesi europei può dare qualche suggeri-
— 1190 — mento. In Germania, mancando un diverso obbligo a livello costituzionale, i regolamenti parlamentari consentono, quando si debba approvare un testo particolarmente complesso, l’approvazione in blocco del disegno di legge. In Francia, proprio per evitare l’illogico intasamento dei lavori parlamentari e le facili disarmonie nei testi, che si verificherebbero se un intero codice fosse discusso e votato in Parlamento articolo per articolo, è stata prescelta, per emanare il nuovo codice penale, la via dell’emanazione di quattro leggi (alle quali successivamente se ne è aggiunta una quinta), ciascuna della quali constava di un solo brevissimo articolo, dove si stabiliva che le nuove norme penali erano quelle contenute nel codice penale annesso alla legge medesima. Inoltre, può essere opportuno ricordare come da noi si sono svolti i lavori preparatori del citato codice Zanardelli. Dopo ben ventisette anni sprecati nel vano tentativo di fare approvare alle Camere, articolo per articolo, un progetto di codice penale, si passò, con argomentazioni davvero inconfutabili, a una procedura simile, nella sostanza, a quella di recente adottata in Francia (6). 7. Nella Commissione da me presieduta c’eravamo sempre ispirati al principio di evitare riforme che avessero il solo scopo di adeguare la legislazione a una dogmatica penalistica particolare. Solo faro della riforma doveva essere la politica criminale. Certo, una moderna dogmatica contiene in sé larghi momenti teleologici. Ma solo quelli detratti dal diritto positivo vigente: se così non fosse, sarebbe una dogmatica erronea, se non mistificatrice (cioè, una dogmatica attraverso la quale si vuole surrettiziamente introdurre nella prassi del diritto qualcosa che non è nelle norme vigenti). Allora, il vincolo alla dogmatica attuale per il legislatore futuro sarebbe un vincolo al passato. Di più, l’espressione dei medesimi momenti teleologici può avvenire anche in costruzioni dogmatiche differenti: il salvataggio di un certo momento teleologico presente nella legislazione attuale non richiede, dunque, necessariamente l’affidarsi a una dogmatica particolare. E, viceversa, può darsi che la medesima teoria dogmatica sia impiegata a sostegno di visioni teleologiche tra loro differenti. Ebbene, mi sembra che questo sia il solo punto, a proposito del quale bisogna riscontrare una differenza netta rispetto alla Relazione Grosso. Differenza che, peraltro, non è dato riscontrare in tutta la Relazione, ma solo limitatamente ad alcune tra le proposte ivi formulate. Ciò, con tutta probabilità, dipende dal fatto, accennato prima, che le Sottocommissioni (6) Per i particolari, v. ancora CRIVELLARI, op. cit., p. CCVI. È inesatta, dunque, la opinione corrente, che il codice Zanardelli sia stato formato a mezzo di una vera e propria legge delegata.
— 1191 — hanno lavorato in modo autonomo — forse troppo autonomo —, e poi non vi è stato tempo sufficiente per portare a perfetto compimento il loro coordinamento finale. Ebbene: il tema dei presupposti soggettivi della responsabilità è quello, nel quale l’indebito influsso di particolari dottrine dogmatiche ha determinato la proposta di riforme inadeguate, non chiare o addirittura contraddittorie. Ciò avviene segnatamente a proposito di quattro argomenti specifici: la responsabilità da versari in re illicita, la responsabilità per il reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, la possibilità di un diverso titolo di responsabilità tra più compartecipi, la commisurazione della pena. 8. Per ciò che riguarda il versari in re illicita, il punto di partenza della Relazione Grosso è assolutamente corretto. Per vincolo costituzionale deve ritenersi ‘‘l’inaccettabilità dell’imputazione meramente oggettiva di elementi i quali siano a) significativi rispetto all’offesa, nel senso che (anche) da essi dipenda la realizzazione dell’offesa o messa in pericolo dell’interesse protetto, e quindi anche la riconoscibilità dell’illecito; b) oppure significativi rispetto alla pena, nel senso che da essi venga fatta dipendere la misura della sanzione’’ (capo III, punto 4.1). Tutto ciò è pienamente da condividere e collima del resto con quanto è previsto nel Progetto Pagliaro all’art. 12.1 (‘‘Escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole, prevedendo due sole forme di imputazione: il dolo e la colpa... Formulare la definizione di colpa in modo che in tutte le forme di essa l’imputazione si fondi su un criterio strettamente personale’’). Quel che non si può condividere è il fatto che, affascinati da una specifica teoria dogmatica, si coinvolga entro il concetto di imputazione meramente obiettiva anche la responsabilità da assunzione di rischio totalmente illecito. Può anche darsi che nella storia del diritto il versari in re illicita sia stato originariamente inteso come forma di responsabilità meramente obiettiva. Ma non lo è più da quando — e si tratta di un progresso non recente — si è dato rilievo, per escludere il reato, anche al caso fortuito e alla forza maggiore. Perciò la responsabilità da versari in re illicita non è una responsabilità meramente obiettiva. E, come tale, è compatibile con il principio di colpevolezza e con il disposto costituzionale. È vero che una diffusa teoria pretende che le sole forme di responsabilità ‘‘personale’’ siano quelle fondate sul dolo e sulla colpa; ma tale opinione si fonda sulla confusione tra il principio di colpevolezza e quella particolare dottrina dogmatica che, sotto il nome di concezione psicologica della colpevolezza, etichetta come ‘‘colpevolezza’’ quel che c’è di comune — dal punto di vista psicologico — tra il dolo e la colpa. In realtà, nessuno potrebbe seriamente affermare che l’art. 27 della Costituzione abbia voluto sancire la costituzionalizzazione della teoria
— 1192 — dogmatica della colpevolezza in senso psicologico. Non è di tal fatta il compito di una Costituzione. Le Costituzioni mirano a stabilire i principi della convivenza, non a conferire ‘‘santificazioni’’ a questa o a quella teoria dogmatica. Tra l’altro, il nostro art. 27 Cost. non menziona affatto la colpevolezza, ma statuisce che ‘‘la responsabilità penale è personale’’. E la sentenza n. 364/988 della Corte costituzionale si guarda bene dall’affermare l’assurdo che sia fuori della Costituzione chi non accetta la teoria dogmatica della colpevolezza in senso psicologico. Cosa vuol dire, allora, la nostra Costituzione all’art. 27 primo comma? Non sto qui a ripetere per esteso quanto già ho altre volte sostenuto (7). Accanto al richiedere la personalità della sanzione (scopo originariamente preso di mira dai suoi compilatori), la nostra Carta costituzionale in effetti esige la personalità dell’illecito: la quale, a proposito dei reati per i quali è prevista una pena (non per i casi per i quali è statuita soltanto una misura di sicurezza) si può anche specificare nel senso che l’illecito deve essere ‘‘colpevole’’. Ma, l’aggettivo ‘‘colpevole’’ qui non può significare altro se non la necessità che l’incriminazione deve rispettare il principio di colpevolezza, cioè l’esigenza che il soggetto sia stato capace di intendere e di volere, abbia avuto la possibilità di riconoscere il divieto e di motivarsi diversamente, abbia avuto, infine, il dominio finalistico sull’accadere esteriore. Quest’ultimo è il punto che ci riguarda in modo diretto. Il dominio del volere, che caratterizza il soggetto in quanto tale, non riguarda solamente l’esercizio effettivo dell’attività finalistica, ma si riscontra già nella potenzialità dell’attivarsi. Ciò è stato avvertito più volte dalle diverse dottrine che, in quadri teorici diversi, hanno cercato di approfondire il momento in cui l’uomo si inserisce, come entità autonoma e indipendente, nel flusso del divenire. Sono notevoli soprattutto le osservazioni di quegli autori che hanno tentato di delineare un concetto di causalità umana, hanno parlato di ‘‘finalismo obiettivo’’, hanno configurato colpa e omissione come attività finalistiche soltanto potenziali, hanno accennato a una teoria sociale dell’azione. Tutti modi per affermare che il controllo personale sull’accadere esterno l’uomo già ce l’ha nella potenzialità dell’attivarsi. Allora, perché una responsabilità penale sia ‘‘personale’’, è sufficiente che l’evento di danno o di pericolo sia stato prevedibile ed evitabile, in concreto, da parte di chi lo ha materialmente realizzato. Nei casi di normale colpa, che cosa c’è di più, se non la circostanza che vi si richiede la violazione di una regola cautelare? Ma non sarà certo il tipo di regola violata a introdurre la nota di personalità dell’illecito, dove essa già non sia. (7) V. ad es. PAGLIARO, Responsabilità obiettiva, in Studi Vassalli, I, Milano, 1991, p. 183 ss. Cfr. pure ARDIZZONE, I reati aggravati dell’evento, Milano, 1984, p. 177 ss.
— 1193 — Se questa moderna responsabilità da versari in re illicita sia da classificare, in sede dogmatica, come l’unica forma attuale della responsabilità c.d. obiettiva (questa soluzione è preferibile de jure condito, perché si allinea con il disposto dell’art. 42, terzo comma, c.p.) oppure come una diversa e più grave forma di colpa (come può essere opportuno de jure condendo: infatti in tal senso va letto il Progetto Pagliaro agli artt. 29 e 59 n. 5, lett. c)-e), nonché n. 8, lett. c)-e)) è questione da lasciare ai teorici della dogmatica ed è, tutto sommato, questione irrilevante nel momento in cui si scrivono le nuove leggi penali. Ma non si deve, in sede di riforma, farsi abbagliare da quelle formule teoriche che pretendono di negare il requisito della colpevolezza nella responsabilità da rischio totalmente illecito. L’autore del reato non solo è riprovevole anche in queste altre ipotesi, ma lo è assai di più che nelle normali ipotesi di colpa. L’evento di danno o di pericolo vi si produce, infatti, come svolgimento della creazione volontaria di un rischio totalmente illecito, e non come svolgimento di un rischio che, come avviene nei reati colposi, derivi dalla violazione di una regola cautelare: quest’ultimo è un rischio che ha nel suo nucleo centrale un rischio lecito (c.d. rischio consentito), diventando rischio illecito solo quando quel nucleo centrale è stato abbandonato. Chiariamo questi concetti. Nel delitto colposo l’evento è prodotto per il sommarsi del rischio lecito con il rischio illecito (per esempio, nella circolazione stradale vi è un rischio lecito, che si affronta anche quando si rispettano le regole cautelari, e vi è un rischio illecito che sorge quando tali regole sono violate: ma l’evento colposo dipende dalla somma di entrambi i rischi, perché al di fuori dell’ambito rischioso, ma lecito, della circolazione stradale l’evento non si sarebbe verificato). Allora, nell’attribuire l’evento colposo al soggetto, bisogna tenere presente che una quota del rischio — quella corrispondente al rischio lecito — non può essergli addebitata. Al contrario, nella responsabilità da versari in re illicita (si ponga mente, per es., a un omicidio preterintenzionale, dove l’evento morte si verifica come conseguenza non voluta di lesioni o percosse volontarie) l’ordinamento giuridico non si accolla alcuna quota di rischio, perché ne vieta totalmente la creazione. Allora, tutto il rischio è illecito: sicché, se ne segue un evento offensivo, chi ha affrontato tale rischio dovrà risponderne per intero: quindi, meriterà una pena assai più grave, anche se nettamente inferiore rispetto a quella che si deve prevedere per il corrispondente fatto doloso. Nella Relazione Grosso, mi sembra di leggere, sia pure in modo implicito, un riconoscimento della correttezza di questo modo di vedere il versari in re illicita. Infatti, vi viene riconosciuta una ‘‘peculiare forma di colpevolezza’’, la quale merita ‘‘un trattamento sanzionatorio... più grave rispetto alle altre ipotesi di colpa’’ (capo III, punto 4.1, lett. c)). Tuttavia, l’importanza di questo riconoscimento viene sminuita dal-
— 1194 — l’influsso negativo di quella dogmatica che pretende di vedere ‘‘colpevolezza’’ solo nel dolo e nella colpa come inosservanza di regole cautelari. La Relazione Grosso suggerisce, infatti, che gli ‘‘eventi di morte, di lesione o di disastro cagionati involontariamente mediante condotte dolosamente aggressive o pericolose per l’incolumità delle persone o di beni collettivi’’ siano ‘‘previsti espressamente sotto il profilo della responsabilità per colpa’’ e siano muniti di un trattamento sanzionatorio in misura più grave, ma ‘‘comunque agganciata al carattere colposo dell’evento realizzato’’ (ivi). Nella stessa Relazione si precisa, per l’evento aggravante, l’esigenza che esso sia ‘‘conseguenza prevedibile (colposa) della commissione del reato-base doloso’’ (ivi). Ma proprio quest’affermazione può dare luogo ad equivoci. Un’interpretazione letterale di questa dizione può fare concludere che colpa e prevedibilità siano la medesima cosa. Ma ciò non è vero, perché un evento prevedibile non può essere imputato a titolo di colpa, quando esso sia stato la conseguenza dell’assunzione di un rischio ancora lecito. In tal caso, la regola cautelare (di diligenza, prudenza, perizia ecc.) non è violata. Allora, bisogna pensare che l’agganciamento ‘‘al carattere colposo dell’evento realizzato’’ si riferisca, nella Relazione Grosso, alla necessità che sia stata violata pure una regola cautelare (una conferma ne ha al capo III, punto 4.2, dove si richiede esplicitamente ‘‘una consapevole violazione di una regola cautelare volta a prevenire l’evento realizzato’’). Ma neanche questo può essere vero: intanto, non ha senso chiedere, a chi realizza un fatto totalmente illecito da cui è prevedibile derivino conseguenze dannose ulteriori, di realizzarlo con cautela; inoltre, se la punibilità addizionale derivasse soltanto dalla violazione della regola cautelare, la pena complessiva non potrebbe superare quella che il cumulo giuridico delle pene consentirebbe per il concorso formale tra il fatto doloso e il fatto colposo. Ciò che peraltro la stessa Relazione Grosso giustamente respinge. Se cerchiamo di andare alle ragioni di fondo di questi equivoci, si può supporre che esse derivino non solo dall’idea — piuttosto datata — che colpa e prevedibilità siano la medesima cosa, ma anche dalla pretesa di ridurre la riconosciuta differenza di gravità tra i casi di vera colpa e i casi del versari in re illicita soltanto alla differente misura della riprovevolezza dell’agente (maggiore nei casi di dolo, minore nei casi di colpa). In questo quadro dottrinale, si afferma che la differenza di regime penale dipenderebbe dal carattere doloso (e non colposo) del fatto-base (8). Infatti, nella Relazione della Sottocommisione assegnataria del tema si legge che (8) PULITANÒ, Replica, nel volume collettivo Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, p. 563.
— 1195 — il ‘‘dolo misto a colpa’’ richiederebbe un ‘‘trattamento sanzionatorio adeguato alla peculiare forma di colpevolezza’’ (punto V.1), lasciando quindi intendere che la natura dolosa del fatto-base determini una riprovevolezza maggiore e, in conseguenza (solo per questo motivo, e non pure per l’oggettiva maggiore gravità dell’illecito, dovuta all’assunzione di un rischio totalmente illecito) la maggiore gravità della pena. Ma pure questa prospettazione è insoddisfacente. Infatti, la maggiore riprovevolezza per il fatto-base doloso è già valutata nell’imputazione di quel fatto come delitto doloso. Se fosse davvero così, scomparirebbe la ragione per la quale la pena complessiva per il versari in re illicita deve essere superiore a quella applicabile per il mero concorso formale tra delitto doloso e delitto colposo. Inoltre, l’argomentare dimentica che anche nelle normali ipotesi punite con il regime (più mite) della colpa, la violazione delle regole cautelari (regole sociali di diligenza, prudenza, perizia o regole giuridiche che le sostituiscono) può essere dolosa. Ma, per questi casi di dolosa imprudenza nessuno avverte la necessità di accrescere la pena per la colpa, se non entro i ristretti limiti della circostanza aggravante attualmente prevista all’art. 61 n. 3 c.p. Tutto sommato, la soluzione prospettata nella Relazione Grosso riduce il versari in re illicita a un banale concorso formale tra la violazione dolosa della regola cautelare (qui ravvisata nel delitto doloso di base) e una colpa cosciente. Per giunta, non tiene presente che nel versari in re illicita può mancare l’effettiva previsione dell’evento (e, ciò nonostante, le ragioni dell’aggravamento di pena ovviamente permangono). Conclusione: lasciamo da parte gli schemi dogmatici che, in sede di riforma, possono creare soltanto confusione, soprattutto in una materia come questa. Riconosciamo che il fatto del versari in re illicita deve essere punito solo quando l’evento non voluto sia stato, in concreto, prevedibile ed evitabile. Riconosciamo che esso deve essere punito con una pena addizionale, rispetto a quella applicabile al fatto-base doloso, la quale sia intermedia tra quella che sarebbe prevista per un ‘‘normale’’ fatto colposo e quella statuita per la realizzazione dolosa dello stesso evento. Ma evitiamo di vincolare la pena al ‘‘carattere colposo dell’evento realizzato’’. Scegliere la dogmatica più adatta per la nuova disciplina non è compito del legislatore, ma del teorico della dogmatica che si troverà a lavorare sui nuovi testi di legge. 9. Un ulteriore punto, dove l’ingresso abusivo della dogmatica nell’opera del legislatore potrebbe arrecare danni, concerne la disciplina della responsabilità per il reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti. Premetto che, a mio personale parere, sarebbe ben possibile mantenere una disciplina del tipo di quella oggi contenuta nell’art. 116 c.p., con
— 1196 — la sola avvertenza che la pena, trattandosi di un versari in re illicita, e non di un fatto doloso, dovrebbe essere ridotta assai più di quanto non preveda il codice vigente. Il vero difetto della legislazione vigente è, infatti, quello di statuire una pena eccessivamente elevata a carico di chi non voleva il reato che fu effettivamente realizzato. A titolo esemplificativo, si potrebbe pensare a una riduzione da un terzo alla metà. Così, questo tipo di responsabilità verrebbe allineato alla disciplina che, in generale, si può proporre (e, sostanzialmente, è proposta dalla Relazione Grosso) per il versari in re illicita. Ma la Relazione Grosso (capo III, punto 4.2) critica anche la proposta di modifica dello Schema Pagliaro (agevolazione colposa del reato realizzato da altri: art. 29). La ragione del dissenso è vista in quello che sarebbe uno scarto ‘‘dal modello normale dell’imputazione soggettiva: una responsabilità che strutturalmente è per colpa viene imputata a titolo di dolo, comporta una pena la cui misura è agganciata (sia pure con il correttivo di una forte diminuzione) alla pena prevista per il reato doloso realizzato, e l’ambito della responsabilità strutturalmente colposa copre anche delitti non previsti fra le figure di reato colposo’’. Anche qui c’è un apporto ultroneo della dogmatica alla politica criminale. In primo luogo, l’agevolazione colposa comporta non solo un fatto colposo, ma anche un fatto attribuito a titolo di colpa (ossia, le conseguenze giuridiche saranno quelle che la legge prescrive per i reati colposi). Infatti, il Progetto Pagliaro prevede che il concorrente, che abbia per colpa agevolato la commissione del reato diverso (statuizione inerente al fatto), risponda di agevolazione colposa (statuizione attinente alle conseguenze giuridiche). Vi è perfetta corrispondenza tra ‘‘struttura del fatto’’ e ‘‘titolo della responsabilità’’. Non solo, ma incriminando l’agevolazione colposa del reato commesso da un altro concorrente, per ciò stesso, con un semplice meccanismo di integrazione tra norme, si creano tante figure di delitti colposi. Viene perciò rispettato il principio che i delitti colposi debbano essere espressamente preveduti dalla legge (attuale art. 42 c.p.). È inutile e pericoloso, dunque, suggerire che il concorrente possa rispondere del reato diverso solo quando ‘‘il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo’’. Esemplificando: se un soggetto si accorda con altri per la commissione di un furto in una situazione concreta nella quale è prevedibile che il furto degeneri in rapina, a fungere da evento colposo dell’agevolazione sarà la commissione della rapina da parte di altro compartecipe. Mentre una rapina colposa sarebbe priva di senso criminologico ove si trattasse di fatto commesso da un solo soggetto (e perciò non ne troviamo l’incriminazione in nessun codice), la responsabilità per l’avere reso possibile ad altri la commissione del fatto doloso di rapina possiede, da un punto di vista criminologico, un suo significato autonomo, che non sarebbe giusto nascondere per mera acquiescenza ad astratti dogmi dottrinali.
— 1197 — Allora, unico problema residuo è quello della misura della pena. Nel passo citato, alla Commissione Grosso è forse sfuggito che le esigenze di politica criminale inducono a prevedere anche la punibilità di agevolazioni colpose di reati che in sé stessi non sono previsti anche nella forma colposa. Per il diritto attuale, basta dare uno sguardo al codice. Vi troviamo, ad esempio, l’agevolazione colposa dell’evasione, quella della violazione di sigilli, della distruzione o sabotaggio di opere militari, ecc. Analoghe esigenze si ripropongono per l’agevolazione colposa del fatto del concorrente: chi concorre in un reato doloso (ad es., il furto o l’ingiuria), può agevolare per colpa la commissione, ad esempio, di un delitto di rapina o di violenza sessuale da parte di un concorrente. Questi delitti non sono punibili nella forma colposa. Perciò è necessario agganciarsi alla misura della pena prevista per la realizzazione dolosa, operando poi una congrua riduzione, volta ad allineare tale misura al disvalore effettivo dall’agevolazione colposa. E in tal senso il Progetto Pagliaro detta una serie di prescrizioni, dirette a disciplinare nel modo corretto e proporzionato le varie situazioni che, in concreto, si possono verificare. Né è possibile immaginare già in astratto tutti i possibili casi di reati diversi realizzabili dal concorrente, per incriminare (come in un altro passo suggerisce la Relazione Grosso) altrettante forme di agevolazione colposa, con pena di volta in volta specificamente indicata. Questa soluzione correrebbe il rischio di creare lacune di tutela (la realtà supera la fantasia dei legislatori!) e conseguenti ingiustizie, oltre a dare luogo ad un modo di legiferare eccessivamente analitico e farraginoso. Inoltre, è contraddittoria: se si ritiene che non si possano verificare, nella prassi, ipotesi di agevolazione colposa differenti da quelle che si prevedono nella parte speciale, cade la ragione di criticare la norma generale; se si ammette che altre se ne possano verificare, la previsione di specifiche forme di agevolazione resterà incompleta, determinando l’aprirsi di lacune di tutela. Infine, se — come sembrano ritenere la Relazione Grosso e soprattutto il documento proveniente dalla Sottocommissione — l’agevolazione colposa di un fatto doloso contrastasse in qualche modo con i principi di civiltà e con le norme costituzionali (nella Relazione della Sottocommissione, punto V.2, essa è ritenuta ‘‘di problematica conciliazione con il principio di colpevolezza’’ e nella Relazione Grosso, capo III, 4.2, ‘‘poco conciliabile con il principio di colpevolezza’’), non si vede come questo vizio possa essere sanato trasferendo la previsione dell’identica disciplina giuridica in alcune fattispecie di parte speciale. Colpite dal vizio sarebbero queste altre fattispecie. La verità è che non v’è motivo di dubitare della legittimità costituzionale e della civiltà di norme che prevedessero, in generale, o in forma specifica, agevolazioni colpose al fatto doloso altrui, statuendo una congrua misura della pena. 10.
Quanto alla possibilità di un concorso colposo in fatto doloso
— 1198 — altrui, la Commissione Grosso si limita a ritenerne inopportuna la previsione ‘‘a fronte delle univoche posizioni assunte sul punto dalla Cassazione’’ (capo VII, punto 5). Ora, tali posizioni della Cassazione derivano dall’accettazione incontrollata del dogma che vede necessariamente unitaria tipicità ed unitario titolo di responsabilità nel concorso di persone. In modo indiretto, dunque, anche questo accenno della Relazione Grosso dipende da un indebito ingresso della dogmatica nella politica legislativa. Di più, l’argomento che la Corte di cassazione sia orientata in un certo modo secondo il diritto attualmente vigente non può essere determinante per una scelta della soluzione più opportuna nel diritto a venire. Proprio perché si tratta un’innovazione legislativa, bisogna soppesare tutti i vantaggi e gli svantaggi della novità. Se l’introduzione esplicita della possibilità di un concorso colposo in fatto doloso potesse determinare prospettive di più alta giustizia nel nostro diritto penale, non si vede perché rinunciarvi, anche se ne dovrà seguire (come ad ogni modifica legislativa che abbia un seguito nella prassi) un mutamento nella giurisprudenza. Nella prospettiva di politica criminale che sembra più convincente, il configurare un concorso colposo in un reato doloso appare preferibile al puro e semplice sommarsi di un autonomo fatto colposo a un fatto doloso: non fosse altro, perché, ove i reati fossero autonomi, potrebbe sorgere il dubbio che il successivo fatto doloso altrui sia sempre in grado di interrompere il nesso causale tra la condotta colposa e l’evento; oppure si può verificare l’inconveniente opposto, di applicare ciecamente il disposto dell’art. 41, terzo comma c.p., per ritenere mai interrotto il nesso causale. Andrebbe così disperso il punto nodale del discorso, che dovrebbe condurre a limitare la responsabilità ai soli casi, nei quali una condotta rispettosa delle regole cautelari deve prendere in considerazione anche la possibilità che l’altro agisca dolosamente. 11. Dannoso, infine, può essere l’irrompere della dogmatica sul problema della commisurazione della pena. A questo proposito, la specifica Sottocommissione, fuorviata appunto da considerazioni dogmatiche, era pervenuta a risultati non condivisibili. Intanto, tra le indicazioni a livello dottrinale, ne aveva menzionata una sola (DOLCINI, in questa Rivista, 1990, p. 398 s.), senza tenere conto della posizione opposta (ad es., PAGLIARO, in questa Rivista, 1981, p. 25; MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione della pena, Milano, 1982), di segno completamente contrario. Inoltre, non risulta che nella dottrina italiana vi sia ‘‘consenso generale sul riferimento alla ‘colpevolezza per il fatto’ quale limite garantista insuperabile nella commisurazione della pena’’ (v. i miei Principi di diritto penale. Parte generale6, 1998, p. 316 s.). Ancora, può essere vero che nei codici tedesco ed au-
— 1199 — striaco la colpevolezza sia vista come fondamento per la commisurazione della pena; tuttavia, bisogna guardare anche e soprattutto all’attuazione pratica di questa disposizione (la dizione di tali codici viene intesa, infatti, nel senso che indichi l’intera gravità del fatto [ad es., DREHER-TRÖNDLE, Strafgesetzbuch und Nebengesetze45, München, 1991, sub § 46.4] e non viene dimenticato neppure l’effetto di prevenzione generale correttamente inteso: BGH 29 gennaio 1992, in NStZ, 1992, p. 275). Inoltre, nel codice portoghese si fa riferimento anche ad esigenze di prevenzione (non vi si distingue tra prevenzione generale e speciale), nel codice spagnolo ci si riferisce anche alla maggiore o minore gravità del fatto, mentre nel codice francese sono menzionate pure le circostanze dell’infrazione. Per fortuna, la discussione plenaria in Commissione Grosso ha cercato di riportare il timone su rotte meno insicure. Vi si è rilevato ‘‘un certo scetticismo in ordine alla possibilità di suggerire criteri in grado di orientare con assoluta univocità il giudice’’. Malgrado queste ragionevoli perplessità, si è finito, peraltro, con il proporre la formula ‘‘il giudice determina la pena con riferimento alla colpevolezza per il fatto; essa può essere ulteriormente diminuita in considerazione delle esigenze di prevenzione speciale’’ (Relazione Grosso, capo VIII, punto 9). Ebbene, stabilire che tra il massimo e il minimo edittali la determinazione della pena sia effettuata con riferimento alla ‘‘colpevolezza per il fatto’’ porta ad una notevole ambiguità del disposto normativo: perché non si capisce bene se siano soltanto i contrassegni soggettivi (intensità del dolo, grado della colpa) a influire sulla misura concreta della pena oppure lo siano anche la gravità del danno o del pericolo e le modalità della condotta in quanto siano riflesse nel dolo o nella colpa. Nel primo caso avremmo l’assurdo (non logico, ma di politica criminale: con probabile violazione del principio costituzionale di razionalità delle leggi) che sarebbero puniti allo stesso modo chi, con una certa misura di imprudenza, avesse cagionato un danno minimo e chi, con la stessa imprudenza, avesse cagionato il massimo del danno previsto nella medesima fattispecie. Ed un discorso analogo si potrebbe ripetere per il fatto doloso. Forse, la formula ‘‘colpevolezza per il fatto’’ va intesa, pertanto, nel secondo dei suoi possibili significati: si terrà conto non solo dell’intensità del dolo e del grado della colpa, ma anche della gravità del danno o del pericolo cagionati e della modalità della condotta, quando questi requisiti si rispecchino nel dolo e nella colpa dell’agente. Ma, se si vuol dire questo, non è meglio uscire dall’ambiguità e stabilire (come nel Progetto Pagliaro, art. 39.1; ma vedi pure il Progetto Riz, art. 112, dove sono richiamati, in sostanza, gli stessi criteri) che il giudice applichi la pena ‘‘commisurandola secondo i fattori di gravità oggettiva (offesa, modalità della condotta) e soggettiva (intensità del dolo, grado della colpa, motivazione), tenendo conto del disvalore complessivo del fatto’’, con l’ulteriore preci-
— 1200 — sazione (art. 39.2) che ‘‘i fattori oggettivi di aggravamento della pena opereranno solo in quanto riflessi nella colpevolezza’’? 12. Sul capo XI della Relazione Grosso (Struttura del codice ed indicazione dei beni giuridici) mi soffermo appena, perché la mancanza di una parte speciale, sia pure abbozzata, non consente di dare un giudizio sicuro sulle indicazioni ivi contenute. Comunque, i criteri generali indicati sembrano da condividere e, tra l’altro, collimano largamente con le proposte contenute nel Progetto Pagliaro. Ad esempio, di quest’ultimo la Relazione Grosso cita con favore l’innovativo meccanismo per il quale, nei casi in cui il fatto è preveduto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti, bisognerebbe ‘‘stabilire la non applicabilità di queste, salvo che siano state confermate con leggi delegate, da emanare nel tempo indicato per l’entrata in vigore del codice medesimo’’ (art. 13 disp. attuazione). Così pure, è implicitamente (tramite il richiamo all’art. 1 della l. n. 4 del 1929 in materia finanziaria) condiviso l’art. 4.3 del Progetto, dove viene suggerito che le disposizioni di parte generale si applichino ‘‘anche alle materie regolate da altre leggi penali, salvo deroga espressa’’. E risalgono al Progetto Pagliaro anche l’idea di individuare classi prestabilite di pena quanto a gravità edittale (art. 58) e l’altra di indicare criteri generale capaci di distinguere le figure autonome di reato dalle figure circostanziate (art. 2 disp. attuazione). Tutto ciò è senz’altro da condividere. Ma sembrano meritevoli di condivisione anche le ulteriori riflessioni che la Commissione Grosso ha svolto autonomamente sul punto. 13. Non voglio porre termine a queste mie considerazioni, senza rilevare che il documento finale della Commissione Grosso possiede il pregio di una grande onestà intellettuale e scientifica. Esso risulta evidente in modo particolare a chi, come me, ha prima seguito dall’interno i lavori della Commissione Pagliaro, e poi ha partecipato in prima persona al dibattito che ne è seguito. La Relazione stesa da Carlo Federico Grosso ha sempre soppesato con accuratezza — per quanto il tempo lo ha consentito — le diverse possibili soluzioni prospettate nelle sottocommissioni. Soprattutto, poi, non ha cercato di svalutare indebitamente il lavoro delle due Commissioni che, in precedenza, avevano lavorato sul tema di un nuovo codice penale, né di appropriarsi surrettiziamente dei risultati ivi conseguiti, e neppure di lasciarli ricoprire dal silenzio e dall’oblìo. Le soluzioni prescelte da tali altre Commissioni sono state puntualmente indicate, il più delle volte per condividerle, talvolta anche per distaccarsene: come è logico accada in un Paese — quale il nostro —, nel quale le visioni generali di politica criminale sono largamente condivise, mentre talvolta restano controversi i modi di dare loro pratica attuazione. ANTONIO PAGLIARO
CRIMINALITÀ SOMMERGENTE E CECITÀ POLITICO-CRIMINALE (SEGNI ANCH’ESSI DI UNA CIVILTÀ DECADENTE?) (*)
SOMMARIO: 1. Il lamentato aumento della criminalità e l’esaltato potenziamento delle cause criminogene. — 2. Lo smembramento delle « controspinte » alla criminalità da disattendimento di elementari « leggi criminologiche ». — 3. Lo smembramento della « controspinta culturale »: da ideologie criminogene. — 4. Le ideologie criminogene capitalistico-consumistiche e permissivistico-trasgressive. — 5. Le ideologie criminogene della droga. — 6. Lo smembramento della « controspinta giuridico-penale »: da « disordinamento giuridico ». — 7. Da politica penale criminogena. — 8. I consequenziali effetti: l’« illegalità dilagante ». — 9. I corollari della dilagante illegalità. — 10. Gli universi di criminalità « istituzionalizzata ». — 11. La necrofila devastazione del Pianeta. — 12. La verosimile incapacità delle moderne società di contenere il crimine. — 13. Crisi o decadenza di una civiltà?
1. Tra le crescenti incertezze dell’incerto futuro umano un dato appare sufficientemente certo: il verosimile aumento della criminalità, unitamente alla droga, alla corruzione, al disordine generalizzato. E alla devastazione planetaria. Aspetti, connessi, di un’insania collettiva di fondo, di cui l’umanità sta prendendo sempre più chiara incoscienza. E ciò va detto non per indulgere alle non predilette professioni del catastrofismo e, men che meno, della profezia. Ma per la più elementare constatazione che — tra le contraddizioni della nostra contraddittoria epoca e in forza della più generale capacità umana di non cogliere le correlazioni tra « causa » ed « effetto » — le moderne società, e in primis quelle c.d. « civili » e « progredite » e segnatamente la nostra, lamentano gli effetti criminali e potenziano le cause criminogene. Potenziano le cause criminogene perché stanno facendo terra bruciata di ambedue le « controspinte » alla criminalità: 1) la primaria controspinta culturale, perché la c.d. cultura dominante sta smembrando il sistema di controlli extrapenali e dei valori anticrimine, sostituiti con un solido sistema di disvalori criminogeni; (*) Insolito può essere, ma non irriverente, ricordare GIAN DOMENICO PISAPIA, Maestro di scienza e di vita, con amari bilanci decadenziali di questa fine-millennio, concorrendo anche questi, per contrasto, a ravvivare il ricordo del patrimonio di fede nel diritto e nella razionalità, di idealità e di sano realismo, di chiarificazione e armonia concettuali, che Egli condivise con altrettanti compianti Maestri, FRANCESCO ANTOLISEI, GIACOMO DELITALA, GIUSEPPE BETTIOL, PIETRO NUVOLONE. E che da questi nostri tempi sembra condannato all’oblio.
— 1202 — 2) la complementare controspinta penale, perché la c.d. « politica criminale », assurta a politica criminogena e talora criminosa, sta demolendo — almeno da noi — anche i residui controlli penali della criminalità, attraverso la « devittimizzazione » del diritto e del processo penale, dimentica che « valore non è soltanto ‘‘l’uomo-reo’’, ma anche e ancor prima ‘‘l’uomo-vittima’’ », e contrapponendo alla « criminalità reale » la « pena virtuale ». Due insanie, le suddette, che ogni giorno presentano il conto. 2. E fanno terra bruciata delle controspinte criminali perché disattendono due elementari leggi criminologiche: 1) la legge del rapporto di proporzione inversa tra condotta antisociale e validi sistemi di controllo (religiosi, morali, familiari, scolastici, associativi, democratici, amministrativi, giuridici, nonché penali): il numero di coloro che pervengono al delitto cresce col decrescere del valore di tali sistemi normativi. Atteso che esiste, altresì, un rapporto di proporzione inversa tra predisposizione e ambiente: nel senso che, se è vero che quanto più forte è la predisposizione tanto meno necessari e ininfluenti sono i fattori criminogeni ambientali, è non meno vero che, coll’accentuarsi del carattere criminogeno dell’ambiente, pervengono al crimine categorie sempre più ampie di soggetti meno o anche solo marginalmente predisposti. Lassismo, disordine, criminalità sono un trinomio indissolubile. Traboccante è il mondo di esempi tragici, in cui la tolleranza assoluta ha generato la intolleranza assoluta. Oggi, poi, basta aprire la finestra e guardare in strada. O ascoltare i telegiornali. Per assistere ad una delinquenza mediocre che contagia una cerchia sempre più ampia della c.d. vita normale. Del resto, per trasformare dei ragazzini in delinquenti basta la tolleranza del normale « teppismo », diurno e notturno: il lasciar correre, il chiudere gli occhi, il coprire;
2) la legge del rapporto di proporzione inversa tra controlli sociali extrapenali e controlli sociali penali, in quanto all’attenuazione dei primi supplisce l’estensione e l’irrigidimento dei secondi. Con la loro inappetenza per qualsiasi valore normativo, le società « permissivistiche », anomiche, finiscono per garantire nulla a nessuno, se non ai prevaricatori: l’anomia è l’assolutizzazione dell’arbitrio e l’asepsi morale e normativa eleva la « forza » a strumento di soluzione dei conflitti interpersonali: sparite le regole, ricomincia la corsa agli istinti aggressivi, predatori, sessuali. E per divenire, poi, più repressive — almeno sulla carta — sul piano poliziesco e penale, restando la pena l’unico illusorio sistema di controllo sociale. Per il venire meno degli altri sistemi sociali di controllo, il diritto penale da extrema ratio diventa unica ratio. Il diritto, ormai, della « perenne emergenza »: estendendosi in quantità e peggiorando in qualità. Permissivismo, disordine, criminalità, repressione sono un quadrinomio indissolubile.
— 1203 — Eloquente è la storia anche degli altri paesi: negli USA, ad es., il ritorno alla pena di morte, i coprifuoco notturni minorili per cercare di arginare quella criminalità adolescenziale che la cultura americana, da mela bacata, ha generato, e le castrazioni chimiche dei pedofili recidivi. E, immancabilmente, anche la nostra storia: le troppe iniziali benevolenze politiche, intellettuali, giudiziarie, verso i prodromi del terrorismo e le troppe connivenze e collusioni dei pubblici poteri con la mafia hanno portato ai rigori e agli inquinamenti del garantismo nella legislazione dell’emergenza antiterroristica e antimafia. Lo smembramento della disciplina carceraria — dovuto anche al permissivismo che, al solito, ha tenuto a battesimo le pur improcrastinabili riforme del nostro sistema carcerario e che ha reso le prigioni non più umane, ma piuttosto luoghi sotto il controllo terroristico dei delinquenti più irriducibili — è sfociato nelle « carceri speciali di massima sicurezza » e nella « sorveglianza particolare » dei detenuti più pericolosi. Si è poi continuato con gli inasprimenti repressivi del riciclaggio e dell’usura. E, da ultimo, della violenza sessuale e pedofilia. Da segnalare, questi, tra i più paradigmatici settori della lamentazione corale dell’« effetto stupro » e del potenziamento delle « cause stuprogene », essendo passati da una cultura sessuofoba alla cultura sessuomane del « pansessualismo ». Abbinante l’ideologia della « pseudoliberazione sessuale » (coi miti — a detta delle scienze competenti — del « sesso naturale », del « sesso culturale », dell’« equivalenza sesso-amore », della « sessualità precoce ») e l’ideologia del « consumismo sessuale », elevato a status symbol (con la « ipersessualizzazione » martellante, massmediale, cinematografica, pubblicitaria; la « pornodemocrazia », bene di consumo di massa, il « turismo sessuale e pedofilo » nelle oasi terzomondiste; e la reificazione, mai come oggi, della donna come oggetto « estetico-erotico-pubblicitario »). Con la conseguente caduta del controllo socio-culturale della sessualità e lo sviluppo, senza precedenti, del traffico imprenditoriale della prostituzione, della pedofilia, della pornografia, alle soglie del terzo millennio potendo l’umanità invocare a proprio vanto anche la « tratta della schiavitù per fini sessuali », vittimizzante milioni di donne e bambini. E col peggioramento non solo quantitativo, ma anche qualitativo della violenza sessuale: non più soprattutto « solitaria » e a vittima determinata e infungibile, ma, oggi, « solitaria » e « di branco », a motivazione più varia, ad esecuzione brutalizzata, a vittima indeterminata e fungibile e senza discriminazioni. La lotta contro la quale richiede, più che simbolici aumenti di pena che non ridurranno di una sola unità gli stupri, ben altre e improbabili « conversioni culturali » (1).
E sulla via degli inasprimenti sanzionatori nei settori più dirompenti della criminalità, verosimilmente, si continuerà: come già preannunciato per il furto domiciliare o con scippo. Anche se — un unicum pressoché planetario, invidiatoci dagli incivili paesi stranieri — il nostro neorepressivismo è soprattutto « simbolico », virtuale: cartaceo. Perché subito neutralizzato dall’ineffettività del nostro sistema sanzionatorio e dall’effettività dei clemenzialismi legislativi e giudiziari. (1) V., per una più ampia trattazione della materia, il nostro: Diritto penale, I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, Padova, 1998, p. 7.
— 1204 — 3. Stanno facendo, le moderne società, terra bruciata delle controspinte culturali alla criminalità sotto la spinta e suggestione di una « miscela criminogena », nichilista e necrofila, di ideologie, pseudoculture, subculture e prassi: maturo frutto di questa fine-millennio e disastrose per i provocati smarrimenti intellettuali e comportamentali. Di estrema vitalità in tutta la loro virulenza, talune. In declino, talaltre, perché giustiziate dalla storia, ma le cui tossine non sono state ancora ben metabolizzate ed espulse dall’organismo sociale. E che qui ci limiteremo, schematicamente ed esemplificativamente, ad elencare: 1) per cominciare, l’insieme di ideologie e pragmatismi materialistico-ateistici, in quanto ai fini criminologici viene in considerazione non, ovviamente, il problema dell’esistenza o meno di un Dio, ma pur sempre il dato incontestabile che le « religioni autentiche », con le loro etiche dell’amore universale, della dignità di ogni essere umano, del rispetto dell’altro, della solidarietà, della distinzione tra bene e male, del premio e del castigo eterni e, quindi, della norma di condotta e del limite all’agire, hanno sempre costituito uno dei primari sistemi culturali di controllo del comportamento antisociale. Caso o causa che sia, è verità storica la coincidenza dell’allontanamento della cultura occidentale dalla propria tradizione etico-religiosa, prima, coi mostri delle ideologie, ad essa contrapposte, che affidarono la autoredenzione dell’umanità al totalitarismo, alla guerra, ai lager e gulag, e alla legge del mercato, tutto rendendo possibile: Auschwitz e Wall Street. Ed ora, con le pullulanti sette pseudoreligiose, costruite su misura dei vizi umani e per il danno degli stessi adepti, e l’infestante e truffaldina magia ed occultismo, essendo più numerosi i maghi dei sacerdoti e dei medici; 2) la subcultura del linguaggio della violenza e dell’horror, che in modo incontrastato si è impossessata e domina non solo le azioni e le parole, ma i suoni, le luci e i colori: cinematografia e televisione, stampa, fumettistica, cartellonistica, videogames, telefilm e cartoon per bambini. Messaggi pubblicitari, sfilate di moda e musica rock-trash-rap, luci psichedeliche, abbigliamenti e cosmesi: sempre più aggressivi e violenti. Prodotti che trasudano, tutti, la gratuita quanto necrofila compiacenza per la violenza, il sadismo, l’istintualità e la magia nera. E per repellenti esseri viventi non appartenenti ad alcuna specie nota e per corpi in decomposizione. Prodotti, tutti, ideati e confezionati da menti malate. Interpretati da menti malate. Importati e teletrasmessi da menti malate. Per un pubblico, divertito, di menti sempre più malate. E queste tecniche di comunicazione di massa di modelli identificativi aggressivi, conflittuali, trasgressivi, « rambo », esaltatori del peggio dell’uomo, e, comunque, stupidogeni, hanno una rilevante capacità di condizionamento e di instupidimento ad ampio spettro. Non solo sui minori e personalità anormali (suggestionabili, instabili, immature): stretto il constatato rapporto tra la regolarità di
— 1205 — visione di teleprogrammi violenti e gravità del comportamento antisociale esibito a scuola, nei luoghi di socializzazione, in famiglia. E più che eloquente il triplice e ignorato dato, documentato, di questi « telefanciulli »: la loro visione del mondo (polizia compresa) molto più violenta, crudele, negativa, della realtà; la perdita dell’idea della morte naturale; la crescente paura di essere uccisi, picchiati, rapiti, violentati. Ma nei tempi lunghi, anche sugli adulti e maturi per lo svuotamento dei valori morali esistenziali, concorrendo in modo strisciante e impercepibile all’assuefazione all’idea della violenza, all’amplificazione dell’insensibilità e indifferenza alla sofferenza umana, all’accettazione delle forme più intense di crudeltà, di ferocia, di distruzione come normalità, all’aumento nei soggetti violenti dell’aggressività. Dello spargere a piene mani venti di violenza, il maligno raccolto è sempre di tempesta. Menzognera è la ripetitiva autogiustificazione che la violenza e stupidità massmediali sono lo specchio della società. I media sono essi stessi società, poiché ad un tempo specchio fedele, promotori, propagatori e impositori dei modelli culturali di identificazione. Con la pole position delle tivù che, unica « finestra sul mondo » per tanta umanità non dedita alla lettura e meraviglioso strumento per le tante famiglie che non hanno più nulla da dirsi, assieme ai due conflitti mondiali e ai totalitarismi è tra le più grandi tragedie del secolo XX. Poiché nella sua storia mai l’umanità ha potuto usufruire di uno strumento di instupidimento così generalizzato, planetario, « globale » e con cotanta concetrazione di stupidità, essendo i cannoni televisivi caricati a violenza, volgarità, sesso, banalità. Così come impudica è la difesa di siffatti modelli identificativi, poiché, secondo la teoria della catarsi, le rappresentazioni violente, trasgressive, stuprogene e stupidogene ben vengano: tutte divertimento sostitutivo « liberatorio », benefico sfogo salutare; quindi da incrementare, come i servizi pubblici e le USL. In dispregio, tutto ciò, delle elementari verità: della proporzionalità statistica tra tipo di messaggio e tipo di risposta (confermata dagli enormi capitali spesi per i messaggi pubblicitari e i risultati consumistici conseguenti, dalla lotta per il monopolio politico-culturale dei mass media e dal loro totale impossessamento per fini di indottrinamento ideologico nei regimi totalitari). Della interiorizzazione del messaggio da una quota sempre più ampia di soggetti tanto più esso è intenso, prolungato, unidirezionale, fino al mutamento collettivo di idee, valori, condotte. Del largo impiego della psicologia del comportamento (behaviorismo = reazioni eguali dagli individui, in condizioni eguali, agli stimoli esterni) in tutti i settori in cui si vogliono indirizzare i comportamenti umani verso obiettivi prescelti (pubblicità commerciale, campagne politico-elettorali, tecniche di persuasione occulta). Dell’assurdità per cui, per negare l’effetto negativo di una cultura malsana, si dovrebbe respingere come erronea la universale convinzione (su cui da sempre sono state costruite molte istituzioni dell’umana società) della forza educativa di una cultura sana, incentrata su valori di alta socialità (amore, solidarietà, tolleranza, rispetto del diritto altrui, pacifismo). E bollare la millenaria sapienzialità come stoltezza, considerando i frullati massmediali di violenza, di sangue e sadismo, di criminalità, devianza e trasgressivismo, come i testi scolastici pedagogicamente più validi. E le rappresentazioni di stupri e perversioni sadico-masochiste come la migliore educazione sessuale. Nel-
— 1206 — l’entusiasmante prospettiva di un’umanità sempre più prossima, su questa china, alla catarsi delle nove beatitudini evangeliche. Caduto nel nulla, a tutt’oggi, è il lucido e accorato messaggio al mondo, di Karl Popper prima della sua morte, sul pericolo estremo della sollecitazione alla violenza traboccante dagli schermi televisivi;
3) l’ideologismo ossessivo, per cui l’ideologia, nuova mitologia dell’uomo moderno e nuova teologia atea, assume il primato su tutte le altre scienze ed esperienze umane. Con perdita — soprattutto nel nostro paese, il più cromosomicamente ideologizzato in assoluto, nel passato prossimo e, in parte, ancora nel presente — del senso del reale, la sostituzione di ciò che piace a ciò che è, la frattura tra pensiero e comportamento (stante fra l’altro l’inveterata abitudine nazionale di essere rivoluzionari nell’ideologia, ovvero a parole, ma fortemente conservatori nell’azione). Con l’opzione della politica e dell’elettorato per la « collocazione ideologica » anziché per i programmi, essendo vissuta la nostra democrazia del « voto ideologico » e non di premio o di pena alle pressoché inesistenti capacità dei partiti di risolvere i nostri endemici problemi, così favorendo la non sanzionata mala pianta dello « sgoverno », centrale e locale. E con rinvio sine die del passaggio dall’era della logomachia all’era dei fatti: della lotta alla disoccupazione, illegalità, inquinamento e disastro ecologico. Con l’enfatizzazione dei pacifismi unilaterali, la discriminazione tra persecuzioni, olocausti, genocidi, tra morti ideologicamente scomodi, da rimuovere, e morti ideologicamente comodi, da commemorare. Fino ad autentici deliri da intossicazione ideologica, quale il « terrorismo ideologico », specialità pressoché esclusivamente italiana, affondando le proprie radici in quell’egemonismo culturale di ideologie a sfondo conflittualistico-classista-rivoluzionario, dominante il mondo della nostra cultura e scolasticouniversitario negli anni della nascita e sviluppo del fenomeno terroristico, generando in fasce di soggetti, caratterialmente predisposti, la credenza sulle esistenti premesse per il salto violento ad altro tipo di sistema. Ed in questo quadro ideologistico si sono, altresì, sviluppate le ideologie, « adolescenziali », sloganistiche e semplificatorie, della criminalità come prodotto sovrastrutturale di un determinato sistema economico-sociale. Fino alle teorie estremistiche, negatrici della stessa realtà ontologica della criminalità, perché mero prodotto dell’etichettamento discriminatorio classista o addirittura come « razionalità » alternativa a quella imposta dalle élites del potere. Con il conseguente « ottimismo » circa la profetizzata estinzione del crimine in una palingentica società senza classi, senza contraddizioni, senza ingiustizie: in palese contrasto con le ferree leggi della costanza e ubiquità della criminalità e con la dura realtà che il processo senza fine della liberazione dell’uomo dalla stessa sua natura investe dimensioni umane e antropologiche ben più profonde del mero economicismo. E inappellabilmente smentita dall’esperienza storica del « socialismo reale ». Ideologie che, se da un lato con la loro carica polemica « di denuncia » hanno contribuito a relativizzare certi postulati criminologici e a esercitare un controllo critico sulla « criminalità legale », dall’altro hanno fatto sentire tutti i
— 1207 — loro negativi effetti sulla coerenza della politica criminale, legislativa, giudiziaria, esecutiva;
4) la cultura conflittualistica, a cominciare da quella classista, che postulando la società come permanente conflitto tra opposti interessi ed incapace di accordo su valori basilari e su regole di condotta comuni, concepisce la stessa legge come strumento di coercizione di gruppi sociali su altri e, quindi, da non osservare o, al più da osservare come momentaneo compromesso. E che ha fatto del nostro paese uno dei più conflittuali, ove il conflittualismo, morto (o morente) come ideologia, sopravvive quale « metodo », assurgendo la conflittualità e la sua evoluzione in « rissosità » (a cominciare, esemplarmente, da quella politica) a normale criterio di regolamentazione dei rapporti tra Stato e gruppi sociali, tra gruppi sociali, tra i due sessi, tra componenti familiari e tra individui. Del « tutti contro tutti ». Tra i partiti per il mero potere, anziché per il benessere collettivo. Tra le varie corporazioni per acquisire sempre maggiori quote di potere, che ad esse, copiosamente concesso per acquistarne il consenso, accresce la confusione tra pubblici poteri e parti sociali e l’evaporazione dello Stato, scritto nella Costituzione, nello Stato corporativistico. Con la fisiologica ingovernabilità, l’istituzionalizzazione delle crisi permanenti di governo, l’impossibilità di un qualsiasi progresso duraturo: in una balcanizzazione del paesaggio politico. E l’incapacità di una più serena convivenza, che è una delle nostre povertà più grandi;
5) l’ideologia palingenetico-novista, dei mutamenti « radicali » e « globali », che porta alla fuga dal presente, sempre negativo e deludente, e alla deificazione del « futuro ». Nell’utopistico inseguimento di un miraggio di perfezione contrario ad ogni legge umana bio-psico-socio-economica: « del meglio nemico del buono ». Con un ipercriticismo paralizzante: di un eterno problema sempre incluso in un altro più ampio e « a monte ». Con un novismo maniacale di cambiare tutto e globalmente, idoleggiando il nuovo e privilegiando sull’esistente un « nuovo qualsiasi ». Con uno sperimentalismo senza basi, né costrutto. Con vagheggiamenti — anche se ultimamente in calo — di rivoluzioni palingenetiche, dimenticandosi i banditori la costante storica che il poco di bene che può derivarne è pressoché sempre più piccolo del deserto che ne scaturisce. E che, per chi è condannato a vivere nella storia, a sempre sfuggenti « futuri radiosi » è preferibile un presente meno indecente. Nell’ossessione del meglio si ricade nell’errore, costante delle ideologie rivoluzionarie, di sacrificare tutta la vita presente in nome del futuro. O, peggio, nel mito della solita « violenza giusta e ultima », premessa di altra ancora più giusta e definitiva. Di imporre sacrifici, crudeltà, persecuzioni, scordando che dietro le ideologie rivoluzionarie violente si nascondono sempre grandi cimiteri. E che il progresso civile comincia subito, hic et nunc, con noi e dentro di noi: con la conversione delle coscienze. Nella perenne insoddisfazione del presente l’uomo si ri-
— 1208 — fugia nelle nostalgie di una perduta età dell’oro o si proietta nei miraggi di un’utopistica età dell’oro. E tutte le ideologie, che hanno ritenuto di cambiare, anziché l’uomo, il sistema, hanno sempre fallito, essendo il mutato sistema sempre formato da uomini immutati.
Ma il palingenetismo-novismo comporta soprattutto la perdita di quel tanto di necessario senso di rassegnazione all’ostinata realtà naturale e umana, che è « idoneità alla vita » e senza la quale la vita diventa una costante, insopportabile frustrazione collettiva. Perdita, accentuata dall’illusorio scientismo: della capacità della scienza di soddisfare tutti i bisogni e di risolvere tutti i problemi (dalla malattia alle calamità naturali fino all’indefinito rinvio della morte). Che nella « divinizzazione » dell’uomo « onnidominatore » porta a respingere la stessa idea della « limitatezza » umana e dell’« ineluttabilità ». E a postulare sempre la lamentata responsabilità di qualcuno (pubblici poteri, protezione civile, classe medica: anch’essi povere cose umane);
6) la cultura deterministica, che, schiacciando l’uomo tra « costituzione » ed « ambiente » senza avvenire e senza speranza, ha sostituito all’idea-forza dell’autore del reato come soggetto libero e responsabile (pur nei limiti di una « libertà condizionata »: con tutte le gradualità delle singole e concrete individualità) lo stereotipo deresponsabilizzante del « delinquente-vittima » della propria struttura biopsichica e, soprattutto, del sistema sociale iniquo e persecutorio, come causa unica o preponderante della criminalità. Cultura, che, se da un lato ha posto in crisi la troppo tranquillante contrapposizione tra delinquente e società (deresponsabilizzando questa), dall’altro ha contribuito, nella sua assolutezza, ad offuscare il senso di responsabilità individuale dell’autore di reati, oggetto così di diseducative benevolenze, quando non anche di esaltazioni criminogene, unitamente a certe mitizzazioni della violenza come forma di rivendicazione individuale e sociale. Dimenticandosi che anche i delinquenti sono società e che concorrono a qualificarla. Pur nella perenne antinomia, del pensiero umano, tra determinismo e indeterminismo, tra libertà e necessità, è un dato empirico che nessuna filosofia ed ideologia hanno mai potuto negare la possente forza responsabilizzatrice dell’uomo, insita nel senso della propria libertà e responsabilità, e della fondamentale e irrinunciabile efficacia motivante sul comportamento umano dell’appello pedagogico ad esse;
7) la cultura utilitaristico-storicistica, che un po’ tutte le altre compendia, avendo sostituito ai concetti di « bene » e di « male », di « virtù » e di « vizio » (scomparsi dallo stesso linguaggio usuale), quello di « utile » ed identificando — in un « novismo » sempre più maniacale — il « nuovo » col « buono » e lo « scientificamente possibile » (si pensi, ad es., al campo biomedico) con il « lecito ».
— 1209 — Cultura, questa, che, mentre nell’« utilitarismo collettivistico » ha legittimato le « delinquenze dello Stato totalitario » e nell’« utilitarismo maggioritario », in nome della « maggiore felicità per il maggior numero », la strumentalizzazione dei più deboli (i c.d. « soggetti esposti », ad es., alla vittimazione come cavie delle più diverse sperimentazioni), nel nostro dilagante utilitarismo individualistico-edonistico, sempre più aperto alle fascinose liberalizzazioni e sempre più chiuso alla socialità, alla solidarietà, all’« alterità », ha elevato la « maggior felicità propria » a criterio di valutazione e di scelta dell’agire individuale: dell’uomo « solo », tutto edonisticamente riducendo, sé e gli altri, ad oggetto del proprio ingannevole piacere. Passaporto per una nuova selezione della specie con prevalenza del più forte su chi, agli occhi di una società eticamente indifferente, è inutile, improduttivo, insignificante, indifeso: da rottamare. Poiché di costui società, scienza e tecnica non sanno che farsene.
4. Non certo in ordine di importanza criminogena decrescente vanno menzionate le subculture capitalistico-consumistiche e permissivistico-trasgressive, che, nel loro incontenibile slancio e prorompente vitalità, stanno ossessivamente dominando l’intero orbe terracqueo, con la contaminante « occidentalizzazione » pure delle aree ex comuniste, comuniste, terzomondiste. A) Il neocapitalismo consumistico — a differenza del veterocapitalismo che, per costituire il capitale, affamava le masse subalterne — è costretto, per conservare ed accrescere il capitale medesimo, ad ingozzarle, terrorizzato dall’incubo del « calo della domanda » e del PIL. Drogato e ormai prigioniero di se stesso, non soddisfa, ma crea i bisogni per la sopravvivenza del sistema. Iperstimolando — senza eccessiva fatica — gli insaziabili bisogni umani, ha elevato l’homo erectus occidentalis a mera entità gastro-intestinale. Condannato ad ingozzarsi di beni inutili fino al rigurgito, al cospetto di un mondo di affamati: di tutti i Sud della terra. A consumare, lavorare, produrre, per lavorare, produrre, consumare. E devastare il pianeta. Con la totale perdita del senso dell’« essenziale » per l’esistenza. E con l’esaltazione come supremo merito dell’illimitato e autodistruttivo incremento produttivo, che depreda del futuro economico ed ecologico figli e nipoti.
Se nelle sue sette vite feline e con le sue proteiformi capacità di rinnovarsi ha avuto, fatalmente, la meglio sul comunismo, il capitalismo consumistico nulla può proporre, come nulla ha finora proposto, contro l’insania planetaria, di cui è il principale motore. Seminando il culto della ricchezza e del consumo, ha raccolto solo degradazione ed ammalato l’Occidente del più occidentale dei mali oscuri: la « depressione ». Al centro non l’uomo, ma il « mercato », per cui tutto è mercato e il mercato è tutto: coi roghi di grano per non deprimerne il prezzo. Con la trasformazione in oggetti commerciali di tutto ciò che può essere desiderato dall’uomo: spermatozoi, ovuli, utero, embrioni, organi, bambini, corpi umani, sesso. E con l’« usa e getta »
— 1210 — quale dogma della nuova religione consumistica: degli oggetti e dei soggetti, che valgono finché producono e consumano, dopo « vuoti a perdere ». E, liberatosi dalla paura del comunismo, c’è da attendersi che il neototalitarismo dell’economia riesumi il volto violento del neoliberalismo selvaggio: il darwinismo del più forte secondo le perverse leggi del « mercato globale ». Pronto a trasformare l’« uomo » in un « esubero ». E col suo « fiore all’occhiello » della « demenzialità pubblicitaria », che può vantare l’incontestabile merito cultural-pedagogico della generata convinzione collettiva che qualsiasi idiozia sia apprezzabilmente ammessa come « normalità ».
Dal punto di vista più strettamente criminologico, il capitalismo consumistico ha, da un lato, mortalmente vulnerato la risalente e diffusa convinzione, ideologica e semplificatoria, della indissolubile correlazione tra povertà e criminalità (per cui il povero, oltre il dono di essere tale, sarebbe anche più criminale). E ha smentito il veterottimismo, romanticosocialisteggiante, della vincibilità della criminalità eliminando la povertà. E ciò sulla base di tre dati: 1) perché al benessere economico, senza precedenti nella storia umana, della società industrializzata ha fatto, parallelamente, seguito non l’atteso declino, ma la recrudescenza della criminalità, essendosi venuta affiancando alla « criminalità da povertà » una fiorente « criminalità da benessere »; 2) perché vi sono tipi di criminalità, non discriminatori, che per loro natura prescindono dal censo (criminalità politico-ideologica, stradale, sessuale, pedofila, teppistica, maltrattamenti in famiglia, ecc.); 3) perché la motivazione economicoappropriativa è soltanto una delle motivazioni della criminalità, accanto a quelle della criminalità per passione, per sessualità, per ideologia, per ludismo, per mera aggressività, per colpa.
Ma, d’altro canto, il capitalismo consumistico ha offerto alla teoria dell’anomia (cioè della perdita di valore dei sistemi normativi di condotta) il supporto criminogeno per spiegare — in termini economicistici, ma più complessi, indiretti, sofisticati — non solo perché si delinque anche e sempre più nelle società del benessere e perché accanto alla criminalità da povertà vi sia la criminalità da benessere. Ma, altresì, perché pure i gruppi sociali più favoriti non disdegnino affatto la criminalità predatorio-appropriativa. Supporto, individuato nel vizio di fondo delle società consumistiche: 1) dell’egualitarismo culturale nell’imposizione delle « mete » sociali del benessere, successo e potere, da conseguire, e dei « mezzi » legittimi, per conseguirle: entrambi eguali per tutti i cittadini; 2) del disegualitarismo sociale nella distribuzione delle « opportunità », per conseguire tali comuni mete, in misura diseguale tra i cittadini; 3) dell’iperstimolazione, senza limiti, delle suddette mete e, quindi, dei bisogni umani e del loro appagamento: sempre inesauribili, perché sempre rinnovate e sfuggenti e, pertanto, mai integralmente raggiungibili e realizzabili, eccedendo esse qualsiasi possibilità umana di realizzazione. In una perversa spirale senza fine: l’iperstimolazione illimitata delle mete ne provoca l’illimitato inseguimento, che a sua volta provoca la perdita di valore delle norme di condotta, della legalità,
— 1211 — perché quando la cultura stimola ciò che il sistema normativo impedisce, questo è sempre più sentito, insofferentemente, come ingombrante. E porta ad un crescendo dell’illegalità come mezzo per conseguire le mete non realizzabili con mezzi legittimi. Da parte non solo delle fasce sociali meno favorite, ma anche di quelle privilegiate. Come attesta la rigogliosa « criminalità dei colletti bianchi », della popolosa selva di tutte le metastasiche « Tangentopoli » e di tutti i « rampantismi ». Cosicché l’homo sapiens, ritenendo — rispetto al misero animale, con la monotonia dei suoi materiali bisogni sempre eguali e costanti — ciò che ha soltanto il minimo indispensabile, è sempre alla mai appagata ricerca del superfluo. Nulla essendo, più del superfluo, necessario. Con la soddisfazione di essere perennemente insoddisfatto.
Sotto la spinta dell’ideologia consumistica e di altre ideologie, si è operato — non va sottaciuto — il passaggio dall’« etica del sacrificio », fondata sull’idea fondamentale della finitezza dei beni e del rapporto tra beni e sacrifici e da sempre patrimonio mentale ed etico dell’uomo, alla « rivoluzione delle aspettative crescenti », che ha mutato in senso rivendicativo la nostra cultura. Sicché, postulato il benessere un dato acquisito anziché una continua e faticosa conquista, si persiste — da noi più che altrove — nel chiedere sempre di più a sistemi (famiglie, società, Stato), che sono sempre meno in grado di soddisfare la richiesta. Nell’attribuire a tali sistemi, e non all’insieme dei singoli, responsabilità permanenti nella produzione e gestione del benessere, sulla rovina della concezione che ha sempre affidato innanzitutto alla responsabilità di ciascuno e di tutti il compito di realizzare il destino non solo personale, ma anche collettivo. E si è pericolosamente abituato un paese, e più ancora certe regioni, a contare — sotto la spinta, altresì, dell’imperante clientelismo politico e del pansindacalismo — più sui soldi dello Stato, cioè altrui, che sulla propria ingegnosità e industriosità. Ad aspettare il lavoro anziché inventarlo. Convertendo così il nostro tradizionale patrimonio di creatività e laboriosità nella crescente vocazione nazionale a divenire un popolo di dipendenti pubblici, di pensionati precoci, di falsi invalidi, di falsi validi, di false donne incinte, di falsi nullatenenti assistiti, di imprenditori sussidiati, di cassintegrati, di giovani disoccupati volontari. E di evasori fiscali reali. E il « diritto al lavoro » nel « diritto al posto », specie e scandalosamente nel settore pubblico: con lamentazione corale per quel generale disservizio, che ciascuno concorre a produrre (2). (2) E alla crisi economica, fatalmente seguita, il pronto surrogato dell’orgia di lotterie, degli enalotto, dei gratta e vinci, dei telepremi. Elargiti ad un paese, ormai obnubilato dalla febbre del Superenalotto, da uno Stato che, avendo grattato anche il fondo del barile fiscale e battute tutte le vie di tutti i possibili condoni e concordati per finanziare lo spreco del pubblico danaro, il parassitismo e la corruzione, si è trasformato, per sfruttare i residui spazi, impositori, delle « bische di Stato » e senza alcun sussulto di vergogna, nel più grande « biscazziere » di tutti i tempi. Pronto, però, a colpire — in attuazione del principio costituzionale che « L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro », non sulla lotteria e il telepremio, e per encomiabili finalità esemplari e pedagogiche — le non autorizzate lotterie, natalizie e pasquali, del panettone e dell’uovo di cioccolato, perché al cittadino sia inequivocabil-
— 1212 — Quale, poi, duplice insania legare il lavoro e il c.d. progresso sia alla progressiva devastazione del Pianeta, la nostra comune casa: i paesi ricchi per accrescere lo spreco consumistico e i paesi poveri, più comprensibilmente, per ridurre la povertà; sicché tra loro si dividono, anziché la ricchezza, la distruzione planetaria. Sia alla progressiva divaricazione tra opulenza e miseria delle popolazioni, che fino al secolo scorso, quando lo sviluppo economico era quasi statico e, comunque, più bilanciato e nonostante che ogni individuo della terra fosse, in media, 40 volte più povero di oggi, andava tra 3 e 1; mentre ora è compresa tra 70 e 1. Sicché, a fronte del balzo, inaudito, dell’economia nel presente secolo, riprova tangibile della teorica possibilità umana di migliorare le condizioni di vita di tutti i popoli, sta una reale distanza, sempre più abissale, di disuguaglianza. E il gratificante vantaggio? Per l’effetto-calamita, i paesi dell’opulenza consumistica attraggono, anche con le loro mendaci pubblicità massmediali paradisiache, un ormai incontenibile migrazione degli illusi e dei derelitti di tutti i Sud della terra, ove la fame dura quanto la vita. Quella piena delle migrazioni, pur se preconizzata da più di trent’anni dai demografi, la si è lasciata accadere: per agnosticismo e mancanza di strategie preventive comuni dei paesi interessati, limitatisi ad un’impotente difesa passiva: pattugliamenti di coste e rare espulsioni (seguite da rientri). E la cui pressione aumenterà, se il quadro d’insieme — come è probabile — non cambierà. Umanità e giustizia, saggezza tornaconto e lungimiranza avrebbero voluto che noi avessimo contribuito a farli vivere meglio in casa loro. Miopia e sfruttamento, pseudosolidarietà e pseudoantirazzismo, ci hanno spinto ad aprire loro, incontrollabilmente, le porte. Non avendoli aiutati in casa loro, ce li troviamo in casa nostra. Con altissimi prezzi umani e genocidi culturali e spirituali, per i migranti. E con rimescolamenti totali di popoli e prospettive di così globali sconvolgimenti — da ricaduta dell’Impero romano — per noi, ricettori. Con tutti i ritardi storici, fra l’altro, nella previsione e programmazione di quella integrata società multirazziale e pluriculturale, di quella autoeducazione alla convivialità delle differenze, su cui si discetta negli alti attici intellettuali, ove non giunge l’eco delle periferie squallide, invivibili, criminose. Ma che si prospettano anche come lo sbocco, arduo e difficile, dei « rinforzi di colore » per colmare i vuoti demografici da denatalità e l’insenilimento degli « europei veraci », che non vogliono più fare figli e dati in calo, da noi, di oltre dieci milioni nel prossimo cinquantennio. E sulle quali si misurerà la nostra tenuta sociale e umana. mente chiaro che l’arricchimento deve fondarsi sull’onesta attività lavorativa, non sull’alea e sull’azzardo delle tombole in famiglia e dei pokerini tra amici. Sicché quel che è reato per il privato, assurge a diritto, propagandato, se gestito dallo Stato. E tutto nella trepidante attesa dell’auspicata approvazione della legge istitutiva di un Casinò, assieme ad un’Università e Corte d’appello, in ogni capoluogo di provincia (come minimo), per soddisfare il triplice bisogno di istruzione, di giustizia e di divertimento. E per la rovina delle famiglie e l’aumento dell’usura.
— 1213 — Tutti fissi, invece, sul presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, nell’alternativa tra « respingere » questi flussi migratori, perché disturbanti, o « accoglierli », assicurando loro lavoro e dignità, ci limitiamo imperturbabilmente a « riceverli ». Per poi abbandonarli a se stessi. Garantendo, però, loro gli inalienabili diritti di libertà della prostituzione, della delinquenza, dello spaccio di droga, dello sfruttamento del lavoro, nero o sgradevole, rifiutato dai nostri giovani, dell’accattonaggio e della nuova fame. Di tutte le nuove forme di schiavitù e di emarginazione. Ma col promesso riconoscimento del diritto di voto, di cui non sanno che cosa farsene, ma per noi senza costi: tranquillante, di impudica demagogia, per le nostre coscienze e per una fauna di politicanti a caccia di popolarità e voti, che non cancella il crimine di non averli aiutati in casa loro. E nemmeno in casa nostra.
In questo nostro paese che, alla sua maniera, non è discriminatorio, perché incapace di assorbire la gente che viene per lavorare e di espellere quella che viene per delinquere, prostituire e spacciare. Senza solidarietà verso i regolari e senza severità verso i clandestini. Ciò che allarma non è l’immigrazione, ma l’incapacità di governarla. Senza regole e indiscriminata, essa crea criminalità. Come le ostinate statistiche stanno ad attestare. B) Quanto alla subcultura permissivistico-trasgressiva, essa — filiazione filosofica del relativismo etico, dell’etica senza verità, e filiazione pratica del capitalismo consumistico — proclama la « maggiore licenza per il maggior consumo ». Concepisce la libertà non come liberazione morale ed autocontrollo delle pulsioni, ma come massima espansione delle stesse e vuoto di regole, mera rottura di vincoli, non disciplinata dalla ragione e cieca verso i propri effetti. Confonde, col ritenere ciò che uno « si sente » per definizione « buono », l’« avere voglia » col « volere ». Considera ogni regola di condotta autoritarismo-paternalismo. E reazionaria ogni idea di un « bene oggettivo » comune, indipendente dal proprio « sentire ». Coll’abbandono di ogni codice di comportamento, anziché desiderare ciò che è buono, si considera buono ciò che è desiderabile. In breve: eleva l’individuo a legislatore di se stesso ed il soggettivismo individuale a suprema lex. Con la perversione dell’« etica dei diritti e doveri della persona umana » nella caricatura dei « diritti propri », svincolati da ogni « cultura dei doveri »; e della democrazia in una parola vuota, perché, sradicata da tale etica, è strumento di dominio, non di giustizia. Col risultato che, in cotanta libertà, mancano sempre più uomini « liberi ». Perché le schiavitù più inamovibili sono quelle autoimposte. Ogni civiltà, senza un ordine interiore ed esteriore, che imponga una disciplina e un dovere, senza una scala di valori, guida del proprio sviluppo, ed in preda alla convinzione di potere essere, ciascuno, metro ultimo di se stesso e di potere, ogni individuo, evolversi a suo piacimento, ha come approdo nichilistico lo scontro di ogni uomo col suo simile. E la propria « invivibilità ».
— 1214 — 5. Anche la così grande tragedia della droga, col suo sempre più allarmante potenziale criminale, criminigeno, disgregatore, nel suo passaggio negli anni ’60 da marginale e individuale fenomeno adulto (dei c.d. « viziosi » alla ricerca del piacere) a fenomeno giovanile di massa e di estensione planetaria, è stato accompagnato dal susseguirsi — incredibile, se non fosse vero — di ideologie, di effimera durata, ma che ne hanno ostacolato la prevenzione e favorito lo sviluppo. E sulle quali merita, per la loro paradigmaticità, soffermarsi. Ideologie spontanee e convinte, poiché ogni « grande causa » ha i suoi immancabili filosofi. O mercenarie, poiché il fatturato del mercato della droga può comprarsi anche la filosofia (3).
Esordì con l’adolescenziale ideologia, nebuloso-romantica, della droga come contestazione globale. Con la conseguente elevazione della droga a valore positivo, inserendosi essa nella cultura alternativa di tipo hippy e simbolo e strumento di aggregazione tra giovani in opposizione ad ogni sistema (familiare, scolastico, sociale, politico); valutandosi rivoluzionaria la domanda di droga e reazionaria l’offerta, progressista il consumo ed oscurantista il mercato. E con elargizione al drogato dell’identità positiva del « ribelle »: onniarrabbiato. Sul vuoto di questa fugace ideologia si innesta la seconda ideologia permissivistico-trasgressiva — e come tale mai completamente rientrata — della droga come diritto di libertà. E della sua conseguente liberalizzazione, parziale o totale, giurandosi e spergiurandosi sull’innocuità di certe droghe e sulla stessa possibilità di « gestirle » per il bene del consumo e a scapito del mercato. Con l’acquisita identità del drogato come « illuminista », che esercita un suo inalienabile « diritto naturale »: all’autodistruzione. Con la finta dimenticanza che libero è ciò che non viola la pari libertà degli altri. Ma non la droga, che tale libertà viola. Non solo perché è un indiscusso fattore criminogeno, diretto (favorendo la commissione di reati violenti, sessuali, stradali) e indiretto (per la quotidiana messe di reati connessi alla dipendenza e crisi di astinenza). Ma perché reale minaccia alla salute collettiva, capace al limite di minare le stesse basi esistenziali della compagine sociale se assurgesse a fenomeno generalizzato. Un « tragico lusso » di una minoranza che può drogarsi perché i più non si drogano e che altrimenti sarebbe costretta a tornare a lottare per i bisogni esistenziali primari (e contro la foresta che risommergerebbe le nostre città), essendo inconcepibile la « società dei drogati ». Con, altresì, l’intima contraddizione di detta ideologia, che, ad un tempo, proclama l’uso della droga come (3) Coincidenza non strana che, alla vigilia della votazione, da parte del Parlamento europeo nel 1994, di una risoluzione sulla liberalizzazione della droga, una multinazionale del tabacco depositasse il marchio commerciale di un pacchetto di « sigarette alla marijuana ».
— 1215 — individuale diritto di libertà e pretende un crescente impegno (finanziario, organizzativo, solidaristico) dello Stato e società per l’assistenza e il recupero dei tossicodipendenti. Senza il coraggio della coerenza di concludere che, di fronte ad una mera libertà privata, compito dello Stato è soltanto quello negativo dell’astensione da qualsiasi impedimento della stessa. E che, quindi, i nostri giovani, drogati, dovrebbero essere lasciati morire, indisturbati, alle periferie, nelle piazze e lungo i marciapiedi delle nostre città. Il richiedere solidarietà per chi esercita un preteso diritto di privata libertà, oltre ad essere logicamente un non senso, è mettere ad ulteriore dura prova il cittadino-contribuente che, già taglieggiato dal finanziamento statale delle tante corporazioni, pubbliche e private, è disposto a solidarizzare, anche finanziariamente, coi tossicodipendenti. Purché l’uso della droga sia considerato non una libertà da proclamare, ma un doloroso fenomeno negativo da vincere o contenere. Con, inoltre, i « giri di valzer » di forze politiche e intellettuali, che, sotto le suggestioni delle ideologie di moda, hanno salito i pulpiti liberalizzanti, ne sono poi discesi innanzi all’opposto atteggiarsi della pubblica opinione, per poi nuovamente risalirli nell’inseguimento del voto giovanile, degradandosi, abbandonate le antiche tradizioni, a « partito dello spinello ».
Segue, poi, la terza ideologia della patologizzazione del drogato, quale vittima di una malattia che l’ha colpito e di cui non è sentito e non si sente responsabile. La quale affonda le proprie radici nella diffusa cultura deterministica bio-sociologica, già sopraccennata. E che ha conferito al tossicodipendente l’identità non dell’autore di un fatto da disapprovare e tanto meno da sanzionare, ma di un emarginato malato da curare. Con l’esasperazione del fenomeno della crisi di astinenza, che scienza ed esperienza hanno dimostrato ben meno drammatico e insopportabile (essendo fra l’altro la vita, con tanto bendiddio in circolazione, tutta una crisi di astinenza). E con l’introduzione della « droga di Stato »: non di un impegno riabilitativo, ma di regali di metadone ai drogati, il tipo di risposta che, complessivamente, lo Stato ha dato ai tossicodipendenti. Sicché, per abolire il vecchio stereotipo prima del « vizioso » e, poi, del « criminale », si è finito per creare il nuovo e non meno pericoloso stereotipo della « vittima » della famiglia, della società, del sistema: mai di se stesso. Con una totale deresponsabilizzazione ed uno pseudo-umanitarismo indulgenziale, che non ha favorito né la prevenzione della tossicodipendenza, né il recupero del tossicodipendente.
La quarta ideologia è quella, per così dire, marxista-utilitaristico-cinica della droga come strumento di debilitazione e destabilizzazione attraverso la corruzione della gioventù del mondo capitalista. In verità già abbastanza corrotto in proprio, senza bisogno di tanta altrui solidarietà. Nonché per procurare finanziamenti per la rivoluzione nel Terzo mondo e per l’acquisto di spade: mai di aratri. A questo fine produzione e traffico mondiale di droga sono stati favoriti e incoraggiati da certi noti paesi di vari continenti. Dimentichi — nell’illimitatezza della miopia umana — che la droga non conosce « cortine » ideologiche, né di « ferro », né di « bambù ». E che può travolgere, come ha già travolto e sta travol-
— 1216 — gendo — se non diviene oggetto di comuni strategie di prevenzione e controllo — anche le gioventù, già tanto demotivate, dei paesi produttori e dei paesi che hanno preteso di servirsene come arma ideologica.
Più di recente, troviamo l’ideologia pragmatista, della pur sempre ossessiva liberalizzazione, nella prospettiva però non più libertaria, ma della lotta contro la mafia, nazionale e multinazionale, tagliando ad essa sotto i piedi quella pingue erba del traffico della droga, su cui la medesima ha costruito il proprio potere economico attuale. A parte che non è mai un corretto agire il pensare di eliminare un male creandone un altro, trattasi di ingenua illusione. Nelle sue sette feline vite, anche la mafia si evolve e si adegua, come la malattia, ai progressi della medicina. E come tutta la sua storia insegna: dalla « vecchia mafia » agricola alla « nuova mafia » urbana (degli appalti, collusioni politiche e del racket), sempre più gangsteristica. Alla « nuovissima mafia », del traffico della droga e multinazionale. Pronta a rinnovarsi, se privata dello stupefacente, e come si va rinnovando, nella « ipernovissima mafia »: non delle filantropiche opere benefiche, ma dello smaltimento dei rifiuti tossici, del contrabbando d’armi e sostanza nucleari, del traffico di extracomunitari. E di tante altre inimmaginabili diavolerie. Altri i noti mezzi per combatterla: recidere i collegamenti con la politica, isolarla socialmente, colpirla penalmente e patrimonialmente: senza cali di pressione.
E, per chiudere, il ritrovato ultimo della ideologia, rinunciataria, della riduzione del danno. Di gran moda nei paradisi della droga, libera o semilibera, di invidiate città nordeuropee. E fondata su un gentlemen’s agreement: un patto, si fa per dire, tra gentiluomini. Ovvero, sulla fredda e scientifica ragioneria, nordica, del fallimento. Sulla presa d’atto che i drogati esistono e sono disturbanti e pericolosi, che per legge non è ancora consentito sopprimerli, che non abbiamo né voglia, né tempo, né soldi per recuperarli, si cerca di coesistere alla bell’e meglio. La istituzione pubblica ti crea un clima di laissez faire. E ti assicura la gratuita distribuzione, a volontà, di siringhe e profilattici e di tanto metadone. E tu, tossicodipendente, ti impegni a comportamenti più responsabili e meno pericolosi per la comunità: a non spacciare davanti alle scuole (dietro sì), a non cospargere i miei parchi e strade di aghi, a fare uso del profilattico, a non contagiare di AIDS, ad abortire in caso di gravidanza, a non rapinare e a non dare fuori testa pungendo il passante con la siringa infetta. Ad infastidire il meno possibile. Così tutti contenti. Per il resto, ciascuno per la sua strada. Tu libero di continuare nella tua schiavitù chimica, di ingozzarti di metadone, di bucarti, di morire. Con la droga delle USL, più vellutata di quella dei mercanti: « la ciotola gratuita del veleno lasciata fuori dai cancelli per il lebbroso ». Ed entrambi in una reciproca chiusura ed isolamento: totali e spettrali. Coi cali — solo auspicati, ma smentiti dalla realtà — della criminalità da tossicodipendenza e dei contagi da AIDS. Ma con una particolarità: nel pianeta giovanile si continua a morire con la siringa al braccio. Non la riduzione del danno, ma il danno della riduzione.
— 1217 — Sulle ceneri di queste effimere ideologie, vissute spesso per la durata di un giorno, sono rimaste le tre devastanti realtà da esse generate o potenziate: 1) la cruda e tragica schiavitù della tossicodipendenza. E l’abisso di angoscia e impotenza delle famiglie. Di una droga che, perso ogni suo fascino e valore simbolico di rinnovamento e libertà, ha ben presto rivelato il suo vero volto di emarginazione e di morte. Un necrofilo fenomeno di autoaggressività ed autodistruzione, di dissociazione dell’individuo e di catastrofe personale, familiare, professionale e sociale. Di prostituzione, furto a padre e a madre, avvelenamento di altri derelitti;
2) un vasto mercato di consumatori, reali e potenziali, sempre più largamente sfruttato dalle multinazionali che controllano la produzione e diffusione degli stupefacenti. Con perversa puntualità, sulla scia delle droghe leggere sono arrivate le pesanti: coi gravi problemi della tossicodipendenza da eroina e da altri stupefacenti pesanti. E sul futuro delle giovani generazioni pesa anche il paradiso crescente delle « droghe artificiali ». Più economiche, ma ancor più dannose delle droghe « naturali ». E che tendono ad annullare i risultati ottenuti nella lotta contro la produzione e traffico di queste. Flagello ormai mondiale, la droga sta coinvolgendo e sconvolgendo settori sempre più vasti della vita dei vari paesi. Capitalisti, socialisti ed ex socialisti. Ricchi e poveri. Sviluppati e in via di sviluppo. Cancellando la marcata differenza, esistente fino a pochi anni fa, fra i primi e i secondi, quando la tossicodipendenza era tipica dei paesi economicamente avanzati, mentre i paesi arretrati, produttori di droghe naturali, conoscevano limitate forme di uso tradizionale, energetico o rituale. Coinvolti essi pure dalla droga, da essi prodotta, che sta vittimizzando, in modo particolare, proprio le popolazioni indigene dei paesi più poveri. A riprova del « chi di droga ferisce... »;
3) la profonda mutazione, per effetto non secondario del diffondersi della tossicodipendenza, della criminalità, con forme e dimensioni organizzative e lucrative prima sconosciute. Con la disponibilità di capitali sempre più ingenti, derivanti dal traffico della droga. Col riciclaggio di tali proventi in attività lecite ulteriormente lucrative. Con la conquista, attraverso l’accresciuto potere, di sempre più ampi spazi nelle aree economiche e politiche dei vari paesi produttori e consumatori. Con l’aggressione in atto, senza precedenti, agli equilibrî nazionali e internazionali, che, se non contrastata, rischia di spostare sul versante della criminalità anche i centri di potere reale, politico ed economico. E con gli eloquenti gridi di allarme delle Nazioni Unite anche sui legami tra traffico di droga, traffico di armi, sovversione, terrorismo internazionale ed altre attività criminose organizzate, che diffondono violenza e corruzione. E mettono in pericolo la stabilità politica e persino la sicurezza di certi paesi.
— 1218 — La verità è che anche la tossicodipendenza non si sottrae alla ferrea legge che le devianze crescono col decrescere del controllo culturale e della disapprovazione sociale (4). Coerenza vuole che delle due l’una: o si ritiene la droga un « valore positivo » e allora la si liberalizzi e se ne elevi l’uso a diritto di libertà. Oppure la si ritiene, come incontestabilmente è, un « disvalore » ed allora non può che essere oggetto di una netta ed inequivoca disapprovazione sociale e legale (affermata la quale, potranno seguire le più umane aperture soccorritrici verso il tossicodipendente). E che è la primaria e più efficace forma di prevenzione: il vero terreno, quello preventivo, di lotta contro la droga, perché dopo la caduta il recupero definitivo è, statisticamente, problematico, difficile, sovente impossibile. D’altro canto, non sui facili indulgenzialismi e permissivismi pseudoumanitari, ma sul principio retribuzionistico e della responsabilizzazione del drogato a diventare « protagonista » della propria riabilitazione si fondano i programmi delle comunità di recupero e gli elevati risultati positivi ivi conseguiti (ma limitati, purtroppo, alla marginale percentuale dei ricorrenti ad esse). Ove la convivenza è regolata da un regime severo, in cui non sono tollerati compromessi su nulla. E nulla viene regalato, neppure l’indispensabile solidarietà umana. Premesse, queste, per la « ricostruzione » di uomini, che con troppa disinvoltura avevano ceduto al lecito e all’illecito.
E se così è, ogni contrario atteggiamento favorisce il propagarsi dell’idea e il diffondersi del fenomeno della droga, perché la destituisce della sua intrinseca gravità e rende ipocrita ogni buona intenzione di strategie alternative. E accresce la confusione nelle menti, già tanto confuse, dei nostri ragazzi. Il solito pretendere di curare un male potenziandone le cause. Così l’ossessione liberalizzatrice, per la quale l’importante è liberalizzare e secondario il perché, trovando essa sempre un buon motivo: prima l’esaltante contestazione globale, poi il favoleggiato diritto di libertà, poi ancora l’imperiosa lotta contro la mafia, ora la vaneggiante riduzione del danno. E domani, magari, il consolidamento della famiglia. Con la slealtà dell’asserita assenza di conseguenze gravi e durature nei fruitori delle droghe leggere. Non solo perché le scienze mediche sono sempre più concordi sulla verità dell’inesistenza di droghe innocue o neutre: tutte dannose, pure le leggere, senza eccezioni, per i danni organici (con speciali tecniche anche fotografati) di quel cervello, già tanto provato da tutti i danni culturali delle sommergenti « stupidità » contemporanee. E non solo perché non è cosa da poco né esente da rischi, per utenti e terzi, il fatto che anche le droghe leggere attenuino i riflessi e creino stati di apatia e disinteresse. Ma anche perché il loro uso viene ri(4) Caso o causa, dopo il referendum abrogativo depenalizzante del 1993 ha fatto seguito un’impennata di decessi da stupefacenti, invertendo la tendenza al verticale calo seguito alla legge penalizzatrice del 1990.
— 1219 — tenuto, dalle scienze antropologiche, pur sempre ritardante il processo di maturazione degli adolescenti e la loro capacità di affrontare la realtà della vita, nonché favorente la fuga dall’impegno sociale e politico ed esasperante il loro conflitto con la società e l’aggregazione in gruppi ove la trasgressione si cristallizza. Perché, altresì, siffatta idea « banalizza » agli occhi dei giovani le droghe leggere di cui i due terzi dei nostri ragazzi farebbe uso senza farsene mai un problema (chiamandole « droghe ricreative »). E perché porta a scordare il dato che esse sono la normale fase di passaggio alle droghe pesanti: se è vero che non tutti i fumatori di spinelli finiscono nelle droghe pesanti, non è men vero che tutti i tossicomani incalliti hanno esordito abusando di pasticche e spinelli. E con la ulteriore disonesta asserzione che nei paesi della liberalizzazione dell’offerta ha fatto riscontro una calo, anziché il comprovato incremento esponenziale della domanda e delle micidiali conseguenze sul consumo. Con la messa fuori giuoco di sezioni sempre più vaste di popolazione (5).
Il cuore del problema sta, invece, qui: perché tanti giovani, all’interno di società benestanti, ove è più facile annoiarsi che sudare, per « stare bene » hanno bisogno di stampelle chimiche? Se la droga è il sintomo, non la causa di un disagio esistenziale, a che serve agire sull’effetto? Quando avremo, finalmente, liberalizzato le droghe leggere e introdotta le distribuzione, per così dire controllata, delle droghe pesanti, questi giovani, permanendo il problema esistenziale, staranno meglio? E non è un’insania credere di combattere un veleno favorendone la circolazione? Ai giovani, che non sanno che farsene della vita, ma che sono essi pure i nostri talenti della parabola evangelica, va iniettato l’amore per la vita, restituendo loro qualcosa in cui credere e per cui vivere. Alla voglia di morire della « cultura della morte », che pervade la civiltà occidentale, può reagirsi solo con la « cultura della vita ». Dalla droga, cancro della vita, si guarisce con la terapia della vita. Imperterriti si continua, invece, a far finta di niente, intervenendo solo sugli effetti: a liberalizzare il Thanatos. La cattiva coscienza di una civiltà che, incapace di restituire ai giovani il « senso del vivere », li aiuta a suicidarsi. L’inesauribile crescita della droga nell’umanità contemporanea è l’inesorabile prodotto della sua decadente cultura. E i modi di reazione? Il ritorno alla legge di natura della selezione. Corsa di resistenza, la vita lascia dietro i meno idonei: drogati compresi. Vite a perdere. In un mondo che procede a spazzaneve: avanti i più forti. Gli altri, abbandonati, come (5) Né è mai un corretto argomentare invocare un male, quale l’alcool e il tabacco liberi, per giustificarne un altro, quale la droga. Anche a prescindere dal fatto che l’alcol rientra tra le abitudini alimentari nazionali, di esso essendo psicoattivo e dannoso l’abuso, e che la droga non è ancora entrata a far parte — nonostante il meritorio impegno dei liberalizzatori — della dieta mediterranea, di essa essendo psicoattivo e dannoso già l’uso; e che il tabacco non è « devianza », perché è, sì, incontestabilmente dannoso per la salute, ma non disturba la condotta; il problema non è liberalizzare la droga, ma combattere l’alcolismo e il tabagismo (nonostante i consistenti ostacoli dei soliti interessi economici consolidati).
— 1220 — la neve profanata e ammucchiata, ai bordi. Senza avvertire che a grandi passi stiamo marciando — se è vero, come vero è, che già oggi la maggior parte dei giovani ha fatto esperienze di droga, precocemente e senza motivi — verso la « società dei drogati »: con quale avvenire? Ma non c’è da disperare. Con la liberalizzazione delle droga stiamo risolvendo il problema dei drogati. Così come con la liberalizzazione dell’eutanasia, il problema degli anziani ingombranti. Con la liberalizzazione del suicidio, il problema delle psicosi depressive. Con la liberalizzazione della sterilizzazione (anche irreversibile) il problema demografico mondiale. E con la falsa propaganda del profilattico, poroso, falloso e frangibile, il problema dell’AIDS. Di questo passo, rischiamo di diventare presto una civiltà senza più problemi.
6. Ma oltre che delle primarie controspinte culturali, si sta facendo — specialità soprattutto italiana — terra bruciata anche delle complementari controspinte giuridico-penali. Sotto le convergenti spinte di un insieme di fattori legislativi, giudiziari, esecutivi, dottrinali, che precludono la possibilità pratica di qualunque programmazione della politica criminale come coerente sistema di principi e di concrete applicazioni e portano allo smembramento del sistema di controlli giuridico-penali della criminalità. E che ci limitiamo, anche qui, ad elencare schematicamente ed esemplificativamente. A cominciare dal generale fenomeno, che investe tutti i settori del diritto, del passaggio dall’« ordinamento giuridico » al « disordinamento giuridico »: dall’ordine del « diritto », che è vita, armonia, coesistenza, al disordine della « legge », strumento di potere e per l’uomo comune estranea e misteriosa, ostile e disgustosamente identificata con la burocrazia. Prodotto, questo: a) della logorrea legislativa, dello « spreco di leggi » e prodotti affini, che ha portato all’ipertrofica stratificazione della « nebulosa » di decine di migliaia di leggi e leggine, decreti e decretini: pressoché tutti destinati all’inosservanza, ma additati come vanto parlamentare; b) della sciatteria dello sproloquio (6) legislativo e decretale, dovuto a crassa incultura tecnico-giuridica, non (6) Come esempio montesquieuiano, ricorrente nella nostra produzione legislativa, di « leggi semplici e chiare, in modo che nessuno per capirle abbia bisogno di nessuno », valga l’autentica sciarada dell’articolo unico (più che sufficiente) del d.m. 9 febbraio 1989, pubblicato su Gazzetta Ufficiale: « Gli ispettori tributari nominati ai sensi degli artt. 9 e seguenti della legge 24 aprile 1980, n. 146 sono abilitati ad accedere presso le aziende ed istituti di Credito e presso l’Amministrazione Postale nei casi previsti dall’art. 35, 1o comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, come modificato dall’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 1982, n. 463 e dall’art. 51-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, introdotto dall’art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica del 15 luglio 1982, n. 463 allo scopo di compiere le rilevazioni previste dall’art. 33, 2o comma del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 come modificato dal decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 1982, n. 463 e dall’art. 52, ultimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 modifi-
— 1221 — sempre disgiunta da ignoranza della lingua italiana, e che talora offende il più elementare decoro letterario e induce l’interprete a continui interventi di « interpretazione ortopedica » per tentare di ricostruire una logica là dove questa è stata al più pensata; c) della slealtà legislativa, che spazia sulla vastissima produzione delle leggi « vuote », « simboliche » (volte soltanto a declamare la sollecitudine nella lotta contro certa criminalità e nel rispondere a certe istanze sociali), delle « leggiespediente » (per la sopravvivenza giorno per giorno e, pressoché, sempre male o peggio), delle « leggi ermafrodite » (con la forma di leggi e la sostanza di atti amministrativi); nonché sulla mimetizzazione sotto leggi e provvedimenti, « generali ed astratti », a scopo di aggiramento del principio costituzionale di eguaglianza, delle « leggine » e « provvedimentini » partitico-corporativistico-affaristico-clientelari, quando non anche ad personam e favoritrici dei gruppi con maggiore capacità contrattuale o ricattatoria (ma sempre sotto le sublimi motivazioni: della democrazia, solidarietà, eguaglianza, giustizia, interesse superiore degli studi. E la pace tra i popoli); d) della schizofrenia legislativa, che ha tra le più patologiche manifestazioni, assieme alle contraddizioni e incoerenze politico-criminali, l’endemica instabilità della legge: per il susseguirsi a getto continuo di regolamentazioni, integrazioni, modificazioni, abrogazioni, sostituzioni, neoregolamentazioni, senza tregua, né riposo. Spesso sotto la spinta delle viscero-emotività del momento, sull’onda dei flussi della cangiante opinione pubblica, quale risposta alle situazioni contingenti o alle richieste e proteste delle varie corporazioni. Un perenne bricolage legislativo, in un permanente stato di precarietà e incertezza giuridica, non essendovi legislatore più fecondo e confuso del nostrale (7). Sicché — come è stato detto — dietro al « Legislatore », dal giurista mediocre e pigro di continuo invocato ed insediato in un immeritato Olimpo, sta la miseria di un ammasso di atti normativi, espressione della voce dei partiti e di interessi particolari, maggiormente vicini a volgari transazioni che a diagnosi di bisogni oggettivi della comunità nazionale. E che non perdono la loro sostanziale « illegalità » per esserne il contenitore una « Legge », varata dal Parlamento secondo le procedure costituzionali.
Col totale oblio dell’ideale illuministico, lontano anni-luce, della « codificazione »: delle leggi « poche », « semplici », « chiare » e « stabili ». A favore della « decodificazione » e della malapianta della legislazione speciale: delle leggi « troppe », « complesse », « confuse » e « mutevoli ». Delcato dal ripetuto decreto del Presidente della Repubblica n. 463 del 1982 ». Ai vertici delle « mostruosità giuridiche » si colloca, da qualche anno, la « legge finanziaria », che grazie allo stravolgente strumento della « legge collegata » spazia — di soppiatto — su tutta la realtà sociale. E, al vertice dei vertici, la legge collegata alla Finanziaria 1997, composta sì da appena tre esigui articoli. Ma nei quali sono distribuiti 708 commi: non uno in meno. (7) Con gli eccelsi monumenti di stabilità legislativa, ad es., della procedura penale, della legislazione fiscale e sulla età pensionabile, sulla disciplina dei ticket sui farmaci. E sulla carcerazione preventiva e relativi termini, di cui solo il cervello elettronico potrebbe documentare le modifiche: ampliati sotto la minaccia della messa in libertà di certi delinquenti pericolosi e poi subito ridotti sotto la protesta dei garantisti e per il sovraffollamento carcerario. E di nuovo ampliati per potere essere immediatamente ridotti. Nei soli ultimi 10 anni, non meno di 15 ritocchi.
— 1222 — l’inflazione delle piccole leggi inutili o dannose, compensata dalla carenza delle grandi leggi essenziali, perennemente rinviate (come nei vitali settori dell’ambiente, bioetica, correttezza amministrativa, impresa, mercato finanziario). E col gravoso prezzo dei degenerativi fenomeni della crisi del principio di legalità-certezza-chiarezza giuridica, dell’ordinamento giuridico « occulto » (perché di ardua accessibilità anche per gli addetti ai lavori), dell’arbitrio dei giudici, delle discordi e ondivaghe giurisprudenze, della « caotizzazione della giustizia ». In breve: del disordine e insicurezza giuridica (8). Ostacolante, altresì, ogni sviluppo, anche economico, del paese (essendo questa orgia di leggi un fatto non solo giuridico). Col paradosso della irrinunciabilità del principio della riserva di legge (restando il Parlamento il Potere « costituzionalmente meno pericoloso ») e dell’inidoneità parlamentare a legiferare. Specie nei settori, quali innanzitutto quello penale, più di ogni altro contrassegnato dall’imprescindibile esigenza della legalitàtassatività-certezza. E ove il compito del Parlamento dovrebbe limitarsi al « controllo » garantista, e non anche alla formulazione tecnica dei testi legislativi, che richiede la capacità (che non è di tutti) delle grandi visioni sistematiche e delle grandi sintesi (9). E con l’amara conclusione che la fortuna della legislazione italiana è ormai affidata alla morte precoce delle varie legislature, che manda al macero monti di disegni e proposte di legge. Onde il pressante e ripetuto invito ad un dignitoso « riposo del legislatore », preferibile al legiferare frenetico e scomposto: in una crescente confusione tra l’« agire » e l’« agitarsi ». Pure leges non sunt multiplicandae sine necessitate. Perché chi semina leggi non sempre raccoglie giustizia.
7. Quanto al più specifico disgregamento della controspinta penale alla criminalità, esso è imputabile innanzitutto ad una politica penale criminogena, che si compendia nella ormai proverbiale e inarrestabile « fuga dalla sanzione », penale e amministrativa. Alla « criminalità reale », pene virtuali (10). Con legislatori e ministri, magistrati, criminologi e giuristi — talora e con elevato spirito di irresponsabilità — più pericolosi per le vittime dei delinquenti. (8) E la proposta, tuttora fumosa, della creazione di « plurimi sottosistemi legislativi » è un reale rimedio all’ormai sommergente e incontrollabile « disordine giuridico »? O la razionalizzazione di esso, dal suo interno? La certificazione della nostra rassegnata impotenza — nella complicazione di questa nostra civiltà sempre più « complicatoria » — di razionalizzare tale disordine nella superiore sintesi della « ricodificazione »: a cogliere, al di sopra delle « variabili » della travolgente valanga della legislazione speciale, le « costanti », le strutture portanti, del sistema giuridico, mutando il « disordine della legge » nell’« ordine del diritto »? (9) Dietro alle grandi codificazioni europee dello scorso e del presente secolo si staglia — non andrebbe mai dimenticato — netta la figura di un « uomo di scienza » o di un tiaso di uomini di scienza, non assemblarismi caotici e inconcludenti. (10) In non pochi casi l’unica sanzione reale è la « pena pecuniaria », inflitta dalla parcella dell’avvocato, che ai presenti effetti può a buon diritto vantarsi « ausiliario di giustizia ».
— 1223 — È verità nota — anche alla delinquenza, italiana e straniera, e ai ragionieri del delitto — che da noi solo una minoranza di soggetti espia una « pena reale », perché autori di reati gravissimi, plurirecidivi, maldifesi o sfortunati. E, con certezza assoluta, mai integralmente: per la automatica « politica dello sconto », confondendosi la « rieducazione » coll’« indulgenzialismo », il « perdono » col « condono », le risposte alla crisi della politica (onesta) con le ricorrenti proposte di « spugne » e « spugnette ». E privilegiandosi la fuga sanzionatoria alla costruzione di più capienti e dignitosi istituti carcerari, adeguati ai bisogni.
A siffatto risultato concorrono, con competitivo impegno: 1) i clemenzialismi legislativi, essendo la nostra (inesistente) politica criminale contrassegnata, ormai da decenni, dalla sistematica disgregazione del sistema sanzionatorio e da contropiedi repressivi (contro il terrorismo, la mafia, la droga, i sequestri di persona, l’usura, il riciclaggio, la violenza sessuale). Ossia dalla sostituzione alla « razionalità » della politica criminale della « schizofrenia » delle ideologie clemenzialistiche, delle emotività repressive, delle espedienzialità, dannose sia ai fini di un’adeguata tutela del cittadino contro la criminalità, sia della conservazione delle fondamentali garanzie del cittadino contro i pericoli della politica criminale: alla potenziale vittima e al reo. Fughe e sconti di pena dovuti a ragioni utilitaristiche ed espedienziali: amnistie ed indulti per ragioni elettoralistiche, celebrative, demagogiche, di sfoltimento del carcere, di alleggerimento del carico giudiziario. Condoni, sanatorie e concordati per tassare le illegalità fiscali, edilizie, paesaggistiche (delitti, questi, sempre per il futuro, mai per il passato). Prescrizioni del reato da giustizia lenta. Operanti, tutti, per automatismi legislativi, a prescindere da una giustificante « meritorietà » del condannato. Pene sostitutive, tanto auspicate e tradizionalmente concepite quale rimedio contro gli effetti criminogeni della carcerazione breve e quale tonico contro il sistema pseudosanzionatorio dell’« incondizionata sospensione condizionale », attraverso la loro progressiva e incontenibile dilatazione si sono snaturate — grazie alla nostra innata capacità di convertire il positivo in male — in uno sfasciato mezzuccio di sfoltimento del carcere. Estensibile anche ad una folla di rapinatori, concussori, corruttori e corrotti, estortori, usurai, riciclatori. Un’indulgenziale inflazione di affidamenti al servizio sociale e di detenzioni domiciliari, scaricandone il carico sugli organi preposti a tale servizio o al controllo sul detenuto domiciliare, incapaci di sostenerlo. Sicché anche l’osservanza di tali sanzioni, come ormai di molte leggi (da quelle fiscali alle stradali), si fonda sul « volontariato » dei singoli condannati;
2) gli indulgenzialismi giudiziari, che a loro volta fattivamente concorrono a vanificare, in concreto, quelle sanzioni astrattamente minacciate dal legislatore: con le condanne ed esecuzioni « molli », mammistiche. E dal concorso dei clemenzialismi legislativi con gli indulgenzialismi giudiziari: la frustrante improduttività della giustizia, che è macchina costosa, ma dalla produttività marginale, allorché viene meno al suo primario compito istituzionale di irrogare ai colpevoli giuste sanzioni « reali ».
— 1224 — Con la tendenza a convertire il « discrezionale » in « obbligatorio », se favorevole al reo (con gli automatismi delle circostanze generiche, della sospensione condizionale della pena, di benefici di legge, della continuazione tra reati, delle pene tendenti al minimo, della sostituzione della pena detentiva, dei patteggiamenti inverecondi: anche per i pirati stradali, nonché della liberazione condizionale, semilibertà, licenze e permessi premio). E in « vietato », se sfavorevole al reo (pene tendenti al massimo, aggravante della recidiva, misure di sicurezza ai delinquenti pericolosi) (11). Sicché, tendenzialmente, la magistratura inquirente si adopera assieme alla polizia — talora non senza rischi personali — per accertare reati e rei. La magistratura giudicante di primo grado per punirli il meno possibile. Quella di secondo grado per diminuirne ulteriormente la pena (sovente di immotivabili frazioni insignificanti). La Suprema Corte di cassazione, non di rado, per dichiarare la prescrizione del reato. E la magistratura di sorveglianza, per rimettere in libertà — non senza forti diseguaglianze tra sedi e sedi — i residui condannati in espiazione (e non ancora evasi, essendo talora più facile l’evasione dal che l’ingresso nel carcere). Con certe trasformazioni delle misure alternative alla detenzione e delle misure premiali in misure sostitutive del senso di giustizia e del buon senso. E certi detenuti in semilibertà o in licenza o permesso-premio in delinquenti part-time. Con copertura carceraria e vitto e alloggio a carico della collettività. Il reo: mostro da lapidare; il detenuto: martire da scarcerare. L’eterna storia di Penelope, che disfa di notte la tela tessuta di giorno. E quell’extrema ratio del diritto penale, anziché sul connaturale piano legislativo, è italicamente realizzata su quello abnorme della prassi disapplicativa della pena. E il nullum crimen sine poena? Sta assumendo un significato sempre più irridente.
3) la cultura del garantismo unilaterale, il quale, se dapprima ha costituito una doverosa reazione al vecchio Stato autoritario, è stato, poi, soprattutto interpretato secondo un Illuminismo fuori del tempo e dello spazio e fuori della concreta realtà dell’homo humanus, non theoricus. Ed ha soprattutto demolito senza nulla sostituire, di valido, nella difesa dei cittadini contro il crimine e nel ricupero dei delinquenti, innestando un processo di « devittimizzazione » del diritto e del processo penale, che ha portato a dimenticare il valore, non secondario, anche dell’« uomo-vittima ». Che tra i fondamentali diritti della persona umana, costituzionalmente riconosciuti, vi è anche il primario « diritto di libertà dal crimine ». Che la « garanzia » deve, perciò, applicarsi nei confronti non solo degli autori dei reati, ma anche delle loro potenziali vittime. Che senza la dovuta considerazione delle vittime e con la diffusa sensazione che a non essere delinquenti o « pentiti » non si hanno più diritti, non vi può essere la necessaria fiducia — in verità, sempre più in calo (11) Alla raffica di contestazioni, ove si contesta tutto il penalmente contestabile (dalla associazione per delinquere e concussione al vilipendio della bandiera e al raspollamento nel fondo altrui) segue la « farsa della pena ». E sempre a chiedere, noi, estradizioni: evidentemente per sottrarre i delinquenti alle reali pene applicabili in altri paesi più seri.
— 1225 — — dei cittadini nella legge, nella giustizia e nelle istituzioni nel loro complesso. E che una società che non garantisce alle persone umiliate difesa alcuna contro la prepotenza altrui e che consente ai soggetti prevaricatori, solitari o ingruppati, di sentirsi onnipotenti, intoccabili e impuniti, genera fatalmente i fenomeni regressivi della autodifesa, dell’omessa denuncia e dell’autogiustizia. Nell’attuale andazzo legislativo-giudiziario-culturale-criminologico-penalistico l’interesse per la vittima sa sempre più di « peccato mortale ». Bene non toccare Caino, purché non significhi che tutti possono toccare Abele. Se non vorrà estraniarsi ancor più dalla realtà, la scienza penale deve senza ritardi confrontarsi non più con la sola crisi della legalità-garanzia, legislativa e giudiziaria, ma anche con la crisi della legalità come inosservanza della legge da parte dei cittadini, affondando entrambe le radici ultime nel sottostante fenomeno comune di « anomia » collettiva, cioè di perdita di valore della norma agendi, per cui pubbliche istituzioni e cittadini si sentono, ciascuno nei relativi settori di competenza e attività, legibus soluti.
4) la lentezza della giustizia, arcinota in tutti i suoi deleteri effetti: dalla perdita, rispetto ai delinquenti, dell’efficacia deterrente della pena, imprescindibile dalla sua certezza e prontezza applicativa, alla perdita, nei cittadini onesti, nelle vittime e negli imputati innocenti, della fiducia nella giustizia. Ma piaga endemica, oggetto da mezzo secolo di lamentazione corale, assieme al parallelo disservizio della pubblica amministrazione, da parte di tutti e tutti col ricettario alla mano. Che vive e prolifera in perfetta coerenza col più generale fenomeno dell’inefficienza e dei ritmi improduttivi del settore pubblico. E la cui terapia è drastica e, perciò, improbabile. Non essendo, tale lentezza, imputabile ad « avversi fati », ma condividendo le « umane cause » della pubblica inefficienza, al pari di questa pure essa si presenta pressoché senza rimedio. Perché sono, sì, necessarie modifiche di leggi e di costume, improponibili (come, ad es., la delimitazione del sistema delle impugnazioni, con ricupero dei relativi magistrati nelle fasi delle indagini preliminari e dei giudizi di primo grado, dovendo fare riscontro — secondo le esperienze comparatistiche — alla piena tutela dei diritti dell’imputato in dette fasi una parallela restrizione dell’area delle impugnazioni). Ed il contenimento della ossessiva « microconflittualità costituzionale », bagatellare, dei « patiti dell’eccezione di incostituzionalità »: un unicum planetario, che alimenta ulteriormente, sì, lo sfascio della giustizia, ma sempre costituzionalmente legittimo. E che diventerà un’orgia, paralizzante, di eccezioni, se sarà costituzionalizzato il proposto divieto di interpretazione estensiva della norma penale. Perché sono, parimenti, necessari quegli incrementi di organici e di finanziamenti, che il potere politico, noncurante, preferisce riservare al più redditizio business delle megaopere pubbliche (alta velocità, autostrade, ponti sugli stretti, cattedrali varie nel deserto, ecc.). Ma è anche vero che, tranne le vittime, la politica criminale e il senso di giustizia, con la lentezza giudiziaria troppi ci marciano, traendone il loro « particulare utile » e concorrendo fattivamente a perpetrarla: magistrati e cancellieri indolenti, avvocati e delinquenti calcolatori, tangentisti anelanti alla prescrizione, debitori morosi ed enti assicuratori defatiganti. E tutti coloro che sanno di avere torto e i disonesti. Così come è vero che, nonostante la sovrabbondanza, unica, di nuove leggi riformatrici e di di-
— 1226 — pendenti assunti (il doppio che negli Stati uniti), invocata come panacea contro la cronica inefficienza della pubblica amministrazione, quella attesa metamorfosi del nostro paese a prototipo efficientistico dell’intero pianeta è stata sempre vanificata dalla ferrea legge burocratica, per cui, raddoppiando il personale, il lavoro viene diviso per metà e l’arretrato resta immutato. Onde anche nella giustizia, come più in generale nella pubblica amministrazione e nella scuola, media e universitaria, trattasi di passare dal lavoro giudiziario « come volontariato » al lavoro giudiziario come « dovere » di tutti i magistrati e ausiliari: non solo dei tanti volenterosi, ma anche dei non pochi oziosi, semioziosi o affaccendati in troppe altre eliminande faccende (12). Salvo poi recuperare, la nostra giustizia, tutta la sua efficienza nella squalificante « giustizia-spettacolo », alimentata: a) dal protagonismo becero di magistrati-primedonne, che, tentati da quello strumento diabolico che è l’improvvisa « notorietà », quotidianamente ci intrattengono — spalleggiati dai principi del foro, da una stampa scostumata e dal becerume politico — con le loro esternazioni (dichiarazioni e precisazioni, smentite e rettifiche, repliche e controrepliche, beghe tra procure e tra uffici giudiziari) non interessanti, ma preoccupanti il cittadino. E dimentichi che il « silenzio » del magistrato può e deve essere rotto solo con gli atti giudiziari, motivati (nonché dalle pronte denunce e querele contro le aggressioni verbali che confondono la critica giudiziaria con la denigrazione): perché tra le prerogative del magistrato vi è anche la dipendenza dalla legge, non dal tubo catodico e dalla rotativa; con la sua legittimazione nella legge, non nel consenso popolare. E che il « ruolo » dell’avvocato è quello di difensore nelle sedi giudiziarie e sulla base delle risultanze processuali, non di « garanti » (giurati, spergiurati, ma non attendibili) verso il paese della assoluta innocenza dei propri assistiti (tanto più se noti tangentisti o Vip); b) dalla beatificazione ad « eroi nazionali » di magistrati per avere semplicemente adempiuto — segno pure questo dei tempi — al loro dovere nel dissotterrare — casualmente e, forse, non sempre imparzialmente — quell’« ascia di guerra » dell’azione penale, obbligatoria, contro il malaffare politico, che per troppo tempo la nostra magistratura tenne sotterrata: e per ragioni non sempre encomiabili; c) dalle notificazioni degli atti processuali, in primis le informazioni di garanzia, non per posta e in piego chiuso raccomandato, come ebbe un giorno a stabilire il codice penalprocessuale, bensì « via etere » o « a mezzo stampa », essendone questa la destinataria primaria e costante (con « deposito » nelle edicole, assurte così ad ausiliari di giustizia che ovviano alle carenze delle cancellerie e degli uffici giudiziari); d) dalle invereconde ed impunite violazioni del segreto processuale (nulla essendo più « pubblico del nostro segreto processuale), dalle soffiate dei « soliti ignoti » (ad ogni indagine preliminare la propria « talpa ») e dalla pubblicazione su quotidiani (bacheche ormai degli uffici giudiziari): con l’accusa urlata e l’assoluzione bisbigliata; e) dalla teletrasmissione dei processi, che completano la spettacolarità e presentano soltanto controindicazioni: per molteplici ragioni. Sicché quella celerità della giustizia e quel riserbo giudiziario, che negli altri paesi è la normalità, nel nostro costituisce una pretesa assurda. E la cronaca giudi(12) In attesa di troppi miracoli, non va trascurata l’ipotesi dell’affidamento fiduciario della gestione della nostra giustizia a paesi — e ce ne sono — dalla giustizia celere.
— 1227 — ziaria pregiudica le indagini giudiziarie per garantirne il controllo. Avverrà mai che le varie istituzioni cessino di agire « contro natura » per rientrare nei rispettivi alvei istituzionali (13)?;
5) l’incomunicabilità tra legislatore e scienza penale, assente, latitante, distratta, ignorata. Perché, da un lato, essa è stata esclusa dalla politica criminale, avendo il legislatore come interlocutore privilegiato la prassi, magistratura e foro, o, peggio, combattendosi la quotidiana battaglia della giustizia penale come un braccio di ferro tra gruppuscoli di magistrati, di avvocati e di politici, onnintervistati come oracoli, dei quali certe saccenze non sono sempre sorrette da adeguata cultura giuridico-criminologica. E come se fosse cosa soltanto loro. D’altronde, nell’imperante schizofrenia legislativa, in questa politica criminale viscerale, dove troppi irresponsabili, di ambo i sessi, tengono banco, a che serve ormai la scienza penale? A che serve la scienza penale per mercanteggiare patteggiamenti? A che serve lo stesso diritto penale quale strumento di tutela di fronte alla monetizzazione statuale del crimine e al traffico delle indulgenze processuali, finalizzate ai risultati per le statistiche giudiziarie? E, d’altro canto, a che serve una scienza, povera di idealità e più pronta a lagnosamente lamentare la persistenza del codice Rocco e l’orgia della legislazione speciale che capace di un qualche costruttivo accordo, per un ipercriticismo paralizzante, su un nuovo codice penale: quando non anche scettica sulla stessa ricodificazione? Di fare ciò che, bene o male, tedeschi e francesi, portoghesi e spagnoli, hanno fatto, anche da tempo.
E perché, da altro lato, tale scienza si è autoesclusa dalla reale politica criminale, essendo una scienza tecnicamente sempre più raffinata, ma sempre più « senz’anima », senza ideali alti, senza vita. Sempre più fine a se stessa, come un motore che gira a vuoto. Un dialogo esoterico, non sempre allettante, intra moenia: tra addetti ai lavori. Per le sue fughe nell’empireo dei massimi sistemi e nei fumosi sociologismi, nei nominalismi astratti, nelle logomachie e nei « grandi tormenti » dommatici e germanofoni. Per certe dimenticanze che il buon legiferare è per semplificazioni essenziali e non ricettivo di certe sofisticazioni scientifiche, onde la esigenza di distinguere tra legislazione, interpretazione, dommatica e teoria generale del nulla. Per la perenne ricerca di una legittimazione del diritto penale, mentre l’onda di (13) I politici anziché governare vaniloquiano e rissano (quando non rubano). L’opposizione, anziché opporsi, si consocia. I sindacati, anziché sindacalizzare, cogovernano assieme ai governanti non governanti. Il legislatore, anziché legiferare, microlegifera con leggine clientelari e sgoverna con le leggi-provvedimento. I magistrati, anziché indagare e giudicare, fanno i politici, i legislatori per il legislatore latitante, i controllori degli amministratori incontrollati e i tribuni protagonisti. Gli avvocati anziché difendere assurgono a « garanti », coram populo, della santità degli assistiti. Gli imputati, anziché difendersi, accusano i giudici. I poliziotti, certuni, anziché tutelare l’ordine pubblico, uccidono, rapinano, spacciano e colludono. I giornalisti, anziché riferire, creano i fatti. I docenti, anziché educare, diseducano. A guardarsi attorno è tutto un « abuso di atti di ufficio ».
— 1228 — piena della criminalità esige interventi immediati per contenerne quanto meno gli effetti più dirompenti. Per i pullulanti novismi riformatori, ispirati ai « grandi principi », immiseritisi in piccole mani, ma non sempre sorretti da adeguata conoscenza delle « costanti » criminologiche, essendo autentiche riforme quelle ispirate, freudianamente, non al « principio del piacere », ma al « principio di realtà » e, quindi, al superamento dell’endemica antinomia dottrinale tra le proprie istanze ideologiche e la realtà: tra « ciò che piace » e « ciò che è », tra l’homo theoricus e l’homo humanus (il delinquente che ti sequestra, ti rapina, ti stupra per noia, ti ammazza per banalità, ti incendia i patri boschi per i più futili motivi o per ludismo; e il mafioso che sottrae alla società civile il governo del territorio e spara nel mucchio per regolare i conti tra compari). Per l’esaltazione, nel quadro della dominante cultura clemenzialistico-pseudogarantista-permissivistica e per gli abbagli di illuminismi astratti, di libertà e liberalizzazioni necrofile. Per le ossessioni depenalizzatrici dell’extrema ratio (libere da preoccupazioni circa la disapplicazione delle sanzioni extrapenali da parte della inefficiente burocrazia pubblica e, in specie, di quella di matrice politico-elettiva), dimenticandosi che anche e soprattutto sull’infestante c.d. « microcriminalità », teppismi e prevaricazioni quotidiani, diurni e notturni, si misura e sempre più si misurerà la qualità e il livello di invivibilità della nostra esistenza, l’insicurezza collettiva, il degrado urbano (14). Quando non anche con ossessive avversioni a tutto ciò che sa di limite e di sanzione. Per la cecità o il silenzio sugli universi istituzionalizzati delle « macroingiustizie », di azione e di omissione, per concentrarsi, essa, sulla razionalizzazione interna delle sole angustie legislative e sulla calibratura e dosatura sanzionatoria con la bilancia dell’orafo delle microingiustizie: dei grammi di ingiustizia. E per l’imperterrita indifferenza, nella fuorviante distrazione dei ludismi dottrinali, di fronte all’universo di criminalità e illegalità, in cui stiamo sprofondando. E, quindi, con crescente estraneazione dalla realtà. E con l’attacco frontale alla politica criminale, sferrato da certe dottrine antipenalistiche, che non si limitano a proporre indispensabili correzioni delle naturali tendenze del diritto penale all’ipertrofia, ma appaiono aperte ad opposte tentazioni abolizionistiche. Ciò attraverso un riduzionismo penale ad una ristretta cerchia di delitti contro beni individuali (o strumentali alla tutela di questi) e con estromissione dei delitti contro beni ultraindividuali e collettivi, affidati alle panacee delle sanzioni amministrative o ad un imprecisato « diritto di intervento sociale » (es.: reati economici, tributari, ambientali, di traffico di stupefacenti e di armi, attentati alla sicurezza del lavoro) o financo ai soli ipotizzati dibattiti e cartacee inchieste parlamentari (es.: corruzione, relazioni tra mafia e poteri legittimi, deviazioni degli organi militari e servizi segreti). Prescindiamo pure dall’infondato assunto dei beni ultraindividuali come non-beni giuridici e dei reati offensivi di tali beni come reati senza vittime. Come anche dalla palese insufficienza dello stesso diritto penale contro certi fatti, quale il pericolo di autoestinzione della specie umana da inquinamento planetario. Ma resta pur sempre il dato che l’anacronismo dell’espulsione dal diritto penale della grave patologia della criminalità economica, ambien(14) Mentre la corruzione e l’evasione fiscale al più « indignano », ma non « allarmano »; e mentre l’assassinio riguarda centinaia di persone (e, in consistente misura, l’autoeliminazione tra associazioni criminali), la barbarie quotidiana di schiere sempre più numerose di balordi ne colpisce milioni.
— 1229 — tale, politico-amministrativa, terroristica, eversiva, nell’attuale fase storica di progressiva revisione delle tradizionali « immunità », di diritto o di fatto, della « criminalità dei colletti bianchi » (con introduzione della responsabilità penale delle persone giuridiche), delle connivenze-collusioni tra pubblici poteri e mafia e del risalente privilegium favorabile dell’eversiva criminalità politico-ideologica, sa — al di sopra dell’incontestata nobiltà degli intenti — di « illuminismo » fuori del tempo e dello spazio, evocato, ma mai esistito. Di « regressione » freudiana dal principio di realtà al principio del piacere. Di « intellettualismo » sostituente — secondo i sofismi del manzoniano Don Ferrante — il concetto alla realtà, cancellandola o rimuovendola. Col solito rischio per le scienze criminali di ritrovarsi, ciclicamente, al punto di partenza e di dovere ripartire sempre da capo dopo avere ripetuto gli stessi errori. Più in breve: riduzionismi, tutti, non delle cause della criminalità, ma delle figure legali di reato. E, quindi, senza alcuna rosea prospettiva sul futuro dell’antisocialità.
E in questo complessivo quadro d’insieme, la c.d. « politica criminale » è sempre meno diretta alla lotta contro la montante criminalità. E sempre più tesa: a) alla processualizzazione della giustizia penale, ove il « mezzo » (il processo) per conseguire il « fine » (l’applicazione della pena giusta) si è convertito nel fine di tale giustizia. Col paradosso del diritto penale che serve per giustificare l’esistenza del processo, alla cui ricercata efficienza viene piegato, uniformato, sacrificato. Non solo si è sostituito — con inversione logica dei piani o, comunque, con il frantumato parallelismo — il codice di procedura penale, mentre il codice penale, nato non meno in altri contesti storici e politici — sopravvive rabberciato e pressoché immutato. Ma energie, dibattiti, attività legislativa e sentenze costituzionali sono soprattutto incentrati sugli incessanti rimaneggiamenti del nuovo processo penale, sulle misure cautelari. Sul ruolo dei pentiti. E sull’art. 513 c.p.p. E per cercare di salvare dalla paralisi il nuovo processo, introdotto senza la predisposizione dei mezzi materiali per il suo funzionamento, si sospingono, con allettamenti o minacce, gli imputati verso i riti alternativi, più sbrigativi e sommari, e si svende e si svilisce la pena attraverso sempre più ampi patteggiamenti (come anche da proposte legislative recenti o non inverosimilmente riproponibili). Col risultato: ottimo di principio il nuovo processo c.d. « ordinario », accusatorio e garantista, purché sia di fatto un processo « straordinario », eccezionale, circoscritto al minore numero di casi: ad un manipolo di imputati facoltosi, tenaci, temerari, irreperibili e sfortunati. Onde l’interrogativo: a che serve, poi, lo smaltimento di più processi per applicare pene sempre più virtuali (15)? Un motore, anche qui, che gira sempre più a vuoto? Sicché qui il mezzo si divora il fine;
b) allo svuotamento del carcere sovraffollato, adeguando il numero (15) Ed i codici e i penologi tutti a scervellarsi per dosare la quantità della pena edittale alla gravità dei diversi reati: un rapporto di proporzionalità poi frantumato dalla pena patteggiata e dall’indulgenziale inflazione di affidamenti al servizio sociale e di detenzioni domiciliari, in consistente misura incontrollati.
— 1230 — dei carcerati alle disponibilità carcerarie anziché i carceri alle esigenze detentive. Anziché costruire nuovi e più dignitosi carceri, secondo i bisogni, si escogitano tutti gli espedienti per alleggerire quelli esistenti. Anziché creare nuovi ospedali, si dichiarano con decreto-legge sani gli ammalati. E giustizia è fatta. Col nostro primato, non solo europeo, di più delitti e di meno detenuti espiativi. E con siffatta attrattiva voce, circolante non solo nell’Unione europea (a libera circolazione anche dei delinquenti), ma altresì nel mondo extracomunitario: dell’ovest, est e sud del mondo.
L’effettiva applicazione della giusta sanzione « reale » al condannato, dopo un processo « giusto », e non come optional, è la base prima su cui poggia la credibilità della legge e dell’intero sistema giuridico. La società organizzata non può « minacciare a vuoto » ed esprimere disapprovazioni puramente platoniche, perché l’impunità reale di troppi colpevoli svilisce l’effetto intimidatorio, orientativo e moralizzatore della sanzione. Finché non sarà provata come fallace la verità di sempre che, accanto ad una minoranza di soggetti, che non delinquerebbe anche senza la pena, e di una minoranza di soggetti, che delinque nonostante la pena, esiste una maggioranza di soggetti che non delinque in quanto esiste la pena. Altra cosa è un efficiente sistema differenziato di sanzioni reali, a seconda dei reati e dei rei, essendo fondamentale che al comportamento antisociale consegua, di regola, una qualche riduzione dei diritti del soggetto (16). E massima sia anche la solidarietà verso il singolo condannato, purché sia chiaro che il « perdono sociale » non è automaticamente « condono penale », perché anche al reo nulla va regalato di non meritato. Solidarietà sociale è offerta di opportunità, perché il soggetto corregga, se lo vuole, la propria antisocialità, e premialità progressiva, poiché soltanto al documentato reale progressivo ritorno alle corrette abitudini sociali può fare riscontro una parallela attenuazione graduale della pena. Accanto ai « diritti » vanno affermati pure gli imprescindibili « oneri » del condannato. Un incontro a metà strada, per passi reciproci, tra società e reo.
L’abnormità della fuga dalla sanzione porta il sistema, per quel minimo di sopravvivente bisogno di giustizia, ad autocorreggersi attraverso l’abnormità dell’uso della carcerazione preventiva come pena anticipata ed esemplare e del processo come strumento, anziché di accertamento dei (16) Come l’arresto saltuario, di fine settimana o feriale, da scontarsi — con poca spesa per la collettività — in un edificio affittato dallo Stato in periferia o in uno dei tanti edifici pubblici in rovina. Con un semplice controllo sull’accesso e uscita degli ospiti. Con autodisciplina interna, pena l’aumento della durata dell’arresto. E biancheria e vitto a carico degli stessi. Ma perché anche ciò richiederebbe un minimo di capacità organizzativa da parte di uno Stato, incapace — già a detta di Sturzo — di gestire una bottega di ciabattino, ergo assistiamo alla inarrestabile estensione dell’affidamento in prova e della lustra di pena della detenzione domiciliare (magari, per i privilegiati della criminalità dei colletti bianchi, in ville dorate con centrale telefonica, fax e Internet, piscina, galoppatoio, tennis, sauna. Esercito filippino al seguito. E amanti).
— 1231 — reati e dei rei, di autonomo e diretto controllo sociale. Svuotato il diritto penale, resta soltanto il processo. Contraccolpo della « perdita di centralità della pena » è la « perdita di centralità della sentenza »: ad opera di atti anticipativi del giudicato (misure cautelari) e sentiti dall’opinione pubblica sempre più a contenuto sanzionatorio (informazione di garanzia), a misura che la sentenza si allontana nelle nebbie del futuro. Sicché carcerazione preventiva e processo finiscono, in non pochi casi, per essere l’unica sanzione realmente scontata, essendo da noi più facile — statistiche alla mano — andare in carcere come imputati che come condannati. Ma se i principi garantisti stridono, non sempre si ribella, però, il senso di giustizia. Trattasi dello shock system all’italiana: una sferzata di carcerazione preventiva subito, con salutari effetti sul piano della prevenzione generale e speciale e del calo di baldanza e arroganza, specie rispetto alla criminalità dei colletti bianchi, dei politici e dei pubblici amministratori. Ma col dramma devastante degli autentici « innocenti » (17).
Ad una abnormità si compensa, così, con altra abnormità, le quali non si elidono a vicenda, ma si sommano. In una spirale senza fine, che, come il mitico Saturno, si autoalimenta e si autodivora, poiché abnormità e patologia giuridica generano altra abnormità e patologia. Alla fuga dalla sanzione, lentezza della giustizia e conseguente senso di giustizia leso si rimedia con la carcerazione preventiva, che fatalmente porta al sovraffollamento e tensione del carcere, ai quali si rimedia con gli espedienti dei clemenzialismi legislativi e indulgenzialismi giudiziari, che, accentuando la fuga dalla sanzione, portano ad una ulteriore amplificazione dell’uso abnorme della carcerazione preventiva. E la politica criminale? Da pacata politica della ragione trasformata in agitatoria politica espedienziale della sopravvivenza: ormai ad ore.
Ma nelle sue più profonde radici, la fuga dalla sanzione è il maturato frutto della « cattiva coscienza » di una società, che difende la propria amoralità tollerando il crimine: incapace di darsi regole, non può imporne. Sarebbe « disfunzionale ». Come per avere titolo per riprendere i figli si deve essere genitori credibili, così per potere infliggere sanzioni occorre la collettiva condivisione di un sistema di fondamentali valori comuni, oggi frantumata da quella miscela di insanie, culturali e operative, che dell’anomia hanno fatto un diffuso modus vivendi. (17) I quali, però — si badi — non coincidono necessariamente con gli « assolti ». Specie rispetto ai reati di mera creazione legislativa e fraudolenti, ove la linea di demarcazione tra lecito e illecito e l’essere assolto o condannato possono dipendere, in certa misura, dalla fortunosa congiuntura dell’abilità o inabilità del difensore e dalla severità o mitezza del giudice. Ben sa ogni esperto avvocato che certi suoi clienti era giusto assolverli, come sarebbe stato parimenti giusto condannarli, poiché farabutti erano e restano. E l’assoluzione sa più di vittoria della difesa che di trionfo della giustizia. Vedasi, ad es., certi « miracolati » di tangentopoli, essendo tali tangentocrati i primi a non credere alla propria innocenza.
— 1232 — 8. Ma più che indulgere, ancora, nell’elencazione delle culture e delle prassi criminogene, merita sottolineare il loro triplice maturo frutto: 1) la « devalorizzazione » dei vari sistemi normativi (culturali, giuridici, penali) e, quindi, dei sistemi di orientamento e controllo del comportamento umano. Sostituiti con « sistemi di disvalori », che, pur nelle loro diverse matrici, puntano tutti a comune obiettivo di fare emergere, dell’uomo non la parte migliore (il Doctor Jekyll), ma la peggiore (il Mister Hyde). Tutti incapaci di educare: per quella « inappetenza » dei valori, che mina alle radici lo stesso desiderio di educare quale passione di suscitare la vita. Ma nei quali disvalori i più dimostrano di fermamente credere. Pur se nella lamentazione corale per questa « crisi dei valori » (perché sbanda le giovani generazioni, non credenti più in nulla e vaganti senza bussola), ma dei quali tutt’attorno si concorre alla quotidiana distruzione. Mentre i « valori sapienziali », perenni e generatori di bene per tutti, sono lì ad attendere, non avendone il volgere dei tempi alterato la consistenza chimica. Anche se si preferisce non vederli. Nient’altro che la conversione del « male » in « bene » e del bene in male. Perché quel male, componente esistenziale della storia umana, è sempre stato, sì, ampiamente praticato in tutti i tempi. Un tempo, però, nella consapevolezza che tale fosse: con anche sofferti e autentici pentimenti (senza protezione e sostentamento statale). Mentre ora è teorizzato e idealizzato, esaltato e pubblicizzato — quindi senza più rimedio e speranza — come bene, conquista, progresso (18). E più che pentirsi oggi ci si dissocia (19);
2) la distruzione della stessa categoria mentale del « limite », verso se stessi e verso gli altri, e del senso, quindi, della norma agendi: nella sempre più diffusa convinzione del « vietato vietare » e del « tutto consentito, tutto lecito ». Specie in quest’ultima generazione, che è forse la prima, nella storia umana di tutti i tempi, cresciuta non solo senza un’educazione religiosa, ma senza una qualunque educazione. Famiglia e scuola, le due primarie « agenzie » di educazione, sono state ormai spodestate del ruolo educativo da sempre svolto. E non solo perché la prima è sempre più numericamente inconsistente, devastata, precaria, fattuale (sempre meno « focolare » e sempre più « pensione » e « dormitorio ») e la seconda sempre più « fabbrica di piatti rotti »: prive perciò, ambedue, di attendibilità pedagogica e deleganti la diseducazione dei propri figli alla cultura dominante. Ma per la più generale ragione che entrambe, anche qualora siano bene determinate a svolgere il proprio ruolo educativo, sono pressoché messe fuori giuoco — come argini di sab(18) D’altro canto « Se la stupidità non assomigliasse perfettamente al progresso o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido ». Così scriveva MUSIL nel 1931. E nessuno oserà porre in dubbio che, anche dopo, il mondo abbia visto ancora tanti progressi e miglioramenti. (19) Un tempo il pentimento seguiva, ora precede. Ai rei confessi ora anche i bugiardi confessi. I mafiosi commettono i più feroci assassinî e poi, arrestati, subito collaboratori, metabolizzando in un lampo l’orrore del sangue e la macerazione del ravvedimento.
— 1233 — bia — dalla sovrastante concorrenza dei modelli di identificazione, imposti in modo totalizzante dalla dominante cultura, prodotta, trasmessa e amplificata dai media: in primis, da quella tragedia diseducativo-subculturale che è l’attuale televisione. Nell’alternativa dei genitori tra l’alienarsi i propri figli o cedere alla legge del più forte. Onde il problema sempre più arduo se l’avere un figlio « bravo », anziché deviante o drogato, sia merito genitoriale o benevola fortuna, ma con la sorprendente sorpresa per gli ormai quotidiani massacri intrafamiliari;
3) la dilatazione degli spazi, sempre più ampi, della illegalità, di cui la criminalità, organizzata e disorganizzata, è soltanto la punta emergente di un continente sommerso di anomia. Con la consolante constatazione che ogni giorno un numero sempre maggiore di soggetti viola un numero sempre maggiore di leggi. L’illegalità, inserita nel DNA dell’homo italicus, è ormai la « normalità »: il cemento dell’unità nazionale. Con l’eclissi della « socialità » e il trionfo della « disgregazione sociale ». Paese in cui ogni regola sembra saltata, nella furbesca convinzione, ciascuno, di potere agire illegalmente nelle rispettive sfere di attività: nel pubblico e nel privato, nella politica e nell’economia, nella pubblica amministrazione e nella giustizia, nell’impresa e nel mercato finanziario, nel campo fiscale e nell’edilizia. E tutti insieme, appassionatamente, nella circolazione stradale. Elevata a optional, anche la legalità è sempre più affidata, come ogni buona azione, al « volontariato ». Nella legalità dimostrano di credere soprattutto i delinquenti e le associazioni mafiose, assieme ai loro avvocati. Tutti assetati di legalità: durante il processo e la carcerazione preventiva. Popolo di « furbi », popolo di « autolesionisti ». Lex, dura lex, sed lex (da sbellicarsi).
Accanto ai mali del mondo questo paese presenta i mali propri: la esclusività (o quasi) di certe tragiche connotazioni criminali nostrane. Accanto al già accennato terrorismo ideologico, di fresca data e dalle ferite ancora aperte, alle stragi, palesi nelle vittime e segrete negli autori, alle associazioni segrete e ai servizi segreti, permanentemente deviati, presenta la piaga, inestirpata, dei sequestri di persona, che non trovano riscontro altrove, almeno per quantità, crudeltà, sesso ed età delle vittime. L’invasiva metastasi dell’usura, estesasi a macchia d’olio. La corruzione dei politici e dei pubblici amministratori, che è, sì, « istituzione » sovranazionale. Ma che da noi ha superato, per estensione e capillarità, ogni limite di tollerabilità sociale e di decenza. Avendo essa degenerato nella « cleptocrazia », la cui parte emersa è soltanto la punta dell’iceberg. Avendoci assicurato, a differenza di certa corruzione nordica, non corrotti servizi ma corrotti disservizi. Ed essendo sopravvissuta, con brevi crisi di astinenza, ai recenti rovesci giudiziari, uscendone — a detta degli esperti — anzi tonificata (20) e scientificizzata. (20) Anche nell’incrementato tasso della « tangente » per compensare il maggior rischio giudiziario. Basta indagare, a libera scelta, nel pubblico, e subito emerge il marcio. Ogni giorno, ormai, ha la sua Tangentopoli. Sicché l’illuministico principio della presun-
— 1234 — E il già popoloso panorama della « criminalità dei colletti bianchi » si è arricchito della « criminalità dei colletti blu » (almeno in senso sociologico-criminologico). Costituita da quei comportamenti « corporativistici », censurati ormai dai più come antisociali (scioperomania selvaggia e indiscriminata, assenteismo fisico e mentale, vacanze sommerse e malati immaginari: con livelli paralizzanti specie nel pubblico impiego e disfunzione dei servizi essenziali). Stillicidio di scioperi, non paralleli e concomitanti, ma in successione cronologica e nei momenti nevralgici (vedi, ad es., aeroporti): capolavori mondiali di organizzazione strategica per la capacità di rendere i massimi e più prolungati disagi a tutti. Mentre ieri molti (poveri) scioperavano contro pochi (ricchi), nella società postindustriale e del terziario si dà spesso il caso di pochi (non poveri) che danneggiano molti (non ricchi), limitandone quei diritti fondamentali (alla salute, alla libera circolazione, al lavoro, ecc.), dichiarati inviolabili dalla retorica costituzionalistica. E l’incalcolabile danno, di certi scioperi e dell’assenteismo: sempre meno del « padrone » (con tutte le sue inescusabili colpe) e sempre più della collettività, colpendo utenti e consumatori privi di alcun potere di controllo e danneggiando ogni gruppo scioperante e assenteista un altro inerme. In una specie di nemesi, i cui diversi gruppi sono, di volta in volta, autori e vittime dello scioperismo e assenteismo. Col ripristino del principio di eguaglianza, in negativo, dei cittadini: tutti democraticamente eguali (meno eguali, però, i più abbienti e potenti) nel generale disservizio a danno di tutti.
Col primato altresì, questo paese, dell’« odio per la Natura », violentata, disboscata, asfaltata, cementificata, incenerita e sparata. Perché pochi popoli odiano, così istintualmente, la natura come noi. Quattro gocce, ed è tutto uno smottare, franare, alluvionare. Le calamità « naturali », sempre più « innaturali ». E tutti a strapparsi i capelli. E ad imprecare contro la Protezione civile.
E con quella escrescenza infame della criminalità di stampo mafioso, caratteristica del nostro volto nazionale, poi plagiataci dal mondo. Criminalità tra le più necrofile, perché pericolosa non solo per gli altri, ma per se stessa (essendo la vita media mafiosa inferiore alla metà di quella normale ed essendo il maggior contributo alla lotta contro la mafia costituito zione di innocenza fino a prova contraria rischia di convertirsi — sul piano ovviamente non processuale, ma statistico-sociologico, se è vero, come è vero, che la « presunzione » è la logica deduzione dei fatti ignoti dai fatti noti sulla base della comune esperienza — nel contrario principio della « presunzione di colpevolezza » fino alla contraria prova di innocenza oltre ogni ragionevole dubbio. Se può essere scorretto e ingeneroso fare di ogni erba un fascio, sterile sarebbe ai fini di improbabili bonifiche un euforico fare di ogni fascio un’erba. Pur se è consolante verità che un siffatto sistema di corruzione pubblica non è un « fiore del male » sbocciato in un Eden di innocenza, essendo contro le leggi di natura che una società onesta possa produrre una cotanta pubblica disonestà. Arduo è il discrimine tra i veri innocenti e i partecipi e beneficiati: in un modo o nell’altro. Onde per i malpensanti l’interrogativo: un’Italia improvvisamente onesta, in quale crisi economica potrebbe precipitare?
— 1235 — dall’autoeliminazione). Ma, soprattutto, perché pericolosa non solo per i singoli, come invece la criminalità comune. Ma per la « società legale » e per le stesse istituzioni, tendendo a trasformarsi da associazione per delinquere a « contrordinamento criminale ». Essa esercita, infatti, il potere mafioso su un « territorio » in espansione, con pretesa di esclusione rispetto ad ogni altro ordinamento concorrenziale, criminale o statuale. Ha come destinataria del proprio sistema normativo, non scritto, e delle sue attività una sua composita « popolazione » (di cittadini, ma talora anche di uomini politici, pubblici amministratori, poliziotti e magistrati). Presenta un « governo stabile », senza crisi, né mozioni di sfiducia. Che presta « servizi sociali » con grande efficienza (droga ai tossicodipendenti, armi ai paesi poveri, protezione ai pubblici esercizi, finanziamenti e voti ai partiti e a uomini politici, retribuzione agli amministratori corrotti, smaltimento dei rifiuti tossici, danaro sporco alle banche per il riciclaggio, attività imprenditoriali per investire il pubblico danaro, carpito, nonché i servizi di polizia mortuaria). Che gestisce un sistema fiscale di imposizione, e riscossione, del « tributo » delle tangenti alle attività produttive e commerciali, equamente proporzionale al reddito e con tasso di evasione pressoché nullo. Ed un sistema di « sanzioni penali » scarsamente differenziato e ad esecuzione istantanea, senza sospensioni condizionali (la pena patrimoniale della distruzione o incendio dei beni dei temerari evasori del tributo e la pena capitale privata ai rei dei crimini di sgarro, concorrenza sleale, eccessiva interferenza statuale). Con i « processi rapidi, a rito abbreviato », senza appello, né arretrati. Senza i sofismi delle distinzioni tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, tra soggetti maggiorenni e soggetti minorenni, tra adulti e bambini. E che — con l’onorabilità di « uomini d’onore », di una ferocia primordiale e megalomane — ha tutti i titoli per chiamare « infami » i dissociati e tradimento il voltare le spalle ad una vita di morte. Con tutti i devastanti effetti sul piano dello sviluppo economico di regioni maggiormente bisognose, degli appuntamenti europei, dell’esercizio dei fondamentali diritti civili, della regolarità delle consultazioni elettorali: società, queste, a « libertà limitata ». E ancor prima con un elevatissimo prezzo di disumanità e dolore (oltre la metà degli omicidi dolosi annui è dovuta alla intraprendenza della criminalità organizzata, a differenza degli altri paesi, USA compresi, ove la stragrande maggioranza di tali delitti è addebitabile alla criminalità disorganizzata).
La vera rivoluzione copernicana, l’autentica forma di anticonformismo, di trasgressivismo, di anarchia, in questo paese, è oggi il ritorno al rispetto delle elementari norme del vivere civile. I veri rivoluzionari, anticonformisti, trasgressivi sono le poche residue creature rispettose di qualche regola, legale, sociale, etica. E stradale. Non praticanti la volgarità e il turpiloquio. Possibilmente vestite. Gli autentici conservatori, conformisti, antitrasgressivi: le moltitudini dei legibus soluti.
9. Di questa spirale di illegalità, ove cause ed effetti si confondono, e che si autoproduce e si autoalimenta, ecco taluni corollari: A) la progressiva perdita di integrità morale e di credibilità dei pub-
— 1236 — blici poteri e delle istituzioni nel loro complesso, che si traduce in una perdita di autorità e di credibilità dell’intero ordinamento giuridico, essendo l’autorità morale dell’intero sistema tra le condizioni per la percezione della autorità e del prestigio del sistema giuridico e, in particolare, del sistema penale e della specifica norma che, di volta in volta, viene in questione; B) la perversione della concezione e funzione del diritto, sempre meno norma agendi, regola di vita e di coesistenza, disapprovazione sociale, rafforzatrice del codice morale dei consociati. E sempre più notarile « verbalizzazione » legislativa del modo di sentire e di agire della cangiante c.d. « maggioranza » (o di quella che, padrona dei microfoni, tale si simula). Il criterio maggioritario opera nei due opposti sensi: a) di non rendere illegale ciò che dovrebbe essere reso tale. A cominciare dagli inquietanti settori della bioetica, ove l’alternativa radicale non è tanto tra laicità e confessionalismi, tra dogmi di fede e limpidi principi razionali, coerentemente applicati e condivisibili da entrambi. Ma tra un’« etica senza verità » e un’« etica della verità », la quale sta semplicemente a significare che l’eticamente doveroso non dipende dalla volontà o interessi dell’individuo, ma dalla stessa verità dell’uomo, con la sua intrinseca dignità e i suoi diritti: non graduabili, ma tanto più tutelabili quanto più egli è debole. E che sradicata da tale verità, l’etica e, quindi, la bioetica, sono parole vuote. E il « biodiritto » un non-diritto: strumento di potenza e di dominio, non di giustizia. Perché astensionistico: nulla regolando, tutto consente. O perché individualistico: riconoscendo la titolarità dei diritti ai soli individui in grado di rivendicarli e non a chi non è, non è ancora o non è più in grado di fare sentire la propria voce. O perché procedurale: ricercando la propria legittimazione nelle procedure democratico-maggioritarie, consente al più accordi pratici, oltretutto contingenti e mutevoli a seconda delle esigenze delle cangianti maggioranze. In tutti i casi, un diritto non c.d. « neutrale », ma dell’imposizione di chi è in grado di imporsi;
b) di eliminare l’illegalità legalizzandola. Col ripagante e ripetuto « copione » permissivistico-trasgressivo di incrementare, favorire o consentire la diffusione di una certa illegalità. E poi, ad illegalità diffusa, rivendicarne la legalizzazione, facendo leva sul solito sillogismo: ciò che è diffuso è lecito, ciò che è lecito è da legalizzare. E ciò che è permesso perché legalizzato, è doveroso. Perenne causa di tutti i mali: il « proibizionismo », essendo esso sentito sempre come « ideologico » e « moralistico », mentre la deregolamentazione per sua essenza « neutrale ». Cinque, almeno, le vie a tutt’oggi praticate o pretese — ed altre saranno sicuramente escogitate — per la legalizzazione della illegalità: 1) la legalizzazione di fatto, per cui certe illegalità, per il fatto di essere praticate, sono elevate a diritti acquisiti. Come è avvenuto — a parte l’umana tristezza dell’accattonaggio e dei dormitori negli spazi pubblici, che precipitano le nostre città e stazioni ferroviarie ai livelli delle più povere città del Terzo mondo — col supermercato dell’invasiva prostituzione notturna, che ha fatto di piazze e vie tutto un pullulare e pulsare di
— 1237 — « lucciole » e di « luccioli » di ogni nazionalità, razza ed etnia, e che ha superato ogni limite, vendendosi sui nostri marciapiedi anche le adolescenti. E così pure con la « pornodemocrazia », buttata sotto gli occhi, indiscriminatamente, di adulti e bambini, zappettanti col telecomando tra sadismi, stupri ed horror. Con l’infrazione di ogni regola stradale (ad ogni divieto di sosta, in fila unica e doppia, ad ogni divieto di clacson, ad ogni prescrizione di senso unico, ad ogni limite di velocità e rumorosità: con totale « immunità » per i ciclomotori). Con la procreazione assistita « selvaggia »: meta il nostro paese anche del « turismo procreativo » di soggetti con difficoltà legislative di soddisfare a casa loro certi abnormi desideri procreativi (ultrasessantenni incluse). Con la locazione del ventre materno e la produzione di embrioni sovrannumerari. Con le truffe e circonvenzioni di incapaci, praticate, televisivamente coram populo e con fatturati sconvolgenti, da maghi e creature similari, onniterapeuti: non solo dei mali d’amore, ma della depressione (con conseguenti suicidi). Con l’imbrattamento poliglotta e graffitico di muri, monumenti e supertreni, aperti agli « stupidi allo spray » di tutte le nazionalità qui convenuti. E con qualcosa di simile anche per l’eutanasia strisciante, impennandosi — sembra — nei periodi feriali le epidemie dei vecchi defunti; 2) la legalizzazione di diritto, per cui una praticata illegalità viene elevata, per mettersi in regola, a « legalità di diritto ». Si è cominciato con la legalizzazione, in nome dell’aborto terapeutico, dell’aborto « libero » (più libero che ovunque), della sterilizzazione anche irreversibile. E si continuerà, verosimilmente, con la legalizzazione della droga, della inseminazione artificiale extramatrimoniale (con deprivazione del nato della figura paterna). Dell’embriosperimentazione e dell’embrioproduzione per fini industriali. Nonché — e perché no? — delle pur auspicate clonazione, scelta computerizzata di figli commissionati, selezione genetica di « uomini perfetti » e ibridazione di umanoidi per i lavori sgradevoli e come serbatoi di organi trapiantabili; 3) la legalizzazione mediante sanatoria a pagamento, con la quale lo Stato, senza ritegno, « capitalizza » il crimine. Coi periodici concordati e condoni, le evasioni fiscali e previdenziali e gli abusi edilizi restano perennemente reati per il futuro e fatti impuniti per il passato: la tassa sulla criminalità per l’erario e sulla tranquillità per il reo. Con l’acquisita licenza di deturpare questo povero paese — tanto privilegiato dalla Natura, quanto perseguitato da governanti e palazzinari — nell’attesa della prossima e sicura sanatoria, rientrando l’« istituto » della sanatoria nel calcolo dei pro e dei contro delle ingrossate schiere dei ragionieri del delitto. E con la crescente efficacia deterrente della declamata legislazione incriminatrice degli abusi edilizi ed evasioni fiscali. Nella fiduciosa attesa della promessa sanatoria, sentiti i sindacati, anche delle truffe dei falsi invalidi e dei defunti pensionati: i « morti a carico »; nonché del lavoro nero. Governi che sopravvivono a colpi di sanatorie, anche rispetto alle incontrollate immigrazioni clandestine; 4) la legalizzazione dei reati mediante la sanatoria, gratuita, delle periodiche amnistie e indulti. Perché, agli occhi del soggetto delinquente e ai suoi effetti pratici ciò che conta è il sottrarsi alla pena, interessando più la scienza penale, ma già meno la politica criminale e la deterrenza, il disquisire sul fatto che il provvedimento di clemenza non annulla il reato, ma estingue o limita la sola punibilità. Paese, il nostro, in cui assieme agli aranci fioriscono, stagionalmente, amnistie e indulti: sempre ogni volta con la ferma promessa, giurata e spergiurata, e guai a dubitarne, che saranno gli ultimi; 5) le pretesa legalizzazione dei reati, che — in base al mero criterio quantitativo-maggioritario della « ineffettività » e della
— 1238 — « cifra oscura », acriticamente e indiscriminatamente branditi da certa dottrina criminologica o penalistica — difetterebbero di sufficiente legittimazione sociale per la diffusa inosservanza delle relative norme da parte dei consociati e la disapplicazione da parte dei giudici. Senza distinzione: tra interessi storicamente contingenti, di mera creazione legislativa, con tutela condizionata anche dalla cifra oscura, e interessi fondamentali, con tutela irrinunciabile e conseguente esigenza di potenziamento, di fronte al dilatarsi della cifra oscura, degli strumenti di prevenzione e accertamento. Senza rimeditazione dell’ effettività e cifra oscura anche in rapporto al carattere innanzitutto « simbolico » del diritto penale, energicamente esprimendo, più di ogni altro diritto, il valore del bene tutelato e la disapprovazione sociale dell’aggressione, onde il deprecato « simbolismo » della norma, per la sua difficoltà di applicazione, non ne sancisce per ciò solo la « inutilità ». Ma con la coerente conclusione — a parte quella assurda del « più crimini, meno pena » — della esposizione a rischio di abrogazione di sempre più ampi settori della legge penale: la quasi totalità del codice stradale e della legislazione tributaria, dei reati della « cleptocrazia » politico-amministrativa, del finanziamento illecito dei partiti e del voto di scambio, della c.d. « microcriminalità » (che poi tanto « micro » non è), del disturbo delle occupazioni e riposo delle persone, della diffamazione massmediale, dell’omissione di atti d’ufficio e di soccorso, ecc., ecc., ecc.;
C) l’inquinamento delle garanzie: a) poiché tra andamento della criminalità e garantismo esiste un rapporto di proporzione inversa: ad ogni consistente aumento della criminalità e, quindi, di richiesta di difesa sociale, fa riscontro un’immancabile attenuazione delle garanzie; b) perché tra probabilità di vittimazione e paura-insicurezza esiste sempre un rapporto di proporzione diretta, aumentando questa, anche se talora più che proporzionalmente, coll’aumento della prima. Nessun paese può illudersi di potere conservare immutato il proprio sistema di garanzie in uno stato di dilagante criminalità, anomia, disgregazione sociale. La « razionalità » del diritto non sempre si concilia con la « necessità »: con le istanze — mai trascurabili — del naturale « istinto di conservazione » e con la « legge della paura ». La solita confusione tra « effetto » e « causa » è la deprecazione della conseguenza delle pur deprecabili regressioni garantiste emergenziali, senza procedere ad un impietoso esame di coscienza collettivo sulle relative cause, costituite dall’aumento della criminalità, e alla loro rimozione attraverso il ripristino di una più civile convivenza. Senza di che nessuna corale lamentazione sull’irrazionalità della politica criminale emotiva può scongiurare i fatali ritorni all’inquinamento delle garanzie. Così contro la progressiva perdita di legalità-tassativa-certezza giuridica della produzione legislativa e giurisprudenziale non può difenderci la ormai corale lamentazione, dottrinale e forense, assieme alle proposte di dubbie soluzioni (del nebuloso diritto penale minimo, dell’impraticabile divieto, costituzionalizzato, dell’interpretazione estensiva, della mediazione, ecc.), che rischiano di restare soltanto verba, senza risalire alle e rimuovere le cause di fondo, costituite, oltre che dal suddetto binomio dell’aumento della criminalità-diminuzione delle garanzie, ancor più dal più generale fenomeno anomico dell’« assenza di regole ». Che non
— 1239 — poteva non contaminare anche tale produzione, essendo pretesa assurda, incoerente, disfunzionale, che legislatori e magistrati — essi pure « indigeni » di un paese, ove privati e pubblici poteri, individui e gruppi sociali sono sempre più legislatori di se stessi e inosservanti delle comuni regole del convivere — siano rispettosi delle regole garantiste, legislative e giudiziarie. Come pure contro i rischi di regressivi ritorni alla pena di morte ciò che può realmente difenderci non è la lamentata e indubbia inciviltà di essa, ma la capacità dei popoli di conservare quel livello di « ordine sociale », senza il quale gli abolizionismi rischiano di soccombere innanzi ai « diritti della paura ». Quanto al nostro paese, col ritorno attuale della crescita della criminalità il problema sarà, in un futuro non remoto, non l’eliminazione dell’ergastolo (21), ma reggere alla pressante richiesta collettiva della pena di morte. Poiché il vero « male », prima che in siffatta pena, sta nel disordine sociale che ad essa porta;
D) la regressione fatale ai degenerativi fenomeni: a) dell’omessa denuncia e querela (specie per la microcriminalità): non per più elevate ragioni, ma per convinta inutilità e sfiducia nella capacità di persecuzione, quando non anche per paura di ritorsioni o per rifiuto di ricezione, da parte della pubblica autorità; b) della autodifesa privata (con la moltiplicazione delle polizie private, guardie del corpo, e antidroga, cittadini armati, abitazioni blindate, sistemi di allarme sonori, velocipedi e motocicli in ceppi, ronde armate, pagamento del riscatto, ecc.); c) dell’autogiustizia privata e dei delitti di reazione (vendette, faide, tentativi di linciaggio dei colti in flagranza, ecc.). In una prospettiva western. Con la creazione di nuove situazioni di disuguaglianza, in quanto la « privatizzazione » dell’onere della protezione tende a trasformare questa in uno strumento di tutela privilegiata per chi può sostenerne il costo o trasferirlo su altri soggetti. E con la riproduzione, in chiave moderna, della primitiva distinzione tra crimen (la lesione, cioè, a interessi dell’intera collettività, su cui si focalizza la protezione penale: terrorismo, mafia, ecc.) e delictum (considerato cosa privata e sottoposto alle iniziative dell’offeso);
E) l’importazione di criminalità, poiché questo nostro paese, che in tempi non lontani fu primario esportatore di criminalità, specie mafiosa, soprattutto nel Nuovo Mondo, è divenuto oggi un paese importatore — (21) Di fronte al moltiplicarsi di reati gravissimi, efferati, futilmente motivati, ludici, e alla crescente richiesta di difesa sociale, il « principio di realtà » sembra consigliare, tra i repressivismi ancestrali e gli illuminismi astratti e le opposte pretese di reintrodurre la pena di morte e di eliminare l’ergastolo, la soluzione di soprassedere all’abolizione dell’ergastolo in attesa di tempi più tranquilli. Sia per non indebolire, inopportunamente, l’apparato intimidatorio, come hanno realisticamente concluso altri paesi europei (es.: Germania, Francia). Sia perché il nostro ergastolo non è più, e da tempo, pena perpetua, potendo l’ergastolano beneficiare oltre che della grazia, della liberazione condizionale, sconti di pena, semilibertà, permessi-premio, liberazione anticipata; e, quindi, essere rimesso in libertà dopo una quindicina d’anni. Sia perché abolire, ora, l’ergastolo può significare « lavorare » a favore della pena di morte.
— 1240 — assieme a giocatori di calcio e prostitute — di criminalità, convenendo qui da ogni dove e attratti dalle nostre condizioni di favore tutti i delinquenti intenzionati a costruirsi un avvenire nella nuova patria. Ciò, essendo noto, anche all’estero, che nell’ambito europeo al nostro più elevato tasso di criminalità fa riscontro il nostro compensativo minor tasso di repressione;
F) un profondo disprezzo dell’uomo: non solo verso le potenziali vittime, sempre più indifese, del crimine, ma anche — cosa del tutto ignorata — rispetto ai potenziali autori, la carenza di generalprevenzione, culturale e penale, non impedendo alle prime di subire e ai secondi di cadere e ricadere nel delitto: con tutte le negative conseguenze, materiali e morali, delle condizioni del « sofferente » e del « colpevole ». Disprezzo, che non muta la propria essenza, perché manipolato sotto le mendaci e sdemonizzanti parole di « libertà », di « umanitarismo », di « progresso civile ».
Insieme di corollari, i suddetti, che si compendia nelle profonde « inquietudini » del crescente degrado della qualità della vita, che è andata in questi decenni sempre più deteriorandosi. Con una strisciante progressività immediatamente non percepibile, ma cumulantesi in un’entità sempre più inquietante. Per cui questo paese — da lamentarsi la mancanza di apparecchi « degradometri » di rilevazione — è sempre meno riposante, bonario, simpatico, edonistico, gioioso, secondo lo stereotipo tradizionale degli italiani « buona gente ». E sempre più impaurito, insicuro, depresso, cupo, ingrugnito: folle e tragico. Ove alzarsi al mattino o ritornare dall’estero dà a molti un senso di crescente malessere. Paese con parecchi titoli per essere più serenamente vivibile. Ma che, invece, sembra sprofondare in una « stupidità » cupa, totale e generalizzata: senza limiti e senza fondo. Che, conscio di avere appena la metà di quel che demerita, attende impaziente il resto. Anche nello sfascio, disordine, criminalità. E invivibilità. E sapere che ogni paese ha il futuro che sa costruirsi, non è di completo conforto.
10. Nell’attuale livello di civiltà umana i più vitali settori di aggressività necrofila, anziché paventati e criminalizzati, sono istituzionalizzati, regolamentati, nonché solennemente consacrati nelle Carte costituzionali, enfatizzati e financo garantiti quali diritti intangibili. Come, tanto per dire, la libertà di iniziativa economica e gli idoli del mercato, della bellicosità mascherata da concorrenza e della dilatazione indefinita delle multinazionali onnipotenti, della produttività fine a se stessa, del massimo benessere materiale illimitato quale traguardo esclusivo del vivere, del denaro che è simbolo di un simbolo e, pertanto, non commestibile. I quali tanti meriti stanno acquisendo nella distruzione del pianeta.
All’aggressività non istituzionalizzata sono relegati i periferici settori
— 1241 — delle miserie, che i codici penali chiamano criminalità. Povera cosa, perché il diritto e le giustizie penali, costretti a vivere nella logica delle strutture sociali di sempre, si limitano a sanzionare le « micro » o, al più, le « medioingiustizie », i frammenti e i segmenti dell’ingiusto, i crimini piccoli e medi, mentre le « macroingiustizie », i grandi misfatti, ad essi sfuggono. Non solo perché i loro autori in genere la fanno franca: quando non anche esaltati e ricordati come i grandi personaggi storici (22). Ma perché i grandi crimini (in senso non legale, ma ontologico-criminologico) contro l’umanità — e prima ancora crimini di lesa intelligenza — anche quando non sono legalizzati, sono comunque commessi collettivamente dalla specie umana contro se stessa. E, come tali, non perseguibili dalla medesima, se non con l’impraticabile autocondanna e l’autoincarcerazione (23). E sotto l’alibi, poi, della « sovranità nazionale », della non interferenza nei fatti interni, del trattarsi soltanto di una guerra civile, di stragi in famiglia, di... « fatti loro », ogni popolo distrugge come può. Chi sparge milioni di (22) I « Magni » di turno, compresi i più robusti « macellai » della storia. La grandezza dei quali è sempre edificata sul sangue e sofferenza altrui. E su sconfinati cimiteri. (23) I codici incriminano il danneggiamento della cosa mobile altrui, ma non dell’intero Pianeta; l’inquinamento individuale del rigagnolo dietro casa, ma non la pollution collettiva di terra, cielo e mare, esaltata in termini di aumento di produttività; né certa ostinata persistenza negli esperimenti nucleari, con danni ecologici imprevedibili per millenni, in nome di una bolsa grandeur. L’infanticidio, ma non l’avvelenamento dell’habitat dei nostri figli e dei figli dei figli. La produzione e commercio di sostanze nocive, ma non l’allarmante moltiplicazione delle centrali nucleari, per l’asserita necessità di fronteggiare l’esaurimento delle fonti energetiche da saccheggio insensato. Puniscono il possesso senza licenza del vecchio archibugio, ma non gli arsenali militari, vantati come segno di potenza e, addirittura, come strumenti di pace. L’esplosione del petardo, ma non i duemila sconquassi atomici del pianeta in pochi decenni. Perseguono l’omissione di soccorso dell’infortunato stradale, ma non di quello di milioni di bambini ed adulti, che muoiono di fame e salvabili coi rifiuti delle nostre laute mense e con gli sprechi dei tirannici cambi di moda settimanali (comprese le distruzioni delle derrate alimentari in eccesso e le limitazioni della produzione agricola in ossequio dell’idolo della legge di mercato). Colpiscono l’appropriazione del denaro pubblico da parte del parastatale, mentre lo spreco sistematico del denaro di tutti nei mille rivoli delle leggi e leggine clientelari, delle cattedrali nel deserto ed alte velocità, costituisce l’incontrollabile esercizio della sovranità parlamentare e della discrezionalità amministrativa (soggetto, al più, alla risibile storiella della « (ir)responsabilità politica », sotto i severi occhi della quale ha prosperato da decenni il governo del malaffare e degli scialacquatori). Reprimono lo scippatore della borsetta, mentre gli scippatori del futuro dei nostri giovani col baccanale del debito pubblico e delle baby-pensioni presiedono governi e siedono in parlamento. Sanzionano l’istigazione a delinquere e la corruzione di minorenni, mentre il televideo è un sistema criminogeno, sorretto dal nostro canone di abbonamento, di violenza sadica e della più fantasiosa pornografia. Così come perseguono il singolo omicidio o, al più, la strage, ma molto meno i genocidi e, per nulla, le mattanze belliche. Essendosi umanità e potenti del mondo sempre guardatisi dal creare il boomerang di un diritto penale internazionale che sancisca la responsabilità degli individui per i crimini contro il diritto delle genti: dei vinti e dei vincitori. E la stessa « effettività » dei tribunali penali internazionali, di recente istituzione, è subordinata alla non probabile adesione e fattiva collaborazione, senza smagliature, di tutti gli Stati, perché i vari criminali di turno siano realmente puniti.
— 1242 — mine. E chi genocida e pianifica pulizie e stupri etnici. Chi radioattiva, continuando nelle esplosioni nucleari e nei « vuoti a perdere radioattivi » (discariche di scorie nucleari a cielo aperto, testate obsolete abbandonate nei depositi, cimiteri marini di sommergibili atomici fuori moda, scorie radioattive liquide scaricate nei fiumi, centrali nucleari con guasti periodici, ecc.). A) La primaria aggressività, istituzionalizzata e comunque impunita, è, notoriamente, la guerra. Su cui non meriterebbe, perciò, attardarsi, se non per sottolineare: a) che essa è cosa « comicamente seria »: tutta regolamentata da tanto di rituali dichiarazioni di apertura e di chiusura, di convenzioni che ne regolano lo svolgimento (più illecita, perciò, in certe sue proscritte modalità che in sé, trovando sempre l’uomo una valida « pulsione aggressiva e predatoria » per farla: ieri più primitivamente scoperta, oggi più ideologicamente sublimata) (24); b) che la distruttività bellica — basti la contabilità mortuaria — grazie al progresso scientifico, al crescente numero dei belligeranti e alle sempre più estese aree geografiche coinvolte, si è accresciuta in termini ultraesponenziali (sostituendo altresì all’intensità emotiva del combattimento vis-à-vis l’elettronico massacro a distanza e senza emozioni); c) che l’aggressività bellica, grazie al progresso civile, si è tramutata dall’obsoleta « guerra regolata » (che aveva pur sempre cercato di trasformare in « guerra rituale » l’aggressività umana incontrollata) in « guerra totale »: con la rassicurante prospettiva della catastrofe nucleare; d) che la cultura della guerra è giunta a tale parossismo che anche coloro che si preparano ad essa, pur non stancandosi di fare notare che non vi saranno né vinti né vincitori, spinti da impulsi incontrollabili ne accettano l’eventualità, con la primaria preoccupazione di infliggere il primo e più micidiale colpo atomico all’avversario. Guerre accompagnate o intervallate dagli immancabili genocidi, che, modeste stragi nei tempi andati, nei tempi moderni sono diventati « olocausti » di milioni di esseri umani. Ancor più barbari perché programmati con perversa razionalità ed attuati con sofisticata precisione tecnologica. E con la variante delle guerre (24) Condannato da tutto il mondo fu l’attacco giapponese a Pearl Harbor perché « proditorio »: cioè perché non preannunciato. La tragica comicità della guerra sta nelle inumane fatiche e in tutto il trambusto: dell’armamento e poi del disarmo, degli accordi sulle regole belliche poi violate, dei segreti militari rivelati dagli apparati di spionaggio creati allo scopo (per cui tutti sanno tutto di tutti: soltanto con maggior dispendio di energie), del minamento e sminamento, della ricostruzione del distrutto, degli onerosi programmi di aiuti da parte dei vincitori ai paesi sconfitti per rimediare ai danni ad essi arrecati, di allearsi con gli ex nemici in vista di altre guerre agli ex amici. Della diplomazia, permanentemente mobilitata per prevenire guerre tra soggetti che tengono una gran voglia di combatterla, per porre fine a guerre tra contendenti che non hanno alcuna voglia di cessarle e per conservare la pace tra ex belligeranti che conservano una gran voglia di riprendere le ostilità. E della risolvibilità con la guerra di nessun problema non risolvibile diversamente, essendo la guerra la continuazione della stupidità politica con mezzi ancor più stupidi.
— 1243 — e guerriglie locali di « tutti contro tutti »: anomiche, senza regole che si accendono e si spengono per riaccendersi e rispegnersi senza preavvisi e ritualità. Senza contrapposizioni di fronte e distinzioni tra nemici e belligeranti.
B) Agli attuali vuoti delle « guerre mondiali » il provvido progresso ha subito supplito con la parimenti istituzionalizzata « guerra stradale mondiale », regolata anch’essa da tanto di codici e quotidianamente combattuta, forsennatamente e cruentemente, sulle strade del mondo. Con centinaia di migliaia di morti annui, milioni di feriti, decine di milioni di incidenti, un costo di migliaia di miliardi di lire, sottratti a finalità di sviluppo civile. E tanto insensato dolore evitabile. E con la nostra incolumità sempre più affidata agli irresponsabili stradali.
Il tutto passivamente accettato come « inevitabilità », normalità (25), in ossequio all’idolo del progresso tecnologico e della « velocità » di un’umanità che ha sempre più fretta di arrivare: anche se non sa dove. E frutto, nel nostro paese, anche: 1) di una politica dei trasporti — complice la sudditanza della politica all’« industria automobilistica » (l’unico governo stabile, non eletto dal popolo) — incentrata sul frenetico traffico su gomma e non sul più pacato e incruento traffico fluviale e su rotaia. Che ha trasformato la penisola in asfalto e in immenso autoparcheggio e autodiscarica, il nostro azzurro cielo in una miscela di anidride e ozono e le nostre invidiate città in camere a gas ed in invivibili inferni di traffico. E alla quale restano aperti i fecondi pascoli della popolazione minorile, da sfruttare, con l’incombente anticipazione dell’età della patente di guida e dell’uso del ciclomotore (essendo il nostro anche il paese più ciclomotorizzato del mondo). A salvaguardia della vita e incolumità dei nostri ragazzi;
2) delle contraddizioni e ambivalenze dei messaggi legislativi, lamentandosi anche qui gli effetti disastrosi dell’autocircolazione e potenziandone le cause disastrogene: in antitesi con gli allarmanti « telebollettini di guerra » sulle quotidiane stragi stradali. Non, di certo, del tutto conformi ai canoni della coerenza sono, ad un tempo, le limitazioni, sanzionate, di velocità e la libera produzione ed esaltazione pubblicitaria di auto sempre più veloci (alla cui pericolosità si ovvia con air-bag). I persistenti divieti di sosta, sempre più platonici, e la consentita immatricolazione continua di nuove vetture. I divieti di guida in stato di ebbrezza e in condizioni di stanchezza e sonnolenza e le autorizzazioni nelle autostrade —complici i soliti interessi economici prevalenti — rispettivamente, della vendita anche dei superalcolici e delle aree di servizio, senza un albero o un’ombra, per il ristoro dell’affaticato o (25) Tutto normale che nel giorno del rientro postpasquale dell’anno 1999 vi sia stato, soltanto in Italia, un numero di morti e feriti stradali molto superiore dei morti e feriti di dieci giorni di bombardamenti sulla Serbia, tanto condannati.
— 1244 — assonnato viandante (al deliberato scopo costrittivo dell’uso dell’autogrill per il mordi e fuggi), nonché dell’apertura delle discoteche fino all’alba, anziché anticipata alle più salutari ore serali di un tempo. La deprecata perdita del valore dell’intangibilità della vita a dell’integrità fisica altrui, di cui i reati stradali di omicidio e lesioni personali costituiscono la più numerosa conferma, e la criminogena degradazione delle lesioni non solo gravi, ma anche gravissime (quale la perdita di un arto) a reato perseguibile a querela: cioè, in pratica, a faccenda pressoché privata (da sbrigare tra assicurazioni, su cui si scarica il risarcimento del danno) e a « licenza di ferire e mutilare ». E la autentica trovata del « preavviso pubblicitario » del controllo elettronico della velocità, trattandosi o di intuizione così geniale da restare incomprensibile già all’intelligenza media. O di un atto di immeritata cortesia verso il non meritevole pirata stradale. O, piuttosto, di una criminogena « burla » politico-criminale (come il preavvisare rapinatori e sequestratori dell’appostamento della polizia). Che è servita non certo a compensare la latitanza di polizia, carabinieri e vigili urbani, ma ad accrescere la già tanto diffusa « non credibilità » nell’azione generalpreventiva di uno Stato che « abbaia senza mordere », non essendo a lungo sfuggito al vigile popolo dei conducenti che al preavviso cartellonistico non fa mai seguito l’effettivo controllo elettronico;
3) delle contraddizioni ed ambivalenze culturali, perché, mentre le scienze criminali considerano i reati stradali e i relativi autori sempre più come tipologie di fatti criminosi e di delinquenti, la pubblica opinione, pur percependo tutta la pericolosità, anche gravissima, degli incidenti stradali, non considera l’autore dell’omicidio stradale, per imprudenza anche grave, come autore di un delitto. Tutto ciò per la identificazione della maggioranza di noi (giudici e polizia stradale compresi, che pur dispongono di un ampio campionario di corpi straziati e di lamiere contorte e bruciacchiate), anziché con la vittima (come, invece, per il furto, rapina, omicidio non stradale, ecc.), con l’autore del reato stradale: in quanto noi stessi conducenti di veicoli e autori, all’occorrenza, di infrazioni anche gravi. E, perciò, non disposti ad essere stigmatizzati ed etichettati, a nostra volta, come delinquenti. Sicché, venuta meno la disapprovazione sociale, che ne diminuisce lo status e prestigio, anche il conducente più spericolato e recidivo non solo mai si considera criminale, deviante, antisociale e pericoloso, ma sa di beneficiare di una sostanziale impunità giudiziaria per le lesioni e di una patteggiata pena materna (4 mesi) per l’omicidio, sempre sospesa e con tutti i benefici di legge. Con la solita negletta vittima, per la quale non è del tutto appagante morire di omicidio colposo, anziché doloso, come per altro verso morire di omicidio politico-ideologico anziché comune.
C) Pure istituzionalizzata e sublimata è l’aggressività venatoria, la più gratuitamente necrofila. Perché praticata per mero ludismo (non essendo motivata neppure dal pretesto alimentare) e per puro disprezzo della meraviglia della vita, essendo l’umano cacciatore l’unico animale che uccide per il piacere di uccidere. Perché combattuta, nel modo più sleale e meno cavalleresco, contro vittime inermi e indifese. Perché autolesionista, impoverendo l’ambiente in cui anche essi cacciatori deb-
— 1245 — bono vivere. Perché criminale, arrogandosi una minoranza di irresponsabili, in combutta coi diserbanti e insetticidi, il diritto di distruggere — con la provocata estinzione, irrimediabile, di un numero sempre maggiore di specie animali — un patrimonio faunistico che è di tutti: di loro e di noi, della generazione presente e delle generazioni future. Dell’intera umanità e, prima ancora, dell’armonia della natura e dell’equilibrio ecologico.
E nient’altro che un aspetto della più generale crudeltà umana verso gli animali. Crudeltà ampliata a dismisura dal progresso tecnologico e dall’ideologia consumistico-edonista; programmata su scala industriale e che marchia la loro « non vita », finalizzata alla morte: dal modo della loro venuta ad esistenza, all’allevamento, trasporto, mattazione e vivisezione. Al massacro in massa non per la primaria esigenza del cibo e del vestiario, ma per soddisfare le vanità estetico-voluttuarie delle fugaci mode giornaliere.
Anche la riduzione della crudeltà umana verso gli animali, attenuando la crudeltà complessiva del mondo, renderebbe, se non più uomo l’animale, almeno meno animale l’uomo. E migliore la Terra. 11. Ma la terrificante forma di aggressività istituzionalizzata è quella contro l’abitabilità del pianeta (26). Col pericolo, non più teorico, del suicidio dell’umanità, poiché l’intera specie umana sta ritorcendo la propria megalomania ed aggressività necrofila contro se stessa, con lo specifico proposito di autodistruggersi. Frutto di un’insania superba, di un autoinganno quasi esistenziale, di potere l’uomo sfruttare l’ambiente illimitatamente e di disporne a suo piacimento, prigioniero del demone della « crescita materiale illimitata ». Di essere cioè — in ciò drogato dai successi della « piccola scienza » — il dominus e non elemento della Natura. Di potere coltivare un così accanito quanto inspiegabile odio verso di essa, da cui proveniamo, cui apparteniamo e alla quale torneremo (almeno nel corpo). Coi Cavalieri dell’Apocalisse che avanzano: l’ozono bucato con la distruzione delle difese immunitarie umane; l’effetto serra con lo scioglimento dei ghiacciai, sommersione di ampie aree del pianeta, impazzimento di stagioni e clima, scomparsa delle foreste e desertificazione con migrazione e fuga di intere popolazioni; le piogge acide, l’inquinamento radioattivo, il saccheggio delle risorse, l’im(26) È tragicamente comico constatare come l’uomo, tutto preoccupato di garantire l’« abitabilità » della casa individuale, subordinandola a rigorosi requisiti, autorizzazioni e controlli amministrativi, non si mostri granché interessato all’« abitabilità della casa comune »: il pianeta Terra. Come le possibilità di inquinare dipendano dalle disponibilità economiche dell’inquinatore, secondo il nuovo credo: chi inquina paga (e i cocci sono nostri, dimenticandosi che riparabili sono, al più, i microinquinamenti, mai i macroinquinamenti (delle radiazioni di Cernobyl e del cianuro del Danubio). Come le « piccole scienze » prolunghino la vita individuale e accorcino la vita del pianeta. E come gli stati industrializzati, USA in testa, assillati dalla ricerca della pillola contro tutto (obesità e calli), persistano imperterriti nel surriscaldamento planetario.
— 1246 — poverimento della vita animale e vegetale. I più grandi crimini contro un pianeta, il nostro, che è forse l’unico giardino abitato dell’intero Universo e la cui fioritura ha richiesto la pazienza di miliardi di anni.
L’inquinamento planetario costituisce, invece, il primo problema della nostra era, essendo l’« ambiente abitabile » il bene-presupposto del riconoscimento ed esercizio di tutti i rivendicati diritti umani, a cominciare dal diritto alla vita e alla salute. Sicché l’intera nostra sorte appare affidata — prescindendo da sempre possibili « interventi provvidenziali », poiché essi sfuggono alle umane previsioni — a due ipotetiche soluzioni: 1) il metter giudizio. Ossia rovesciare l’imperversante cultura della morte nell’etica della vita: con la riscoperta del rapporto con la nostra vita interiore e con la vita degli altri, con la vita delle presenti e delle future generazioni e con l’ambiente naturale essendo questo e la stessa vita umana compenetrati. Problema, anche quello ecologico, anzitutto di « conversione delle coscienze », perché illusorio è l’approccio tecnicoscientifico e politico-sociale: di una « piccola scienza » e di una « piccola politica », che credono di rimediare al disastro da esse creato, cambiando i modelli tecnico-scientifici e i rapporti politico-sociali, non più di dominio sull’uomo e, quindi, sulla natura. Ma sapienziale soluzione, la suddetta, che è la meno probabile, in quanto tutti i campanelli di allarme restano inascoltati. E ciò sia per le obnubilanti ossessioni del « massimo piacere proprio attuale » e del « progresso inarrestabile » (trovata ideologica postrinascimentale, avendo i nostri predecessori immaginato, da sempre, il futuro pressoché « eguale » al presente), le quali portano le presenti generazioni, rispettivamente, a non preoccuparsi del domani altrui e a non interrogarsi su quale progresso non va fermato (quel po’ che migliora la qualità della vita o quel tanto che la nevrotizza e la ingrugnisce o, peggio ancora, quello con cui l’uomo distrugge, assieme all’ecosistema, se stesso?). Sia per la identificazione, tragica per le umane sorti, dello « sviluppo » col « progresso » e per avere legato il progresso e il lavoro alla progressiva devastazione del pianeta. Sia per l’umana opzione, in mancanza della certezza assoluta dell’« an », del « quando » e del « quomodo » del disastro, per la filosofia dello struzzo: non per la prudente astensione da ciò che è rovinoso, ma per la sconsiderata continuazione. Anziché « in dubio pro vita », « in dubio pro morte ». Invero, mentre la Terra langue, tutti orecchi da mercante. I paesi ricchi per non compromettere (per ora) il loro benessere e i paesi poveri per ridurre la loro miseria, sicché, anziché distribuire le sufficienti ricchezze, si distribuisce il saccheggio del pianeta. I vari popoli, perché si consumano nella larvalità delle loro diversità e dei loro problemuncoli locali (es.: bicamerale, semimaggioritario, semipresidenzialismo). E questi poveri governi, schiavi dell’economia, mentre da un lato organizzano simbolici congressi mondiali sulla malandata salute del pianeta, dall’altro sbandierano, di fronte al mondo e agli elettori in sollucchero, l’aumento del PIL, che brucia annualmente il triplo delle risorse ricreabili;
— 1247 — 2) la paura insorgente, in forza della quale, essendo l’uomo capace di fare per paura ciò che è incapace di fare per amore (27), non è da escludere un recupero di senno. In quanto la « pedagogia della catastrofe » potrebbe favorire la presa di coscienza della finitezza delle risorse; che per la tirannide del mito dello sviluppo non si può distruggere la Natura; che i fattori di produzione non sono solo il capitale e il lavoro, ma anche la Terra. E che la vera sfida è la de-economicizzazione degli spiriti e la de-tecnicizzazione delle menti, essendo i totalitarismi dell’economia e della tecnologia le due principali forze che guidano la moderna inciviltà e l’homo economicus e l’homo technocratus la specie animale più devastante, spiritualmente e materialmente. Ma quando tutto questo? Quando, a disastro planetario consumato ed in quale non immaginabile scenario, la specie umana si sarà sfoltita di qualche miliardo di esemplari? In questa corsa, per tutte le vie umanamente percorribili, in direzione del suicidio collettivo il grande esito è: davanti il baratro, indietro non si torna. Perché un’inversione di marcia creerebbe tali crisi e sconvolgimenti, tensioni e destabilizzazioni, economiche, sociali, politiche, inaccettabili da un’umanità, prigioniera dei meccanismi da essa stessa messi in moto. E la questione è di sapere se sia stato raggiunto o meno il « punto di non ritorno »: se la specie umana non si sia già condannata all’autodistruzione per la conquistata incontrollabilità e irreversibilità dell’insieme dei meccanismi autodistruttivi posti pazientemente in essere. Grazie alla capacità scientifica degli umani di prevedere e controllare i microeffetti delle microcause. Ma non i macroeffetti delle macrocause, che sono la risultante dei microeffetti delle microcause da essa quotidianamente posti in essere, avendo essi, da buoni apprendisti stregoni, messo in moto un processo di distruzione planetaria, sfuggito all’umano controllo e non esistendo del futuro alcuna scienza, ma solo la futurologia, l’utopia, la profezia, l’escatologia. Un provocato disastro ecologico, che già irreversibilmente si autoalimenta (28)?
In tutto questo vi è qualcosa di così contraddittoriamente folle che per comprenderlo dobbiamo fuoriuscire dalla dimensione propriamente umana dell’intelligenza e della volontà per pensarci quali « organismi bio(27) Es.: ampie riforme sociali nei paesi capitalistici, più per paura del comunismo che per amore dell’uomo. Il disinquinamento del mare costiero più per la paventata fuga dei turisti transalpini che per amore delle acque terse. Le proclamazioni permissivistiche di certe licenze più per ostilità alla religione cristiana che per amore di libertà. (28) Parlasi, ad es., quale effetto dello scioglimento delle superfici ghiacciate, della reazione a catena: a) della riduzione della superficie speculare planetaria, con conseguente aumento dell’assorbimento terrestre del calore solare, del surriscaldamento atmosferico, dello scioglimento dei ghiacciai, e con ulteriore riduzione della superficie speculare. E così via; b) dell’aumento delle superfici paludose, con emissione di gas, aumento dell’effetto serra e del surriscaldamento terrestre, ulteriore riduzione delle superfici ghiacciate, ulteriore emissione di gas, ecc. ecc.
— 1248 — logici », agenti ciecamente — come i lemming — sotto un impulso autodistruttivo, coinvolti anche noi in uno dei tanti « drammi biologici » (29). 12. Quanto sopra detto circa il potenziamento delle cause criminogene e le carenze politico-criminali del nostro paese non è che il nostro apporto nazionale, per certi aspetti anche originale, alla più verosimile incapacità delle moderne società di arginare — quali più e quali meno — la criminalità: codificata, non codificata e, ancor più, se istituzionalizzata. Essendo esse troppo criminogene, criminali e corrotte, già al livello delle pubbliche istituzioni. E richiedendosi da esse una improbabile riconversione delle coscienze a « valori », che sono agli antipodi dei « disvalori » criminogeni, mitizzati dalla cultura egemone. Inconcepibili società senza crimine, ma invivibile una società dominata dal crimine. Frantumatisi gli ottimismi della invincibilità del crimine col diffondersi dell’illuminismo, dell’istruzione, del benessere, e sepolta sotto i calcinacci del Muro di Berlino la utopica estinzione della criminalità nella profetica società comunista, va preso atto del progressivo accentuarsi di un quintuplice fenomeno: 1) l’aumento quantitativo della criminalità, codificata o non codificata, specie nei paesi c.d. « progrediti », come confermano i dati statistici. Pur se, questi, sempre meno attendibili. Sia per la dilatantesi « cifra oscura » di tutto il sommerso della criminalità non accertata (es.: corruzioni, estorsioni, usure) o neppure denunciata (es.: microcriminalità). Sia, almeno da noi, per l’affiancantesi « cifra falsa » dei dati forniti ai fini statistici da sedi giudiziarie. Con una criminalità anche sempre più tardiva e sempre più precoce (dalla babydelinquenza alla babygans). E con la criminalità femminile (a cominciare da quella stradale) che, in nome delle pari opportunità, cerca di eguagliare, con non inverosimile probabilità di successo, la criminalità maschile;
2) il peggioramento qualitativo della criminalità, ossia l’incrudelimento e l’inselvatichimento della stessa, sempre più gratuitamente, immotivatamente, sproporzionatamente violenta, sadica, sanguinaria, spregiudicata, irridente. Le cronache quotidiane ci sommergono con le peggiori e più impensate crudeltà: ogni giorno ha le sue efferatezze. Tutto sembra ormai possibile e indifferente. Ammazzare per l’ammazzare, senza motivo e senza rimorso;
3) l’omogeneizzazione della criminalità, che appare seguire gli stessi percorsi nelle diverse parti del mondo e presentare tipologie di delitti e di delinquenti sostanzialmente uniformi. (29) La storia terrestre è il succedersi di almeno cinque « crisi ecologiche »: con estinzione di determinate specie e sviluppo di altre. La sesta estinzione è in atto, dovuta all’uomo e in tempi non più cosmici (di miliardi o milioni di anni) ma storici: con l’estinzione dei mammiferi e del bipede umano? E l’affermarsi di che? Sembra degli insetti: i futuri padroni del mondo?
— 1249 — Dalla criminalità violenta, che rende sempre più insicura la vita urbana, specie notturna, alla delinquenza e droga giovanili. Dalla criminalità mafiosa ed organizzata alla criminalità dei colletti bianchi e alla corruzione amministrativa e politica. Dalla macrocriminalità alla microcriminalità. E i grandi ed esaltati centri metropolitani: alveari in cui ronzano le cento e più razze di avventurieri, criminali, padrini, strozzini, lenoni, politicanti, emarginati e sbandati, drogatori e drogati, aggiotaggiatori di borsa, truccatori di aste, affiliati a logge segrete;
4) la transnazionalizzazione della criminalità organizzata, criminalizzata o istituzionalizzata, attraverso la moltiplicazione e la smisurata crescita sia delle multinazionali del crimine, sia della multinazionali della produzione e della finanza. Queste ultime, monopolizzando sempre più il reale potere, non solo rendono democrazia e politica caricaturali parvenze, relegandone le scelte alla marginalità, ma sono le primarie responsabili della criminogena devastazione etico-culturale e della devastazione ambientale planetaria;
5) l’incremento della criminalità violenta e della criminalità fraudolenta, poiché in corrispondenza del c.d. « processo di civilizzazione » non solo non vi è stato alcun segno dell’atteso declino del crimine, ma non si è neppure verificato l’auspicabile passaggio dalla « criminalità violenta » alla « criminalità fraudolenta ». Con conseguente smentita dell’ottimistica legge evolutiva della criminalità: « più frode, meno violenza ». Evoluzione, che costituirebbe una fondamentale conquista di civiltà, in quanto la violenza « allarma », mentre la frode soprattutto « indigna » (a cominciare dalla pubblica corruzione), ledendo, la prima, i beni primari (vita, incolumità, salute) della persona umana, e, la seconda, beni strumentali (patrimonio, economia, fisco, ecc.) e spesso impersonali. Ma che non è garantita da alcuna legge di natura o di probabilità, bastando un qualche fattore scatenante perché riaffiori tutta la violenza potenziale che cova sotto la superficie (dalla ferinità bellica ai genocidi, dalle persecuzioni totalitarie al terrorismo e pulizie etniche). E sommando le nostre società violenza e frode, perché la violenza, specie psichica e morale, permea capillarmente l’intera vita sociale con tutti i suoi messaggi culturali violenti, e perché l’« inganno » e l’« induzione » per suggestione, seduzione, persuasione occulta sono una delle loro connotazioni e le forme più estese e subdole di aggressione alla libertà individuale. Ad infrangere detta legge basterebbe, del resto, l’ambidestra criminalità mafiosa, che indifferente non disdegna né il mezzo violento, né il mezzo fraudolento (corruzione politica, amministrativa, elettorale). A seconda delle necessità pratiche dell’unitario fine del potere mafioso e dell’arricchimento.
Effetti, tutti questi, che si compendiano nelle profonde « inquietudini »: 1) dell’indifferenza, disaffettiva, emotiva ed etica: ossia, della incapacità di sentire piacere e dolore, soddisfazione e rimorso. Dell’equivalenza del bene e del male, della vita e della morte, propria e altrui, del mo-
— 1250 — rire e dell’uccidere; della fiction e della realtà, avendo il virtuale e il reale abolito il loro confine. Della insignificanza del tutto, perché il tutto si giuoca sul teatro della casualità, ove una cosa vale l’altra, poiché nessun ideale riesce a mordere, nessun progetto ad agganciare, nessun sogno ad incantare la propria insignificante vita. Il più disperante nichilismo, questo, di identità e di alterità (io non sono nulla, tu non sei nulla, la vita è nulla) di questi nostri tempi e, particolarmente, delle più giovani generazioni, nutrite di vuoto esistenziale e delle quali l’evento biologico della vita, priva di un « progetto del vivere », diventa una giocata di dadi. E se vi è il morto, così è il giuoco. Appartengono alla comune famiglia di gesti indifferenti e casuali il drogarsi senza voglia, e quindi senza metodo o cura, lo stordirsi notturno in discoteca, lo schiantarsi contro un albero di una strada qualunque. Così come i giuochi no limits, etero e autodistruttivi, l’ammazzare in modo anonimo, centrando un’auto nella fiction di un video o su un percorso stradale, lungo i viali cittadini o da un cavalcavia, poiché non fa più differenza, avendo la cultura televisiva e dei videogiuochi fatta propria la realtà. Con l’unica motivazione del brivido, per un attimo, della vita e della morte, propria e altrui. E di quel residuo impatto emotivo del punteggio, assegnato al gruppo, per impresa riuscita: l’unico ambito di riconoscimento reciproco attraverso gli atti simbolici dell’insensatezza (30); (30) Mostri di indifferenza sono queste bande giovanili dei giuochi di ruolo, la cui azione distruttiva si situa nel « comportamento del gruppo » e si attua nella logica del « gioco » per primeggiare in abilità. E la cui educazione si radica nell’intruglio venefico di messaggi di morte (di letteratura americana sui giochi necrofili, da manuali di magia sessuale e di esoterismo). E, soprattutto, nell’universo dei videogame, in cui tutti — dei nessuno fuori della sala — diventano eroi. L’eroe che uccide col murdergame. Che guida con velocità e attraverso difficoltà sorprendenti nel rallygame. Che primeggia nella boxe, calcio e in qualunque altra specialità nello sportgame. Che si accoppia con tutte le fantasie perverse e sadiche nel sexygame. Con una ripetizione, imposta dalla ossessiva videogamedipendenza, di un medesimo comportamento migliaia di volte e con la mente che diventa video. Una popolazione di giovani, che vivono più tempo nella « virtualità » che nella « concretezza »: con sempre maggiore difficoltà di distinguere i due mondi. E nei cervelli dei quali — dice la psichiatria — si instaurano, mediante la ripetizione (uccisione anche di 200 omini in 5 minuti), meccanismi automatici o semiautomatici (più violenti nei cerebri più fragili in razionalità e capacità critica, ma da cui nessuno è immune) per uccidere, che facilmente si ripetono in qualunque circostanza. Anche nel passaggio dal videogioco alla realtà (al cavalcavia autostradale), ove si può ripetere esattamente quanto accade in una sala giochi: il bisogno di mettere un gettone per provare la propria abilità. Una popolazione di giovani, che riflettono un’immagine di noi adulti spaventosa perché sono anch’essi « figli nostri ». Di noi adulti, che pattugliamo i cavalcavia, anziché i cervelli. Che alziamo le reti di protezione e abbassiamo la guardia etica. Licenze per il porto d’armi, rigorose prescrizioni mediche per l’acquisto di veleni, severe incriminazioni per il possesso di sostanze esplosive, tossiche, stupefacenti. Ma in nome della libertà, libera circolazione della letteratura necrofila sui giochi di ruolo e libere sale per videogiochi: non meno esplosive, intossicanti, venefiche. Ma di una libertà che sta facendo dei nostri figli dei mostri, che ce ne facciamo? È vero — come sono pronti ad affermare certi spensierati sociologi — che i frequentatori della sale da gioco riempiono il vuoto, creato dalla solita società. Ma anche i videogame sono società. Come società sono questi gio-
— 1251 — 2) della conversione dell’anormalità in normalità, che è l’effetto più perverso e devastante della progressione e razionalizzazione della « stupidità umana » (quale progressivo ottundimento dell’intelligenza): sempre più « globale ». Che porta la nostra specie — inavvertitamente, per assuefazione e per gradi — a percepire la sempre maggiore insania, che la subissa, come « normalità »: come il suo habitat naturale; ad assorbirne, mitridatizzata, le tossine senza più reazioni ed allergie, avendo subito, decennio dopo decennio, la rarefazione degli anticorpi. Un’umanità disaffettiva, incapace di « meraviglia » e di « indignazione », di « stupore » e di « reazione morale ». Che ha perso il gusto dell’intelligenza e sembra andare, senza più bussola e timone, alla deriva.
Più che ciò che sta accadendo ci spaventa il non accorgercene più. Quando l’« anormalità » assurge a normalità, anche i soggetti più anormali tutti normali. E i soggetti « più normali » d’oggi, capaci degli atti « più anormali ». E gli autori dei comportamenti più impensabili, efferati, assurdi, mostruosi, gratuiti, sempre — nella sorpresa generale — « brave persone »: « bravi ragazzi ». Non figli di « alieni », calati da altri mondi, né « umani », affetti da follia. Ma giovani « ordinari », presenti nelle case comuni e incrociati nei pianerottoli del nostro condominio. Psichicamente normali e giuridicamente responsabili. Sono i « nostri figli ». Di una società che sta allevando generazioni di « mostri ». Senza più senso del bene e del male. Senza consapevolezza e senza rimorso. Senza più orrore per il sangue e senza sgomento innanzi al corpo della vittima, come una cosa manipolato, occultato, buttato. Dell’« uccido chi voglio: questo è un paese democratico ». Coll’attuale ritmo di crescita della aggressività giovanile (sintomatica quella ciclomotoristica e automobilistica) queste contrade diventeranno sempre più invivibili. Quei giovani, che ieri amavamo, oggi ci spaventano perché imprevedibili.
Nessuna generazione ha, forse mai, così poco amato come la nostra i propri figli, avendoli depredati del futuro economico, etico, demografico, ecologico. 13. Consequenziale, pertanto, l’interrogativo: se questo stato di anomia, legale, sociale, etica, in cui intelligenza-sapienzialità fanno sempre più orrore, corrisponda ad una crisi acuta, e quindi transitoria, della nostra civiltà, in concomitanza di riaffioranti concezioni torbide del mondo. O, invece, costituisca uno dei sintomi della progressiva e irreversibile « decadenza di questa povera civiltà occidentale ». Unitamente a tutta la serie parallela di sintomi necrofilo-decadenziali, contrassegnante i declini di tutte le grandi civiltà o ancor più necrofili: devastazione planetavani lanciasassi, alla responsabilità dei quali va pur sempre ricondotta la scelta ultima tra il cavalcavia e la partita a dama.
— 1252 — ria, denatalità e invecchiamento demografico, stragi abortive ed eutanasiche, infanti buttati, suicidi, anoressia, depressione, disturbi psichici, droga, ingrugnita tristezza, rarefazione spermatozoica, agalassia, ipersessualizzazione-impotenza, despiritualizzazione, amoralità, disordine, corruzione, individualismo esasperato, volgarità, prostituzione e pedofilia, eclissi della legalità, criminalità organizzata e disorganizzata, virtualità, magia, satanismo, occultismo, nonché arte moderna, fracasso rock e sindrome Internet. Una civiltà, che sta compensando la perdita dell’istinto primario della riproduzione e conservazione della specie con la cultura nichilistica dell’autodistruzione. Invero, gli incombenti pericoli per l’intera umanità hanno messo in crisi non solo il rinascimentale « dogma della storia come progresso continuo », avendo assunto il c.d. « progresso » un valore soprattutto semantico, stante le crescenti incertezze se esso serva per salvarci o per distruggerci. Ma anche la consolidata idea della rinascita dopo avere toccato il fondo. Mera idea di speranza. Perché non esistono leggi di Natura che vietino a civiltà e a società la permanenza a tempo indeterminato in uno stagnante bassopiano paludoso: fino alla decomposizione. Un’ecatombe di civiltà è la storia umana. Unite tutte da una comune sorte: sorgere, fiorire, maturare, decadere, svanire. E il futuro, come la storia insegna, è sempre stato dei barbari. E perché la civiltà occidentale dovrebbe sottrarsi al comune destino? Ed intanto, apertosi tra le tante speranze e vissuto nelle illusioni di ideologie, portatrici di distruzione materiale e morale, il secolo XX sta spegnendosi nell’« americanizzazione » del mondo: la mela bacata che ammorba l’intero paniere.
Con conseguente rovesciamento di certe indiscusse verità: perché ciò che nella fallace prospettiva progressista si autoesalta — così, per esemplificare, l’ideologia materialistico-permissivistica e del relativismo etico — come la punta più avanzata del progresso, nella prospettiva decadenziale si presenta invece come la punta più avanzata della decadenza: l’insania più progredita. Sicché — autentico corollario rivoluzionario — contrapporsi ad essa, predicando ampi « riposi » (scientifico-tecnologici, politici, legislativi, economico-finanziari, riformisti, innovatori), non seguendo le correnti abitudini e restando il meno possibile « contemporanei », è rallentare non il progresso, ma la decadenza. Ad un agitarsi senza meta, frenetico e necrofilo, è di gran lunga meno pernicioso un riposo generale. Il futuro non è più immaginato, come invece per i nostri predecessori, « eguale » al presente e tanto meno « migliore », ma del tutto « incerto ». Nell’incertezza se qualunque cosa egli faccia nei più diversi settori serva per migliorarlo o rovinarlo, l’uomo sembra avere perso il senso del proprio futuro, intossicandosi del contingente in un « vitalismo » ossessivo. Incertezza profonda, che produce malessere, ansia, angoscia, spesso di un’intensità mai conosciuta, essendo negli uomini il senso di sicurezza un bisogno vitale, esistenziale. E nel profondo, tutti più o meno convinti che
— 1253 — l’umanità vada incontro ad un periodo calamitoso o, comunque, del tutto imprevedibile. Il Terzo Millennio: un’« alba » di non si sa quale « giorno ». Pertanto, anche il solo sfiorante dubbio su certi scenari planetari dovrebbe sollecitare una impietosa presa di coscienza della miopia delle scienze, culture e prassi umane: per la loro incapacità, prigioniere della deviante coltivazione dei rispettivi orticelli, di convergere in una inesistente « Scienza globale » dell’insieme dei benefici e dei disastri, materiali e morali, che concorrono, ciascuna, a produrre. Lasciando così, esse, andare pianeta e specie umana alla malora. « Piccole scienze naturalistiche », prigioniere della miopia dei propri telescopi e microscopi. « Piccole scienze umanistiche », prigioniere dei propri occhiali appannati. E « piccole scienze giuridiche », che, concentrate sulla razionalizzazione interna delle angustie e larvalità legislative e sulla dosatura, con la bilancia dell’orafo, delle microingiustizie, cieche e silenti restano sugli universi istituzionalizzati delle macroingiustizie di azione ed omissione, di aggressività necrofila, dei primari crimini della specie umana contro se stessa e contro l’intelligenza. Perché, in una situazione di anomia planetaria, di illusoria credibilità sono le battaglie per i « piccoli codici », nazionali ed europei. Contro la responsabilità oggettiva. Per i termini della carcerazione preventiva. E per l’art. 513 c.p.p. I tempi appaiono imporre, più che mai, a scienze, culture e prassi, un « ritorno alla cultura della vita ». E la scienza giuridica, se vuole essere credibile, deve anch’essa alzare il proprio volo. E un diritto, che tale voglia essere, deve essere né, come in passato, il « diritto dell’oppressione » e « del privilegio », né, come al presente, al più il « diritto individualistico dei diritti e libertà proprii ». Ma un « diritto della vita »: di tutti, del nato e del concepito, del motorizzato e del pedone, delle presenti e delle future generazioni, della specie umana, dell’ambiente faunistico e floristico. E del Pianeta. Altro diritto è soltanto un diritto suicida. Come suicida appare questa nostra civiltà occidentale (31). FERRANDO MANTOVANI Professore ordinario di diritto penale nell’Università di Firenze
(31) Dalle disturbanti ipotesi, sopra espresse, reputiamo più elegante il liberarsi non « demonizzandole » come pessimistiche o catastrofiche (cosa per noi indifferente) o come moralistiche (che sarebbe un elogio), ma dimostrandone l’infondatezza: come ci auguriamo. Anche se diabolica probatio può essere la contraria prova.
CRIMINALITÀ DI IMPRESA: NUOVI MODELLI DI INTERVENTO (*)
1. Vorrei riprendere il filo delle riflessioni, svolte qui a Cernobbio negli ultimi tre anni, per cercare poi, per così dire, di ‘‘chiudere il cerchio’’ ed eventualmente aprirne un altro. Nel workshop di tre anni fa ho analizzato il tema del gruppo di società, come ‘‘contesto di frode’’ (la formula non è mia, ma della penalista francese Delmas Marty). Muovendo da quella che io considero una tappa storica nello sviluppo degli studi di diritto commerciale, e cioè dalla relazione di Guido Rossi al Convegno di Venezia del 1995, ho cercato di ‘‘stanare i gruppi dai fortini del diritto societario’’ e di applicare loro il diritto d’impresa; la conclusione di questa prima indagine è stata che chi è al comando di un gruppo — in prima fila l’amministratore delegato — quando sa che nelle società controllate vengono commessi degli illeciti ha l’obbligo giuridico di intervenire, e se non interviene, risponde a titolo di dolo. Nel workshop di due anni fa ho affrontato il problema della prevenzione degli illeciti societari, e quindi della individuazione degli strumenti per eliminare i rischi penali, incombenti su chi è al comando di un gruppo. Ho così analizzato il tema dei comportamenti aziendali illeciti e ho imboccato con decisione la strada indicata da Coffee: non il bastone, ma la carrot-stick, non lotta di sumo, ma lotta di judo. L’idea di sfruttare la forza e l’intelligenza dell’avversario per usarla contro di lui, che è tipica della lotta di judo, mi è sembrata particolarmente felice: non serve a nulla intervenire a cose fatte, con il carcere; bisogna evitare che i gruppi e le società provochino dei danni gravissimi alla collettività. In questa prospettiva, mi è sembrato che l’esperienza statunitense fosse un esempio da imitare: mi riferisco ai compliance programs, e alla previsione di pene pecuniarie severissime per le società e i gruppi che violano la legge penale. La filosofia del carrot-stick e della lotta di judo sta proprio in questo: per le società che dimostrano di aver realmente adottato i compliance programs, e di averli applicati, le pene pecuniarie vengono ridotte fino all’80%, o addirittura non applicate. Nel workshop dell’anno scorso sono ritornato sull’argomento, analizzando il tema della globalizzazione degli illeciti societari, ed in particolare (*) Relazione tenuta al Convegno di Villa d’Este, a Cernobbio, 1-2 ottobre 1999, sul tema ‘‘Controllo societario, governo dell’impresa, responsabilità civili e penali’’.
— 1255 — la globalizzazione della patologia dell’economia, realizzata attraverso ‘‘l’invasione’’ della criminalità organizzata transnazionale, ed in particolare della mafia russa, della Yakuza giapponese, delle triadi di Hong Kong. Purtroppo, quest’ultima relazione era nient’altro che una fotografia anticipata di ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: il rischio incombente sulla civiltà occidentale [— rischio...!] legato anche allo sviluppo dell’informatica — è che le grandi mafie (grandi perché, nei loro confronti, come ha dichiarato un generale del Ministero degli Interni russo, la mafia italiana è un giardino d’infanzia) si impadroniscano dei mercati finanziari occidentali. La massa di denaro nelle loro mani è talmente enorme che non riesce a trovare degli sbocchi, se non attraverso investimenti in attività ‘‘legali’’, e cioè nelle attività delle grandi società, dei grandi gruppi, delle grandi banche. La distinzione tra ‘‘l’ambito legale’’ e quello illegale rischia così di scomparire, attraverso scalate, più o meno occulte, delle società occidentali, da parte delle grandi mafie. Le indicazioni che mi è sembrato di poter dare sono di due tipi: da un lato, il rafforzamento delle energie vitali ‘‘sane’’ della società del mondo occidentale, attraverso una applicazione reale, non apparente, dei compliance programs, e la contestuale previsione della responsabilità penale delle società, da parte di tutti i paesi del mondo occidentale; e dall’altro lato, un innalzamento delle legislazioni di tutti gli Stati agli standard più elevati di prevenzione dei danni incommensurabili che l’intera collettività del mondo occidentale può subire, essendo del tutto insufficienti gli accordi di collaborazione giudiziaria fra Stati che hanno standard diversi di legislazione contro la criminalità economica. Concludevo la relazione dell’anno scorso con una constatazione malinconica: e cioè che, mentre nel mondo scientifico è regola consolidata quella di procedere per tentativi ed errori, attraverso una continua discussione critica delle teorie scientifiche, la ‘‘scienza penalistica’’ italiana sembra irrimediabilmente irrigidita attorno ai suoi dogmi astratti, del tutto sganciati dalla realtà, il più eloquente dei quali mi sembra quello che nega la possibilità che le società per azioni e i gruppi siano responsabili penalmente, perché ‘‘non possono andare in carcere’’. 2. Nel workshop di oggi vorrei cercare di chiudere il cerchio. La lotta alla criminalità contemporanea è un obbiettivo prioritario, a tutti i livelli; una condizione essenziale della sua praticabilità e della sua efficacia è che essa si svolga, da un lato, sul fondamento granitico che sta alle radici dell’amministrazione della giurisdizione penale nelle società a tradizione liberal-democratica, e dall’altro lato, che gli obbiettivi da raggiungere siano selezionati, in modo da togliere di dosso al diritto penale compiti che non sono suoi, ma di altri settori dell’ordinamento. Qual è il fondamento granitico dell’amministrazione della giustizia
— 1256 — penale? Lo vorrei indicare con la prosa senza orpelli — senza incomprensibili richiami a quella che i penalisti nostrani chiamano la dogmatica penalistica — usata da quello che io considero uno dei più grandi giuristi del nostro tempo, e anche un uomo grande: il giudice Brennan, estensore della memorabile sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, in re Winship, del 1970. La Corte Suprema Federale affronta di petto la domanda se sia peggio condannare un innocente che assolvere un colpevole. La risposta, data per mano del giudice Brennan, è perentoria: per una società di uomini liberi, non è peggio, è molto peggio condannare un innocente che assolvere un colpevole. Le ragioni di questa risposta — ci dice Brennan — sono ‘‘ragioni potenti’’: ‘‘nel processo penale l’imputato vede mettere in gioco interessi di immensa portata, sia per la possibilità che possa perdere la propria libertà, sia per la certezza che la condanna — e, aggiungo io, lo stesso inizio del processo penale — rappresenta una riprovazione morale’’; ed una società a tradizione democratica e liberale deve preoccuparsi ‘‘del buon nome e della libertà di ogni individuo’’, ed è per questo che deve stare molto attenta a non comprometterli quando non ne sussistano — al di là di ogni ragionevole dubbio — i presupposti. Ma — aggiunge la Corte Suprema statunitense, per bocca di Brennan — vi sono altre potenti ragioni per cui si deve dire che è molto peggio condannare un innocente che assolvere un colpevole: il rispetto e la fiducia della comunità nella giustizia penale risiede proprio nel fatto che alla comunità non deve essere lasciato il dubbio che degli innocenti vengano condannati; d’altro lato, ‘‘è anche importante, per la nostra società di uomini liberi’’, che ogni cittadino possa occuparsi dei suoi affari ordinari, senza timore di veder compromesso il suo nome, per reati che non ha commesso, e cioè per aver tenuto condotte legali. Queste potenti ragioni — conclude la Corte Suprema — sono radicate ‘‘nel profondo di una determinazione fondamentale di valori della nostra società’’; e proprio in ciò sta la distanza che separa il processo penale dal processo civile: in questo ultimo sono in gioco delle questioni monetarie, ed è per questo che la regola tradizionale di giudizio è quella del ‘‘più probabile che no’’: nel giudizio civile — dice Brennan — ‘‘non ci sembra più grave che ci sia una sentenza errata a favore del convenuto, di quanto lo sia una sentenza sbagliata a favore dell’attore’’; in un caso penale, invece, ci vuole molto di più del più probabile che no, ci vuole la certezza oltre ogni ragionevole dubbio, e questo perché ‘‘la disutilità sociale di condannare un innocente’’ non è, come nel processo civile, equivalente alla disutilità di assolvere il colpevole, ma è molto, molto maggiore: è, in altre parole, — anche da un punto di vista utilitaristico — molto peggio condannare un innocente che lasciar libero il colpevole. Le conseguenze di queste illuminazioni della Corte Suprema degli
— 1257 — Stati Uniti le possiamo, naturalmente, tirare tutti; volendole condensare in modo dotto, posso citare le parole con cui uno dei più grandi studiosi di filosofia morale e politica contemporanea, John Rawls, apre il suo libro sulla teoria della giustizia. ‘‘La giustizia — dice Rawls — è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata, se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede una inviolabilità, fondata sulla giustizia, su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione, la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri’’. 3. Vi sono alcuni settori del diritto, in cui prima facie sembra dominare, per definizione, l’incertezza e quindi l’impossibilità di stabilire chi sia colpevole di un certo danno. Tale incertezza è talmente elevata da indurre penetranti studiosi nordamericani come Troyen A. Brennan, professore di diritto e di sanità pubblica della Scuola di Sanità Pubblica dell’Università di Harvard, a formulare la proposta di abbandonare lo stesso ricorso al diritto civile, per affidare il compito di tutela delle ‘‘vittime’’ alle agenzie regolamentatrici e alle assicurazioni. Questo punto merita di essere approfondito oggi, perché i settori di cui parla Troyen Brennan riguardano proprio le società e i gruppi di società che esercitano attività industriali e commerciali, utilizzando sostanze pericolose, e perché, negli Stati Uniti, le cause civili, relative alla responsabilità da prodotti e a quella per esposizione a sostanze tossiche, sono diventate, negli ultimi decenni, una ‘‘marea’’ che ha messo in crisi numerose società, per l’ammontare dei danni da risarcimento, liquidati in sede civile. La proposta di Troyen Brennan svela, per noi italiani, una realtà inquietante. Lo si capisce con una semplice constatazione. I processi civili americani vengono risolti, come ricordavo, con la regola della preponderanza dell’evidenza, del ‘‘più probabile che no’’; a questo criterio se ne aggiungono altri due, che sono costituiti dall’inversione dell’onere della prova e dal criterio della quota di mercato; così, ad esempio, se un certo tipo di danno è legato ad un prodotto messo in commercio da più — cinque, dieci, venti — società farmaceutiche e l’attore non riesce a individuare la società che ha prodotto e messo in commercio il farmaco che lo ha danneggiato, si ritiene ‘‘ingiusto’’ privare l’attore del risarcimento, solo perché non riesce ad individuare la società ‘‘responsabile’’ del suo danno. In questi casi, le corti ricorrono al criterio della inversione dell’onere della prova e a quello della quota di mercato: l’attore potrà cioè citare in giudi-
— 1258 — zio tutte le case farmaceutiche che producono ed immettono in commercio il farmaco ‘‘incriminato’’, e su ciascuna di esse si sposterà l’onere di provare che non è stata lei a provocare il danno all’attore. Se le società farmaceutiche convenute non riusciranno a dare questa prova, risponderanno tutte del danno subito dall’attore, in proporzione alle rispettive quote di mercato. Analogamente, i criteri del più probabile che no e dell’inversione dell’onere della prova si applicheranno a quelle industrie che producono o utilizzano sostanze pericolose, categoria che comprende una vastissima gamma di sostanze chimiche. Ciò che colpisce è, innanzitutto, la constatazione che questo ‘‘sistema’’ non viene più ritenuto soddisfacente: i costi sopportati dalle società sono troppo elevati — in alcuni casi tali da determinare la bancarotta della società —, in una situazione di incertezza tale da rendere assai arduo il compito delle corti di stabilire perfino se sia più probabile che no che una determinata società abbia provocato il danno, o di individuare la quota di mercato, riferibile a ciascuna delle società convenute. Ed è per questo che anche il ricorso al diritto civile viene considerato ormai superato, e viene raccomandato l’instaurarsi di un rapporto diverso, più forte, con le compagnie di assicurazione che dovrebbero intervenire non già nei processi civili, ma in sede di composizione delle controversie, ad opera delle agenzie pubbliche, del tipo OSHA, EPA, SEC. Per usare un’espressione di John Coffee Jr., un’oncia di storia vale di più di una libbra di logica; e la storia dei danni a sei cifre, in dollari americani, che le industrie statunitensi sono state costrette a pagare, in una situazione di grave incertezza sulla individuazione della responsabilità, è una storia che non può proprio essere ignorata in Italia e nei Paesi europei. In Italia, infatti, la situazione è molto più grave, giacché i processi relativi alle sostanze pericolose sono sì di massa, come negli Stati Uniti, ma sono processi penali; e sono processi dominati dalla stessa incertezza scientifica che caratterizza i processi civili americani, ma che, sotto la spinta dell’esigenza di una ‘‘giustizia riparatrice’’ delle vittime o dei parenti delle vittime, sfociano in condanne a pene elevatissime (per omicidio colposo, disastro colposo, lesioni colpose), emanate ricorrendo ad espedienti interpretativi, che costituiscono un pericolosissimo attentato a quelle fondamentali determinazioni di valore che si rispecchiano nei potenti principi della nostra Costituzione ed, in particolare, nel principio di legalità, nel principio della personalità della responsabilità penale, nel principio della funzione rieducativa della pena, nella presunzione di non colpevolezza. Tutti principi, insomma, che consentono di affermare che anche per la società di uomini liberi italiana è molto peggio condannare un innocente che assolvere un colpevole, ed è quindi indispensabile che la condanna riposi su giudizi di certezza deduttiva o induttiva.
— 1259 — Quanto sia urgente un intervento del legislatore in questo settore non ha bisogno di essere sottolineato: le industrie italiane cominciano ad essere sottoposte ad una ‘‘pressione’’ penale tale, con sentenze di condanna al carcere e al pagamento di altissime provvisionali alle parti civili, da spiegare la scelta, sempre più frequente, di spostare l’attività industriale in altri Paesi. 4. La situazione italiana non cambia di molto se si considerano i settori che, tradizionalmente, vengono considerati tipici degli illeciti societari. Mi riferisco, ovviamente, ai temi della responsabilità per falso in bilancio, per bancarotta, per corruzione. Anche in questo settore assistiamo ad un fenomeno non meno preoccupante di quello appena segnalato: e cioè alla tendenza a confondere a tal punto la colpa con il dolo, da rendere possibili condanne penali a pene elevatissime — emblematica, al riguardo, la recente vicenda del Banco Ambrosiano — per interi consigli di amministrazione e per interi collegi sindacali, tutti accusati di non aver colto i segnali di allarme provenienti dal concreto modus operandi delle società e di non essere, quindi, intervenuti per impedire la commissione di illeciti. Ho avuto modo di occuparmi a fondo, assieme al collega Pulitanò, di questo problema, e non ho mancato di richiamare l’attenzione sulla necessità che, quando si tratta di illeciti dolosi, ciascuno risponda esclusivamente per ciò che volontariamente fa. Il mio allievo Eusebi ha scritto un libro sul ‘‘Dolo come volontà’’; in effetti, se si vuole rispettare il codice, così deve essere inteso il dolo: la violazione di un dovere di diligenza non è dolo, ma colpa; il non aver sufficientemente vigilato sul rispetto della legge, da parte della società, non è dolo, ma colpa; il non aver colto i segnali di allarme o il non averli valutati nella loro giusta portata, non è dolo, ma colpa: non basta, cioè, per una condanna penale di consiglieri e sindaci delle nostre società che siano stati consapevoli del rischio che nella propria società, come in ogni altra società, si commettano degli illeciti, perché la legge richiede molto, ma molto di più, e cioè che il singolo consigliere o il singolo sindaco sia stato a conoscenza, e abbia voluto, le singole specifiche operazioni illecite. Intanto, però, consiglieri e sindaci sono stati spesso condannati, senza che ricorresse il presupposto della consapevolezza e della volontà della singola operazione illecita. Per fortuna, delle sentenze in contro tendenza ci sono. Vi è per esempio una bellissima sentenza della Corte d’Appello di Milano la quale assolve, riformando la sentenza di primo grado, lanciando un monito: non bisogna confondere il piano dell’essere con il piano del dover essere. Il piano dell’essere, ovviamente, è il piano di chi fa, di chi sa, di chi vuole; il piano del dover essere è il piano di chi avrebbe dovuto fare, sapere, vo-
— 1260 — lere, in base ad una regola di diligenza, ma è stato negligente e non ha adempiuto ai suoi doveri di informarsi, di chiedere, di interrogarsi sul significato di certi campanelli d’allarme, di chi si è astenuto dal vigilare. È la distinzione che nei paesi di common law separa la mens rea dalla criminal negligence. Se tutto ciò è vero, dobbiamo concludere che le numerose condanne penali che sono state emanate confondendo la colpa con il dolo, la negligenza con la mens rea, sono esempi di scuola di condanne di innocenti: nel nostro ordinamento, infatti, normalmente, per essere puniti, ci vuole il dolo, la mens rea e ciò vale per tutti gli illeciti societari tradizionali, dal falso in bilancio alla bancarotta fraudolenta. Questi reati non possono essere puniti solo per negligenza, perché il codice non lo consente. La situazione si complica ulteriormente se si considera, poi, quanto sia difficile, per l’accusa, portare le prove che qualcuno sa e vuole un’operazione illecita; essendo un atteggiamento interiore, il dolo incontra difficoltà di prova ancora maggiori di quelle che incontra la causalità, che già di per sé, come abbiamo visto, nei processi per sostanze pericolose è impossibile da provare, per il carico di incertezza scientifica che caratterizza il problema della responsabilità da prodotto e da sostanze tossiche. Vale la pena di ricordare che la giurisprudenza americana insiste molto sul fatto che tutti gli elementi del reato devono essere provati, con una certezza che vada al di là di ogni ragionevole dubbio; tutti gli elementi, e quindi anche il dolo. È una lezione davvero esemplare quella che dobbiamo imparare, ad esempio, dal caso di O.J. Simpson. Simpson, come sappiamo, è stato assolto dall’accusa di aver ucciso l’ex-moglie Nicole e una giurata ebbe a dichiarare: ‘‘Sono convinta che l’abbia fatto, ma la legge non mi consente di esprimere un verdetto di colpevolezza’’, giacché la prova data dall’accusa, sulla sussistenza dell’omicidio doloso, non soddisfaceva la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Come si vede, su questo punto, bisogna proprio intendersi. Se è molto peggio condannare un innocente che assolvere un colpevole, l’accusa deve portare le prove che consentono, con certezza, di concludere che l’imputato non è innocente, ma colpevole. Nel mondo giuridico italiano non ha fatto ancora il suo ingresso il tema delle prove matematiche, della prova probabilistica e delle certezze induttive di cui tanto discutono gli avvocati americani. Non credo che il problema possa essere risolto con il teorema di Bayes e col calcolo delle probabilità; ma anche questo è un tema da approfondire, perché il giudice non può essere lasciato libero di decidere, sulla base della sua intuizione e del suo imperscrutabile apprezzamento, proprio come non si è sentita libera di decidere, in base alla sua intuizione, la giurata del caso Simpson. 5.
Che tutte queste considerazioni siano fondate empiricamente, ce
— 1261 — lo dice anche la teoria dei comportamenti aziendali. Proprio John Coffee, nel suo lavoro del 1981 e nei successivi, ha approfondito l’analisi dei comportamenti aziendali e, tra le altre cose, ha messo in evidenza come la vita delle aziende si svolga, solitamente, a compartimenti stagni: ai diversi livelli, e soprattutto al livello dei quadri delle società operative, si creano delle specie di ‘‘isole’’, i cui abitanti sono coloro che, svolgendo la propria attività in una certa area, si sentono legati da un vincolo di solidarietà e di autonomia sostanziale nei confronti delle restanti aree aziendali. È difficile che le notizie filtrino da queste aree, da queste piccole repubbliche interne alla azienda, e ciò è innanzitutto fonte di gravi mancanze di efficienza globale: è Coffee che ricorda il caso della Allied Chemical, responsabile di un grave inquinamento della baia di Chesapeake. Per ordine della SEC, l’industria fu costretta a fare un audit sui flussi informativi, e il risultato fu la constatazione che il coefficiente di sicurezza ambientale era bassissimo, circa il 20%, proprio per le carenze riscontrate nell’assetto dei flussi informativi. In secondo luogo, questa considerazione deve mettere sull’avviso i magistrati e spingerli ad un accertamento concreto di chi fa che cosa, e di chi sa che cosa. È infatti evidente che gli ostacoli posti ai flussi informativi sono ostacoli posti alla conoscenza: molto spesso chi comanda non sa, perché i quadri, per coprire se stessi o per non compromettere la propria carriera, non vogliono che i vertici conoscano la situazione reale di uno stabilimento, o che conoscano gli illeciti commessi pur di conseguire gli obbiettivi di profitto, prefissati dalla programmazione, ad opera della direzione unitaria del gruppo. Anche qui non si può scherzare, perché la nostra società di uomini liberi deve preoccuparsi del buon nome dei cittadini e anche di quello dei manager aziendali. Anche ai nostri giorni può accadere che, in società di grandissime dimensioni, con molti amministratori delegati, l’accusa finisca per coinvolgere tutti: eppure si sa quanto ciascun amministratore delegato sia geloso della propria autonomia; eppure è un fatto notorio che, in queste situazioni, ogni amministratore delegato non tollera interferenze nel suo settore, da parte di altri amministratori delegati. È dunque assai difficile pensare che un amministratore delegato faccia e sappia ciò che invece sanno e fanno gli altri amministratori delegati; è difficile pensare, ad esempio, e ancora più difficile provare, che un amministratore delegato alle relazioni pubbliche conosca le operazioni compiute dall’amministratore delegato addetto alla commercializzazione, o da quello che ha la delega per la produzione o per gli approvvigionamenti. Eppure, se il buon nome del cittadino e del manager rientra tra quei valori di immensa portata di cui ci ha parlato il giudice Brennan, l’azione giudiziaria non dovrebbe neppure aprirsi nei confronti di tutti gli amministratori delegati, dovrebbe semmai limitarsi all’amministratore delegato
— 1262 — nel cui settore sono emerse delle irregolarità e poi eventualmente estendersi, se emergessero elementi concreti di prova, nei confronti di altri amministratori. Anche una semplice informazione di garanzia, anche una semplice, si fa per dire, richiesta di rinvio a giudizio, è tale da compromettere, forse irrimediabilmente, sotto il profilo della carriera, il buon nome del manager, che per lui costituisce il bene più prezioso. 6. L’organizzazione dell’impresa attraverso le deleghe è un problema che oggi, dal punto di vista penalistico, riguarda tutte le imprese, dalle piccole e medie imprese alle società di grandi dimensioni, ai gruppi, dalle imprese private alle imprese pubbliche. Che la ripartizione dei compiti, all’interno di una società che esercita attività di impresa sia indispensabile, è una banale ovvietà; non è invece affatto un’ovvietà il modo con cui i giudici penali, sotto le indicazioni della Corte Suprema di Cassazione, hanno inteso questa ripartizione di compiti e, sulla sua base, hanno determinato i criteri per stabilire la responsabilità penale dei manager e dei quadri aziendali. È l’istituto della delega, inteso in modo molto formale, a funzionare da criterio selettivo delle responsabilità. Secondo l’orientamento tradizionale e assolutamente prevalente della Corte di Cassazione, la delega, per spostare sul delegato la responsabilità penale per le attività delegate, deve possedere ben otto requisiti formali, tra i quali vale la pena di ricordare la forma scritta, il consenso espresso del delegato, l’esistenza di statuti o di delibere del consiglio di amministrazione della società che disciplinino e autorizzino le deleghe; in capo al delegato permane una responsabilità penale in caso di intromissione nell’attività del delegante e, più in generale, in caso di violazione del dovere di vigilanza. Qui sicuramente tocchiamo uno dei nodi cruciali della responsabilità penale nell’ambito dell’organizzazione d’impresa: sono ben pochi oggi i manager e gli amministratori delegati di grandi società per azioni o di gruppi, o gli amministratori unici di piccole società, che non abbiano ricevuto informazioni di garanzia o non abbiano pendenti dei processi penali per omicidio colposo, lesioni colpose, o per disastro colposo o per danneggiamento doloso, per violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro o sul rispetto dell’ambiente. Poiché sono ben poche le deleghe che possiedono gli otto requisiti richiesti dalla Cassazione, accade che il delegante — normalmente l’amministratore delegato — venga coinvolto nei procedimenti penali per la mancanza di uno o più dei requisiti formali; accade altresì che chi è al comando dell’impresa venga comunque coinvolto, per la violazione del generale dovere di vigilanza. La situazione a cui dà vita questo modo di intendere la ripartizione
— 1263 — dei compiti, all’interno della organizzazione aziendale, conduce spesso a dei risultati paradossali. Chi abbia un minimo di esperienza di organizzazione aziendale sa bene che, molto spesso, la delega non riflette la situazione reale, nel senso che, o l’attività concreta del delegato va molto al di là dei poteri formalmente attribuitigli, oppure nel senso che la delega è soltanto apparente e le attività delegate sono di fatto esercitate da persone ben diverse dal delegato: spesso, nei fatti, sono esercitate dagli stessi vertici aziendali, o comunque da superiori gerarchici del ‘‘bravo ragazzo’’ (come direbbero gli americani), prescelto perché si assuma la responsabilità penale di attività svolta da altri. È la situazione tipica del ‘‘capro espiatorio’’, ed è la situazione tipica in cui il processo penale è destinato a sfociare nella condanna di innocenti: questo è, infatti, il destino dei processi penali, sganciati dalla realtà dall’esperienza concreta dell’organizzazione aziendale e basati esclusivamente sulla rappresentanza, spesso non veritiera, che della vita aziendale viene data attraverso la delega, intesa come istituto rigorosamente formale. Per fortuna, sono in grado di segnalare una inversione di tendenza che si è verificata proprio l’anno scorso, attraverso una serie di sentenze, guarda caso mai pubblicate: sono sentenze della Cassazione che rappresentano, sul terreno della responsabilità penale legata all’organizzazione dell’impresa, una sorta di mini rivoluzione copernicana. L’istituto della delega, dice la Cassazione, è superato; ciò che conta non è che certi poteri siano o non siano formalmente delegati, ma l’effettiva e concreta ripartizione dei compiti all’interno dell’impresa. Questo nuovo indirizzo complica certamente le attività dell’accusa, perché — stando alla Cassazione — sbaglia quel P.M. che, per comodità, invia una informazione di garanzia al legale rappresentante della società o, quando va bene, al manager delegato: finalmente i pubblici ministeri sono costretti a verificare e a provare chi, concretamente, fa che cosa. Caduto il velo formale della delega, è possibile agganciare i processi penali alla realtà storica dell’azienda, alla individuazione di quei concreti comportamenti aziendali così bene illustrati da Coffee. In relazione alle funzioni concretamente svolte, ovviamente, resta intatto il problema della prova, prova che, se si vuole evitare il rischio di condanne di innocenti, deve sempre, secondo il linguaggio delle corti americane, essere in grado di convincere un giudice giusto al di là di ogni ragionevole dubbio o, con linguaggio nostrano, con una certezza oggettiva. 7. Restano, nell’ambito dei problemi relativi all’organizzazione aziendale, due profili che debbono essere analizzati con molta attenzione. Il primo riguarda un tema che, secondo il mio parere, è ampiamente sottovalutato da tutti gli imprenditori, ed è il tema delle funzioni indelegabili per legge; l’altro è il tema del dovere generale di vigilanza che incombe su chi è al comando di un’impresa.
— 1264 — Per quanto riguarda il primo profilo, mi sembra che abbia proprio ragione Guido Rossi quando sostiene che, in molti casi, è di gran lunga migliore il diritto creato dai giudici che quello creato dal legislatore. In effetti, mentre la Cassazione, con le sentenze dell’anno scorso, ha energicamente richiamato l’attenzione sull’esigenza di ancorare la responsabilità penale alla realtà della vita aziendale, il legislatore ha operato, con la legge n. 626 del 1994, modificata nel 1996, una scelta di segno opposto. L’istituto della delega va benissimo, ci dice la 626, ma esso trova un limite nella individuazione legislativa di talune funzioni indelegabili, prima fra tutte la valutazione del rischio. Nell’ambito di un assetto legislativo teso a tutelare la sicurezza del lavoro, la valutazione del rischio, che sta alla base dei programmi di sicurezza delle imprese, è una funzione indelegabile del datore di lavoro, cioè di chi è al comando dell’impresa o delle unità produttive provviste di autonomia finanziaria. Lasciamo pure perdere il tema delle unità produttive: nelle grandi e grandissime imprese è tutto un fiorire di unità produttive, concepite come datori di lavoro; ma c’è da chiedersi se alle singole unità produttive chi è al comando dell’impresa attribuisca davvero poteri illimitati di spesa. Non lo posso escludere, in linea di principio, ma mi sembra molto difficile che ciò avvenga, giacché, come tutti sanno, le grandi e grandissime società per azioni, i grandi gruppi si spingono sempre di più nella direzione di una ferrea programmazione dei budgets e dei profitti; ed è difficile conciliare questa ferrea programmazione con l’attribuzione di poteri illimitati di spesa ad una miriade di attività produttive. In molte situazioni, il risultato appare scontato: l’attribuzione di poteri illimitati di spesa sarà fittizia, e ciò indurrà l’autorità inquirente a risalire a ritroso verso chi i poteri illimitati di spesa ce li ha veramente, cioè verso chi è al comando dell’impresa. Ma, come dicevo, lasciamo perdere questo aspetto e concentriamo l’attenzione sulla indelegabilità della funzione di valutazione del rischio. Siamo qui in presenza di una scelta legislativa che si espone a gravi censure, sotto il profilo del principio di legalità, di riserva di legge, di personalità della responsabilità penale e dello stesso principio di democrazia. Basta, infatti, leggere qualche libro sulla valutazione del rischio — segnalo a tutti, per il suo rigore, il volume di Shrader Frechette, studiosa statunitense — per rendersi conto innanzitutto che la valutazione del rischio è un problema che riguarda l’intera comunità e non può essere affidato ad un privato. Basti pensare alla domanda di fondo: la valutazione del rischio sarà una valutazione di mere probabilità, più o meno elevate, che un certo evento si verifichi, o una valutazione basata sul criterio maximin che, anche quando le probabilità del verificarsi di un certo evento siano molto basse, esige comunque che si tenga conto, nei programmi da attuare, della gravità delle conseguenze?
— 1265 — In Italia non esistono centrali nucleari, ma il riferimento a questa attività mi è utile per spiegarmi: le probabilità che si verifichi un incidente alla centrale, ad esempio, la fusione del nocciolo, sono piccolissime, insignificanti, quasi trascurabili, ma l’effetto del verificarsi di un incidente è l’inverno nucleare, o, nella migliore delle ipotesi, sono danni gravissimi a tutto il personale della centrale. L’esempio spiega benissimo, mi sembra, la domanda che ho fatto. Simili valutazioni possono essere effettuate da un privato? Un secondo ordine di considerazioni concerne il profilo della competenza. L’OSHA, il NIOSH statunitensi sono stati creati perché emanassero delle linee-guida sui rischi legati alla sicurezza del lavoro e allo studio, in particolare, degli effetti sui lavoratori delle sostanze pericolose. Si tratta di agenzie che provvedono al loro compito, utilizzando stuoli di scienziati, altamente specializzati in tutte le specifiche discipline che riguardano la sicurezza del lavoro. Si tratta di centinaia e centinaia di scienziati che eseguono le loro ricerche, divisi in gruppi di lavoro. Utilizzando gli studi così realizzati, le agenzie emanano poi le lineeguida sul rischio, molto precise e dettagliate, che ciascun imprenditore dovrà seguire nella predisposizione dei programmi di sicurezza, la cui attuazione sarà poi seguita, in modo occhiuto, dalle stesse agenzie. In Italia, invece, con la 626 si è pensato che il datore di lavoro concentri su di sé le competenze di stuoli di scienziati. Né si può dire che la Costituzione non sia violata perché il datore di lavoro sarà responsabile solo se è stato negligente nella scelta del collaboratore a cui affidare la valutazione del rischio: quanto sia poco serio questo argomento lo dimostra proprio la storia delle agenzie americane, cioè la storia di quelle centinaia e centinaia di scienziati che si sono impegnati nei programmi di ricerca, tesi alla valutazione dei rischi. Secondo una schiera di studiosi che, negli ultimi anni, va sempre più infittendosi, l’EPA, ad esempio, ha completamente sbagliato i suoi programmi di ricerca. Ho qui sotto gli occhi un articolo del Washington Times che, riprendendo rilievi formulati in sede scientifica, parla di una bufera che ha investito l’EPA, a seguito di una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. Stando così le cose, se è vero che centinaia di scienziati possono sbagliare, cosa diremo del datore di lavoro e della scelta dell’igienista industriale a cui affidare la valutazione del rischio? Chi è al comando di un’impresa, normalmente, possiede competenze in campo finanziario e produttivo, ma competenze molto approssimative — da uomo della strada — sui rischi legati alla attività produttiva; e proprio a lui, per il nostro ordinamento, è affidata, come funzione indelegabile, la valutazione del rischio. E si badi: la questione, ovviamente, non è teorica, ma è una questione
— 1266 — di concrete responsabilità penali: se si verificano morti o lesioni, legate ad una insufficiente valutazione del rischio, sarà chiamato a rispondere chi è al comando dell’impresa. Ancora una volta, senza eufemismi, appare quanto mai appropriato parlare di condanne di innocenti. La verità è che la scelta del nostro legislatore è stata proprio sbagliata. È vero che sono in gioco valori essenziali per la comunità, quali la vita, la salute, la sicurezza dei lavoratori, ma la protezione di questi beni della collettività non può essere affidata alla valutazione del privato, né si può pensare che il privato sarà spinto a fare le valutazioni di rischio adeguate dalla forza deterrente del diritto penale, in caso di incidenti, morti o lesioni. Quando la posta in gioco è così elevata, quando essa ha natura indiscutibilmente pubblica, il principio di democrazia e gli altri principi costituzionali esigono che le scelte e le valutazioni siano fatte da enti ed organi che incarnano gli interessi della collettività: il Parlamento o enti delegati dal Parlamento. Ecco perché questo modello italiano deve essere abbandonato: è un modello, alla fin fine, basato sulla esclusiva forza deterrente della minaccia di applicare le sanzioni penali previste per le lesioni colpose, l’omicidio colposo, il disastro colposo. E il Parlamento, o l’ente da lui delegato, deve assumersi lui la responsabilità delle scelte e decisioni sbagliate. In definitiva, il sistema introdotto dalla 626 mi sembra solo un relitto del passato; e l’unica alternativa seria mi sembra quella già imboccata dall’ordinamento italiano con l’attribuzione di compiti speciali a organi che incarnano gli interessi della comunità, quali sono la CONSOB e la Banca d’Italia. Si tratta di proseguire su questa strada: eliminando da un lato la responsabilità del datore di lavoro per morti e lesioni legate ad una insufficiente, ma impossibile, valutazione del rischio; dall’altro lato, approntando un nuovo modello, attraverso la creazione, sul terreno della sicurezza del lavoro, di agenzie simili alla CONSOB, sullo stampo dell’EPA e dell’OSHA nordamericane, e di stabilire, semmai, delle sanzioni penali per la inosservanza delle linee-guida e delle disposizioni impartite da tali agenzie. In questo modo, gli interessi della collettività saranno adeguatamente tutelati, attraverso la ‘‘mediazione’’ politica delle agenzie nella valutazione dei rischi; e il datore di lavoro avrà dei sicuri punti di riferimento nelle linee-guida, e nei programmi di sicurezza elaborati da organi a ciò delegati dal Parlamento. E in questo modo, e solo in questo modo, chi è al comando di un’impresa potrà ‘‘attendere alle proprie occupazioni’’ — come ci ha detto il giudice Brennan —, senza timore di incorrere in condanne penali per condotte che sono da lui inesigibili. 8. A questo punto, resta da esaminare il problema dell’obbligo generale di vigilanza.
— 1267 — La distinzione da cui bisogna partire, e che riguarda sia i gruppi di società che le grandi e medie società, è quella tra l’ambito delle decisioni strategiche e l’ambito operativo. Chi è al comando di un gruppo, o di una società di grandi o medie dimensioni, non può, ovviamente, occuparsi degli aspetti operativi: a lui spetta il compito di effettuare le scelte strategiche, di fissare le quote di profitto da raggiungere, di programmare per linee generali l’attività del gruppo, o della società. Ma, tra le scelte strategiche, un posto di primo piano compete sicuramente alla scelta del rispetto della legge. Perché questa scelta non si limiti ad un inutile e vuoto richiamo all’esigenza di uno scrupoloso rispetto delle norme, ma si traduca in obbligazioni precise e concrete, chi è al comando può seguire una prima strada, irta di difficoltà; può cioè procedere ad un monitoraggio costante delle attività delle società o delle divisioni operative, tramite il ricorso a audit periodici ed a ispezioni condotte dal gruppo ispettivo, facente parte della direzione unitaria del gruppo, o dell’assetto di vertice della società. È una strada irta di difficoltà, giacché il ricorso ad audit e a ispezioni periodiche finisce inevitabilmente per dare all’attività del vertice quei connotati di ingerenza che, per giurisprudenza consolidata, costituiscono la fonte primaria di responsabilità penale di chi ha le leve di comando. Se, ad esempio, attraverso un audit il vertice viene a conoscenza del fatto che le caposettore o le divisioni operative non rispettano la legge — che so — a tutela dell’ambiente o della sicurezza del lavoro, o della trasparenza delle informazioni date al mercato, è chiaro che proprio il vertice deve prendere in mano la situazione e intervenire sul campo, con decisioni di carattere operativo; ma in questo modo finisce per sfumare, fino a sparire, la distinzione tra ambito strategico ed ambito operativo, con grosse ripercussioni di disutilità per l’intero gruppo e l’intera società, in termini di efficienza. In altre parole, al vertice non sarà più consentito concentrarsi sui compiti e le funzioni che direttamente gli competono, e cioè sulla elaborazione della programmazione strategica, in termini di budget e di attività. Personalmente, sconsiglio vivamente di seguire questa strada, giacché il suo sbocco più scontato è un pesante coinvolgimento del vertice nelle responsabilità penali legate all’attività delle società, o delle divisioni operative. La strada maestra resta sempre quella indicata nei workshops degli anni scorsi, e cioè della adozione di un sistema di compliance programs, cioè di una autoregolamentazione, da parte di tutte le società del gruppo o della singola società, che consenta una scoperta immediata, ed una altrettanto immediata segnalazione, degli eventuali illeciti societari. Questa è la vera cintura di sicurezza dei vertici aziendali che consente loro, da un lato, di attendere con tranquillità alla elaborazione delle
— 1268 — strategie del gruppo o della società, e dall’altro, di adempiere, senza un’ingerenza che potrebbe essere esiziale, all’obbligo generale di vigilanza. Va da sé, naturalmente, che, come insegna l’esperienza nordamericana, l’adozione dei compliance programs non deve restare sulla carta, ma deve tradursi in una realtà vivente dell’azienda; e questo sarà un compito specifico di chi si trova al comando dell’impresa: verificare, appunto, che i compliance programs non restino sulla carta. 9. Volendo tirare le somme, si può dire che è venuto veramente il momento di grandi e incisive innovazioni, sul piano legislativo, giurisprudenziale e di autodisciplina delle imprese: la globalizzazione dei mercati è una realtà che va affrontata anche in questi termini, a passi molto rapidi, se non si vuole uscire perdenti dalla sfida della competizione mondiale. Ho già detto qual è la via da seguire: è quella dell’adeguamento della legislazione, della giurisprudenza e della autodisciplina delle imprese agli standard più elevati, che sono quelli adottati dai Paesi più avanzati. Le novità più importanti riguardano il campo legislativo. Abbiamo visto, infatti, che il legislatore deve intervenire in almeno due direzioni: deve sottrarre alla giurisdizione penale i processi in cui la prova della causazione del danno è, per definizione, impossibile da raggiungere, come i processi relativi alla responsabilità del produttore e alla responsabilità delle industrie per l’uso di sostanze pericolose. Si tratta di processi che devono essere affidati al loro giudice naturale, cioè al giudice civile, introducendo, se del caso, la regola di giudizio del più probabile che no, congiuntamente alla regola dell’inversione dell’onere probatorio. D’altro lato, il legislatore dovrebbe sottrarre alla giurisdizione penale il settore degli illeciti (omicidi colposi, lesioni colpose, ecc...) legati alla valutazione del rischio, costruendo un nuovo modello di rapporti tra Stato e cittadino, più adeguato al principio di democrazia; un modello proprio del diritto pubblico, che affida ad agenzie pubbliche il compito di elaborare linee-guida e programmi di sicurezza da adottare all’interno delle imprese, e prevede, a scopi di deterrenza, delle forti sanzioni, non necessariamente penali, a carico di quelle imprese che non si adeguino prontamente alle linee-guida e ai programmi elaborati dalle agenzie pubbliche. So bene che in questo modo tocco, per la ‘‘sensibilità’’ dei politici nostrani, dei ‘‘tabù’’; ma non so cosa farci, non posso nascondere il dibattito che è da tempo iniziato in tutto il mondo tra coloro che si occupano, professionalmente, di diritto penale. Uno dei più grandi giuristi tedeschi contemporanei, forse il più grande, Klaus Lüderssen, rappresentante di spicco della scuola di Francoforte esordisce, nei suoi studi, con queste affermazioni: ‘‘punire è disumano e inefficace’’; la legittimazione stessa dell’intervento punitivo è assai fragile, giacché nessuno osa più parlare apertamente di funzione retribu-
— 1269 — tiva della pena, e perché l’intimidazione e la deterrenza sono sicuramente fini perseguibili razionalmente, ma che suscitano perplessità sempre maggiori, sia sul pianto empirico che su quello costituzionale. Resta il fine della risocializzazione, ma anche questo si è rivelato, da un punto di vista empirico, un’utopia, dopo il fallimento dei programmi elaborati dai Paesi che si sono maggiormente impegnati nell’opera di rieducazione. La verità, conclude Lüderssen, è che il diritto penale ha un ambito di intervento che si è smisuratamente allargato, senza giustificazioni; e la ragione di questo fenomeno sta nella constatazione che al diritto penale è stata affidata la soluzione di problemi che avrebbero dovuto essere risolti da altri settori dell’ordinamento; e questo fenomeno si è verificato perché gli altri settori dell’ordinamento, nel momento in cui ‘‘le cose si fanno complicate’’, sono abituati a ‘‘passare il testimone’’ al diritto penale. Proprio in ciò — prosegue Lüderssen — si cela un potenziale inutilizzato; inutilizzato perché è l’esistenza stessa di un ambito sempre più vasto di intervento penalistico che ‘‘impedisce a coloro che operano in altri settori del diritto, anche solo di pensare’’ alla eventualità di riappropriarsi di compiti e di strumenti di intervento che sono loro propri. Il riferimento, ovviamente, è al diritto civile e al diritto amministrativo. La verità — conclude Lüderssen — è che il diritto penale può, al massimo, svolgere un ruolo veramente accessorio: al diritto penale può essere affidato esclusivamente il compito della gestione ‘‘di quella criminalità che sfocia nella violenza, nell’omicidio’’, che si traduce in comportamenti pericolosi per la vita, l’incolumità della gente e nella aggressione di beni fondamentali per la comunità. Certo, il dibattito è aperto ed è a tutto campo: se in Europa si leva con tanta potenza la voce di Lüderssen e di altri studiosi tedeschi, nel nord America si levano sempre più insistenti le voci di studiosi, non meno prestigiosi di Lüderssen, che chiedono, con motivazioni inattaccabili, una netta contrazione del diritto penale. Il dibattito in corso tra Mann e Coffee è solo un esempio del più ampio dibattito mondiale; e si badi: si tratta di problemi che vanno ben al di là della visione dei nostri ministri di Grazia e Giustizia, che non hanno saputo fare altro che immaginare e dare vita a misere e insignificanti depenalizzazioni. Ed è precisamente in questo orizzonte che si inseriscono le mie proposte minimali di affidare al diritto civile e al diritto amministrativo la soluzione di problemi, relativi alla gestione delle imprese, che sono oggi di competenza del diritto penale, e che costringono il giudice penale a ricorrere a degli escamotages che rappresentano una plateale violazione di quei potenti principi di cui parla la Corte Suprema degli Stati Uniti, e che sono racchiusi nella nostra Costituzione. È ancora in questo orizzonte che vedo nella autoregolamentazione
— 1270 — delle imprese, nell’adozione dei compliance programs, la strada maestra per risolvere i problemi degli illeciti societari. Ed è, infine, sempre in questo orizzonte che ho richiamato l’attenzione sulla forte tensione morale che costituisce l’essenza della tradizione dei Paesi di common law e che è sfociata nella enunciazione dei ‘‘potenti principi’’, da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti: fino a quando non saranno trasferiti ad altri settori dell’ordinamento processi e problemi che non possono essere affidati al giudice penale, ma che continuano ad essere affidati al giudice penale, dovrà valere, più che mai, quella determinazione fondamentale di valori della nostra società, che si traduce nel riconoscimento che è molto peggio condannare un innocente che assolvere un colpevole e che dà vita alla regola di giudizio secondo la quale, per la condanna, l’accusa deve fornire una certezza probatoria al di là di ogni ragionevole dubbio. Ho detto: fino a quando non interverranno i mutamenti; ma è ovvio che gli stessi principi dovranno intervenire anche dopo gli auspicati mutamenti, quando il diritto penale avrà assunto un ruolo veramente accessorio. La posta in gioco, infatti, è sempre la stessa: sono quei valori di immensa portata, di cui ci ha parlato il giudice Brennan, che debbono essere protetti ad oltranza, in una società di uomini liberi. Una domanda: ma la nostra è davvero una società di uomini liberi? FEDERICO STELLA
NEMO TENETUR SE DETEGERE: QUALI PROFILI DI DIRITTO SOSTANZIALE? (*)
Molteplici sollecitazioni inducono a una rinnovata riflessione sui nessi fra diritto di difesa processuale e diritto penale sostanziale. Pensiamo, da un lato, all’indirizzo minoritario, ma con autorevoli sostenitori, che espande la rilevanza sostanziale del diritto al silenzio anche al di fuori della sfera propriamente processuale; dall’altro lato, alle proposte di incidere sul diritto al silenzio, emerse in relazione alla tormentata vicenda del regime delle dichiarazioni dell’indagato o imputato che abbia reso, fuori del contraddittorio, dichiarazioni che coinvolgano terzi, e successivamente si sia rifiutato di rispondere nel contraddittorio con i chiamati in causa. Cominciamo con una notazione che dovrebbe ritenersi non problematica. Sul piano del diritto penale sostanziale, il diritto di difesa ha il rilievo da riconoscere a qualsiasi diritto: ‘bene giuridico’ che si candida ad oggetto legittimo di tutela penale, e limite alle possibilità di legittima configurazione di illeciti penali. Come oggetto di tutela penale (mediante il diritto penale) il diritto di difesa pone essenzialmente un problema di tutela della libertà morale, negli stessi termini in cui ciò vale per qualsivoglia estrinsecazione di libertà, in un contesto segnato dalla dialettica fra individuo e autorità, da situazioni di soggezione e talora di libertà menomata (1). Più complesso, e praticamente più rilevante, il capitolo della rilevanza ‘in negativo’ di tale diritto, come limite nei confronti della potestà punitiva. Ed è di questo che intendiamo occuparci. Il punto di partenza è un principio indiscutibile e indiscusso: la sfera di libertà riconosciuta alla difesa segna un limite sistematico alle possibilità d’intervento penale, opponendosi alla repressione di modalità di condotta rientranti nella garanzia del diritto di difesa. L’ambito proprio di questa rilevanza in negativo è il terreno in cui il (*) Questo scritto è destinato agli Studi in memoria di Giandomenico Pisapia. (1) Di fronte alla tentazione del ricorso a metodi di inquisizione ‘non soave’, che purtroppo non può ritenersi superata una volta per tutte, questa prospettiva mantiene rilievo non solo sul piano dei principi. Si ricordi, come monito, il caso deciso da Trib. Padova, 15 luglio 1983, in Foro it., 1984, II, 231 s., con nota di Pulitanò.
— 1272 — diritto di difesa sorge e per il quale è disciplinato e garantito: quello del processo penale. Sul piano del diritto sostanziale, il diritto di difesa è un elemento essenziale per la configurazione — e delimitazione — della tutela penale dell’attività di giustizia penale, o, più genericamente, finalizzata all’accertamento dei reati. Il modello di funzionamento della giustizia penale, che l’ordinamento penale assume ad oggetto di tutela, comprende il diritto di difesa, nella conformazione data dal codice e comunque ancorata ai principi costituzionali. La sfera del diritto, così come conformata dal legislatore ordinario, segna dunque uno spazio libero dall’intervento penale, del quale i principi costituzionali presidiano il nucleo inviolabile. In concreto, nell’ordinamento italiano vigente, la rilevanza sostanziale del diritto di difesa, quale limite normativo obiettivo alla configurazione di illeciti penali, si esprime nell’assenza di obblighi di collaborazione veridica dell’imputato o potenziale imputato con le istituzioni di giustizia penale. Anche questo profilo, come giustamente si sottolinea, si riconnette al rispetto dovuto alla libertà morale dell’inquisito: l’effettività del diritto di difesa abbisogna di ‘‘una componente negativa, rappresentata dal diritto di non fornire prove della propria colpevolezza’’, e più in generale di non fornire elementi suscettibili di pregiudicare lo svolgimento degli assunti difensivi (2). Sul piano del diritto sostanziale, questa garanzia può assumere forme diversificate: assenza di incriminazioni, limite esegetico rilevante nel delimitare particolari tipi di reato (per es. il favoreggiamento personale) (3), o eventuale scriminante di fatti conformi a un tipo di reato. Vi è poi, nel sistema dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, una proiezione ulteriore di interessi difensivi, nella causa di non punibilità (4) di cui all’art. 384, 1o comma. L’ambito di questa va oltre quello dell’esercizio del diritto di difesa nel processo, comprendendo ipotesi che almeno in parte ne sono sicuramente al di fuori: per es., comportamenti consistenti in attività ‘materiali’ (frode processuale, favoreggiamento) e persino comportamenti tenuti non per la propria difesa, ma per salvare altri, sia pure ‘prossimi congiunti’. Si tratta, per opinione generale, di una causa di non punibilità che, pur radicata nella prospettiva del ‘nemo tenetur se detegere’, ha natura fondamentalmente soggettiva, in chiave di inesigibilità (5). (2) SCAPARONE, Commento all’art. 24, 2o comma, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, 1981, 87. (3) Sia consentito rinviare a PULITANÒ, Il favoreggiamento personale fra diritto e processo penale, Milano, 1984. (4) Il termine viene qui usato meramente per additare l’effetto di ‘non punibilità’, lasciando fra parentesi l’inquadramento in più precise categorie dogmatiche. Per un quadro sintetico delle alternative proposte, cfr. PIFFER, Commento all’art. 384, in Codice penale commentato, a cura di Dolcini e Marinucci, II, 1999, 2185 s. (5) ZOTTA, Casi di non punibilità, ne I delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di Coppi, Torino 1996, 527 s.
— 1273 — Il principio nemo tenetur se detegere come causa di non punibilità di ordine generale? 1. È dato procedere oltre, sulla strada della non punibilità di fatti penalmente tipici, invocando il ‘nemo tenetur se detegere’? Storicamente, il problema è sorto in relazione alla ormai abrogata normativa penale valutaria del 1976, la quale aveva introdotto un obbligo di dichiarare, sotto sanzione penale, le disponibilità costituite all’estero prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, in violazione delle leggi vigenti all’epoca, con esonero dalle sanzioni amministrative e fiscali, ma non da eventuali sanzioni penali. Nel respingere la questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 24, 2o comma, la Corte Costituzionale (6) ha avuto occasione di riaffermare principi volti a delimitare lo spazio di rilevanza obiettiva del diritto di difesa, rispetto a quello di legittime incriminazioni. Con riferimento alla fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo (introduzione in acque italiane di un natante battente bandiere estera, punibile come contrabbando) la Corte ha preliminarmente rilevato che non può farsi questione di autodenuncia imposta là dove le dichiarazioni imposte dalla legge attengano a fatti (nella specie, la costituzione illegittima della disponibilità all’estero) diversi da quelli costitutivi del delitto che verrebbe denunciato (nella specie, contrabbando mediante introduzione del bene nel territorio dello Stato). La questione sorge soltanto nel caso in cui l’obbligo di comunicazione penalmente sanzionato abbia a diretto contenuto la comunicazione autoincriminante. A questo proposito, la sentenza n. 236 del 1984 ha richiamato le numerose precedenti sentenze della stessa Corte che collocano l’operatività del diritto di difesa nella sola fase processuale, o comunque in procedimenti autoritativi diretti alla formazione delle prove. Al di fuori di un tale ambito, ne desume la Corte, la ‘scriminante non codificata’, invocata dal giudice a quo, ‘‘non esiste e non può esistere se non si vogliono travolgere principi cardine dell’ordinamento’’. Il diritto di difesa non è diritto all’impunità, e non osta a che una dichiarazione o altro adempimento penalmente imposto (s’intende, estranei al contesto processuale o a procedimenti autoritativi di formazione di prove) possano essere successivamente utilizzati sul piano probatorio. Si noti: nel tracciare questi limiti alla rilevanza scriminante del diritto di difesa, la giurisprudenza costituzionale dà chiaramente per presupposto un nucleo in cui una tale rilevanza sarebbe invece indiscutibile: quello dell’attività difensiva nel processo, o comunque correlata alla formazione autoritativa di prove. A ben vedere, dal punto di vista del diritto penale sostanziale, non si tratta solo di scriminante in senso tecnico: il diritto di di(6)
Sentenza n. 236 del 1984, in Cass. pen., 1985, 4 s.
— 1274 — fesa, in quanto diritto a non autoincriminarsi, segna anche un limite obiettivo alla individuazione di beni giuridici che possano essere assunti ad oggetto di tutela penale. L’interesse a ottenere dichiarazioni autoincriminanti o autoindizianti — che è, nella mera dimensione fattuale, un plausibile interesse delle istituzioni del law enforcement — non può essere assunto a fondamento di obblighi il cui contenuto tipico sia, per l’appunto, un dovere di autodenuncia. In questi limiti mi pare debba essere affermata, sul piano del diritto penale sostanziale, una proiezione extraprocessuale della sostanza del diritto di difesa, quale elemento del sistema di giustizia penale che concorre come tale a determinare l’oggetto (i beni giuridici pertinenti) e le condizioni di legittimità della tutela penale della funzionalità della giustizia penale. 2. Sul finire degli anni ’80, in controtendenza rispetto all’orientamento della giurisprudenza costituzionale, un orientamento minoritario ha sostenuto la rilevanza del nemo tenetur come causa (diciamo per ora genericamente) di non punibilità, al di fuori del capitolo dei reati contro l’amministrazione della giustizia. Comunicazioni sociali false non sarebbero punibili ex art. 2621 c.c. quando il falso o l’occultamento sia stato commesso per non rivelare la fonte criminosa di determinati proventi. Ciò in forza, si sostiene, di un criterio generale di consolidata civiltà giuridica: nessuno può essere obbligato a fornire prove a suo carico di reati commessi (7). All’emersione giurisprudenziale di questo indirizzo è seguito un tentativo dottrinale di darvi un fondamento tecnico (8), del quale interessa ripercorrere i tratti essenziali. Si parte dalla rilevazione della ‘‘assoluta novità dell’approccio interpretativo’’ in esame, rispetto a quello della giurisprudenza costituzionale, mai pervenuta ‘‘ad un’affermazione di principio che superasse esplicitamente la originaria dimensione endoprocessuale in cui il diritto di difesa storicamente si colloca’’ (9). Richiamato quindi l’art. 384 c.p. ed il suo fondamento in chiave di soggettiva inesigibilità, si rileva esser ‘‘significativo’’ che la sfera di non punibilità si riferisca ad illeciti il cui nucleo contenutistico è una dichiarazione di scienza, e si sostiene che quella sfera comprenda anche ipotesi esterne al processo (tali considerandosi quelle di omessa denuncia) (10). Si esaminano poi i rapporti della causa di non punibilità in esame con l’aggravante di cui all’art. 61, n. 2 (ipotesi del reato commesso per procurarsi l’impunità di un altro (7) Cass., 21 gennaio 1987, in Cass. pen., 1988, 379; Cass., 14 marzo 1989, Cass. pen., 1990, 2208. (8) ZANOTTI, Nemo tenetur se detegere: profili sostanziali, in RIDPP, 1989, 174 s. (9) Ivi, p. 177 s. (10) Ivi, p. 179, 188.
— 1275 — reato): contro la tesi che ravvisa fra le due disposizioni un rapporto di specialità, si osserva che all’aggravante è estraneo l’elemento fondamentale dell’esimente, cioè il conflitto motivazionale del soggetto nell’alternativa fra l’azione lecita e l’illecita (11). Si ritiene in tal modo aperta la strada per poter ravvisare nell’art. 384 una esplicitazione settoriale di un principio più generale: il sistema accorderebbe ‘‘positiva considerazione all’impulso psicologico di autodifesa a prescindere da qualsiasi nesso con un procedimento penale, di modo che l’area della non punibilità si apprezza più estesa di quella tipica del diritto di difesa’’ (12). La chance d’impunità, certo, è ‘‘contenuta nei limiti della stretta necessità difensiva’’; ma in tale ambito sarebbe ‘‘esaustiva’’, relativamente a tutti i casi in cui l’esercizio dell’asserito jus mentiendi possa assumere rilievo (13). La garanzia costituzionale del diritto di difesa implicherebbe cioè la costituzionalizzazione del divieto di obblighi, il cui adempimento si risolva comunque in autoincriminazione; e sarebbe proprio nella proiezione preprocessuale che il canone ‘nemo tenetur se detegere’ verrebbe ad evidenziarsi come limite logico di ordinamento, di portata generale (14). Ritornando infine al caso delle false comunicazioni sociali, si conclude che l’omessa iscrizione di proventi illeciti non può assumere rilievo penale, ‘‘pena una irrimediabile contraddizione con il divieto di recare testimonianza contra se’’ (15). Pur avendo avuto una qualche capacità di suggestione (16), l’indirizzo in esame è stato respinto (e ben a ragione) da dottrina e giurisprudenza prevalenti. Con particolare nettezza la Corte di Cassazione, chiudendo uno dei più noti processi del cicio di ‘mani pulite’, dopo le incertezze manifestate sul punto dal Tribunale (17) ha riaffermato l’eccezionalità dell’art. 384, riprendendo il consueto argomento ex art. 61, n. 2, e con specifico riguardo ai reati societari ha fatto leva sulla funzione specifica dell’obbligo di verità nel bilancio e nelle altre comunicazioni sociali. Posto che quell’obbligo ‘‘è inteso anche a prevenire scorrettezze nella ge(11) Ivi, p. 181. (12) Ivi, p. 189. (13) Ivi, p. 190, 193. (14) Ivi, p. 198, 210. (15) Ivi, p. 213. (16) Sembrano aderire alla tesi in esame ZUCCALÀ, Precisazioni e rilievi sul delitto di false comunicazioni sociali. Problemi antichi e nuovi, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1989, 753; MAZZACUVA, Il falso in bilancio. Profili penali: casi e problemi, 176 s. Vi fanno riferimento, senza prendere posizione critica, MUSCO, False comunicazioni sociali, in Trattato delle società per azioni diretto da Colombo e Portale, 1994, 276; COLOMBO, La ‘moda’ dell’accusa di falso in bilancio nelle indagini delle Procure della Repubblica, in Riv. soc., 1996, 726. (17) Cass., 31 gennaio 1998, Cusani, in F. it., 1998, II, 517 s.; Trib. Milano, 28 aprile 1994, Cusani, in F. it., 1994, II, 24 s. In precedenza, nel senso dell’esclusione della allegata causa di non punibilità, Cass., 22 gennaio 1992, in Cass. pen., 1992, 2198; Cass., 5 dicembre 1995, ivi, 96, 2780.
— 1276 — stione della società’’, è illogica l’interpretazione che vorrebbe lasciarlo senza sanzione ‘‘proprio quando fosse destinato a coprire le scorrettezze più gravi’’. Ed aggiunge: ‘‘sin dal momento dell’appropriazione o comunque della illecita gestione, l’infedele amministratore si trova nella situazione soggettiva che lo vincola alla veridicità nella redazione del bilancio: sicché egli preordina e programma sin da principio la falsità, della cui necessità è già consapevole’’. In dottrina (18) viene criticata la pretesa di allargare l’ombrello del diritto di difesa al di fuori del contesto processuale, e si sottolinea che, se una qualche valenza sostanziale è attribuibile al nemo tenetur, ciò può essere fatto solo sul piano della colpevolezza: in chiave di inesigibilità, come nell’art. 384. Ma su questo piano la scelta del legislatore è esplicitata dalla elencazione delle fattispecie ‘scusabili’ nell’art. 384: elencazione che viene ritenuta tassativa (19), e che, si è giustamente osservato, a contrario esclude il riconoscimento della scusante in parola (quella dell’esser costretto a salvarsi dall’autoincriminazione) al di fuori dei casi specificamente previsti (20). Soltanto un recupero dell’inesigibilità come principio generale d’ordinamento, matrice di ulteriori concretizzazioni in via interpretativa, potrebbe offrire una base non manifestamente implausibile ai tentativi di forzare i limiti della scusante codificata. Ma il panorama dottrinale presenta, come scriveva Romano qualche anno fa, un ‘‘rifiuto pressoché totale dell’inesigibilità quale causa generale di scusa, dovuto alla sua incompatibilità con primarie esigenze di ‘tenuta’ dell’ordinamento e di determinatezza dei confini della responsabilità personale’’ (21). L’esigibilità è, certo, un punto di vista rilevante in sede di produzione legislativa, e filtra nell’ordinamento attraverso le norme che vi si siano ispirate; non può essere invece un grimaldello utilizzabile in sede interpretativa, per arrivare ad esiti di deresponsabilizzazione, al di fuori dell’ambito che il legislatore abbia specificamente riconosciuto. 3. L’inesistenza d’una scusante generale del nemo tenetur lascia ovviamente impregiudicate le questioni di interpretazione di fattispecie concrete, e in particolare le questioni di valutazione delle ipotesi specifiche in materia di comunicazioni sociali, attorno alle quali è sorta la discussione. Con riguardo alle applicazioni concrete è ben giustificata la messa in guar(18) Una approfondita trattazione in PERINI, Il delitto di false comunicazioni sociali, p. 581 s.; NAPOLEONI, I reati societari, III, 1996, 289 s.; ivi ulteriori riferimenti. (19) ZOTTA, op. cit., 533. In giurisprudenza, Cass., 13 dicembre 1991, in Cass. pen., 1991, I, 1222. (20) PERINI, op. cit., p. 596. (21) ROMANO, Giustificazione e scusa nella liberazione da particolari situazioni di necessità, in RIDPP, 1991, 43.
— 1277 — dia (22) contro interpretazioni estensive di obblighi di comunicazione, ispirate (consapevolmente o meno) ad una considerazione di interessi ‘di giustizia penale’ estranei all’oggetto della tutela. Ciò non esclude peraltro che, in casi ben specificati, anche interessi di giustizia penale — più precisamente: legati alla prevenzione di date forme di criminalità — possano venire in rilievo, entro contesti di disciplina di per sé totalmente extraprocessuali. Un esempio attuale può esser dato dalla Convenzione OCSE sulla lotta contro la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e nelle transazioni commerciali internazionali, firmata a Parigi il 17 dicembre 1997 (23), la quale contiene, fra l’altro, ‘disposizioni in materia di contabilità’ (art. 8) che vincolano gli Stati ad adottare le misure necessarie per vietare la istituzione di contabilità fuori bilancio e l’iscrizione di passività il cui oggetto sia indicato in modo scorretto, allo scopo di corrompere pubblici ufficiali stranieri e di occultare tale corruzione; il tutto con la previsione di sanzioni anche penali. In un tale contesto, evocare l’idea del nemo tenetur, quale ragione di esonero da adempimenti voluti per la lotta contro la corruzione, sarebbe chiaramente un fuor d’opera. Va sottolineato, inoltre, che il problema del se detegere può praticamente venire in rilievo — e deve essere risolto negando ingresso alla scusa — anche in relazione a responsabilità a titolo diverso che per reati di omessa o infedele comunicazione: ciò in funzione di una posizione di garanzia il cui adempimento passi in concreto per informazioni autoincriminanti. Si pensi all’ipotesi (24) del medico che si accorga di un proprio errore terapeutico, di per sé potenziale fonte di responsabilità anche penale, rimediabile o comunque fronteggiabile con interventi che presuppongono una completa informazione del paziente. Il dovere d’informare il paziente si profila qui come aspetto essenziale della posizione di garanzia del medico; e se il suo inadempimento abbia impedito di impedire (il gioco di parole intende sottolinearne la rilevanza) eventi lesivi per la salute o la vita, anche l’omessa informazione andrà ricompresa fra i presupposti della responsabilità per gli eventi che ne siano seguiti, a nulla valendo la finalità di evitare una denuncia; e la responsabilità potrebbe essere, nei congrui casi, a titolo più grave che per colpa. 4. Le considerazioni fin qui svolte, in particolare quelle attorno all’idea della inesigibilità, nel chiudere in modo a mio avviso incontroverti(22) ZANOTTI, op. cit., 209. (23) Si veda il testo in RIDPP, 1998, p. 1358 s., preceduto da un commento di Sacerdoti, p. 1349 s. (24) Purtroppo non solo teorica: cfr. Pret. Nuoro, 18 maggio 1996, in Riv. it. med. Leg., 1998, 1171 s., con nota di Conti.
— 1278 — bile il problema interpretativo, additano un diverso piano su cui il problema della scusante del nemo tenetur potrebbe essere riaperto: quello dei principi rivolti al legislatore. La tesi che vuole attribuire al nemo tenetur la rilevanza di principio generale di non punibilità si richiama a un principio di civiltà giuridica, che filtra anche nel diritto penale sostanziale; si appella ad un canone, quello dell’inesigibilità, che ha a che fare con i limiti dell’attribuzione di colpevolezza; rileva analogie fra situazioni nelle quali la scusa è legislativamente prevista, ed altre nelle quali l’interpretazione dominante la nega. La pretesa di generalizzare la scusa, al di là dei casi tassativamente elencati dal legislatore, invoca principi forti, che si assumono vincolanti per il legislatore: è argomentata, sul piano contenutistico, in nome del principio di soggettiva esigibilità, su uno sfondo in cui è in gioco il diritto di difesa, e sul piano formale evoca questioni di uguaglianza. Dietro la controversia interpretativa si riflette una possibile controversia costituzionale, sulla legittimità dei limiti posti dal legislatore alla scusa del nemo tenetur, e comunque un nodo di politica del diritto, sollevato con forte impegno argomentativo e come problema di civiltà. Vi è quanto basta, allora, perché la discussione meriti di essere approfondita — al di là del contingente approdo interpretativo — sul piano costituzionale e su quello della politica del diritto penale. Anticipando le conclusioni, dico subito che ravviso nell’indirizzo minoritario in discussione, pur supportato da argomenti non disprezzabili, uno sbandamento rispetto a principi fondamentali per un ordinamento razionale, e che definirei di etica della responsabilità. Proprio per questo, malgrado il superamento sul piano esegetico, credo utile andare alle radici del problema. 5. Cominciamo dai profili legati alla questione dell’uguaglianza: quelli che potrebbero, indipendentemente dalle opzioni di principio, rivelare eventuali incoerenze interne del tessuto legislativo. La posizione qui criticata si riferisce a situazioni che presentano un tratto caratterizzante comune a tutte: il conflitto fra un obbligo legale di dichiarazione, o di dichiarazione verace, e l’interesse a non scoprire responsabilità penali proprie. Entro quest’ambito, globalmente definito dalla sussistenza fattuale del problema del se detegere, una differenziazione nel trattamento normativo (fra ipotesi scusate e non) abbisogna di una giustificazione che regga ai criteri propri del principio d’uguaglianza: e questo, per l’appunto, viene messo in dubbio. Intrinsecamente incoerente, in particolare, viene ritenuto il discrimine fra le ipotesi comprese e quelle escluse dalla scusante codificata nell’art. 384. La differenziazione legislativa (così credo di potere sviluppare l’argomento avversario) non sarebbe stata tracciata fra l’ambito processuale (quello che è proprio del diritto di difesa in senso stretto) e il mondo
— 1279 — al di fuori del processo, ma passerebbe attraverso il mondo al di fuori del processo: la scusante codificata comprenderebbe anche ipotesi, identificate in quelle dell’omessa denuncia, che trascendono la dimensione endoprocessuale. Il discrimine in tal modo tracciato sarebbe, si sostiene, privo di razionale giustificazione. In realtà, il discrimine — chiaro e coerente — è segnato dalla natura dell’interesse in gioco, che, in tutti i casi cui si riferisce la scusante codificata, è esclusivamente processuale, nel senso che riguarda sempre e soltanto il funzionamento della macchina giudiziaria. Anche i delitti di omessa denuncia si iscrivono in questo contesto: se pure le condotte stanno fuori del processo, l’interesse offeso è totalmente ed esclusivamente processuale, attinente ai presupposti d’instaurazione del processo. È consentito differenziare ai fini dell’eventuale scusa, entro l’ambito in cui sia in gioco il se detegere, secondo la natura processuale o extraprocessuale degli interessi tutelati? La scelta in tal senso operata dal codice Rocco è razionale e coerente. La scusa è riconosciuta (art. 384), in presenza di particolari e assai pregnanti situazioni soggettive, là dove il conflitto sia fra interessi tutti affinenti al processo: da un lato, l’interesse del soggetto agente a evitare l’incriminazione propria o di prossimi congiunti, e dall’altro gli interessi legati alla corretta prestazione di un dovere di collaborazione con la giustizia. Talune fra le ipotesi di cui all’art. 384 (certo non tutte!) possono ragionevolmente ascriversi al nucleo forte del diritto di difesa: ciò vale, specificamente, per il ritrarsi di obblighi di autodenuncia. Ma anche al di fuori di tale nucleo, fino a che in gioco siano solo interessi legati al funzionamento della giustizia, qualitativamente comparabili, è parso possibile ed opportuno dare rilievo a condizioni soggettive di ritenuta inesigibilità: ciò serve anche a stendere, per così dire, una rete protettiva più larga, attorno al territorio in cui è in gioco il diritto di difesa nel suo nucleo forte e obiettivamente tutelato. Quello, per intenderci, in cui il diritto di difesa preclude valutazioni di illiceità già sul piano obiettivo. Ben diversa è la situazione là dove siano in gioco interessi di terzi o della collettività, ‘‘non legati alla pretesa punitiva’’ (25), per la cui tutela siano previsti obblighi di comunicazione. In questi casi, il conflitto è fra interessi qualitativamente non omogenei, e la posizione di destinatario dell’obbligo penalmente sanzionato costituisce il soggetto obbligato come garante degli interessi tutelati (interessi ‘materiali’ di terzi o della collettività) alla cui salvaguardia ha da servire la comunicazione imposta. La differenza obiettiva è rilevante: radicata nei diversi assetti obiettivi degli interessi in gioco, e anche nella qualità della garanzia dovuta dal soggetto della cui responsabilità si discute. È una differenza relativa ad (25)
NAPOLEONI, op. cit., 292.
— 1280 — aspetti (beni giuridici e posizioni di garanzia) di rilievo centrale per le scelte legislative: essa perciò può senz’altro giustificare un diverso bilanciamento legislativo — in concreto, il tenere ferma la attribuzione di responsabilità — finché siamo in uno spazio aperto a diverse possibili opzioni di politica del diritto. Per potere stringere il discorso, precludendo ogni alternativa diversa dalla scusa del nemo tenetur, a nulla serve il principio d’uguaglianza, ma occorrerebbe un principio materiale di delimitazione della responsabilità penale, che imponesse il riconoscimento della scusa. 6. Il discorso si sposta qui sull’idea dell’inesigibilità, riconosciuto fondamento della scusante di cui all’art. 384. È possibile sostenere che, nei casi (tutti od alcuni) in cui sia in gioco il se detegere (al di fuori dell’area del diritto di difesa), l’attribuzione di responsabilità penale sia incompatibile col principio di colpevolezza, nella sua dimensione costituzionale? Una tesi del genere non sarebbe certamente in linea con la concezione della colpevolezza dominante in dottrina, caratterizzata, come già si è detto, dal rifiuto di riconoscere nell’inesigibilità una causa generale di scusa (26). Nessun appiglio a favore della tesi qui criticata può essere trovato nella giurisprudenza costituzionale relativa al principio di colpevolezza. Le ragioni che hanno portato a riconoscere la rilevanza costituzionale del principio, nella storica sentenza sull’art. 5 c.p. (27), si legano alle questioni — alle esigenze — della riconoscibilità dell’illecito e della riconoscibilità del precetto, quali presupposti minimi indefettibili per potere affermare una responsabilità personale. La sussistenza di quei presupposti è fra le premesse del problema di cui qui discutiamo: la scusante del nemo tenetur viene prospettata per l’amministratore di società che forma un bilancio falso per nascondere fatti illeciti della sua gestione, sapendo bene cio che fa, e conoscendone la valutazione legale. Merita inoltre di essere rilevato, nella sentenza sull’art. 5, il modo in cui è stato delimitato lo spazio della nuova scusante dell’ignoranza ‘inevitabile’. Il capitolo della colpevolezza attiene ai rapporti fra l’ordinamento giuridico e i consociati: è un capitolo di doveri reciproci, la scusa dell’ignoranza si lega all’adempimento, da un lato, di doveri dell’ordinamento giuridico relativi alla qualità dei precetti penali, e dall’altro lato (questo il punto che ci interessa) all’adempimento di doveri del destinatario dei precetti: doveri d’informazione strumentali all’osservanza della legge, che la (26) Appunto i motivi di fondo di questo rifiuto stanno alla base delle più recenti ed argomentate prese di posizione dottrinali contro l’indirizzo che vorrebbe ammettere la scusante del nemo tenetur nell’ipotesi delle false comunicazioni sociali: PERINI, op. cit., p. 602 s. (27) Corte Cost. 364/88, in Foro. it., 88, I, 1385 s., con nota di Fiandaca; in Riv. it. dir. proc. pen., 88, 686 s., con nota di Pulitanò.
— 1281 — sentenza costituzionale ricollega ai doveri di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione. ‘‘La Costituzione richiede dai singoli soggetti la massima, costante tensione ai fini del rispetto degli interessi dell’altrui persona umana; ed è per la violazione di questo impegno di solidarietà sociale che la stessa Costituzione chiama a rispondere penalmente anche chi lede tali interessi pur non conoscendone positivamente la tutela giuridica’’. Questo approccio può essere trasferito, dal piano dei doveri d’informazione sui doveri penalmente sanzionati, ad altri piani ugualmente rilevanti per l’adempimento dei doveri, e che perciò possano richiedere una qualche tensione ai fini del rispetto di interessi altrui. La scusante della colpevolezza si iscrive — questo il senso complessivo della storica sentenza costituzionale — nell’orizzonte dell’etica della responsabilità: la richiesta d’attenzione e tensione ai fini del rispetto di interessi altrui è un limite che può essere legittimamente apposto alla previsione di scusanti soggettive. Un limite, in una parola, esigibile, e coerente con i principi su cui poggia il patto costituzionale dei diritti e doveri reciproci. 7. Escluso che l’introduzione d’una scusante generale del nemo tenetur sia imposta da principi costituzionali, può il problema essere riproposto in un contesto di politica del diritto, aperto a più opzioni ugualmente legittime? L’esempio delle false comunicazioni sociali, che è (o è stato?) il concreto oggetto del contendere, bene evidenzia la portata sconvolgente, rispetto ai principi portanti del sistema, che l’ipotetica scusante avrebbe. Il ritrarsi della punibilità varrebbe (sempre che, s’intende, si presupponga una corretta interpretazione della fattispecie) per situazioni che, da qualsiasi punto di vista le si guardi, dovrebbero ragionevolmente considerarsi più gravi. Più gravi sotto il profilo dell’interesse del pubblico ad una corretta informazione: la falsa comunicazione venendo a occultare elementi (occultamento di cespiti o di perdite correlabili a fatti illeciti) di spiccato rilievo per le valutazioni e determinazioni degli interlocutori reali o potenziali della società cui la comunicazione si riferisca. Tendenzialmente più gravi, e non già meno o addirittura non riprovevoli, anche sotto il profilo soggettivo. Il soggetto garante della veridicità della comunicazione si rende inadempiente, nell’ipotesi considerata, alla garanzia legalmente dovuta nell’interesse di terzi, connessa alla carica ricoperta; e si rende inadempiente per un motivo riprovevole, e generalmente riprovato dall’ordinamento nei termini di cui alla circostanza aggravante dell’art. 61, n. 2. Invece di adempiere alla garanzia dovuta per interessi di terzi, il nostro ipotetico amministratore, dopo avere commesso illeciti penali, la disattende in vista della propria impunità. Si rende inadempiente, si noti, in una situazione nella quale non può lamentare alcuna costrizione valutabile a suo favore. Non perché po-
— 1282 — trebbe, come pure si è osservato (28), astenersi dalla comunicazione: quando la comunicazione è doverosa (è il caso del bilancio), il non presentarla, oltre che illecito extrapenale, potrebbe pure essere una ragione di forte sospetto. In realtà la situazione è sì obiettivamente costrittiva; ma lo è per colpa del soggetto che in essa si è ficcato, con la propria precedente condotta illecita e col mantenimento d’una posizione di garanzia che non può essere adempiuta senza esporsi al rischio d’incriminazione. Situazioni del genere, si noti, caratterizzano le vicende più gravi che si siano presentate nell’esperienza giudiziaria recente. Basti pensare ai dissesti delle banche di Sindona o del Banco Ambrosiano, i cui ‘buchi’ di centinaia di miliardi di lire sono stati occultati per anni da bilanci falsi (29). Davvero si può sostenere essere principio di civiltà giuridica lo scusare, in base al nemo tenetur, la formazione e approvazione dei bilanci falsi — gravidi di conseguenze disastrose per il pubblico dei risparmiatori — da parte dei complici degli illeciti gestionali a monte? L’esclusione che possa sensatamente ravvisarsi — nella situazione di costrizione colpevolmente provocata — una colpevolezza esclusa o ridotta, toglie all’ipotetica scusante l’unico ipotizzabile fondamento. Analoghe considerazioni possono farsi sull’altro esempio sopra accennato, quello del medico che, omettendo di informare su un proprio errore diagnostico o terapeutico, abbia pregiudicato la salute o la vita del paziente. Emergono con la massima evidenza, in quel drammatico esempio, gli elementi che si oppongono — insuperabilmente — ad una estrapolazione della scusa del nemo tenetur fuori del contesto processuale: l’essere in gioco interessi di terzi, che possono essere anche i più elevati, e la posizione di garanzia per interessi di terzi, che è comunque sottesa agli obblighi di comunicazione, tipizzati o meno. Il bilanciamento vede, su un piatto, l’istanza soggettiva di non scoprirsi; sull’altro, l’esigenza di adempimento dei principi di solidarietà, sui quali si regge la conformazione di posizioni di garanzia (30), ed il cui inadempimento, come abbiamo poc’anzi ricordato, ha rilievo anche nel segnare i limiti d’una eventuale scusante soggettiva. Dove penda la bilancia, appare evidente. Lungi dall’essere un principio di civiltà giuridica, l’ipotetica scusante generale del nemo tenetur darebbe luogo ad uno stravolgimento dell’ordine dei valori in gioco: la non punibilità sarebbe introdotta, in nome dell’inesigibilità, per comportamenti che, sul piano obiettivo, presentano una accentuata carica lesiva per l’interesse protetto, e, sul piano soggettivo, una colpevolezza non minore. ‘‘Stravolgimento dell’ordine dei valori in gioco’’ è un noto topos della (28) PERINI, op. cit., p. 610. (29) Cfr., sulla vicenda Sindona, Cass. 1991, 828 s.; sulla vicenda del Banco Ambrosiano, Cass., 22 aprile 1998, in Guida al diritto, 1998, n. 33, 91 s. (30) Cass., 6 dicembre 1990, Bonetti, in Foro it., 1992, II, 36 s., nota Fiandaca.
— 1283 — giurisprudenza costituzionale in materia penale, riferito a scelte normative che stravolgono, nelle conseguenze, ogni ragionevole scala di gravità della situazioni considerate. Le applicazioni che ne sono state fatte sono in bonam partem, di invalidazione di scelte punitive discriminatoriamente severe (31). Sarebbe utilizzabile, quel criterio, per invalidare — in nome del principio d’uguaglianza — eventuali scelte di ‘ingiustificato privilegio’, quale sarebbe, a mio avviso, l’ipotizzata scusante? Le posizioni dottrinali sono, su questo punto, diversificate (32); nella giurisprudenza costituzionale, il sindacato su cause di non punibiiità è stato ritenuto ammissibile. Previsioni di cause di non punibilità ‘‘abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla Costituzione o da altre leggi costituzionali’’, non necessariamente con disposizione espressa, purché l’esenzione da pena sia il frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco (33). Nelle ipotesi qui considerate, un tale fondamento non appare proprio ravvisabile. Ma anche a ritenere esistente uno spazio aperto alla politica legislativa, al riparo dal giudizio della Corte Costituzionale, l’alternativa di civiltà resta chiara e netta: si vuole dare ascolto e perdono a chi allega a discolpa turpitudunem suam, in relazione a fatti lesivi di interessi di terzi, costituenti inadempimento di posizioni di garanzia? O si vuole — come è giusto e necessario — tenere fermo un ordinamento della convivenza civile e della tutela dei beni giuridici, fondato sui principi di solidarietà e di responsabilità? Obblighi di dichiarazione penalmente sanzionati a carico dell’imputato? 1. Di più difficile e non univoca soluzione sono i problemi che potrebbero essere posti al diritto sostanziale in relazione al caso dell’indagato o imputato che abbia reso dichiarazioni sul fatto di terzi, fuori d’un contraddittorio di cui essi siano parte (cioè nel corso di indagini preliminari, o in altro dibattimento), e successivamente, nel dibattimento in cui il chiamato in causa sia imputato, si rifiuti di rispondere (per brevità, chiameremo ‘dichiarante’ il soggetto del nostro problema). La tormentata vicenda degli interventi — del legislatore e della Corte Costituzionale — in materia di dichiarazioni del coimputato, o imputato o indagato in procedimento connesso o collegato, si è giocata tutta sul ter(31) Corte Cost. n. 26/1979, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 200 s., nota Rossetti. (32) Per la tesi più restrittiva, cfr. DOLCINI e MARINUCCI, Corso di diritto penale, 1999, p. 201. (33) Corte cost. 83/148, F. it., 83, I, 1800 s., con note di Gironi e Pulitanò. Sottolinea l’esigenza di non lasciare aperta la strada ad odiose forme di privilegio BRICOLA, Quest. crim., 80, 229.
— 1284 — reno della rilevanza processuale (condizioni di utilizzabilità nel dibattimento) di certe tipologie di dichiarazioni, su uno sfondo del quale fa parte il diritto al silenzio di chiunque sia sentito come indagato o imputato. Peraltro, sull’ambito in cui questo diritto è riconosciuto dal vigente codice di procedura (s’intende, limitatamente alle dichiarazioni sul fatto altrui) la discussione è e resta aperta (34), anche dopo che la Corte Costituzionale, nell’ambito della ‘sentenza additiva molto discussa’ (35) n. 361 del 1998, ha respinto le questioni di legittimità costituzionale, centrate sull’art. 210, comma 4, c.p.p., ‘‘nei termini in cui sono poste’’ (36). Possono entrare in gioco, su questa spinosissima questione di diritto processuale, punti di vista pertinenti anche al diritto sostanziale? La connessione fra i due piani, processuale e sostanziale, appare strettissima. Una eventuale riforma che toccasse, delimitandolo, il diritto al silenzio dell’imputato, difficilmente potrebbe fare a meno di un ‘‘opportuno reticolo di norme penalistiche’’ (37), unico strumento normativo affidabile per la prevenzione e repressione dell’inadempimento degli eventuali nuovi obblighi. Inoltre, gli interessi in gioco, che hanno finora reso precari gli equilibri processuali attorno al principio del contraddittorio, sono anche interessi legati al diritto sostanziale, in un senso bene individuato dalla sentenza n. 361 del 1998. Nell’individuare i valori costituzionali in gioco, la sentenza richiama, innanzi tutto, il diritto di difesa dell’imputato, o, meglio, della pluralità di persone indagate o imputate che abbiano interesse alla vicenda innescata da dichiarazioni sul fatto altrui. Sempre sul piano costituzionale ‘‘viene inoltre in gioco la funzione del processo penale, che è strumento, non disponibile dalle parti, destinato all’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità’’. Questa dimensione finalistica, propria delle istituzioni penali nel loro complesso, è talora trascurata o negata da indirizzi dottrinali centrati sul solo profilo garantista (38), ma è chiaramente iscritta nei principi fon(34) Per tutti, cfr. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in RIDPP, 1997, 736 s.; GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in RIDPP, 1998, 1129 s. (35) Sotto questo titolo è stata pubblicata in Dir. pen. e processo, 1998, 1493 s., la sentenza n. 361/98 della Corte Costituzionale, con note di Tonini e Marzaduri. Altri commenti (BRICCHETTI, FRIGO, RIVELLO, GIORDANO), in Guida al diritto, 1988, n. 44; cfr. anche GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza 361/98 della Corte Costituzionale, in Quest. Giustizia, 1999, 197 s.; BEATRICE, Quale ragionevolezza dopo la sentenza 361/98 della Corte Costituzionale, ivi, 438 s. (36) Cfr. i punti 9 e 10 della sentenza citata. (37) GREVI, op. cit., 1146. (38) Mi riferisco alia tesi che addita come unica finalità del processo penale quella di accertare la fondatezza o meno delle singole accuse: cfr. per es,. la relazione dell’allora Presi-
— 1285 — danti dei sistemi penali moderni, che additano nella funzione di tutela generalpreventiva dei beni giuridici il criterio ‘laico’ di legittimazione di istituzioni penali. Ed è chiaramente leggibile in un sistema costituzionaie nel quale il principio di obbligatorietà dell’azione penale, coerente riflesso processuale del principio di legalità dei reati e delle pene, orienta verso il finalismo repressivo la macchina giudiziaria, complessivamente considerata (39). Il problema fattuale della ‘produttività’ del sistema di giustizia, in termini di accertamento dei reati e di affermazioni di responsabilità degli autori di reati (insomma: di ‘applicazione della legge penale’), non può essere espunto dalle finalità del sistema, ma concorre a definire, insieme alla qualità delle garanzie ‘liberali’, il reale contributo della giurisdizione penale alla complessiva ‘tenuta’ della legalità e della tutela degli interessi che si vogliono legalmente protetti. Beninteso, sarebbe del tutto arbitrario, anzi distruttivo del modello liberale delle istituzioni penali, invocare il finalismo repressivo come grimaldello ‘‘per attenuare la tutela — piena e incoercibile — del diritto di difesa, coessenziale al processo’’. Con questa affermazione, la sentenza n. 361 del 1998 ha inteso distanziarsi dal modo in cui precedenti sentenze della Corte hanno teorizzato e utilizzato l’ambiguo topos della ‘non dispersione delle prove’, giungendo ad esiti di scardinamento del principio del contraddittorio (40). Di fatto, evitando di enunciare un tale criterio, la nuova sentenza ne recupera una versione ‘moderata’ e, nell’enunciazione che ne è stata fatta, ragionevolmente da condividere: ‘‘sono censurabili, sotto il profilo della ragionevolezza, soluzioni normative (s’intende, a livello processuale) che, non necessarie per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la funzione del processo’’. Affiora qui, mi pare, una ritrovata convergenza fra le enunciazioni di principio della Corte Costituzionale e la posizione della dottrina anche la più critica verso il cd. ‘principio di non dispersione delle prove’. ‘‘La tutela costituzionale compete — così la dottrina (41) — non alla ricerca della verità intesa in modo qualunque’’, ma alla ‘‘esigenza di compiuta dente dell’Unione delle Camere penali, Gaetano Pecorella, al Congresso nazionale del 25-27 ottobre 1996, in Guida al diritto, 1996, n. 44, 121. Il che è certamente vero se si pensa alla finalità e alla struttura di ciascun singolo processo, ma non se si pensa alle funzioni complessive delle istituzioni del law enforcement. (39) Anche in passato, la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di procedura penale ha considerato l’esigenza di prevenire e reprimere i reati come un bene oggetto di protezione costituzionale. Lo stesso principio di legalità ‘‘rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale’’; la legalità nel procedere ne sarebbe il necessario strumento di concretizzazione (sentenza n. 88 del 1991). Altre indicazioni sulla giurisprudenza costituzionale meno recente in SCAPARONE, op. cit., 84 s. (40) Per una rassegna analitica e giustamente critica, DOMINIONI, op. cit. (41) DOMINIONI, op. cit., 753.
— 1286 — formazione della prova nella veste modale con cui è incarnata nei principi dell’ordinamento processuale’’. Solo entro questo quadro di principio può porsi il problema se, e a che condizioni, possano giustificarsi delle eccezioni al principio della formazione dialettica della prova. E qui la dottrina richiamata conviene che ‘‘non c’è dubbio che non si possono ignorare esigenze particolari di adattamento dei meccanismi dialettici di formazione della prova essendo da evitare che nel dibattimento si perdano irragionevolmente determinati contributi di ricerca delle indagini preliminari’’ (42). In concreto, dunque, quella che la Corte Costituzionale definisce ‘funzione del processo’ quale strumento di accertamento dei fatti e delle responsabilità penali, passa necessariamente — avendo riguardo ai principi dell’ordinamento processuale — attraverso la ‘‘compiuta formazione dialettica della prova’’ nel contraddittorio fra le parti. E ciò ha rilievo, allo stesso modo, sul terreno del processo e del diritto sostanziale, là dove questo assuma ad oggetto la tutela (penale) dell’attività di accertamento e repressione dei reati. Il bene tutelato è costituito non da una generica istanza repressiva, ma da un modello di funzionamento della giustizia penale, conformato dalla legge processuale (43), del quale fanno parte le garanzie e le legittime estrinsecazioni del diritto di difesa, ed anche, ovviamente, il principio del contraddittorio. In questo contesto, l’istanza del ‘non perdere irragionevolmente determinati contributi di ricerca’ emerge come versione ‘moderata’, largamente condivisa, che intende riconnettere in un sistema coerente i principi garantisti del giusto processo e la dimensione finalistica (in ultima analisi il law enforcement) cui anche il processo è strumentale. Non è una soluzione, ma è l’enunciazione di un problema, particolarmente complesso, di contemperamento e bilanciamento fra i diversi (e tendenzialmente confliggenti) valori in gioco, ed evoca come parametro costituzionale il principio d’uguaglianza. Sugli esiti del bilanciamento, in relazione al problema delle dichiarazioni del coimputato, le posizioni sono state e restano divergenti. Le soluzioni volute dal legislatore sono state per due volte modificate (anzi, capovolte) dalla Corte Costituzionale, con spostamenti pendolari fra il polo della garanzia del contraddittorio per il chiamato in causa, ed il polo del finalismo inquisitorio. Per due volte, prima con la sentenza n. 254 del 1992, e poi con la sentenza n. 361 del 1998, la Corte Costituzionale ha spostato l’asse verso il polo dell’inquisizione, e in entrambi i casi è stato assunto a parametro decisivo il principio d’uguaglianza, ravvisandosi nelle soluzioni legislative (prima quella originaria del codice, e poi quella introdotta dalla legge n. 267 del 1997) un meccanismo irragionevole e incoerente di restrizione all’utilizzo di elementi di prova raccolti legittimamente. (42) DOMINIONI, op. cit., 744. Cfr. anche GREVI, op. cit., 1148. (43) PULITANÒ, Il favoreggiamento personale, cit., 77 s.
— 1287 — Nella pars destruens, l’approccio della sentenza del 1998 rileva ed elimina un elemento di incongruenza interna nella legge del 1997: non si ritiene ragionevole (44) far dipendere l’acquisizione dibattimentale della dichiarazione extra-dibattimentale dal consenso dell’imputato che di fatto è controinteressato a tale acquisizione. Assai meno condivisibile la pars costruens, là dove ritiene di potere recuperare le dichiarazioni extradibattimentali attraverso un simulacro di contraddittorio, nel quale il diritto di muovere contestazioni è in realtà svuotato dal diritto al silenzio che permane in capo all’interrogato. Ad un modello costruito su un criterio irragionevole di differenziazione si è sostituito un modello ancor meno accettabile, perché solo apparentemente conforme al principio del contraddittorio, mentre ne riflette una ‘‘immagine fittizia e caricaturale’’ (45) e perpetua effetti perversi correttamente rilevati dalla migliore dottrina (46). Il movimento pendolare, determinato dai reiterati interventi del legislatore e del giudice delle leggi, è dunque ancora lontano da un soddisfacente punto d’equilibrio. Da ciò l’esigenza di un nuovo intervento legislativo, irrinunciabile (e tale ritenuto in particolare dal ceto forense) a garanzia di un reale contraddittorio nella formazione della prova. La via imboccata (con ampio ma non unanime consenso) è quella dell’introduzione nella Costituzione di un principio che recuperi più solide garanzie per il contraddittorio. La formulazione proposta, nel disegno di legge costituzionale approvato in prima lettura dai due rami del Parlamento (47), è che ‘‘nessuno può essere condannato in base a dichiarazioni rese da chi si è sempre sottratto volontariamente all’esame da parte dell’imputato e del suo difensore’’ (48). Il principio (cui sono apposte limitate possibilità di deroga) è senz’altro condivisibile; ma quali ne sarebbero gli effetti, in assenza di ulteriori interventi del legislatore ordinario? La soluzione introdotta dalla sentenza n. 361 del 1998 diverrebbe incompatibile con il previsto riassetto costituzionale. Torniamo allora, sic et simpliciter, a regole di esclusione del tipo di quelle che la Corte Costituzionale ha invalidato? L’esito pratico non sarebbe del tutto appagante, per il sacrificio di quegli interessi, legati al finalismo repressivo, che la Corte Costituzionale ha inteso salvaguardare, e che manterrebbero rilevanza anche dopo il rafforzamento delle garanzie costituzionali del giusto processo. La salvaguardia del contraddittorio (che, certo, è l’interesse priori(44) Lo aveva già rilevato la più attenta dottrina processualistica: GREVI, op. cit., 1149. (45) FRIGO, op. cit., 62. (46) Per tutti DOMINIONI, op. cit., 766. (47) Atti camera Deputati, n. 5735C. (48) Sulla legittimità politica e giuridica di un intervento del legislatore ‘in polemica’ verso soluzioni affermate dalla Corte Costituzionale, cfr. FERRAJOLI, in Quest. Giustizia, 1999, 495.
— 1288 — tario) sarebbe ottenuta al pezzo della dispersione di apporti forniti dal ‘dichiarante’, e della possibile incidenza di questa dispersione sulla funzionalità della macchina giudiziaria. L’esperienza mostra che, nel bilanciamento fra i molteplici interessi in gioco — il diritto di difesa del dichiarante, il diritto di difesa del chiamato in causa, la funzione di accertamento efficace — è impossibile trovare una soluzione di piena salvaguardia di tutti gli interessi in conflitto. Né il riequilibrio sarebbe assicurato dalla prevista (ed auspicabile) modifica costituzionale, che punta alla piena salvaguardia di uno soltanto fra gli interessi in gioco, e sia pure quello prioritario. Il discorso sull’auspicata, anzi necessaria riforma della legislazione ordinaria resta in una impasse, dove appaiono spiazzate le troppo facili formule consolatorie che postulano ideologicamente la componibilità delle tensioni immanenti al sistema penale e processuale penale. Per uscire dall’impasse, parrebbe saggio prendere atto che i sacrifici imposti dalle soluzioni fin qui sperimentate — sia da quelle che non salvaguardano il contraddittorio, sia da quelle che intaccano in modo irragionevole talune condizioni di funzionalità del processo — sono apparsi, tutti quanti, non tollerabili. È in questo contesto che il tema dei limiti del diritto al silenzio (con relativo apparato sanzionatorio) si ripropone come una delle possibili vie per avvicinare un sostenibile punto d’equilibrio fra valori che non sembra possano essere salvaguardati fino in fondo. 2. Diritto al silenzio significa possibilità, per il ‘dichiarante’ sul fatto del terzo, di sottrarsi al contraddittorio con l’accusato: un esito di evidente pregiudizio per il diritto di difesa di questo, là dove (è la situazione conseguente agli interventi della Corte Costituzionale) il verbale delle dichiarazioni precedentemente rese possa essere acquisito e utilizzato come prova, o, per converso, di evidente pregiudizio per la verifica probatoria delle accuse, là dove tale acquisizione sia o possa essere preclusa (come dettavano le disposizioni su cui le sentenze costituzionali hanno inciso, e come consegue alla modifica costituzionale). È giustificata la prevalenza accordata sempre e comunque al diritto al silenzio del ‘dichiarante’, rispetto a tutti gli altri valori in gioco? Se taluno accredita alla Corte di aver saputo ‘‘sfuggire alla facile tentazione’’ di incidere in senso riduttivo sul diritto al silenzio (49), autorevole dottrina ravvisa in quella soluzione una tutela sovrabbondante, per la maggior parte delle figure soggettive cui è attribuito il diritto di rifiutare l’esame (50), rispetto allo scopo di apprestare ‘‘una garanzia funzionale alla tutela del di(49) RIVELLO, in Guida al diritto, 1988, n. 44, p. 65. (50) DOMINIONI, op. cit., 753 s., esamina partitamente le posizioni del soggetto definitivamente giudicato, o nei cui confronti vi sia stata archiviazione o non luogo a procedere, o sia ancora indagato o imputato in procedimento connesso o collegato, o coimputato nel
— 1289 — ritto al silenzio sul fatto proprio’’ (51); con la conseguenza che l’impatto negativo su altri interessi di sicuro rilievo costituzionale (diritto di difesa del chiamato in causa e interesse alla formazione dialettica della prova) sarebbe privo di razionale giustificazione, e in definitiva costituzionalmente illegittimo. La questione di costituzionalità del diritto al silenzio è stata respinta nella sentenza n. 361 del 1998, su un duplice presupposto: da un lato, la coerenza del riconoscimento del diritto di non rispondere, quale ‘‘irrinunciabile manifestazione del diritto di difesa’’, con la peculiare posizione dell’imputato in procedimento connesso; dall’altro lato, la ritenuta sufficienza del meccanismo delle contestazioni ex art. 500 c.p.p. a garantire il diritto al contraddittorio del chiamato in causa. L’opinabilità della prima premessa e l’inaccettabilità della seconda inficiano il ragionamento della Corte; resta aperto, in ogni caso, il problema di politica del diritto, se il bilanciamento fra i diversi e contrapposti interessi in gioco non possa condurre ad esiti diversi. Inutile nascondersi che incidere sul diritto al silenzio del ‘dichiarante’ sarebbe un passo molto delicato, anche per la rottura rispetto alla tradizione, e sia pure quella, come è stato scritto, ‘‘delle concezioni pseudogarantistiche del processo misto ultima maniera’’ (52). L’ampiezza (sovrabbondanza?) della garanzia può, in misura maggiore o minore, trovare argomenti per ciascuna delle situazioni soggettive in cui è oggi riconosciuto il diritto al silenzio; argomenti fragili, certo, con riferimento ai casi in cui il procedimento o processo contro il dichiarante sia stato già definito, e in particolare quando sia stato definito con sentenza assolutoria irrevocabile; ma per il dichiarante tuttora sotto processo l’esigenza di difesa è attuale, e l’estensione della garanzia del diritto al silenzio, anche sul fatto del terzo, trova supporto nella normale connessione fra il riferire del fatto del terzo e il riferire del fatto proprio. Qualsiasi dichiarazione su fatti appresi (che non si esaurisca in congetture di per sé sprovviste di contenuto probatorio, e perciò irrilevanti rispetto al problema in esame) è condizionata al modo e al contesto il cui il fatto dichiarato è stato appreso: in quanto vissuto direttamente, o perché appreso in altro modo. Sotto questo aspetto, qualsiasi informazione resa è anche informazione sul fatto proprio, e precisamente sul modo e contesto della acquisizione della conoscenza di quanto riferito. L’idea di poter separare in modo netto le dichiarazioni sul fatto altrui dal fatto proprio si rivela dunque illusoria: qualsiasi dichiarazione sul fatto altrui implica necessariamente, sul piano di una seria e controllabile medesimo processo. Per quest’ultima ipotesi, viene proposta la separazione del processo: è la soluzione esistente adottata in Francia e in Germania, su cui cfr. TONINI, op. cit. (51) GREVI, op. cit., 1136. (52) DOMINIONI, op. cit., 753.
— 1290 — verifica probatoria, la verifica del contesto in cui la affermata conoscenza del fatto altrui sia stata ottenuta. Di regola, il nesso è ancora più stretto: le dichiarazioni sul fatto del terzo, di maggiore interesse per la giustizia penale, sono chiamate in correità, nelle quali contenuto accusatorio verso altri e contenuto confessorio sono intrecciati inestricabilmente. In tutti i casi, dunque, in cui il dichiarante sia ancora esposto ad imputazioni in atto o possibili, una compiuta tutela del diritto al silenzio sul fatto proprio ha bisogno della copertura più ampia, rappresentata dal diritto al silenzio sul fatto altrui, o meglio sui contesti (che sono anche ‘fatto proprio’) in cui il fatto altrui sia stato appreso. Incidere su questa copertura sarebbe un’operazione non indolore, che abbisogna, ovviamente, di una plausibile giustificazione, sul piano della legittimità costituzionale e su quello della politica del diritto. La strada da verificare resta quella dell’equiparazione del ‘dichiarante’ con il testimone, che il legislatore ha percorso solo a metà, con la creazione dell’ibrida figura dell’imputato testimone (53), e che la Corte Costituzionale ha proseguito in modo ambiguo, con la pronuncia ‘additiva’ che rende applicabile al ‘dichiarante’ non testimone il regime delle contestazioni ai testimoni ex art. 500 c.p.p.; ma l’accostamento resta illusorio, fino a che manchi ciò che essenzialmente caratterizza la posizione del testimone, vale a dire, l’obbligo di verità. Un modello compiuto di disciplina della testimonianza sul fatto altrui, da parte dell’indagato o imputato già ‘dichiarante’, nei limiti delle dichiarazioni già rese, è stato proposto da autorevoie dottrina (54). In sede parlamentare, sono in discussione proposte che riducono l’ambito dell’incompatibilità a testimoniare, e aprono la strada, a certe condizioni fra cui la definizione del procedimento, anche alla testimonianza dell’imputato nel medesimo procedimento, o in procedimento connesso o collegato. Al di là delle differenze nei modelli processuali, elemento comune e caretterizzante è l’inserzione di norme penali per il caso di violazione degli obblighi inerenti all’esame. È esplicito ed ovvio il riferimento alla disciplina della falsa testimonianza: l’equiparazione con il testimone, rimasta a metà nel sistema processuale uscito dalle sentenze della Corte Costituzionale, ricerca il suo suggello sul piano delle fattispecie di reato e delle sanzioni penali. Una soluzione che incida sul diritto al silenzio, con l’introduzione di doveri e sanzioni, deve essere perciò verificata anche alla luce di principi ed esigenze del diritto penale sostanziale. (53) L’espressione è di PISAPIA, Relazione introduttiva al convegno su la legislazione premiale, in Atti del convegno, 1986, 34. (54) GREVI, op. cit., 1145 s.
— 1291 — 3. Il primo e preliminare problema di legittimità attiene alla rilevanza del diritto di difesa, quale limite (costituzionale) alla possibilità di imporre obblighi di collaborazione con gli strumenti del diritto penale. Tale limite, per definizione, non opera nei casi nei quali sia dato escludere la sussistenza, in capo al dichiarante, di un interesse difensivo tuttora attuale, correlabile all’oggetto delle dichiarazioni rese. Certamente non opera, dunque, quando il procedimento a carico del dichiarante sia stato definito con sentenza irrevocabile di assoluzione. Ma può ritenersi non operante anche quando il procedimento sia stato definito in altro modo, se è vero che la reiterazione di dichiarazioni già rese nel procedimento definito non può mettere in pericolo né la stabilità di decisioni di non luogo a procedere o di archiviazione, né eventuali chances di ottenere la revisione della condanna (55). In tutti questi casi, non troverebbe ostacolo l’equiparazione di principio del già imputato con il testimone. E ciò sarebbe, rispetto all’attuale sovrabbondante ambito di riconoscimento del diritto al silenzio, un notevole e, tutto sommato, poco costoso passo avanti. Quando invece il dichiarante sia tuttora indagato o imputato in procedimento connesso o collegato, l’intreccio con il diritto di difesa è in re ipsa. È possibile, entro quest’area, introdurre una deroga al principio generale che fa del diritto di difesa un limite invalicabile all’imposizione di obblighi e di sanzioni? A questo proposito, può essere utile introdurre nel discorso una riflessione apparentemente assai banale, che solo di sfuggita affiora nelle discussioni in argomento: a differenza delle altre dichiarazioni che un indagato o imputato possa rendere, le dichiarazioni sul fatto di terzi non rientrano nella sfera in cui può parlarsi di diritto al mendacio, ma in una sfera regolata dal divieto di calunnia, e quindi da un vincolo a un dovere di verità sui temi che potrebbero interessare un’ipotetica indagine nei confronti dei terzi chiamati in causa. E di fatto, le dichiarazioni che possono interessare la giustizia penale, e che aprono i problemi qui discussi, sono dichiarazioni sul fatto di terzi aventi significato accusatorio, che, se false, darebbero luogo a responsabilità per calunnia. Per questa ragione, la dichiarazione sul fatto del terzo, che qui interessa, deve essere valutata non solo come modalità di esercizio del diritto di difesa, come tale insindacabile, ma anche come una precisa assunzione di responsabilità, verso il chiamato in causa e, insieme, verso il sistema di giustizia, che la dichiarazione sul fatto del terzo mette in moto, prospettando ex novo o anche solo dando nuovo supporto ad un’ipotesi accusatoria a carico di terzi. È, questo, un profilo che fortemente differenzia la dichiarazione sul (55)
DOMINIONI, op. cit., 757.
— 1292 — fatto del terzo dalle altre modalità di esercizio del diritto di difesa; che si riflette nella disciplina di diritto sostanziale (eventuale responsabilità a titolo di calunnia), e che potrebbe non irragionevolmente fondare ulteriori differenze di disciplina, a tutela degli interessi che il dichiarante ha messo in gioco con la sua scelta, soggettivamente libera e nello stesso tempo sottoposta (a differenza di altri modi di esercizio della difesa) a precisi vincoli giuridici. Soltanto l’azzeramento totale degli effetti della dichiarazione sul terzo, qualora non confermata in contraddittorio con il chiamato in causa, toglierebbe base al problema. Ma è una strada non praticabile, già per la semplice ragione che la dichiarazione accusatoria mette in moto, o comunque alimenta l’indagine sul chiamato in causa, producendo effetti processuali immediati e concreti, ‘non disponibili’ da parte del dichiarante. Ed è proprio tale situazione processuale, con le esigenze di verifica ch’essa comporta, a dar vita ai problemi di cui si discute. La peculiarità di tale situazione — coinvolgente una pluralità di interessi in conflitto, tutti meritevoli di protezione ma non integralmente componibili — può ritenersi tale da rendere non illegittima una ben delimitata incisione sul diritto al silenzio: le domande, nei cui confronti possa essere introdotto un dovere di rispondere, non possono che essere domande volte alla verifica (positiva o negativa) delle precedenti dichiarazioni sul fatto del terzo. Al di fuori dei limiti della precedente assunzione di responsabilità del dichiarante, realizzata con il chiamare in causa terze persone, un’ipotetica previsione di un obbligo di rispondere inciderebbe sul diritto di difesa in assenza di un interesse idoneo a giustificare la deroga. Rispetto ad un’ipotetica introduzione di norme penali, la garanzia del diritto di difesa manterrebbe perciò integro il valore di limite invalicabile. Abbiamo così individuato il presupposto (l’unico presupposto non illegittimo) dell’eventuale obbligo (dell’indagato o imputato in procedimento connesso o collegato) di testimoniare sul fatto altrui. Tale presupposto non può che essere individuato nella situazione che dà luogo al problema, cioè nell’avere reso, in veste di imputato o indagato, una dichiarazione di contenuto accusatorio (non esaurentesi in una mera congettura, ma implicante concrete informazioni fattuali) nei confronti di terzi, al di fuori del contraddittorio con i chiamati in causa. È in tal caso, infatti, e solo in tal caso, che si pongono le esigenze (di garanzia del contraddittorio e della formazione dialettica della prova) che potrebbero giustificare, in via eccezionale, l’introduzione d’un obbligo di rispondere nel contraddittorio col chiamato in causa, in deroga al normale diritto al silenzio. 4. Un ulteriore problema attiene ai contenuti del dovere, che al ‘dichiarante’ possa essere imposto: il medesimo dovere di verità che grava sul testimone, o semplicemente un dovere di rispondere?
— 1293 — La problematica del ‘dichiarante’ ha ad oggetto il sottrarsi al contraddittorio. È il silenzio, e non il mendacio nel contraddittorio, che arreca formale pregiudizio al diritto di difesa del chiamato in causa, in un sistema che consenta il recupero di dichiarazioni (accusatorie) non filtrate da un reale contraddittorio, e che fa sorgere, ove tale recupero non sia consentito, il problema della ‘non dispersione’ di elementi utili al funzionamento della giustizia. Verso chi accetti di rispondere nel contraddittorio dispiegato, il meccanismo delle contestazioni (e del conseguente recupero delle dichiarazioni precedenti, alle condizioni e nei limiti di cui all’art. 500 c.p.p.) può funzionare non diversamente da come funziona per i testimoni. È solo il silenzio che riduce tale meccanismo ad un simulacro. Quanto all’incidenza sul diritto di difesa del ‘dichiarante’, è stato fatto l’esempio del soggetto che, sottoposto a esame nel dibattimento ex art. 210 c.p.p., modifichi le precedenti dichiarazioni in termini per lui vantaggiosi, per es. ritrattando la confessione che aveva coinvolto anche il terzo. In ipotesi del genere, si sostiene, resterebbe fermo il diritto a non rendere dichiarazioni autoincriminanti: con la conclusione che, ‘‘in termini costituzionalmente corretti’’, sarebbe configurabile un obbligo di rispondere, ma non di rispondere secondo verità (56). Posto che, per il caso di mendace prospettazione di elementi d’accusa di fronte all’autorità, resta ovviamente operante il divieto di calunnia, l’esempio della mendace ritrattazione di dichiarazioni accusatorie e autoincriminanti coglie il punto realmente problematico. E il problema presenta sfaccettature assai complesse. Da un lato, come abbiamo visto, l’imposizione di un dovere di verità appare a prima vista non necessaria ad assicurare il contraddittorio, e sarebbe fortemente limitativa del diritto di difesa. D’altro canto, come ora vedremo, l’introduzione di un mero dovere formale di rispondere (ammesso che sia possibile delimitarlo in modo chiaro da doveri attinenti al contenuto della risposta) darebbe vita a un sistema gravemente disfunzionale. È stata evocata, contro la configurazione di un dovere di verità, la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p., che si vuole ‘‘naturalmente’’ ricompresa nel reticolo delle norme penali da estendere alla testimonianza del dichiarante. Nel contempo, sul piano processuale, si propone una clausola di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in sede di esame testimoniale sul fatto altrui, qualora pregiudizievoli rispetto al fatto proprio (57). Nell’ottica del diritto penale sostanziale, mi sembra si debbano introdurre alcune riflessioni critiche. (56) DOMINONI, op. cit., 759 s. (57) GREVI, op. cit., 1139-40. Nello stesso senso le proposte di legge all’esame del Parlamento.
— 1294 — Nel contesto dei problemi qui in discussione, la causa di non punibilità dell’art. 384 c.p. non troverebbe, contrariamente a quanto parrebbe scontato, un ragionevole spazio di applicazione. Si vuole tener ferma la non punibilità del mendacio? Tale soluzione può, in teoria, essere fondata a livello di tipicità: limitando, cioè, l’ipotetica nuova fattispecie di reato al rifiuto di rispondere (che dovrebbe ritenersi integrato anche da risposte elusive, non correlabili alla domanda), senza riferimento alla verità, e senza bisogno, perciò, di una causa di non punibilità ad hoc. Supponiamo, allora, che per il dichiarante venga introdotto, in conformità alla citata indicazione della dottrina processualistica, un obbligo di rispondere, ma non di rispondere secondo verità. Quid juris nel caso che il rispondere veridicamente comporterebbe il ‘grave e inevitabile nocumento’ preso in considerazione dall’art. 384 c.p.? Ritenere inapplicabile (s’intende, al rifiuto di rispondere) la causa di non punibilità significherebbe sollecitare risposte false, come adempimento non inesigibile, in alternativa al silenzio oggetto d’incriminazione: il che appare francamente insostenibile dal punto di vista di almeno uno degli interessi in gioco, quello del buon funzionamento della giustizia. Ma ritenere applicabile la causa di non punibilità svuoterebbe completamente la portata della nuova ipotetica norma, se è vero che, per l’intreccio strutturale fra il fatto altrui riferito ed il fatto proprio, la causa di non punibilità coprirebbe, di fatto, pressoché l’intero ambito teorico di applicabilità dell’ipotizzata norma incriminatrice. Queste riflessioni inducono a ritenere che un precetto penalmente sanzionato, limitato all’obbligo di rispondere (cioè senza obbligo di verità), non sarebbe razionale rispetto alla tutela dei beni giuridici in gioco, qualunque sia la soluzione sulla applicabilità o meno dell’art. 384. Non resta allora che ipotizzare un precetto comprensivo anche dell’obbligo di rispondere secondo verità, come è nella logica della normale testimonianza. Se però riteniamo applicabile l’art. 384, lo svuotamento pratico del precetto rimane incombente: l’implicazione del ‘fatto proprio’, per chi riferisca il vero sulla propria conoscenza del fatto altrui — e ciò spesso significa: sulla comune partecipazione a fatti di rilievo penale — finirebbe per scusare nella maggior parte dei casi, e comunque in quelli realmente importanti, tanto il silenzio quanto il mendacio. L’unica soluzione coerente con l’esigenza di funzionalità della nuova ipotetica disciplina sarebbe dunque un precetto comprensivo anche dell’obbligo di rispondere secondo verità, con esclusione dell’applicabilità dell’art. 384 c.p. Sarebbe una soluzione assai dura, sia perché incidente, sul piano oggettivo, sulle normali garanzie della difesa, sia per il ritrarsi della causa di non punibilità applicabile in situazioni del genere, e la cui estensione al
— 1295 — nostro caso appare ‘naturale’. Non si rischia di esigere, alla fin fine, comportamenti inesigibili, in contrasto con principi cardine del sistema penale? Una difesa di principio della legittimità della soluzione in esame, di fronte all’idea della inesigibilità, può essere ritrovata, mi pare, nella considerazione che, con il richiedere al dichiarante di rispondere in dibattimento sul già dichiarato, non si esige null’altro che di rendere controllabile, nelle forme del contraddittorio processuale, quanto da lui già fatto per libera scelta, in vista del suo interesse difensivo liberamente valutato. Lungi dall’essere ‘inesigibile’, il comportamento che diverrebbe doveroso corrisponde al comportamento già tenuto (ovvero, nel caso sia stato dichiarato il falso sul fatto del terzo, all’eliminazione delle conseguenze di un comportamento antigiuridico). 5. Potrebbe (dovrebbe) essere temperata, la durezza dell’obbligo di verità, da clausole di inutilizzabilità contro il dichiarante, come sostenuto in dottrina e nelle proposte all’esame del Parlamento? Un tale rimedio, apparentemente in linea con un modello processuale garantista, aprirebbe la strada a rischi gravissimi. Da un lato, lo scudo dell’inutilizzabilità contra se di dichiarazioni accusatorie e autoincriminanti si presterebbe ad essere strumentalizzato in vista di vantaggi (un’impunità conquistata sfruttando la disciplina delle prove) maggiori di quanto l’ordinamento non riconnetta alla collaborazione processuale sul piano del diritto sostanziale. La chiamata in correità, reiterata nel contraddittorio sotto l’obbligo di rispondere, varrebbe contro il chiamato in correità, non invece contro il dichiarante. Le opzioni di fondo del diritto sostanziale, in punto di limiti di rilevanza (attenuante, non esimente) della collaborazione processuale, rischierebbero di essere travolte da un favor processuale atto a produrre un esito di impunità. Dall’altro lato, verrebbe ad incrinarsi la stessa affidabilità della dichiarazione sul fatto del terzo, ben più di quanto non sia da temere (e la dottrina non denunci) in conseguenza dell’introduzione di istituti ‘premiali’ che non contemplano la non punibilità. L’inutilizzabilità contra se di quanto dichiarato non si limita a introdurre ragioni di convenienza a collaborare, su uno sfondo che è (nel diritto premiale vigente) di assunzione di responsabilità proprie di fronte alla giustizia penale; ma significa eliminare in radice il profilo della assunzione di responsabilità verso se stesso, che solo consente di riconoscere una credibile assunzione di responsabilità anche nelle dichiarazioni sul fatto di terzi. E non parliamo dell’assai maggiore rischio di strumentalizzazione a disegni non controllabili del dichiarante (o dell’inquirente) cui l’inutilizzabilità contra se farebbe venir meno una potente remora. Dal punto di vista dell’interesse al funzionamento efficace della giustizia, un recupero di materiali ‘probatori’ pagato a tal prezzo comporterebbe un saldo negativo: possibile immunità del ‘dichiarante’, e minore af-
— 1296 — fidabilità delle sue dichiarazioni; in prospettiva, crescente discredito verso l’affidamento in ‘collaboratori di giustizia’. Dal punto di vista delle garanzie processuali, la posizione del chiamato in causa sarebbe esposta a un accentuato rischio di strumentalizzazioni. Molto meglio, allora, rinunciare a qualsiasi deroga al diritto al silenzio, piuttosto che pagarla con il distorcente regalo dell’inutilizzabiltà contra se. Contro l’introduzione di deroghe al diritto al silenzio, avendo riguardo ai possibili effetti, può anche essere addotto il rischio che chi abbia reso dichiarazioni calunniose si trovi praticamente indotto a reiterarle, ove abbia a temere che una ritrattazione non sia creduta e divenga essa oggetto d’accusa. Un tale rischio potrebbe peraltro essere ridotto, con la previsione che il ravvedimento operoso, ravvisabile in una ritrattazione veritiera, venga adeguatamente ‘premiato’ (58). 6. L’eventuale imposizione di un obbligo di rispondere (e di rispondere il vero), sotto sanzione penale, è la più energica, ma non l’unica possibilità che il diritto sostanziale ha di incidere sul problema delle dichiarazioni sul fatto del terzo. Altri strumenti praticabili attengono alla disciplina di istituti lato sensu ‘premiali’. E rispetto all’imposizione di obblighi, la manovra di incentivi ‘premiali’ si prospetterebbe come una alternativa meno drastica, che potrebbe, se gestita oculatamente, assicurare il risultato pratico voluto, con costi minori. Le dichiarazioni ‘accusatorie’ del coimputato, attorno alle quali sorgono i problemi qui in discussione, sono spesso dichiarazioni di soggetti largamente ‘confessi’, i quali si attendono, dal comportamento processuale collaborante, un qualche vantaggio negli sviluppi del processo a loro carico. I casi più rilevanti sono quelli dei c.d. collaboratori di giustizia in indagini per delitti di terrorismo o di criminalità organizzata, per i quali vengono in rilievo l’assegnazione a un programma di protezione e l’applicazione di attenuanti ‘premiali’. Ma anche al di fuori di tali ipotesi vengono in rilievo (e sono perseguiti dai ‘dichiaranti’) vantaggi tangibili in ordine al trattamento sanzionatorio, in particolare attraverso l’accesso a riti alternativi, nei quali la dimensione processuale si intreccia con quella ‘sostanziale’ delle diminuzioni di pena (artt. 442 e 444 c.p.p.). È possibile, è opportuno ‘manovrare’ tecniche premiali per sollecitare l’accettazione del contraddittorio dibattimentale da parte del dichiarante? Con riferimento al sistema della protezione e alle attenuanti per i c.d. collaboratori di giustizia, è nella logica stessa di tali istituti (sotto questo (58) Si potrebbe per es. pensare ad una diminuzione di pena da un terzo a due terzi, non rientrante nel bilanciamento con eventuali aggravanti; in caso di ritrattazione spontanea entro un termine brevissimo, e comunque prima di provvedimenti coercitivi a carico del falsamente accusato, potrebbe prendersi in considerazione anche la previsione di non punibilità, eventualmente discrezionale.
— 1297 — specifico profilo, senz’altro accostabili in una disciplina omogenea) (59) che la protezione e il premio corrispondano a collaborazioni processualmente utilizzabili e verificate nel contraddittorio fra le parti. Il rispondere nel contraddittorio dibattimentale è necessario a dare — indipendentemente dal regime di utilizzabilità delle dichiarazioni rese al P.M. — affidabilità e garanzia di ‘tenuta’ alla collaborazione prestata, e costituisce il naturale completamento della scelta di collaborazione: un completamento che non può non ritenersi necessario a fondare la meritevolezza vuoi della protezione, vuoi d’un trattamento sanzionatorio meno severo. Chi si avvalga della facoltà di non rispondere, rinuncia a realizzare compiutamente il presupposto per la concessione di benefici in parola, in violazione di un impegno comunque implicito nella precedente scelta di ‘parlare’ di responsabilità di altri. Pur essendo questa conclusione già oggi raggiungibile in via interpretativa, avendo riguardo alla ratio del sistema di protezione e delle disposizioni premiali vigenti (60), potrebbe essere opportuno, anche come messaggio a tutti i potenziali interessati, stabilire espressamente, con una disposizione di principio, che misure di protezione (61) ed attenuanti premiali, comunque formulate, non sono in nessun caso applicabili al ‘dichiarante’ che si sottrae al contraddittorio (62). Più complessa è la questione dei riti alternativi. La loro disciplina, nel codice di procedura penale, è ispirata ad esigenze che nulla hanno a che fare con la collaborazione processuale. D’altra parte, per la ‘premialità’ insita nel rito abbreviato e nel patteggiamento, l’ammissione a tali riti si presta tecnicamente ad essere ‘manovrata’ in vista di obiettivi, fra i quali una qualche collaborazione processuale potrebbe ragionevolmente esser fatta rientrare. Al di là di quanto ci si possa attendere dalla prassi nell’attuale contesto normativo (che non dà alcun appiglio nella direzione qui prospettata), si apre uno spazio per interventi del legislatore, che diano fonda(59) Sotto altri profili, si impone l’esigenza di una chiara differenziazione dei presupposti della protezione e delle attenuanti premiali. Sia consentito rinviare, in proposito, a PULITANÒ, Rigore e premio nella risposta alla crimimalità organizzata, in I reati associativi, 1998, 161. (60) Oltre a PULITANÒ, loco ult. cit., cfr. MOROSINI, Silenzio dibattimentale e revocabilità dei benefici premiali, in Quest. giustizia, 1999, 214 s. (61) Sul punto GREVI, op. cit., 1146: la revoca delle misure dovrebbe essere la coerente conseguenza del rifiuto di rispondere, nel dibattimento, alle domande sui temi della precedente attività di collaborazione, e in particolare sulle dichiarazioni relative ad altrui responsabilità. (62) Rispetto all’esigenza processuale qui discussa, basterebbe il rispondere nei limiti della precedente dichiarazione. Rispetto alla logica della disciplina premiale, l’accettazione del contraddittorio dovrebbe essere richiesta in via incondizionata, quale presupposto del trattamento più favorevole.
— 1298 — mento normativo più saldo e più ampio ad una gestione dei riti alternativi finalizzata, ove occorra, alla garanzia del contraddittorio. Una tale prospettiva sarebbe senz’altro giustificata sul piano sostanziale: la riduzione di pena potendo ragionevolmente ritenersi non meritata da chi si sottragga alla responsabilità del rispondere nel contraddittorio processuale su accuse da lui stesso lanciate. E sarebbe tanto più opportuna, qualora si ritenga di scartare la strada dell’imposizione di obblighi in deroga al diritto al silenzio. La possibile restrizione nell’accesso a riti alternativi, ove condizionato alla accettazione del contraddittorio sul fatto del terzo, avrebbe controindicazioni trascurabili, sul mero piano della celerità o efficienza del processo, largamente compensate dalla finalità di assicurare il contraddittorio su dichiarazioni accusatorie. Nell’ambito in cui il legislatore opti per la manovra ‘premiale’ (il che, come si è detto, è in re ipsa per le attenuanti per la collaborazione prestata, ed auspicabile per l’ammissione ai riti alternativi, qualora si scarti la via dell’imposizione di obblighi e sanzioni), sorge il problema del raccordo fra le decisioni processuali concernenti il dichiarante (applicazione della attenuante, ammissione a riti alternativi) e il processo in cui debbano essere verificate la sue dichiarazioni. Se si vuole evitare un vincolo rigido di pregiudizialità (che sarebbe prevedibile causa di ritardi e disfunzioni processuali), e se non appaga la prospettiva di un ricorso massiccio all’incidente probatorio, quid juris nel caso che l’attenuante sia stata applicata (non illegittimamente), e rispettivamente il processo a carico del dichiarante sia stato definito con rito alternativo, prima che il dichiarante si sia avvalso della facoltà di non rispondere? La questione potrebbe essere fortemente ridimensionata, escludendo in radice la persistenza del diritto al silenzio in capo all’imputato la cui posizione sia stata definita con sentenza irrevocabile. Nella misura in cui tale soluzione non venga recepita, o non risolva il problema, la peculiarità del caso non sembra consentire se non soluzioni extra ordinem, vale a dire la caducazione delle decisioni favorevoli al dichiarante, anche in deroga alla disciplina dei normali rimedi processuali. Per la concessione della attenuante della collaborazione prestata, dovrebbe essere ammessa la reformatio in peius anche in assenza di impugnazione del P.M. sul punto, quando il rifiuto del contraddittorio sia successivo alla scadenza dei termini; quando il rifiuto sia successivo alla sentenza definitiva, dovrebbe essere ammessa la revisione in malam partem in punto di commisurazione della pena, secondo il modello già presente nell’ordinamento per il caso di dichiarazioni false o reticenti (comma 3, ss. dell’art. 8 del d.l. n. 152 del 1991). Nel caso di processo già definito con uno dei riti alternativi, si potrebbe pensare alla revoca della sentenza, con rinnovamento del giudizio nelle forme ordinarie (o, nel caso di rito abbreviato, la pura e semplice eliminazione della riduzione di pena in misura fissa).
— 1299 — Sarebbero, certo, soluzioni ‘di rottura’ rispetto ai consueti schemi processuali: un venir meno delle normali garanzie di stabilità del giudicato. Ma chi dovesse pagarne il prezzo, lo farebbe in conseguenza di una sua libera scelta; e il prezzo ipotizzato sarebbe una alternativa meno costosa, rispetto alla soluzione molto più dura, rappresentata dall’imposizione di obblighi penalmente sanzionati di rispondere e dire il vero, per quanto delimitati. L’esito di diritto sostanziale sarebbe la caducazione di un premio legato alla scelta del rito, cioè ad esigenze processuali, in ragione di comportamenti del premiato, più gravemente disfunzionali rispetto a interessi sia processuali (il compiuto dispiegarsi del contraddittorio) che sostanziali (il finalismo repressivo). Un esito del tutto coerente con le ragioni — di sollecitazione di comportamenti ‘utili’ al funzionamento della macchina giudiziaria — che sole giustificano incentivi ‘premiali’ di qualsiasi tipo. 7. Tirando le fila dell’analisi, quali prospettive di politica del diritto appaiono preferibili? L’indicazione più sicura è quella deila riduzione dell’area del diritto al silenzio, escludendolo in relazione a dichiarazioni rese in procedimento già definito. Per il resto, l’analisi svolta non è che un lavoro preparatorio, di verifica delle condizioni di legittimità e di razionalità finalistica delle ipotizzabili alternative, entrambe (manovra premiale o imposizione di obblighi penalmente sanzionati) facenti leva su strumenti di diritto sostanziale. Una volta assicurate le condizioni minime del giusto processo, è pure importante assicurare condizioni adeguate di praticabilità e controllabilità alla risorsa, rivelatasi indispensabile, rappresentata dai ‘collaboratori di giustizia’. L’obiettivo, finora non raggiunto, è di salvaguardare il diritto dei chiamati in causa al contraddittorio dispiegato, senza disperdere, se possibile, il contributo del dichiarante. Per avviare a soluzione i problemi — di garanzia, ad un tempo, del diritto di difesa e della funzionalità del processo — connessi al regime delle dichiarazioni dell’imputato o indagato in procedimento connesso o collegato, è sufficiente la manovra di incentivi premiali? O è necessario pensare ad interventi più drastici sul diritto al silenzio, fino all’introduzione di obblighi penalmente sanzionati? La soluzione ‘forte’, dell’introduzione di obblighi in deroga al diritto al silenzio, si è rivelata molto impegnativa, e non suscettibile dei correttivi proposti: essa promette di funzionare in modo razionale solo se l’obbligo imposto è di rispondere secondo verità, senza la via d’uscita di scusanti soggettive, e senza il correttivo processuale dell’inutilizzabilità contra se. Ritengo che il costo che ciò comporterebbe non sia illegittimo, vincolando il dichiarante in ragione di sue libere (e non disinteressate) precedenti assunzioni di responsabilità, e (ma qui entriamo sul piano delle opinioni ‘discutibili’ di politica del diritto) sia minore del costo di altri possibili esiti
— 1300 — del bilanciamento fra i tanti interessi in gioco. Ma è comunque molto alto, forse troppo alto in un contesto nel quale il diritto di difesa ha vita difficile. Un approccio più cauto potrebbe essere allora quello di far leva in modo deciso sulla manovra di incentivi ‘premiali’: non solo quelli inerenti alla disciplina dei ‘collaboratori di giustizia’, ma anche quelli connessi ai riti alternativi. Sarà poi l’esperienza a mostrare se tale strada, teoricamente più debole dell’imposizione di obblighi, assicuri esiti pratici soddisfacenti, o se resti aperta l’esigenza di soluzioni più drastiche e più efficaci, comunque entro i limiti segnati dalla garanzia del giusto processo. DOMENICO PULITANÒ POSTILLA. — Mentre il lavoro era in corso di stampa, nel novembre 1999 è stato approvato dal Senato, in prima lettura, il disegno di legge (n. 1502 e congiunti) per l’adeguamento del codice di procedura penale alla nuova regola introdotta nell’art. 111 della Costituzione. Dopo di che, i lavori parlamentari hanno subìto una stasi; nel momento in cui scrivo questa postilla (gennaio 1999) è difficile fare previsioni sugli ulteriori sviluppi. Allo stato, il testo approvato dal Senato imbocca la via della restrizione del diritto al silenzio, con soluzioni differenziate: per il coimputato nello stesso reato (connessione ex art. 12 lett. a)) l’obbligo di testimonianza si attualizza dopo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile; tale limitazione non è prevista per gli imputati di reato connesso ex art. 12 lett. c), o di reato collegato ex art. 371, comma 2, lett. b). L’obbligo di testimonianza è condizionato ad un previo avviso in sede di esame; non può estendersi a fatti che concernano, anche indirettamente, responsabilità del dichiarante; le dichiarazioni rese non possono in ogni caso essere utilizzate contro quest’ultimo. Il corredo penalistico esplicito consiste in una nuova figura (da inserire nel codice penale come art. 377-bis) di « induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria », nei confronti di persona che abbia facoltà di non rispondere. Va da sé che per la testimonianza dell’imputato, dove ammessa, diverrebbero automaticamente applicabili le norme penali relative al testimone. Il modo in cui sembra ci si avvii ad incidere (cautamente) sul diritto al silenzio di chi abbia già reso dichiarazioni concernenti terze persone, è coerente con indicazioni avanzate dalla dottrina processualistica, e ragionevolmente difendibile — anche nei riflessi penali sostanziali — sul piano della legittimità costituzionale. Tutta da verificare, peraltro, è l’idoneità all’obiettivo (di evitare la dispersione di contributi probatori utili) di una normativa la quale confida di poter conciliare l’obbligo di testimonianza sul fatto altrui che l’esclusione dell’obbligo di deporre su fatti che concernano, anche indirettamente, responsabilità del dichiarante. Poiché i due profili non si possono separare con un taglio netto, se il testo del Senato diverrà legge potranno insorgere in sede applicativa problemi assai spinosi di regolamento di confini fra l’area dell’obbligo di testimoniare e quella del diritto al silenzio. Gli equilibri del sistema prefigurato mi sembrano, insomma, non ben definiti e comunque non prevedibili. Una valutazione meno scettica potrebbe forse essere fondata sulla speranza
— 1301 — (mi piacerebbe poter dire fiducia) di una larga accettazione del contraddittorio, da parte dei ‘dichiaranti’, per loro scelta di linea difensiva, anche in vista di esiti lato sensu premiali (attenuanti, patteggiamento). Ma entro scenari che fossero conflittuali piuttosto che collaborativi, temo che il conflitto coinvolgerebbe la stessa interpretazione di nodi cruciali della futura legge, e potrebbe non essere risolto da questa in termini appaganti. Mantengo infine, verso il testo approvato dal Senato, le riserve già espresse nei confronti di clausole di non utilizzabilità contra se, che, se per un verso paiono conformi a garantismo processuale, per altro verso contribuirebbero a gettare ulteriori ombre sulla questione dell’affidamento nei ‘collaboratori di giustizia’. È comprensibile, certo, la cautela del legislatore nell’avviarsi su una strada che rimette in gioco tradizionali garanzie difensive. Lo stesso scetticismo qui manifestato non esclude che una cauta sperimentazione possa essere, allo stato, la strada più realistica. Quello che in ogni caso mi pare necessario, è considerare il discorso non chiuso, nemmeno dopo l’eventuale approvazione del disegno di legge in itinere. Necessario, beninteso, per chi ritenga che anche la funzionalità della giustizia penale — rispetto agli obiettivi di tutela posti dal diritto penale sostanziale — sia un interesse meritevole e bisognoso di tutela. DOMENICO PULITANÒ
IL CONFINE CONTESO METAMORFOSI DEI RAPPORTI TRA CONCUSSIONE E CORRUZIONE ED ESIGENZE
‘‘IMPROCRASTINABILI’’ DI RIFORMA (*)
SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. La capacità selettiva differenziale delle fattispecie di concussione e corruzione, tra legalità ‘‘offerta’’ e legalità ‘‘raggiunta’’. — 3. L’erosione ermeneutica dell’art. 317 c.p. Selettività primaria e selettività secondaria. — 4. (Segue): il concetto giurisprudenziale di ‘‘induzione’’ e la trasformazione della concussione in fattispecie a selettività primaria. — 5. La scomparsa dell’atto nel delitto di corruzione propria. — 6. Indicazioni legislative schizofrenogenetiche e azzeramento della capacità selettiva differenziale: l’istigazione alla corruzione da parte del pubblico ufficiale e il ribaltamento dei rapporti tra concussione ed estorsione. — 7. Lo spettro della ‘‘concussione ambientale’’. — 8. Esigenze di riforma ed ambizioni sbagliate.
1. Attribuire ad una riforma il carattere di ‘‘improcrastinabile’’ significa infonderle un’aura vagamente jettatoria. Nel nostro lessico politico-giuridico (che presenta non trascurabili affinità con la ‘‘neolingua’’ orwelliana) può infatti definirsi come ‘‘improcrastinabile’’ ogni riforma di cui si discuta da lustri, della quale si continuerà a parlare molto a lungo, e che, con ogni verosimiglianza, o non sarà mai realizzata, o, se lo sarà, farà amaramente rimpiangere il momento in cui venne introdotta, suscitando fin da subito l’esigenza di una nuova riforma, anch’essa destinata — ben si capisce — a divenire ‘‘improcrastinabile’’ in un circuito tanto dissennato quanto vacuo. L’esigenza di riforma dei delitti di corruzione e di concussione è una fra le tante che il sistema penale prospetta ai medici presenti al suo capezzale; certamente non la più urgente e, comunque, non scindibile dalla riforma dello statuto penale della pubblica amministrazione; il quale, dopo interventi innovatori recenti (la miniaturizzazione dell’abuso di ufficio, con la l. n. 234/1997) e meno recenti (le spensierate divagazioni della l. n. 86/1990 e della l. n. 181/1992), ha assunto un volto che, in termini di razionalità strutturale e di congruità politico-criminale, appare semplice(*) Testo, rielaborato ed integrato con i riferimenti bibliografici essenziali, della relazione tenuta a Caserta il 22 aprile 1999, in occasione del V Congresso nazionale di diritto penale, indetto dal Gruppo italiano dell’Association International de droit pénal, sul tema Corruzione e concussione: una riforma improcrastinabile.
— 1303 — mente grottesco. Basti ricordare che l’art. 323 c.p., chiamato nel 1990 a raccogliere, sia pure con beneficio di inventario, l’eredità del peculato per distrazione e dell’interesse privato in atti d’ufficio, è oggi ridotto ad una larva, incapace persino di reprimere le forme più tradizionali di prevaricazione, e solo occasionalmente in grado di ‘‘intercettare’’ le distrazioni di pubblico danaro, la cui rilevanza penale viene, in ogni caso, compressa ormai nei limiti della bagattella. Alla nonchalance verso fenomeni di macroscopica offensività corrisponde il persistente ed arcigno rigore del peculato per appropriazione, la cui portata lesiva, essendo intrinsecamente condizionata dal rapporto cosa/soggetto, è, per lo più, di entità modesta rispetto a condotte di natura distrattiva, in grado di ottenere, con il minimo ‘‘sforzo’’, il massimo risultato criminoso. In un quadro divenuto ormai indecifrabile, ben figura anche la riattivazione della secolare polemica sui confini applicativi della corruzione rispetto alla concussione (o viceversa) (1): il revival scaturisce — com’è noto — da una ‘‘emergenza’’ connessa al fenomeno di Tangentopoli, che ha contribuito non poco, in sede giurisprudenziale, a ridefinire lo spazio applicativo delle due figure criminose (2). Non è il caso di ripercorrere le tappe di quella vicenda; saranno piuttosto i suoi esiti in qualche modo ‘‘conclusivi’’ (se mai vi può essere qualcosa di conchiuso in una materia come questa) a dover essere considerati: come un dato al quale occorre rifarsi e dal quale è necessario partire per impostare nuovamente i termini di una problematica antica. Il contributo più significativo che la dogmatica può offrire alla costruzione del sistema giuridico non sta infatti nell’edificare un mondo normativo a priori, ma nell’assumere la norma applicata come il proprio oggetto di partenza, impostando così, rispetto all’ermeneutica giudiziale, una sorta di ‘‘metaermeneutica’’, articolata in una (1) Sulla questione, v., per tutti, l’efficace sintesi di A. PAGLIARO, Principi di diritto penale - Parte speciale, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, Milano 1998 , p. 164 ss. e di G. CONTENTO, Concussione, in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, a cura di T. PADOVANI, Speciali di LP 6, Torino 1996, p. 106 ss.; anche in prospettiva di riforma, A. PAGLIARO, Per una modifica delle norme in tema di corruzione e concussione, in Revisione e riformulazione delle norme in tema di corruzione e concussione - Atti del Convegno di Studi di Diritto Penale, Bari, 21-22 aprile 1995, Bari 1995, p. 19 ss. e in Riv. trim. dir. pen. econ. 1995, p. 55 ss.; E. PALOMBI, La concussione, Torino 1998, p. 21 ss.; G. FORTI, L’insostenibile pesantezza della ‘‘tangente ambientale’’: inattualità di disciplina e disagi applicativi nel rapporto corruzione-concussione, in Riv. it. 1996, p. 476 ss. (2) In argomento v., in particolare, Revisione e riformulazione delle norme in tema di corruzione e concussione, cit.; G. CERQUETTI, Tutela penale della pubblica amministrazione e tangenti, Napoli 1996; Falso in bilancio, concussione e corruzione: esperienze a confronto (Aspetti sostanziali e processuali), II Incontro di Diritto Penale (Univ. Bari - Fac. giurisprudenza di Foggia), a cura di A. MANNA, Bari 1998. Sui rapporti tra corruzione, economia e politica v., fra i tanti, i contributi contenuti in L’economia della corruzione, a cura di L. BARCA e S. TRENTO, Bari 1994; G. SAVELLI, Cleptocrazia - Il ‘‘meccanismo unico’’ della corruzione tra economia e politica, Milano 1994.
— 1304 — critica, in un’assiomatica e, infine, in una politica dell’ermeneutica: la prima vòlta a saggiare la tenuta logica dei meccanismi applicati; la seconda diretta a identificarne il fondamento deontologico; la terza, infine, a suggerire, sulla base delle due precedenti, le correzioni di rotta necessarie e possibili. 2. Quando si analizza la dinamica applicativa di una fattispecie, ed ancor più se sono in gioco i rapporti corrispettivi tra fattispecie ‘‘contigue’’, occorre muovere da una considerazione tanto pregiudiziale quanto fondamentale. Se ogni fattispecie presenta un quadro tipico contrassegnato da contenuti legalmente definiti, altro è la legalità da ciascuna ‘‘offerta’’, altro la legalità con essa ‘‘raggiunta’’. La prima si identifica con la capacità selettiva di una fattispecie nel procedimento preliminare di sussunzione degli elementi di fatto nella notizia di reato, o nella contestazione che matura fino all’esito delle indagini preliminari, ed eventualmente nel corso del giudizio. La seconda delinea il termine del processo di sussunzione, quale si realizza con la sentenza definitiva di condanna. Nello stesso procedimento penale, relativo alla stessa fattispecie, un conto è guardare alla contestazione contenuta, ad es., in un invito a comparire, un conto ben diverso è leggere la massima enucleata dalla pronuncia della Cassazione: il vallo intermedio è occupato da un meccanismo — il processo penale — fortemente ‘‘reattivo’’ sulla materia che elabora, di straordinaria variabilità ‘‘metabolica’’ e destinato ad assumere un ruolo ‘‘plastico’’ (e cioè, capace di formare), sulla cui incidenza pervasiva nessuno può oggi nutrire dubbi. La partita della legalità si gioca soprattutto sul versante della legalità ‘‘offerta’’, perché è questa che riguarda hic et nunc la vita dei cittadini, impostando il gioco al quale non possono sottrarsi ed al cui esito si deciderà della loro libertà. La legalità ‘‘raggiunta’’, pur se destinata a determinare ricadute sulle future vicende ermeneutiche, riguarda troppo spesso solo la vita dei professori di diritto penale, quando in veste di monatti trasferiscono i cadaveri esangui delle fattispecie in quegli oscuri cimiteri cui è riservato il nome di ‘‘dottrina giuridica’’. Ora, la capacità selettiva delle fattispecie di corruzione e di concussione dovrebbe esprimersi in termini nettamente differenziali, capaci di assestare l’‘‘offerta’’ di legalità su binari immediatamente stabili e sicuri. Ma, in realtà, tale capacità selettiva è praticamente inconsistente, ed anzi, pressoché nulla. All’identità dei soggetti qualificati si abbina l’identità del corpus delicti (che costituisce il motore primo, e spesso unico, dell’inquisitio): la prestazione o la promessa di danaro o di altra utilità. I requisiti differenziali si collocano su versanti, rispettivamente a monte e a valle delle due fattispecie: a monte nel caso della concussione, in quanto è il ‘‘modo’’
— 1305 — della promessa o della dazione a caratterizzarne il compimento, in termini di abuso (della qualità o dei poteri) mediante il quale si determina la costrizione o l’induzione del soggetto passivo; a valle nel caso della corruzione antecedente, in quanto la promessa o la dazione debbono essere finalizzati ad un atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio. In sostanza, si tratta di requisiti differenziali caratterizzati, per un lato, da una pesante connotazione valutativa (l’abuso della qualità o dei poteri si risolve in un elemento normativo a parametro dall’incerto statuto) (3), e, per un altro lato, di spiccato contenuto soggettivo (costrizione ed induzione evocano di per sé elementi dell’atteggiamento interiore e possono quindi spostare la linea di demarcazione della tipicità nel foro interno della vittima (4); il dolo specifico della corruzione assume un’inevitabile dimensione soggettiva). Il gradiente distintivo finisce allora con l’incentivare una prassi applicativa che, muovendo dalla identità del corpus delicti, rimette la individuazione della fattispecie ad un posterius provvisoriamente evocato con la tecnica della contestazione alternativa, e comunque rimessa ad una scelta processualmente ‘‘sterilizzata’’. Una volta addebitata la concussione, ritenere la sussistenza del delitto di corruzione non comporta — secondo la giurisprudenza — alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa contestata e sentenza, ‘‘riscontrandosi in entrambe le (...) figure criminose l’elemento comune della dazione o promessa di danaro o altra utilità’’; per cui l’opzione alternativa ‘‘incide su una modalità del fatto formante oggetto del capo di imputazione che non ne modifica sostanzialmente la struttura, né ne diversifica il contenuto essenziale’’ (5). Solo nell’ipotesi inversa, in cui si passi cioè dalla corruzione alla concussione, la conclusione è meno drastica. Si riconosce infatti la possibilità di esorcizzare l’art. 521 c.p.p. ‘‘qualora la sentenza puntualizzi l’imputazione enunciata formalmente nell’atto di esercizio dell’azione penale con le integrazioni risultanti dagli interrogatori e dagli altri atti in base ai quali è stato reso in concreto possibile all’imputato di avere piena consapevolezza del thema decidendum, così da potersi difendere in ordine a un determinato fatto, inteso come episodio della vita umana’’ (6). Il confine tra concussione e corruzione è dunque processualmente ‘‘aperto’’, in una sorta di ‘‘unione reale’’ delle figure criminose capaci di evocarsi vicendevolmente in un gioco di rimandi scaturiti, per l’appunto, dallo stesso ‘‘episodio della (3) V., per tutti, G. CONTENTO, op. cit., p. 86 ss.; E. PALOMBI, op. cit., p. 63 ss. (4) Sul punto, con accenti giustamente critici, v. A. PAGLIARO, Principi, cit., p. 118 ss.; E. PALOMBI, op. cit., p. 131 ss. (5) Cfr. Cass., Sez. un., 2 luglio 1997, C.E.D. 207942; Cass., Sez. VI 6 marzo 1998, C.E.D. 210380. (6) Cfr. Cass., Sez. VI, 22 ottobre 1996, C.E.D. 206208.
— 1306 — vita umana’’: una legalità davvero ‘‘offerta’’ nella consistenza della panna montata. 3. L’ampio spettro di sovrapposizione applicativa della concussione e della corruzione risulta peraltro vie più esteso dall’erosione ermeneutica subìta dai requisiti differenziali delle due fattispecie, con un processo impetuoso che ha finito col rendere particolarmente incerto e confuso il limite a ciascuna assegnato. Sul versante della concussione, l’erosione ermeneutica si è sviluppata essenzialmente sulla forma della concussione ‘‘per induzione’’, che affianca nell’art. 317 c.p. quella ‘‘per costrizione’’. A questo proposito, è ancora una volta necessaria una premessa d’ordine sistematico generale, per richiamare l’attenzione su una distinzione funzionale delle fattispecie incriminatrici che il principio di frammentarietà del diritto penale tende a mettere in ombra o, addirittura, ad oscurare. Tale principio, atteggiato come ‘‘intervento penale ‘puntiforme’ e con necessari e positivi (...) vuoti di tutela penale’’ (7), suggerisce l’idea di una serie discontinua di fattispecie incriminatrici, ciascuna isolata e conchiusa nel proprio àmbito di illecito. Il diritto penale viene così visto come un manto di stelle fisse ed immobili, a punteggiare un cielo oscuro in cui si confondono il lecito o il diversamente illecito. In realtà, l’immagine adeguata non è quella di stelle fisse, ma di sistemi solari in cui si distinguono fattispecie-soglia e fattispecie-interne. Le prime assumono una funzione di selettività primaria, nel senso che con esse si traccia, per la prima volta dal punto di vista logico e sistematico, il confine che separa il lecito dall’illecito, o l’illecito penale da qualsiasi altro illecito. Le seconde assumono invece una funzione di selettività secondaria (o differenziata), nel senso che qualificano fatti già collocati di qua dalla soglia del penalmente rilevante: specializzano, approfondiscono, incrementano o puntualizzano una tutela che è già data, secondo assi di progressione, di intensificazione o di regressione. Così, per limitarci ad alcuni esempi banali, il rapporto tra violenza privata e violenza sessuale, espresso in termini di specializzazione della tutela, è tracciato da una prospettiva di progressione teleologica, perché l’interesse alla libertà morale si puntualizza sul nevralgico versante della libertà sessuale; il rapporto tra ingiuria ed oltraggio, pure espresso in termini di specializzazione, è piuttosto orientato alla intensificazione della tutela, cui si aggiunge, nell’oltraggio, un interesse estraneo all’ambito dell’ingiuria. La funzione di selettività primaria e secondaria non coincide peraltro con l’area delle fattispecie in rapporto di specialità. Omicidio e percosse non si collocano certo in un tale rapporto; eppure, mentre l’omicidio ha una funzione selettiva primaria, le percosse ne assu(7) 22 s.
Cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano 19952, p.
— 1307 — mono una secondaria, di carattere regressivo: mentre può concepirsi un sistema penale che tuteli la vita, e non una dimensione marginale dell’incolumità, non è possibile ipotizzare il caso opposto: la punizione delle percosse implica necessariamente quella dell’omicidio, e non l’inverso. Ora, la concussione è nata come fattispecie o selettività spiccatamente secondaria: nella forma per costrizione rispetto all’estorsione ed in quella per induzione rispetto alla truffa. Quando tratta della prima, VINCENZO MANZINI (che col codice del 1930 aveva qualche familiarità) non ha dubbi nell’affermare che ‘‘trattasi in sostanza di un fatto specifico di estorsione’’ (8), in cui la violenza e la minaccia cogenti sono surrogati, per equivalente, dell’abuso della qualità o delle funzioni del pubblico ufficiale, dal quale deve per l’appunto emergere la prospettazione di un male futuro, la cui verificazione dipende dall’agente pubblico e che è idonea a far sorgere il metus publicae potestatis. La forma per induzione è parimenti riguardata dalla Relazione come una ipotesi speciale di truffa: ‘‘la induzione — scrive il Guardasigilli — deve per necessità consistere nel trarre in inganno il privato circa l’obbligo ch’egli abbia di dare o di promettere’’ (9). Il riferimento agli artifizi e ai raggiri è ancora una volta sostituito dalla condotta di abuso, che in questo caso si esercita per l’appunto col suggerire alla vittima una rappresentazione che le si impone per il crisma dell’autorità. Nell’una il privato non può resistere, perché la costrizione è sorretta dal peso del potere pubblico; nell’altra non sa resistere, perché il peso di quello stesso potere lo induce a credere. Perciò le due forme finiscono con l’essere equiparate nel contesto di una fattispecie unitaria a condotta alternativa, superando la distinzione già contenuta nel codice Zanardelli (10). 4. La giurisprudenza ha tuttavia ritenuto di percorrere altre vie, finendo col trasformare la concussione per induzione in una fattispecie a selettività primaria, svincolata da ogni effettivo rapporto con la truffa. L’obiettivo è stato raggiunto lungo tre direttrici di marcia, peraltro convergenti. Una prima direttrice assume che nella concussione l’abuso della qualità debba svolgere una ‘‘preminente importanza prevaricatrice’’ che ‘‘costringe’’ il soggetto passivo ad una prestazione ch’egli sa non dovuta; mentre nella truffa aggravata la qualità pubblica dell’agente concorre ‘‘in via accessoria’’ a convincere il privato ad una prestazione ch’egli crede dovuta (11). Una seconda direttrice, consentanea alla prima poc’anzi accen(8) Cfr V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, V, Torino 19825, a cura di P. NUVOLONE, p. 204. (9) Cfr. Relazione del Guardasigilli, in Lavori preparatori del codice penale, V, parte II, Roma 1929, p. 129. (10) Sul punto v., per tutti, E. PALOMBI, op. cit., p. 11 ss. (11) Cfr., fra le tante, Cass., Sez. VI, 20 settembre 1991, C.E.D. 188405; Cass., Sez.
— 1308 — nata, concepisce l’induzione come una sorta di forma ‘‘minore’’ o ‘‘larvata’’ di costrizione; come un modo subdolo di costringere, al quale resta del tutto estraneo l’inganno, e che anzi ‘‘non è vincolato a forme predeterminate e tassative’’, perché, in definitiva, ciò che conta è la sua idoneità a ‘‘influenzare’’ la volontà, anche solo ‘‘col mero sintomatico atteggiamento sull’opportunità di provvedere alla dazione’’ (12). Lungo questa china ‘‘anche la sola richiesta’’ può assumere ‘‘in determinate circostanze’’ efficacia induttiva (13). Infine, una terza direttrice procede ad un interscambio tra induzione e costrizione, per cui ‘‘nella truffa il timore del danno è provocato dall’induzione in errore del soggetto passivo; nella concussione, invece, detto timore è causato dalle minacce del pubblico ufficiale’’ (14). L’induzione, quando non viene risolta in meri sinonimi quali ‘‘persuasione’’ o ‘‘suggestione’’, è dichiaratamente sottratta ad una ‘‘rigorosa delimitazione in chiave descrittiva attraverso predeterminate regole semantiche’’ (15): in buona sostanza, un concetto del tutto evanescente che, enunciato in questi termini, dovrebbe condurre ad una decisa dichiarazione di incostituzionalità per assoluta indeterminatezza della condotta, i cui connotati di tipicità vengono così espressamente negati. L’erosione ermeneutica del concetto di induzione si traduce allora in un ribaltamento sistematico, rilevabile sotto due angoli di visuale. In primo luogo, il concetto di ‘‘induzione’’ postulato dalla giurisprudenza dilata incontrollabilmente l’àmbito applicativo della concussione. Svincolata dal nesso di riferimento alla truffa, smarrita la sua funzione di selettività secondaria, la concussione si vede sospinta in prima linea ad esercitare un compito di selettività primaria per il quale non è né concepita, né attrezzata. Infatti, quando una fattispecie è chiamata a svolgere una funzione di selettività secondaria, la dimensione della sua tipicità è arricchita e sostanziata dal suo rapporto con la fattispecie a selettività primaria; il suo costituirsi come fattispecie autonoma poggia su una dipendenza ‘‘tributaria’’ che rappresenta il nucleo stesso del suo contenuto di illecito. La condotta di chi ‘‘sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione’’ (art. 630 comma 1 c.p.) è letteralmente pervasa, nella sua portata effettuale, dal riferimento al fatto di chi ‘‘priva taluno della libertà personale’’ (art. 605 comma 1 c.p., nel quale il ‘‘sequestro’’ si risolve e si esplicita). Il giorno in cui un VI, 17 febbraio 1994, C.E.D. 197259; Cass., Sez. VI, 11 aprile 1996, C.E.D. 204492; Cass., Sez. VI, 26 ottobre 1998, C.E.D. 211747. (12) Cfr. Cass., Sez. VI, 11 dicembre 1993, C.E.D. 196048; ed inoltre: Cass., Sez. VI, 11 marzo 1992, C.E.D. 189300; Cass., Sez. VI, 22 dicembre 1994, C.E.D. 199987; Cass., Sez. VI, 23 giugno 1996, C.E.D. 204791. (13) Cfr. Cass., Sez. VI, 18 maggio 1995, C.E.D. 201684. (14) Cfr. Cass., Sez. VI, 28 maggio 1996, C.E.D. 205019; Cass., Sez. VI, 26 giugno 1996, C.E.D. 205099. (15) Cfr. Cass., Sez. VI, 22 dicembre 1994, C.E.D. 199987.
— 1309 — ermeneuta impazzito cominciasse a supporre che ‘‘sequestrare’’ sia condotta alternativa al ‘‘privare della libertà personale’’, suscettibile di risolversi in forme ‘‘larvate’’ di controllo sulla libertà di movimento, è evidente che la determinatezza della fattispecie prevista dall’art. 630 comma 1 c.p., da stabile qual è, si farebbe precaria e inafferrabile, proprio perché a tale fattispecie si assegnerebbe un ruolo che non è, e non può essere, il suo. Qualcosa di simile è purtroppo accaduto con la concussione per induzione. Ribaltata in prima linea, a discernere il lecito dall’illecito, quand’era nata soltanto per attribuire una qualifica autonoma di illiceità a fatti già di per sé illeciti, la concussione per induzione vaga su un confine che le è ignoto, figura cieca ma tragicamente armata, i cui colpi prendono ormai la direzione di chi le guida il braccio. Nulla le è ormai proprio, se davvero i suoi connotati ‘‘sfuggono alla possibilità di una rigorosa delimitazione in chiave descrittiva attraverso predeterminate regole semantiche’’ (16); solo il caso e l’arbitrio. In termini sistematici, poi, l’attribuzione di una selettività primaria alla concussione per induzione, in parallelo alternativo con la truffa, determina un assetto straniato e surreale: nessuno potrà mai comprendere in base a quali ragioni un comportamento abusivo capace di indurre in errore, e di eliminare quindi nel privato ogni possibilità di resistenza, debba poi essere punito assai meno gravemente di una condotta abusiva che si risolve in un’opera di suggestione o di persuasione al termine della quale il privato conserva integra la consapevolezza che la prestazione non è dovuta. Il secondo angolo visuale rispetto a cui si coglie, nella giurisprudenza sviluppatasi a proposito della concussione per induzione, un vero e proprio ribaltamento sistematico, è dato dai rapporti interni con la forma per costrizione. All’originaria distinzione normativa si sostituisce ormai una commistione: l’induzione rappresenta un modo alternativo per costringere. Quando si apprende che nella concussione per induzione ‘‘non è necessario che il consenso del privato sia carpito con inganno, bastando che il privato stesso, a causa del prepotere del pubblico ufficiale, si pieghi a dare (o a promettere)’’ (17), lo scivolamento verso la costrizione è evidente; ed ancor più evidente quando si legge che nella concussione per induzione il pubblico ufficiale ‘‘usa — anche solo con frasi indirette e persino con il mero sistematico atteggiamento — uno stato di timore idoneo a far ritenere al privato che, senza l’esborso di danaro o la corresponsione di altra utilità, non si potrebbe sottrarre a conseguenze dannose’’ (18). 5.
Al degrado della capacità selettiva della concussione si è accom-
(16) Cfr. Cass., Sez. VI, 22 dicembre 1994, cit. (17) Cfr. Cass., Sez. VI, 17 febbraio 1994, C.E.D. 197264. (18) Cfr. Cass., Sez. VI, 11 marzo 1992, C.E.D. 187438.
— 1310 — pagnato quello della corruzione propria antecedente. Su questo versante, il punto di minore resistenza si è rivelato il concetto di ‘‘atto contrario ai doveri d’ufficio", termine finalistico del sinallagma illecito, concepito per l’appunto come scambio della retribuzione (o della sua promessa) in vista del compimento di un determinato atto. Se pur ancora resiste qualche voce giurisprudenziale, sempre più isolata, che ribadisce l’esigenza postulata dalla norma (19), la linea di tendenza muove in tutt’altra direzione. Con un primo passo si argomenta che l’individuazione dell’atto ‘‘può ben limitarsi al genere di atti da compiere’’, correlato alla ‘‘competenza’’ o alla ‘‘sfera di intervento’’ del pubblico ufficiale e ‘‘suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non singolarmente prefissati e programmati sin dall’inizio, ma pur sempre appartenenti al genus previsto’’ (20). La tensione ermeneutica cui è sottoposta la fattispecie si mantiene tuttavia ancora nell’orbita dell’interpretazione estensiva: in effetti, il riferimento alla tipologia di atti da compiere ne consente una delineazione per lo meno in astratto. Con il passo successivo si ritiene però che il delitto di corruzione propria si realizzi anche quando ‘‘la consegna del danaro al pubblico ufficiale sia stata effettuata in ragione delle funzioni dallo stesso esercitate’’ (21): a concretare l’atto contrario ai doveri di ufficio è dunque sufficiente un nesso di dipendenza strumentale tra la dazione e le funzioni; in pratica, basta che il pubblico ufficiale sia retribuito in connessione con l’ufficio svolto. Così ragionando, l’atto cui la dazione dovrebbe essere finalisticamente orientata si identifica, alla fin fine, con la dazione stessa. Il dolo specifico viene sostanzialmente sottoposto ad una interpretatio abrogans. Esito non molto diverso si prospetta nell’ipotesi, pure ritenuta corrispondente alla fattispecie dell’art. 319 c.p., in cui il pubblico ufficiale è retribuito affinché egli intervenga presso altri pubblici ufficiali, e ne influenzi le decisioni (22): si tratta del c.d. traffico d’influenza, nel quale la (19) Cfr. Cass., Sez. VI, 10 novembre 1997, C.E.D. 208819; Cass., Sez. VI, 16 ottobre 1997, C.E.D. 210301; Cass., Sez. VI, 23 gennaio 1998, C.E.D. 210436. In dottrina v., in particolare, A. PAGLIARO, Principi, cit., p. l85; C.F. GROSSO, Corruzione, in Delitti dei pubblici ufficiali, cit., p. 186 ss.; S. SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. it. 1993, p. 951 ss. (20) Cfr. Cass., Sez. VI, 13 febbraio 1997, C.E.D. 208176; nello stesso senso: Cass., Sez. VI, 19 aprile 1996, C.E.D. 204440; Cass., Sez. VI, 21 agosto 1998, C.E.D. 212236. (21) Cfr. Cass., Sez. VI, 26 marzo 1993, C.E.D. 193822; Cass., Sez. VI, 30 novembre 1995, in Foro it. 1996, II, c. 414 ss.; Cass., Sez. VI, 28 maggio 1996, C.E.D. 205076; Cass., Sez. VI, 29 luglio 1996, C.E.D. 205889; Cass., Sez. VI, 24 settembre 1996, C.E.D. 205965; Cass., Sez. VI, 20 novembre 1997, C.E.D. 210048; Cass., Sez. VI, 6 marzo 1998, C.E.D. 210381. In senso critico v. i rilievi di C.F. GROSSO, Dazione o promessa di denaro al pubblico ufficiale ‘‘in ragione delle funzioni esercitate’’: corruzione punibile o fatto penalmente atipico, in Foro it. 1996, II, c.414 ss. (nota a Cass., Sez. VI, 30 novembre 1995, cit.). (22) Cfr. Cass., Sez. VI, 23 maggio 1996, C.E.D. 204847.
— 1311 — retribuzione trova la sua causa finalistica in un mero abuso della qualità che il pubblico ufficiale retribuito si impegna a commettere. In questo caso, l’atto contrario ai doveri d’ufficio si stempera, al massimo livello di astrazione, nell’inosservanza di un generico dovere di correttezza inerente alla qualifica. Si può senza dubbio convenire che queste due ipotesi (l’una vòlta a reprimere la messa del pubblico ufficiale ‘‘a libro paga’’ del privato; l’altra a colpire la venalità clientelare nella pubblica amministrazione) rientrino nell’ambito della ‘‘meritevolezza di pena’’, in quanto aggrediscono la credibilità dell’agire pubblico non meno della compravendita di un atto dell’ufficio; e tuttavia c’è pur sempre da chiedersi se spetti al giudice intervenire in forma ‘‘pretoria’’ nel colmare la lacuna della punibilità. In un ordinamento vincolato al principio di legalità, l’unico strumento nelle mani del giudice per denunciare carenze di tutela, è la sentenza di assoluzione perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato: una sentenza che implichi ‘‘scandalo’’ e costituisca in mora il legislatore. Ma poiché il legislatore non frequenta la scuola della ragione, nemmeno il giudice vuol praticare quella della stretta legalità. Questa comune renitenza troverà, proprio in questa materia, ulteriori, significativi esempi (infra, 6); per ora, è sufficiente osservare come l’evoluzione ermeneutica della corruzione abbia concorso ad abbattere i requisiti differenziali normativamente tracciati rispetto alla concussione. Per un verso, la dilatazione della forma induttiva (retro, 4) stempera il significato della dazione nell’oscuro magma di un processo motivazionale precariamente indagato: il privato paga da vittima quando è avviluppato in una rete sintomatica di timore. Per un altro verso, il collasso dell’atto contrario ai doveri di ufficio sul fatto della dazione per ragioni dell’ufficio o della qualità del pubblico ufficiale traligna in quelle stesse modalità che costituiscono la condotta della concussione; il privato paga da corruttore quando retribuisce la prospettiva di un generico abuso funzionale o quello di un abuso della qualità. Le due figura insistono l’una sull’altra, e si sovrappongono come in un gioco di specchi. La scelta dell’una o dell’altra si riduce all’analisi di una condizione psicologica: metus succube da una parte, spontaneità partecipe dall’altra. Formule che il processo, e solo il processo potrà riempire di contenuti ‘‘sintomatici’’; sarà questo, ancora una volta, a decidere sulla definizione di una categoria sostanziale. 6. In un contesto già tanto compromesso intervengono due ulteriori fattori destinati ad azzerare la capacità selettiva differenziale delle fattispecie di concussione e di corruzione. Si tratta, in primo luogo, delle indicazioni schizofrenogenetiche offerte dal legislatore; ed in secondo luogo dalle modificazioni fenomenologiche evidenziate dalla corruzione e dalla concussione, divenute ‘‘sistemiche’’ ed ‘‘ambientali’’.
— 1312 — Considerando le indicazioni del legislatore, si deve innanzitutto ricordare l’introduzione, ad opera della l. n. 86/ 1990, di un’ipotesi di istigazione alla corruzione propria dello stesso agente pubblico, che ‘‘sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato’’ (art. 322 commi 3 e 4 c.p.). Una tale condotta non può, evidentemente, supporsi svincolata quanto meno da un abuso della qualità: il fatto stesso di ‘‘sollecitare’’ (e quindi: brigare, insistere, persuadere) una retribuzione non dovuta, è di per sé manifestamente contrario ai doveri di status. E se l’atto per il quale tale retribuzione è ‘‘sollecitata’’ risulta conforme ai doveri di ufficio, non è forse con ciò stesso enucleato il quadro ‘‘sintomatico’’ di quella minaccia ‘‘implicita’’ o ‘‘indiretta’’ su cui viene basato un concetto di induzione rilevante — secondo la giurisprudenza — in base all’art. 317 c.p.? È chiaro che il legislatore, introducendo le nuove norme dell’art. 322 commi 3 e 4 c.p. ha inteso determinare, sia pure in forma trasversale, una restrizione dell’ambito applicativo della concussione per induzione, quale risultava dall’applicazione giurisprudenziale (23): anziché affrontare il toro per le corna, e prendere in mano la barra dell’art. 317 c.p. per ricondurla sulla rotta originaria, il legislatore ha preferito tirare il sasso e ritirare la mano, lanciando un messaggio obliquo, anche se di univoco significato. Nessuno, evidentemente, può darsi il coraggio che non ha. Il messaggio non solo non è stato accolto, ma, con estrema disinvoltura, è stato rispedito al mittente con un secco fin de non recevoir. Secondo la giurisprudenza, infatti, la figura della sollecitazione istigatoria alla corruzione ‘‘è stata introdotta come ipotesi residuale per punire le condotte del pubblico ufficiale che non integrano tentativo di concussione’’; il quale dovrà essere riconosciuto ‘‘tutte le volte in cui la condotta del pubblico ufficiale è astrattamente idonea a determinare uno stato di soggezione’’ (24). Cioè, fuor di metafora e per parlar chiaro: sempre; visto che una sollecitazione proveniente dal pubblico ufficiale in contrasto coi suoi doveri di status e rivolta ad un privato non può non essere ‘‘astrattamente idonea’’ a provocare il famoso metus concussivo. Al danno s’aggiunge la beffa, dato che all’art. 322 commi 3 e 4 c.p. viene assegnata una paradossale funzione ‘‘sussidiaria’’, e quindi estensiva della punibilità, per ipotesi che potrebbero (ma quando mai?) sfuggire alle maglie del tentativo di concussione. Forse per le ipotesi in cui il pubblico ufficiale, dopo aver comunque garantito il compimento dell’atto secondo legge e giustizia, e aver convincentemente fugato ogni possibile dubbio circa la sua disponibilità ad operare in piena e totale correttezza e senza alcun pregiudi(23) Cfr. F.C. PALAZZO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo d’insieme, in Riv. it. 1990, p. 826 s.; M.B. MIRRI, Corruzione, in Enc. giur. Treccani III, 1991, p. 8; E. PALOMBI, op. cit., p. 139 ss.; G. FORTI, op. cit., p. 488 ss. (24) Cfr. Cass., Sez. VI, 25 maggio 1994, C.E.D. 198498.
— 1313 — zio per il privato, si rimetta umilmente al suo buon cuore per una (eventuale) mancetta che allevî le ambasce della sua condizione di pubblico dipendente? Ma anche in un’ipotesi siffatta, chi può dire che l’umile preghiera del tapino pubblico non sia ‘‘astrattamente’’ idonea a determinare lo stato di soggezione del pavido privato? Lo può dire il giudice; solo il giudice, e senza vincoli di mandato. L’introduzione dell’art. 322 commi 3 e 4 c.p., corrispondente al vano, ma consapevole tentativo di arginare la virtualità espansiva della concussione per induzione, così come intesa dalla giurisprudenza, è seguita da un intervento di segno in qualche modo opposto, realizzato peraltro (com’è plausibile supporre) senz’alcuna coscienza della sua portata sistematica. Si tratta della riformulazione della cornice edittale di pena relativa all’art. 629 c.p., ad opera del d.l. n. 491/1991 (convertito nella l. n. 172/1992). Per valutare il riverbero dell’innovazione sulle vicende dell’art. 317 c.p., occorre ricordare che la concussione per costrizione costituiva ab origine un’ipotesi speciale rispetto all’estorsione aggravata dall’abuso dei poteri o della qualità dell’agente pubblico (retro, 3). La specializzazione della tutela dipendeva dalla natura dell’azione prevaricatrice e dal rapporto autoritativo su cui si innestava la minaccia. Perciò, la cornice edittale dell’art. 317 c.p. (da quattro a dodici anni) risultava più severa di quella dell’art. 629 c.p. (da tre a dieci anni). Con la riforma del ’91, la situazione si è letteralmente capovolta: la cornice edittale dell’estorsione è stata impostata nei limiti da cinque a dieci anni; che, tenendo conto dell’aggravante prevista dall’art. 61 n.9 c.p., salgono da un minimo di cinque anni e un giorno a un massimo di tredici anni e quattro mesi. Se il rapporto di gravità tra le due figure criminose si è ribaltato, è evidente come non sia più possibile — da un punto di vista di logica del sistema — sostenere che l’art. 317 c.p. prospetta una tutela specializzata in ragione di elementi che incrementino l’esigenza punitiva; in realtà, la concussione è, bon gré mal gré, divenuta una fattispecie sussidiaria la cui tutela è specializzata in ragione di elementi regressivi e minoranti. In pratica, l’area applicativa della concussione si è spostata da una verticale, quella dell’estorsione, ad una parallela autonoma. Ma, così facendo, si è di fatto spianata la via (peraltro — giova dire — già intrapresa a prescindere da questa ‘‘sollecitazione’’ inconsapevole), all’idea che induzione e costrizione rappresentino una nebulosa indistinta governata da un ‘‘timore’’ che assume portata meno ‘‘cogente’’: derivato da suasione, persuasione, suggestione o da atteggiamenti ‘‘sintomatici’’ del pubblico ufficiale. Insomma, si è aperta la porta ad una minaccia dello statuto tanto differenziato quanto incerto. 7.
Il secondo fattore di azzeramento della capacità selettiva di con-
— 1314 — cussione e corruzione è costituito, come si accennava (retro, 6), dall’emergere della c.d. concussione ambientale, ultimo prodotto dell’inafferrabile concetto di induzione postulato dalla giurisprudenza. Che cosa sia normativamente la concussione ambientale nessuno può dirlo, visto che non v’è fattispecie che la descriva. Il problema è invece quello relativo alla sussunzione di una realtà criminologica, grosso modo identificata nel fatto del privato che si risolve a pagare il pubblico ufficiale nella convinzione, derivata da un contesto sistematico di abusi nell’organizzazione e nel funzionamento dell’amministrazione, che, diversamente, non sarebbe possibile accedere alla prestazione pubblica (25). Un orientamento rimasto pressoché isolato sussume un tale fatto nell’ambito della corruzione. Se il privato si determina a dare o a promettere ‘‘allo scopo di trarre per sé un vantaggio dalla situazione di abuso sistematico, a lui nota, del pubblico ufficiale’’, ‘‘non vi è convergenza delle posizioni di prevaricazione del pubblico ufficiale e di soggezione del privato, né sussiste quel vizio della volontà di quest’ultimo che è impeditivo dell’instaurazione di un rapporto paritetico’’ (26). In effetti, chi anticipa la richiesta stessa del pubblico ufficiale perché mosso dalla rappresentazione di un sistema di abusi, mostra spesso, più che il volto della vittima, quella del candidato ad uno status: la cittadinanza di una comunità di malfattori. L’opinione dominante in giurisprudenza è invece nel segno della concussione. ‘‘Con la locuzione ‘concussione ambientale’ si ammette — secondo una decisione particolarmente recente e significativa — che in un sistema di illegalità diffusa imperante in certi settori della pubblica amministrazione la condotta costrittiva o induttiva tipica della concussione possa estrinsecarsi anche attraverso il riferimento ad una convenzione tacita, che il pubblico ufficiale fa valere e che il privato subisce, nel contesto di una comunicazione resa più semplice nella sostanza e più sfumata nelle forme per il fatto di richiamarsi a regole già ‘codificate’ ’’ (27). Nel caso di specie, il pubblico ufficiale percipiente non aveva partecipato all’accordo illecito, stipulato dal suo predecessore con intermediari politici e l’imprenditore interessato ad una concessione edilizia. Con un approccio (25) La dottrina sulla c.d. concussione ambientale è già notevole: v., per tutti, C. FIORE, La ‘‘concussione ambientale’’ quale spazio normativo?, in I delitti contro la pubblica amministrazione - Riflessioni sulla riforma, Quaderni della Riv. pen. economia, diretti da E. Palombi, 1, Napoli 1989, p. 114 ss.; M. PETRONE, La nuova disciplina dei delitti degli agenti pubblici contro la p.a.: dalle prospettive di riforma alla legge n. 86/90, in Riv. it. 1993, p. 928 ss.; G. CONTENTO, op. cit., p. 116 ss.; G. FORTI, op. cit., p. 476 ss.; F. ROMANO, La concussione ambientale, in Giur. merito, IV, p. 208 ss. (26) Cfr. Cass., Sez. VI, 26 luglio 1996, C.E.D. 205880. (27) Cfr. Cass., Sez. VI, 29 aprile 1998, C.E.D. 211708; Cass., Sez. VI, 13 luglio 1998. Per una fattispecie di ‘‘estorsione ambientale’’, v. Trib. Vercelli 2 febbraio 1995, in Foro it. 1995, II, c. 365 ss., con nota critica di Aless. TESAURO, ‘Meglio prevenire che curare’: la c.d. estorsione ambientale al vaglio della giurisprudenza di merito, ivi.
— 1315 — di tal fatta, è raggiunto il Far West dell’induzione: il lontano occidente oltre le grandi praterie degli atteggiamenti suggestivi, delle condotte suasive e dei comportamenti ‘‘sintomatici’’, dove tramonta il sole della tipicità, affondando nell’oceano di convenzioni ‘‘tacitamente’’ riconosciute e di comunicazioni ‘‘sfumate". Curiosamente, la materializzazione della concussione ‘‘ambientale’’ sembra riportare in auge un antico criterio ottocentesco in tema di distinzione fra corruzione e concussione: quello degli ‘‘antecedenti’’, in forza del quale se il privato versa la retribuzione non dovuta ad un pubblico ufficiale sino ad allora onesto, ricorrerebbe la fattispecie della corruzione; mentre si dovrebbe far capo alla concussione qualora il pagamento venga rivolto ad un pubblico ufficiale già aduso al mercimonio dell’ufficio: in questo caso mancherebbe l’oggetto stesso della corruzione, evidentemente riportato all’integrità del pubblico ufficiale. Già FRANCESCO CARRARA aveva dimostrato l’infondatezza di un simile criterio (28): in effetti, un ladro resta un ladro anche se ruba spesso; e non è questo che lo trasforma in un rapinatore. Veder riemergere, sia pure in termini surrettizi, un approccio distintivo consegnato agli archivi della dogmatica storica, dà tuttavia la misura dello straniamento cui è alla fine giunta la vicenda applicativa della corruzione e della concussione. 8. A questo punto, si dovrebbe porre la classica questione: che fare? Una domanda ad un tempo impegnativa e imbarazzante, perché, nel porla, bisognerebbe supporre l’esistenza di obiettivi politico-criminali definiti e praticabili: ciò che non pare sia dato. Non paghi dell’attuale conformazione applicativa della corruzione e della concussione, si vuol forse por mano a più efficienti strumenti normativi di contrasto alla corruzione sistemica? Lodevole intento, per il cui conseguimento il diritto penale ha già dato, forse (e senza forse), sin troppo; a questo punto, bisogna bussare ad altre porte. Come a chi scrive è capitato di dire (29), e non può che ripetere, soltanto nella patologia di un delirio d’onnipotenza si può attribuire al diritto penale la funzione di strumento prioritario di controllo sociale: ad esso si deve essenzialmente riconoscere soprattutto una funzione di limite contro le esigenze, potenzialmente infinite, della politica criminale, la natura e la consistenza di una garanzia contro l’arbitrio del potere punitivo. Come strumento di controllo sociale, vale assai poco: è il più rozzo, il più doloroso, il più costoso e il meno efficace degli strumenti che una comunità civile può mettere in campo per orientare le condotte; proprio per questo la sua utilizza(28) Cfr. F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, V, Prato 18906, § 2577 ss., p. 152 ss. (29) Si rinvia a T. PADOVANI, Il problema ‘‘Tangentopoli’’ tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in Riv. it. 1996, p. 461.
— 1316 — zione si uniforma (o dovrebbe uniformarsi) al canone della extrema ratio, e cioè al riconoscimento dell’ineluttabilità priva di ragionevoli alternative: il diritto penale è un diritto che aspira a non essere e, quando è, a non apparire (assicurando la spontanea osservanza dei precetti col solo ministero della prevenzione generale dissuasiva e persuasiva). Non è dunque pensabile di riedificare la società civile a partire dagli strumenti offerti dal diritto penale: questo può fungere da notaio dei patti sociali, attribuendo loro la ‘‘pubblica fede’’, e cioè il crisma dell’effettività garantita, ma non può concorrere a stipularli. Se è vero (come è vero) che la corruzione infesta tutte le sedi sociali, non sarà certo armeggiando coi bastoni e con le carote che si potrà avviare alcun tipo di risanamento. I rimedi, se ci sono, stanno altrove: una saggia riforma degli appalti val più di mille inasprimenti sanzionatori; un nuovo assetto dei rapporti politici è infinitamente più efficace di qualsiasi espediente di ingegneria premiale. A quest’ultimo proposito, è forse opportuno non desistere da un appello contro le tentazioni della húbris legislativa: per favore, niente pentiti (30). A tacer d’altro, l’idea di una causa di non punibilità legata alla rottura del patto di omertà tra corruttore e corrotto ed alla conseguente collaborazione processuale (compensata) dell’uno contro l’altro, appartiene al regno delle illusioni: inevitabilmente sottoposta ed un termine finale di rilevanza, essa finirebbe con l’atteggiarsi, per gli autori dell’accordo corruttivo, come una sorta di condizione ‘‘legalmente’’ imposta all’efficacia del loro patto, destinata quindi a moltiplicare le garanzie reciproche di ‘‘fedeltà’’ per rafforzare il vincolo contrattuale. Se, più modestamente e senza pretesa di palingenesi penali, si persegue l’intento di rimettere un po’ d’ordine nella nebulosa dei rapporti tra corruzione e concussione, affrancandoli dalla processualizzazione che li ha devastati, e sostituendo il baricentro dell’offesa tipica a quella del tipo di offesa invalsa nella prassi giurisprudenziale, la strada, per la concussione, è alle nostre spalle: l’abbiamo solo smarrita. Si tratta di tornare ai santi vecchi, riscrivendo l’art. 317 c.p. in modo che risulti chiaro e inequivocabile che la costrizione deve dipendere da una minaccia abusiva e l’induzione da un inganno pure determinato dall’abuso dei poteri o della qualità. Quanto alla corruzione, nessuna difficoltà ad esigere un tipo d’illecito basato sulla retribuzione non dovuta in rapporto funzionale con l’ufficio (30) Sulla questione v., in particolare, C.F. GROSSO, Il delitto di corruzione tra realtà interpretative e prospettive di riforma, in La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, a cura di A.M. STILE, Napoli 1987, p. 350 ss.; E. MUSCO, Le attuali proposte individuate in tema di corruzione e concussione, in Revisione e riformulazione, cit., p. 51 ss.; M. PETRONE, op. cit., p. 923 ss. Le proposte milanesi ‘‘in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento di partiti’’ sono pubblicate in Riv. dir. pen. econ. 1994, p. 911 ss., con nota di F. STELLA, di F. SGUBBI, G.M. FLICK, D. PULITANÒ e L. FOFFANI. Sul punto v. i rilievi critici di A. PAGLIARO, Relazione introduttiva, in Revisione e riformulazione, cit., p.27 ss.
— 1317 — del pubblico agente o con la qualità da esso rivestita, in quest’ultimo caso al fine di esercitare la propria influenza su altri soggetti, pubblici o privati. Per la concussione ambientale non sembra esservi spazio. In quanto essa delinea il quadro di una struttura associativa criminosa finalizzata alla corruzione o alla concussione (ciò che sembra implicito nella sua stessa descrizione fenomenologica), è alle figure dei reati associativi che bisogna ricorrere in via privilegiata. Tagliare i nodi a valle, quando il contesto sistemico si esprime nell’episodio singolo, risulta ben poco produttivo. Se al privato che paga intimidito da una situazione ambientale nota bensì, ma proprio per questo non esplicitata, si riconosce il ruolo di vittima d’una concussione, sorge un non trascurabile problema. Può l’ordinamento ratificare la propria totale inefficienza, riconoscendo che interi apparati dell’amministrazione pubblica sono a tal punto dominati dalla corruttela, da dover ‘consentire’ che i privati paghino per le prestazioni richieste o dovute? Può quello stesso ordinamento lanciare ai proprî cittadini questo implicito messaggio: vi mando come agnelli tra i ‘‘miei’’ lupi; suggerendo loro, quale risorsa di sopravvivenza, un pronto pagamento per tacitare pretese inespresse ma incombenti? L’ordinamento non è Cristo, e non può mandare nessuno tra i lupi. Certo, la corruzione sistemica esiste, e cospicue aree territoriali ed alcuni (si spera solo alcuni) apparati amministrativi sono infeudati ad organizzazioni criminali. Ma può l’ordinamento essere tanto cinico da ratificare questo stato di cose, garantendo un salvacondotto penale al malcapitato cittadino? Non si finisce così col perpetuare il degrado? In termini di prevenzione generale è inevitabile che la risposta debba essere affermativa: l’ordinamento rivolge la minaccia dissuasiva a quegli stessi soggetti pubblici che l’hanno vanificata, mentre al privato dirige il messaggio positivo che piegarsi a tale stato di cose non è un male, ma una ‘‘dolorosa’’ necessità: tanto che chi paga risulta vittima. D’altra parte, volendo adattare la situazione al modulo della corruzione, e di conseguenza punire il privato che non abbia saputo o voluto opporsi all’andazzo criminoso, si prospettano problemi inversi. È sensato che l’ordinamento scarichi la propria inefficienza sull’ultimo anello della catena, pretendendo da lui una scelta di campo che può essere rovinosa? In termini di prevenzione speciale, è ragionevole supporre che un soggetto abbandonato al prepotere di un intero apparato pubblico piegato al malaffare, possa essere motivato ricorrendo allo strumentario della corruzione? L’ambiguità sembra annidarsi nella natura delle cose; ma in realtà non è così. Il problema della concussione ambientale, sul versante del pubblico ufficiale, è apparente: se difetta una minaccia costrittiva (nel senso poc’anzi propugnato), non v’è spazio per la concussione; la condotta di accettazione della retribuzione non dovuta o della relativa promessa, è sempre e comunque rilevante come corruzione. È piuttosto la posizione del privato a dover essere discussa. È ben vero che l’ordinamento
— 1318 — non può esigere atti di eroismo; ma ciò vale nei confronti di chi pretende quanto gli è dovuto, non anche nei confronti di chi aspiri a partecipare alla sagra dei profitti illeciti. Altro è il caso del cittadino che allunghi la mazzetta per una concessione edilizia che gli è dovuta in base a tutte le norme urbanistiche di riferimento, ben sapendo che senza questo sacrificio il rilascio incontrerà mille e mille ostacoli in ogni ufficio e mai vedrà sorgere il suo giorno. Altro quello dell’imprenditore che ‘‘dimentica’’ sulla scrivania di un funzionario la ventiquattrore colma di banconote, per partecipare alla kermesse spartitoria dei prossimi appalti, che tutti sanno essere condizionati alla generosità della ‘‘contribuzione’’. Altro è attivarsi nella prospettiva di evitare un danno ingiusto; altro in quella di conseguire un ingiusto profitto. La prima è compatibile con la concussione (se ricorre il requisito della costrizione) e con la corruzione impropria (se tale requisito non ricorre); la seconda è consentanea alla corruzione propria e solo residualmente con la concussione, allorché l’ingiusto profitto sia solo la conseguenza ‘‘incentivante’’ del danno ingiusto al quale si riferisce la minaccia costrittiva (31). Nel caso della c.d. concussione ambientale, scartato comunque il ricorso alla figura della concussione, residua l’alternativa fra corruzione propria ed impropria. La prima non può non restare in ogni caso punibile anche per il privato, perché l’ordinamento non deve alcuna protezione a chi si attiva per conseguire vantaggi indebiti, e men che meno a chi aspira a collocarsi nella cerchia dei malfattori. Quanto alla seconda, invece, sarebbe logico introdurre una causa di non punibilità di natura scusante, incentrata sulla circostanza che il privato abbia corrisposto la retribuzione indebita per il ragionevole timore che l’atto o la prestazione richiesta sarebbe stata indebitamente rifiutata (32). È poco? Può darsi: il diritto penale deve promettere poco e mantenere molto. L’andazzo dei tempi è per un diritto penale che molto promette e poco mantiene. Peggio per i tempi. TULLIO PADOVANI Ordinario di diritto penale presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento ‘‘S. Anna’’ di Pisa
(31) Cfr. A. PAGLIARO, Relazione introduttiva, cit., p. 23 s. (32) Per l’esclusione della punibilità del privato nella corruzione impropria, v. i puntuali rilievi di A. PAGLIARO, op. ult. cit, p. 25 s.
UN BREVE BILANCIO FINE-SECOLO SUL FINALISMO E LE SUE PROSPETTIVE DI SVILUPPO (*)
Nella prima edizione del suo prestigioso trattato, ossia nel 1969, e anche successivamente, nella seconda edizione del 1972, alla pagina 148, Hans Heinrich Jescheck scriveva le seguenti parole premonitrici: ‘‘quali sono le vie che percorrerà la teoria del reato nel futuro? Probabilmente l’idea sistematica che sta alla base del finalismo finirà con l’imporsi, perché essa è persuasiva anche indipendentemente dalla teoria finalistica dell’azione. Altrettanto probabilmente, anche la collaborazione tra dogmatica penalistica e criminologia empirica condurrà a nuove prospettive nel quadro della parte generale’’. Orbene, passati 30 anni, ed essendo già alle soglie del secondo millennio, possiamo utilmente trarre un rapido rendiconto sulla validità di codesta duplice premonizione. Anzitutto, che cosa intendeva Jescheck quando parlava di ‘‘idea sistematica che sta alla base del finalismo’’, destinata a sopravvivere ‘‘indipendentemente dalla teoria finalistica dell’azione’’? È molto semplice, e fu lo stesso Welzel a indicarlo quando ebbe a dichiarare, già nel 1939, che, al di là di ogni personale particolarismo e di ogni variante, può denominarsi finalista chiunque, in ultima analisi, accetti la formula: ‘‘Vorsatz nicht mehr zur Schuld, sondern zur Tatbestand’’, vale a dire: il dolo non compete più alla colpevolezza, bensì alla fattispecie. Ora finalmente dovrebbe essere chiaro che codesto spostamento topico di concetti nell’ambito della teoria del reato non rappresenta un puro giuoco dialettico, un virtuosismo dogmatico fine a se stesso, una complicazione inutile e di faticosa comprensione sia per l’insegnamento che per lo studio del diritto penale, come invece sono giunti ad affermare molti critici, tra i quali vale la pena ricordare il tedesco Mezger (in ‘‘Moderne Wege der Strafrechtsdogmatik’’, 1950), il nostro Grispigni (in Sc. pos., (*) Testo italiano — ampiamente riveduto integrato — della Relazione tenuta al IIo Congresso internazionale di diritto penale, avente per tema generale: ‘‘La scienza penale alle soglie del XXI secolo’’, organizzato dal Centro de estudios de politica criminal y ciencias penales(CEPOLCRIM), Città del Messico-Villahermosa, 2-6 agosto 1999. È quindi da tener presente che il suo contenuto è rivolto sopratutto a un pubblico di giuristi dall’America latina.
— 1320 — 1950, 1 ss.) e il sudamericano Novoa Monreal, in ‘‘Causalismo y finalismo en el derecho’’, 1980, in polemica con Eugenio Raul Zaffaroni. Al contrario, questo cambiamento nel sistema teorico del reato rappresenta il contrassegno, sul piano dogmatico-penalistico, di una profonda intuizione circa l’essenza e la struttura psicologica e criminologica del reato. Si è cioè giunti a realizzare che l’azione delittuosa non può essere concepita come mero tramite meccanicistico, ossia come una connessione logico-naturalistica, un semplice ‘‘trait d’union’’ tra un autore ed un evento antigiuridico, bensì — come si espresse lo stesso Welzel nel 1939 — essa costituisce un ‘‘Sinnausdruck’’, una manifestazione significativa, della personalità dell’agente e, in quanto tale, è portatrice (Träger) del significato antisociale, e quindi antigiuridico, del fatto tipico. Oggi finalmente il delitto comincia ad apparire per quello che in realtà è sempre stato, ossia come la produzione socialmente significativa e, al tempo stesso, antigiuridica, di un evento, cessando così, una volta per tutte, di configurarsi come una ‘‘meccanicistica causazione di un evento antigiuridico’’, del tutto priva di qualsiasi valenza di allarme sociale, vale a dire psicocriminologica: per parafrasare lo stesso Welzel, un’azione ‘‘veggente’’, in luogo di un accadimento causale ‘‘wertblind’’, ossia ‘‘cieco ai valori’’. In tal modo, ancor prima di entrare nell’empirea sfera normativa, il fatto di reato ha riacquisito la concreta dimensione che gli compete nella realtà delle relazioni sociali. Sappiamo tutti quante e quali critiche sono state mosse alla teoria finalistica dell’azione, a cominciare da Edmund Mezger, e terminando con Claus Roxin e la sua variegata scuola, la quale sta da tempo cercando di battere assai discutibili ‘‘vie nuove’’. Mi limito a ricordare che si è negato anzitutto il fondamento ontologico della finalità dell’azione; e che, inoltre, si sono evidenziate la sua incoerenza e impraticabilità sul terreno dei reati colposi, nonché di quelli di pura omissione, dove fa chiaramente difetto una autentica finalità, ossia una finalità che sia effettiva e non solo potenziale. Tanto meno convincente è apparsa la sistemazione del vasto fenomeno degli automatismi, siano essi dolosi o colposi, sotto lo schema della finalità. Neppure è stato possibile configurare come azioni « finalizzate » reati quali quelli cosiddetti ‘‘di tendenza’’ (come il vilipendio), o ‘‘di espressione’’ (come l’ingiuria), o impulsivi (come le percosse) o ‘‘di impeto’’, o passionali (come gli atti osceni o di libidine). Egualmente poco persuasiva è parsa la configurazione finalistica del dolo eventuale e dello stesso dolo diretto di secondo grado, o dolo indiretto. E queste sono solo alcune delle più importanti ‘‘impasses’’, in cui è infelicemente caduta la sistematica finalistica. Di contro meritato successo deve essere riconosciuto alla soluzione del problema dell’inizio della attività punibile nel tentativo, addirittura re-
— 1321 — cepita dal legislatore nella formula del § 22 dell’attuale Strafgesetzbuch. Del pari recepita dal legislatore tedesco, ai §§ 16 e 17, è la distinzione tra errore sulla fattispecie ed errore sul divieto, sulla base della cosiddetta Schuldtheorie, nonché, ai §§ 26 e 27, la necessità del dolo per il fatto principale nel concorso di persone. Va aggiunto che il concetto di Tatherrschaft, o dominio del fatto, si è imposto in dottrina in materia di concorso di persone e di autore mediato. Più in generale, va rilevato che la concezione personalistica del torto, o ‘‘personale Unrecht’’, col relativo primato del disvalore dell’azione, si è andata vieppiù consolidando come irriducibile punto di partenza per la sistematica, anche senza seguire l’estremismo di coloro che — come ad esempio Zielinski — hanno relegato l’evento a condizione di punibilità. Anche il concetto di sociale adeguatezza è stato diffusamente recepito come strumento utile e chiarificatore nell’esegesi delle norme incriminatrici. Per decenni — come è notorio — causalisti e finalisti si sono scontrati sui più svariati terreni dogmatici, come quello della natura delle omissioni, del concetto normativo di colpevolezza, del tentativo cosiddetto inidoneo, dei cosiddetti ‘‘offene Tatbestände’’, o fattispecie aperte, della compartecipazione criminosa, dell’errore sulla fattispecie e dell’errore sul divieto, nonché dell’errore sulle scriminanti, e via dicendo. Va comunque riconosciuto che, dopo l’incessante susseguirsi di tali complesse e animose diatribe, lo stesso Welzel si è visto costretto a ripiegare su di una nozione di finalità sempre più vaga e imprecisa, dapprima accettando un concetto di finalità meramente potenziale e poi, pervenendo ad ulteriori rielaborazioni, fino ad accogliere una nozione da lui stesso definita come ‘‘cibernetica’’, ossia equivalente a Lenkung o Steuerung, o meglio ancora, Steuerbarkeit, ossia ‘‘dominabilità’’, ‘‘controllabilità’’. Finalmente, alcuni suoi poco fedeli epigoni — come ad esempio Jakobs — sono giunti ad asserire che il termine ‘‘finalità’’ è soltanto una metafora e che finalità, in realtà, equivale a Vermeidbarkeit, ossia evitabilità; mentre, dal suo canto lo stesso Hirsch, che pure viene considerato tra i seguaci più fedeli ed ortodossi della teoria welzeliana, è pervenuto a sostenere che la finalità non è altro che un sinonimo della volontà di realizzazione del fatto, in questo modo regredendo verso posizioni che, in ultima analisi, ci appaiono più vicine al causalismo che al finalismo. Sembrerebbe a questo punto che la distanza tra la concezione del Welzel e quella causalistica tradizionale sia venuta sempre più riducendosi fino al punto quasi da scomparire. Eppure non è così. Il fossato che divide le due contrastanti posizioni è rimasto ben ampio e profondo: di per sé solo, lo spostamento del dolo dalla colpevolezza al fatto tipico rappresenta un contrassegno indelebile e inconfondibile e, al tempo stesso, il più radicale motivo di divergenza tra le due concezioni e le relative sistematiche. Esso sta a connotare un autentico salto di qualità tra due epoche della dogmatica.
— 1322 — Orbene, se si getta uno sguardo panoramico sulla letteratura giuridica penale tedesca, nonché su una parte autorevole di quella ispanica o latino-americana — per tacere di altri paesi, quali l’Austria, la Svizzera, la Grecia, il Giappone, la Corea del sud, etc. — è agevole constatare come il finalismo — inteso nel senso lato, o meglio traslato, che abbiamo chiarito — ormai si sia da tempo affermato quale principio fondamentale per la costruzione di ogni moderna sistematica del diritto penale condotta con metodologia dogmatica, al punto che anche coloro che non lo condividono si trovano costretti, volenti o nolenti, a fare i conti con esso. ** A fronte di ciò si deve però constatare che la letteratura giuridico-penale italiana, pur seguendo — come è noto — la stessa metodologia dogmatico-sistematica dei paesi poc’anzi citati, rappresenta una impressionante eccezione, avendo fin da principio sviluppato una ostinata resistenza, fino ad assumere spesso una posizione di aperta critica e di netto distanziamento dalla linea finalistica. Negli anni ’50-60 vi era stata, è vero, qualche sporadica adesione al Welzel (Santamaria, Fiore, Latagliata: in tutto non più del 5% degli allora titolari di cattedra), ma in pratica l’iniziativa non aveva avuto quasi nessun seguito coerente, tanto che alcuni dei predetti autori, come Santamaria e Fiore, sono stati successivamente assorbiti da una differente visuale o da diverse preoccupazioni dogmatiche. Attualmente, autori come Pagliaro, Marinucci, De Francesco G. V., Fiandaca, Musco, Ronco, lo stesso Fiore, etc. e, tra i più giovani, De Vero, Donini e altri dichiarano — è vero — di considerare il dolo nel tipo, ma in genere con eccessiva prudenza o senza la dovuta convinzione, e pertanto senza riuscire a trarne coerenti conseguenze in sede di sistematica; tanto più che, di solito, si opta per la equivoca ‘‘Doppelstellung’’, ossia per la doppia posizione del dolo e della colpa sia nel tipo che nella colpevolezza, la quale suona più come un escamotage, un compromesso tra il vecchio e il nuovo, che non come una coerente soluzione. La verità è che la nostra dottrina, pur mantenendo da sempre strettissimi contatti con quella tedesca, non ha mai cessato di conservare e di difendere posizioni di originalità e di autonomia rispetto ad essa. Nel quadro della visione umanistica che la caratterizza fin dal grande Cesare Beccaria e via via con Cesare Lombroso, Enrico Ferri, Raffaele Garofalo e i seguaci della famosa Scuola Positiva, nonché di quella classica, a partire dai grandi Giovanni Carmignani e Francesco Carrara — in codesto quadro ciò che soprattutto preoccupa la nostra dottrina è individuare sempre più precisi criteri e regole di garanzia contro l’arbitrio del giudice, soprattutto ancorando la punibilità alla effettiva lesione o messa in pericolo dei beni giuridici (c.d. garantismo). Oltre a ciò, per quanto concerne i rapporti con la dottrina tedesca, nel complesso la maggior parte dei nostri studiosi ha preferito cogliere al
— 1323 — balzo le ventate critico-polemiche insorte in Germania in opposizione al finalismo, soprattutto enfatizzando la rivalorizzazione del ruolo del bene giuridico, e del conseguente Erfolgstrafrecht, condotta da Thomas Würtemberger (« Die geistige Situation der deutschen Strafrechtswissenschaft », 1957) e, in seguito, dai vari Sina, Jäger, Marx, Rudolphi, Amelung, etc. col risultato — per certi versi alquanto regressivo — di un tentativo di ritorno al pre-finalismo. Visti oggi retrospettivamente, tra tutti codesti contributi, solo quelli dello Jäger appaiono ancora attuali in quanto ispirati da autentiche preoccupazioni sociologiche, e per giunta supportati da un solido background culturale di psicologia dinamica. Di conseguenza, alla teoria finalistica sono state costantemente mosse aspre critiche di ipersoggettivazione e di ipereticizzazione del diritto penale, e addirittura di facile strumentalizzazione autoritaristica, sollevando il timore che si perda il « salutare » contatto col terreno dell’oggettività e della concretezza, per sfociare quindi facilmente in un diritto penale dell’autore, di nota e infausta memoria nazista, a detrimento dei principi di stretta legalità e del diritto penale del fatto. Preoccupazioni queste che, pur apparendo, almeno in parte, abbastanza legittime, peccano comunque di unilateralità, in quanto dimentiche che, se da una parte vi è un perenne pericolo di sconfinamento verso la colpevolizzazione dell’autore, dall’altra vi è pure il grave pericolo opposto, e cioè di dare facile alimento, come purtroppo spesso avviene, ai casi di responsabilità obiettiva c.d. occulta — ossia non dichiarata e non prevista dal legislatore — ogni qual volta il giudice sottovaluti l’importanza di una corretta indagine sull’elemento soggettivo. A ciò va aggiunto un ulteriore pericolo, apparso di imponenti dimensioni soprattutto nell’ultimo decennio: quello della generalizzata « bagattellizzazione » sia dei fatti delittuosi che delle relative sanzioni, proprio a causa della sempre più diffusa svalutazione del momento del disvalore della condotta. Accentrando tutto sul disvalore di evento (= danno) si tende a lasciare impuniti i fatti che recano danni limitati, o individualizzati a poche persone, o, per converso, diluiti e diffusivi verso la generalità dei cittadini. Sicché una concezione « mercantilistica » del diritto penale tende vieppiù a soppiantare l’ethos della responsabilità e dell’osservanza delle regole di solidarietà per il bene comune. Resta comunque il fatto che, sulla spinta delle summenzionate preoccupazioni garantistiche, la grande maggioranza della nostra dottrina si è mossa in una direzione che sembra risultare addirittura opposta a quella assunta da Welzel. Basandosi sull’interpretazione di alcuni articoli del nostro codice (soprattutto sugli artt. 43 e 49, secondo comma), si è giunti ad affermare che nel nostro ordinamento, accanto al principio di stretta legalità, e quindi di tipicità, sussisterebbe altresì un principio che viene denominato di « necessaria offensività ». In base a tale principio, perché il giudice possa giungere all’incriminazione di un soggetto, non sarebbe suffi-
— 1324 — ciente che questi abbia realizzato un fatto corrispondente al modello legale descritto dal legislatore, ossia alla fattispecie, ma occorrerebbe altresì che questo fatto si traduca, in concreto, in una lesione o in una messa in pericolo ossia nella cosiddetta offesa — del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Tale decisa posizione antiformalistica e dualistica presuppone — come è facile vedere — che il disvalore dell’illecito penale sia visto nell’evento, inteso in senso c.d. giuridico, ossia nel risultato offensivo della condotta (c.d. Erfolgstrafrecht, o diritto penale dell’evento). Per cui è comprensibile che, una volta assunta tale direzione, era, e rimane tuttora oltremodo difficile per la nostra dottrina accettare le implicazioni della teoria del Welzel, e prima di tutto quella secondo cui il disvalore penale sarebbe in primis un disvalore di condotta (ossia: Handlungstrafrecht, o diritto penale della condotta) e l’illecito avrebbe quindi carattere personalistico, in quanto accentrato sulle modalità della condotta, anziché sull’entità del risultato. A parte le numerose critiche che possono facilmente essere sollevate contro l’interpretazione in senso giuridico del termine ‘‘evento’’ contenuto ai citati artt. 43 e 49, e anzi contro la stessa esistenza, in seno al nostro ordinamento, sia di reati c.d. ‘‘di pura condotta’’ sia di una nozione di evento che non sia da intendersi in senso puramente naturalistico, sta di fatto che, a ben guardare, una maggiore « soggettivazione » dell’illecito può invece essere auspicabile proprio nel nome di più autentiche istanze garantistiche in quanto, se condotta rigorosamente nel rispetto del principio di stretta legalità, essa non può che giungere a meglio individualizzare, e quindi delimitare la sfera dell’incriminazione, attraverso la ricerca della sussistenza di requisiti ulteriori rispetto a quelli meramente esteriori o materiali. È infatti agevole comprendere come lo stesso principio di necessaria offensività verrebbe ad acquisire maggior forza garantistica se, accanto al requisito materiale della dannosità o pericolosità del risultato, si esigesse altresì l’accertamento del disvalore specifico della condotta, quale manifestazione dell’atteggiamento interiore dell’agente. Un siffatto rilievo è stato da noi più volte ribadito, anche se la dottrina, nella sua maggioranza, si ostina a restare ancorata ad una visione unilaterale, e quindi parziale, del garantismo, in quanto concepito solo « a parte objecti ». Quanto al principio di offensività — che addirittura si va cercando di inserire expressis verbis in un nuovo codice penale (vedi progetto Grosso) — esso non risulta per nulla negato da siffatta nostra concezione. Semplicemente, se ne mantiene il collegamento non già, in linea mediata, attraverso il disvalore dell’evento, bensì in linea diretta e primaria, sulla base del disvalore di condotta, in piena coerenza con la natura dell’illecito penale, che è quella di illecito modale, ossia ‘‘a modalità di condotta’’. Come lucidamente è stato affermato da Francesco Antolisei, l’offesa non è già
— 1325 — un effetto del reato, ma ne costituisce il contenuto: « è lo stesso comportamento, ravvisato come lesione o messa in pericolo del bene giuridico ». ** Ritornando al tema circa le sorti attuali e future del finalismo, occorre fare due importanti precisazioni. La prima riguarda il senso e l’importanza dell’intuizione welzeliana che sta alla base dello spostamento dell’elemento soggettivo in seno alla tipicità. Welzel — come è ben noto — ha tentato di fondare la sua concezione su basi filosofiche, antipositivistiche (contro von Liszt), ma altresì antiformalistiche (contro il neokantismo della filosofia dei valori di Rickert), ispirandosi principalmente al c.d. realismo metafisico di Nicolai Hartmann. Ma al di sotto della sua indubbia vocazione filosofica — in ultima analisi, di schietto stampo idealistico-hegeliano — egli sentiva altresì la necessità, e quindi il travaglio, del contatto con la concretezza del fatto delittuoso, concretezza che riconosceva non potesse essere raggiunta se non con gli strumenti della psicologia criminale e della criminologia. Nel suo noto scritto ‘‘Persönlichkeit und Schuld’’ — apparso nel 60o volume della Zeitschrift, ossia nel 1941, e che a nostro avviso è, almeno dal punto di vista strettamente scientifico, la sua opera più viva e valida — Welzel ebbe a cogliere preziose luci di verità che assai raramente è dato rinvenire nella letteratura penalistica. Attraverso la lettura di contributi di psicologi, quali Lersch, Gehlen, Rothaker, Schneider, Lorenz, e altri, egli è decisamente penetrato in una dimensione dello psichismo ben diversa di quella tradizionale, statica, empirica e meramente descrittiva, appropriandosi di categorie concettuali chiaramente psicodinamiche, quali ‘‘strati della personalità’’, sfera istintuale, l’Io del soggetto come centrale di controllo, etc. che — come è ben noto — furono introdotti, parallelamente alle categorie del Superio, dell’Io e dell’Es, dalla psicoanalisi di Sigmund Freud, ai primi di questo secolo. Ebbene, sono proprio queste nuove intuizioni che troviamo successivamente utilizzate dal Welzel nel fondamentale capitolo su ‘‘colpevolezza e libertà del volere’’ delle ultime edizioni del suo Lehrbuch, fino a fornirci un concetto di colpevolezza, e quindi di imputabilità, basato non più — come tradizionalmente si va asserendo — su di una libera scelta a favore del disvalore, ossia del male, bensì sul ‘‘mancato controllo, da parte delle superiori funzioni dell’Io, sulla coazione causale degli istinti’’. ‘‘Böser Wille — scrive Welzel — ist kausale Abhängigkeit von wertwidrigen Antriebe’’: volontà cattiva altro non è che un lasciarsi trascinare dalle pulsioni antisociali. Conclusione questa che in dottrina è stata rimossa, ma che è da noi pienamente condivisa, e che riteniamo essere di estrema importanza per una nuova apertura sul travagliato problema del fondamento dell’imputabilità, sulla eterna questione, ad essa connessa, della esistenza del libero arbitrio, nonché, in in primis, sulla struttura dell’elemento soggettivo del reato, ossia del dolo e della colpa.
— 1326 — Per Welzel, come anche per noi, è questa la via maestra per giungere a quella concordanza tra la dottrina del diritto penale e la scienza della criminologia, concordanza che finora era sempre sembrato impossibile raggiungere. Infatti fu proprio Welzel a pervenire al sorprendente assunto che — contrariamente a quello che si crede — non esiste nessuna contraddizione tra il punto di vista giuridico-normativo e quello scientifico-criminologico: ‘‘Das Verbrechen ist tätsächlich durch und durch das Produkt kausaler Faktoren’’: il delitto è effettivamente, da cima a fondo, il prodotto di fattori causali. Il che è proprio quanto sostiene da sempre l’indirizzo positivistico degli studi sulla delinquenza, e quindi anche la moderna criminologia, ma che già era stato intuito dalla filosofia greca (Socrate e Platone attribuivano il torto a ignoranza) e dalla teologia cristiana (vedi, in primis, Agostino e Tommaso, nonché Lutero, Calvino e Giansenio, sul tema della grazia divina e della predestinazione). Eccoci così arrivati al nucleo della nostra tesi. Al di là di ogni complicata, e talora artificiosa, elaborazione filosofico-dogmatica di supporto, l’idea, veramente geniale, propugnata dal Welzel — secondo cui la condotta umana, e quindi il fatto delittuoso da essa realizzato, non potevano essere assolutamente compresi senza tener conto di ciò che muove, orienta e sostiene la condotta stessa, e cioè l’elemento soggettivo — si traduce, in ultima analisi, nel primo tentativo compiuto sul terreno dogmatico, di creare un ponte effettivo ed efficiente fra lo studio del diritto penale, sia sostanziale che processuale, e la scienza criminologica. In altre parole, Hans Welzel — anche se probabilmente non è stato del tutto consapevole delle relative implicazioni — è colui che ha radicalmente saputo mutare il metodo della ricerca dogmatica, creando di fatto le premesse per un lavoro in comune con la psicologia criminale, e quindi con la criminologia. A questo punto occorre però fare la seconda precisazione. È vero che nella letteratura penalistica tedesca l’appartenenza del dolo al tipo è diventato un principio ormai largamente acquisito. È tuttavia anche vero che — a ben guardare — nella stessa persistono tuttora sottili, ma alquanto diffuse resistenze verso il totale distacco del dolo e della colpa dalla colpevolezza. Anzitutto è noto che molti autori, tra cui lo stesso Jescheck, restano ancorati alla c.d. Doppelstellung, ossia la doppia posizione degli stessi sia nel tipo che nella colpevolezza. Ora, a nostro avviso, una simile doppia dimensione non è assolutamente accettabile, in quanto rappresenta un ossimoro, ossia un eclettismo del tutto contraddittorio, un espediente dialettico che, in ultima analisi, finisce col sottrarre alla scoperta welzeliana gran parte del suo valore. Ma va detto molto di più. Nella visuale di molti autori tedeschi (soprattutto Wilhelm Gallas, a sua volta seguito da Schmidhaüser, Bockelmann, Nowakowski, Lenckner, Wessels, e dallo stesso Jescheck), mentre
— 1327 — si dichiara di aderire alla concezione normativa della colpevolezza, in realtà non viene affatto attuato lo ‘‘svuotamento’’ del concetto di colpevolezza dai tradizionali contenuti psicologici voluto da Welzel. La colpevolezza viene infatti definita dal Gallas più o meno come la definiva agli inizi del secolo il positivista-naturalista von Liszt, vale a dire come ‘‘riprovevolezza del fatto in relazione alla Gesinnung, ossia all’atteggiamento interiore, attivata nel medesimo ». Ora, in buona sostanza, un simile concetto di colpevolezza non è affatto ‘‘distante’’ dalla tradizionale concezione psicologica della colpevolezza, (dominante in dottrina prima del decisivo apporto normativo di Frank), in quanto proprio l’elemento psicologico che sta alla base sia del dolo che della colpa — e che già per molti autori c.d. ‘‘classici’’, quali Antolisei e altri, consisterebbe nello ‘‘atteggiamento antidoveroso della volontà’’ — non risulta affatto estromesso, ma anzi continua a costituire il punto di riferimento del rimprovero. Dovrebbe invece essere chiaro che questa Gesinnung o atteggiamento interiore — ossia l’animus nocendi dei Romani e dei Commentatori, la ‘‘malicia’’ e l’ ‘‘animo’’ del codice spagnolo o la ‘‘malice’’ e la ‘‘mens rea’’ del common law, la malafede del linguaggio comune — non sono in fondo qualcosa di diverso dal dolo, ma ne rappresentano l’aspetto emozionale, accanto a quello intellettivo e — almeno per il dolo intenzionale — volitivo. Restando comunque fermo che codesto ‘‘atteggiamento interiore’’ non va inteso come un puro stato affettivo, quale emozione o sentimento. La ‘‘malicia’’, la ‘‘malice’’, la ‘‘böse Gesinnung’’, l’animus nocendi non rappresentano una entità psicologica meramente ‘‘passivo-recettiva’’, bensì implicano un ‘‘comportamento’’ interno, ossia una decisione interiore di adesione verso i propri impulsi antisociali. Ma codesta decisione interiore non sta affatto a significare che nel dolo indiretto e in quello eventuale l’evento debba considerarsi ‘‘voluto’’ dal soggetto, come insiste nel sostenere la maggioranza della dottrina. Se taluno decide di accettare il rischio di un evento, non per questo si è autorizzati a considerarlo ‘‘come se’’ avesse voluto la sua verificazione! Per la verità, l’origine dell’equivoco è da farsi risalire alla stessa impostazione accolta dallo stesso Welzel nelle ultime edizioni del suo manuale. Infatti un dolo ridotto ormai unicamente ad una entità cibernetica, come motore dell’azione, come Lenkung o Steuerung, ossia come potere di conduzione dell’azione, non è più — a ben vedere — quel fattore veggente da lui stesso inizialmente auspicato, ma resta anch’esso, alla fin fine, un elemento puramente meccanicistico, del tutto ‘‘cieco ai valori’’, né più né meno del dolo causalisticamente inteso, tanto criticato con la sua teoria finalistica. Il dolo può infatti acquistare la sua carica di significazione circa il disvalore della condotta solo se viene ancorato alla Gesinnung, vale a dire alla sua base emotiva. Come già aveva sottolineato Francesco Antolisei, il dolo penale, in realtà, non è semplice volontà del fatto, bensì ‘‘volontà cattiva’’, ossia — come dicevano i giuristi romani —
— 1328 — ‘‘prava voluntas’’, o ‘‘astus animus’’. E giustamente si distingueva in passato tra ‘‘dolus bonus’’, o civilisticamente rilevante, e ‘‘dolus malus’’, penalmente rilevante. Come afferma il grande Ulpiano, ‘‘injuria ex affectu facientis consistit »: il torto scaturisce dalla sfera affettiva dell’agente. In numerosi scritti, sin dal lontano 1966 (1), noi abbiamo sempre sostenuto che è proprio la Gesinnung antisociale a costituire l’essenza psicologica dell’elemento soggettivo del reato: una « scoperta » piuttosto ovvia, è ciò nonostante rifiutata da molti in dottrina! Riteniamo quindi di poter affermare che solo così concependo i rapporti tra dolo, colpa e Gesinnung, e ravvisando, al contrario, nella colpevolezza un giudizio di riprovazione puramente normativo, ossia del tutto privato di ogni contenuto psicologico, così come lo aveva concepito Welzel, solo in tal modo può venire attuata, a nostro avviso, la vera idea basilare sistematica del finalismo. Sicché se la dottrina che segue l’impostazione finalistica intende, da un lato, mantenere fermo lo strano e contraddittorio eclettismo della doppia dimensione, e dall’altro continuare a definire la colpevolezza caricandola del contenuto psicologico-emozionale proprio dell’elemento soggettivo, ossia della Gesinnung, ciò sta semplicemente a dimostrare che la rivoluzione welzeliana, al di là delle apparenze, va ancora incontrando forti resistenze. Invero è avvenuto che solo la volontà e la negligenza obiettiva sono stati inseriti nel tipo, mentre la sostanza del dolo e della colpa, a ben guardare, sono stati conservati alla colpevolezza, quasi come avveniva sotto la vecchia impostazione causalista. Cosicché alla fattispecie sono stati trasferiti solo i momenti della volontà e della imputazione obiettiva, ma non già il dolo, e tanto meno la colpa, entrambi rimasti ‘‘intrappolati’’ nel concetto tradizionale di colpevolezza. Ricordiamo ora la prima premonizione fatta dallo Jescheck nel 1969, da noi riprodotta all’esordio del presente scritto. È vero che l’idea sistematica che sta alla base del finalismo, nel corso di questi 30 anni, ha finito con l’imporsi. Sennonché questo successo, a nostro parere, è ancora parziale, sia perché alla fattispecie si è trasferito non già l’intero elemento soggettivo, ma solo un suo aspetto, quello intenzionale, sia perché si tende a riservare un ambiguo ruolo di questo aspetto anche in seno alla colpevolezza (Doppelstellung), sia perché non si è in realtà ‘‘svuotata’’ la colpevolezza dal suo contenuto psicologico di base, ossia quello emozionale, sia infine perché si continua a considerare la colpevolezza come un giudizio relativo al fatto, mentre in realtà esso riguarda unicamente il suo autore e precisamente il reo imputabile. Invero il termine « colpevole » rap(1) Anche tradotti, con successo di critica, in varie riviste di lingua tedesca, greca, ispanica e portoghese-brasiliana, nonché in una monografia dal titolo ‘‘La función del comportamiento interior en la estructura del delito’’, edizioni Temis, Bogotà, 1993 (adottato come testo in America latina, in vari corsi universitari per il master).
— 1329 — presenta un predicato di relazione pertinente non al fatto di per se stesso, ma piuttosto al suo autore! La dottrina deve dunque ancora procedere avanti, fino a portare il finalismo alle sue estreme conseguenze, come abbiamo visto, non consistono soltanto nel vedere nell’elemento soggettivo il portatore o il nucleo centrale del disvalore del fatto, bensì devono essere tali da consentire la creazione di quel ponte tra dogmatica e criminologia che è stato in sostanza, auspicato dallo stesso Welzel. Insomma, se è chiaro che la prima profezia di Jescheck risulta essere, almeno in parte, in fase di realizzazione, si deve invece riconoscere che si è ancora ben lontani dall’attuazione della seconda, così formulata: ‘‘anche la collaborazione tra dogmatica penalistica e criminologia empirica condurrà a nuove prospettive nel quadro della parte generale’’. ** Diversi anni fa, nel 1971, un illustre collega spagnolo, Enrique Gimbernat Ordeig, si chiese, con qualche ansietà, in un suo noto scritto apparso sulla Zeitschrift: ‘‘Ha un futuro la dogmatica giuridico-penale?’’ A un simile quesito abbiamo già avuto occasione di dare risposta in un nostro lavoro monografico del 1989 (2) nel modo seguente. A rigore, una dogmatica penale può non essere necessaria, essendo sufficiente una esegesi sistematica delle norme, come del resto avviene nei paesi francofoni e anglofoni. Spesso anzi succede che la dogmatica, oltre che non necessaria, sia altresì inutile e addirittura dannosa, il che è particolarmente evidente ogni qual volta si risolve in un insieme di disquisizioni eccessivamente sottili e complicate, traducentesi in una esasperata analisi e in una serie di distinzioni concettuali bizantine, prive di una reale logica interna ed esterna. Se la dogmatica fosse solo questo, allora veramente non avrebbe un vero futuro, o più esattamente, avrebbe il non-futuro che si meriterebbero tutte le cose sbagliate, anche se, purtroppo, sembra che siano destinate a proliferare in eterno! Ciò non verificandosi, alla dogmatica penalistica, di per se stessa, può a buon diritto essere riconosciuta una sua ragione d’essere, se non come una scienza in senso proprio, almeno come una tecnica dottrinaria diretta alla sistematica costruzione di un insieme organico di nozioni destinate a conseguire una corretta applicazione pratica del diritto. Ciò non toglie che essa possa comunque realmente aspirare al rango di scienza; ma alla precisa condizione che giunga a radicare i suoi principi di base sul terreno della nuova prospettiva scientifica rappresentata dalla criminologia, ed essenzialmente costituita dalla psicologia del delinquente e della società che punisce (la stessa sociologia criminale è in fondo, anch’essa psicologia: psicologia applicata ai fenomeni collettivi della devianza). (2) Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, ed. CEDAM, Padova (trad. spagnuola del 1993: cfr. retro, nota 1), p. 107 ss.
— 1330 — Certamente, allo stato attuale, questo appare ancora come un compito arduo, difficilmente realizzabile, quasi al limite dell’utopia. Solo isolati studiosi sono in grado — in via eccezionale, in quanto dotati della debita preparazione, non solo teorica, ma altresì sperimentale — di affrontarlo con un certo successo. Occorrerebbe invero che nelle Università la preparazione alla laurea in giurisprudenza, almeno nei piani di studio orientati verso l’attività forense, giudiziaria, amministrativo-penitenziaria, nonché di pubblica sicurezza, comportasse obbligatoriamente, oltre alla tradizionale base giuridico-normativa, altresì un rigoroso approfondimento e una effettiva assimilazione dei principi della moderna psicologia criminale, la quale invero oggi non può che essere una applicazione della psicologia dinamica o del profondo, con particolare riferimento al vastissimo problema della devianza e della aggressività umana antisociale. Approfondimento e assimilazione che, oltre tutto, non devono essere puramente teorici, ma essenzialmente pratici, con trainings a livello sia collettivo che individuale, e addirittura con prove di esame che ricomprendano, altresì, adeguati tests psicologici attitudinali. Tutto questo rappresenta però ancor oggi solo un ideale. In ogni caso non è — a dire il vero — una assoluta novità. Proposte del genere furono avanzate da lungo tempo dai fautori della Scuola positiva italiana, tanto da trovare un qualche parziale accoglimento in diversi Istituti e Scuole di perfezionamento o di specializzazione per laureati, sia in Italia che all’estero. Tuttavia ci si deve rendere conto che quello che sin qui si è andato e si va operando ha dimensioni troppo ridotte, e comunque si rivolge ancor oggi a pochissimi specializzandi. E, in ogni caso, il metodo di approccio con cui lo si conduce sembra peccare troppo spesso di dilettantismo, di eclettismo nozionistico, se non addirittura di superficialità; insomma: è tuttora, di regola, troppo carente di metodologia scientifica. Rimanendo sul piano strettamente dogmatico, dovrebbe essere comunque chiaro come solo una impostazione di tipo finalista, per la quale dolo e colpa concorrono alla tipicità del fatto, possa riuscire ad entrare in fattiva collaborazione con la criminologia, e lo possa fare tanto più facilmente in quanto pervenga a recepire la funzione della Gesinnung nella sistematica del reato. Al contrario, la tradizionale teoria causalistica — quale quella che, in buona sostanza, continua ad essere seguita dalla nostra dottrina — non è in grado di conseguire proficuamente questi contatti, a meno di non entrare in profonda contraddizione con i suoi principi. Invero, ci si dovrebbe chiedere come sia possibile parlare di un fatto di reato doloso o colposo commesso da un non imputabile fin tanto che dolo e colpa continueranno a essere concepiti — anche se solo parzialmente — come forme di manifestazione della colpevolezza, e addirittura, come pretendeva la belinghiana teoria tripartita, questa continuerà a essere intesa come uno degli elementi concettuali del reato, anziché avere l’imputabilità come presupposto e appartenere quindi alla sola teoria del
— 1331 — reo, rilevando ai soli effetti della condanna o della assoluzione e della applicazione e commisurazione della pena. Pertanto, si deve osservare che il sostanziale rigetto, da parte della nostra dottrina, della sistematica finalistica, e delle sue implicazioni, rappresenta, in fin dei conti, un notevole handicap, destinato a rendere il rapporto di parziale integrazione, o comunque di efficiente collaborazione, con la criminologia, ancor più difficoltoso e problematico. Questo è in verità lo scotto di un pluridecennale ‘‘fin de non reçevoir’’, ossia della costante, indebita, preclusione riservata al finalismo. Tale rigetto è inoltre — a nostro avviso — un sicuro indizio della prosecuzione di un inveterato atteggiamento di disinteresse o di insensibilità — se non addirittura di recondita, ma tanto radicale, ‘‘resistenza’’ — verso la visuale criminologica, atteggiamento che è purtroppo da lungo tempo diffuso anche nella nostra dottrina, nonostante la lunga tradizione risalente al Lambroso e alla Scuola positiva, nostra gloria e, si vorrebbe, giusto vanto. In conclusione: mentre la seconda delle profezie di Jescheck, quella relativa alla collaborazione tra dogmatica e criminologia, attende ancora di essere realizzata, — e possiamo confidare che lo sarà nel secolo che ci attende dopo il 2000 — invece la prima profezia, relativa alle sorti del finalismo, si rivela già in parte attuata. Essa deve solo proseguire fino: 1) all’abbandono totale della c.d. Doppelstellung, 2) allo svuotamento totale del concetto di colpevolezza da qualsiasi residuo di contenuto psicologico, 3) alla estromissione dell’oggetto della colpevolezza dalla teoria del fatto a quella del reo, e 4) soprattutto al riconoscimento che sia il dolo che la colpa costituiscono non già un problema di volontà, e tanto meno di finalità in senso stretto, bensì un problema di Gesinnung, o atteggiamento interiore. ** Appare interessante osservare come quest’ultimo punto sia stato felicemente colto dallo Jescheck a proposito della basilare distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente. Nella 4a edizione, 1988, del suo Lehrbuch, p. 269 e nota 29 (ed ora, altresì — malgrado qualche aggiustamento regressivo probabilmente dovuto al Weigend — nella ultima edizione, la quinta, del 1996, a pag. 300) egli ebbe esplicitamente a dichiarare di aver cambiato opinione a riguardo, rispetto le precedenti edizioni, e precisamente nel senso che la predetta distinzione deve essere fatta non già sul terreno della volontà di realizzazione — la quale fa difetto sia nel dolo eventuale che nella colpa — bensì su quello della innere Einstellung e, segnatamente, della Gesinnung: è la Gesinnung dell’autore a decidere per l’una o per l’altra ipotesi. Mentre nella colpa si agisce nella ‘‘sicura fiducia’’ che l’evento non si verifichi, nel dolo eventuale si aderisce interiormente a questa possibilità (3). (3)
Per inciso, è dato notare che, in seno alla corrente dottrina, avviene qualcosa di
— 1332 — Non v’è dubbio che si tratta di un riconoscimento per noi estremamente importante. Tuttavia non va perso di vista che esso rivela una intrinseca, grave contraddizione nel sistema dello stesso Iescheck. Infatti, dal momento che per lui la Gesinnung del soggetto attiene alla colpevolezza, egli sarebbe costretto alla fine ad ammettere che dolo e colpa non si possono distinguere né sul piano della tipicità né su quello dell’antigiuridicità. La qual cosa sarebbe evidentemente in netto contrasto con la sua adesione alla concezione diametralmente opposto. Si riconosce bensì che lo spartiacque tra dolo eventuale e colpa cosciente è contrassegnato dalla assenza o presenza della ‘‘sicura fiducia’’ che l’evento non si verifichi (basta ricordare a riguardo il classico manuale dell’ANTOLISEI), ma — senza punto accorgersi dalla palese incoerenza — si continua disinvoltamente a far leva sul criterio della volontà per tracciare la distinzione, salvo poi tornare a non scorgere alcuna contraddizione nei c.d. casi di colpa impropria: colposi, e non dolosi, nonostante che l’evento sia coperto dalla volontà. Il criterio della ‘‘sicura fiducia’’ viene poi, a torto, etichettato dai suoi critici accanto a quello della speranza, del desiderio etc. nel quadro della Gefühlstheorie, o teoria del sentimento; mentre in realtà attiene al momento dell’atteggiamento interiore il quale altra cosa, in quanto non fa che esprimere il contenuto psicologico tipico del dolo; proprio quel contenuto che ROXIN — usando, si badi, una astratta metafora e non una precisa terminologia definitoria — intende esprimere quando ravvisa nel dolo una ‘‘decisione per la possibile lesione del bene giuridico’’ (Jus, 1964, p. 58): è chiaro che codesta ‘‘decisione’’ non può essere altro che una componente dell’atteggiamento interiore verso il bene protetto, o meglio, per uscire del tutto dalla matafora, verso le proprie pulsioni antisociali (al bene tutelato il delinquente non ci pensa proprio!). In ogni caso, è lo stesso ROXIN che — a distanza di trent’anni dal suo scritto del 1964 — si preoccupa di chiarire che ‘‘il concetto di decisione, come tutti i concetti giuridici [?!], è da valutare non come un puro dato psichico, ma secondo criteri normativi’’ (Strafrecht, 2a ed., 1994, p. 360). Se così è, si tratta di un traslato che fa riferimento semantico al momento di autodeterminazione che il punto di vista normativo deve presupporre alla base della cattiva Gesinnung, e nulla più. Avviene addirittura in dottrina che il ‘‘rifiuto’’ delle parole-tabu ‘‘atteggiamento interiore’’ (proprio in un diritto penale, dove, da sempre, il giusto processo, gira di fatto, lo si voglia, o no, necessariamente intorno ad esse!) sia tale che neppure ci si accorge come tutta la terminologia che si è andata da ogni parte escogitando per connotare il dolo eventuale e la colpa cosciente non fa altro che qualificarsi, alla fin fine, come ‘‘modalità’’ di atteggiamento interiore; è così per: ‘‘prendere sul serio il rischio’’, ‘‘accettazione del rischio’’, ‘‘agire a costo di’’, ‘‘rassegnazione al possibile risultato’’, ‘‘accettazione di un’offesa ritenuta seriamente come possibile’’, ‘‘mettere in conto’’, ‘‘approvazione emotiva’’, ‘‘adesione interiore al risultato’’, ‘‘accettazione con approvazione’’ e via dicendo. Ora lo stesso va detto per la astratta e artificiosa connotazione suggerita dal ROXIN: dolo inteso come ‘‘decisione contro il bene giuridico’’. Si è detto che si tratta di una metafora in quanto sul piano psicologico una simile entità e inesistente; come tale è infatti solo frutto della fantasia di un osservatore esterno, e per giunta di un giurista. Certo che l’agente, ha assunto una ‘‘decisione’’ al momento della formazione del suo atteggiamento interiore antisociale: ma è una scelta o decisione comportamentale del tutto interna, che non va assolutamente confusa con l’atto di volontà propriamente inteso, il quale, è fattore di conduzione fisico-causale rivolto verso l’esterno (sul punto, cfr. il nostro ‘‘Il ruolo dell’atteggiamento interiore, etc. cit.’’, p. 46). Verissimo che la sfera « intima » del reo non può essere oggetto di osservazione diretta, bensì soltanto di una interpretazione affidata a contrassegni derivanti dalla situazione esteriore (così PAGLIARO, in Cass. pen., cit., p. 117), ma è ben noto che la Gesinnung emerge ‘‘per facta concludentia’’: § 46 dello StGB: ‘‘die Gesinnung die aus der Tat spricht’’. È per questa ragione che in dottrina (HASSEMER) si parla di ‘‘Kennzeichen’’ ossia di indicatori del dolo; ed è per questa ragione che spesso (assai spesso!) si parla di dolus in re ipsa.
— 1333 — finalistica e al principio da lui accolto dell’appartenenza del dolo e della colpa al tipo, come suoi connotati identificatori; oltretutto comporterebbe la rinuncia all’escamotage della Doppel-stellung da parte sua. Comunque va dato atto a Jescheck di avere saputo riconoscere alcune verità, compiendo così un importante passo in avanti con l’ammissione che la essenza del dolo e della colpa non può essere cercata nella volontà, bensì nell’aspetto emozionale, ossia nella Gesinnung. Rimane ora per lui — e, più in generale, per la dottrina di ispirazione finalistica — da compiere l’ultimo passo: quello di estromettere finalmente la Gesinnung dal concetto di colpevolezza per restituirla al fatto tipico, sino a identificarla col dolo, inteso non più come finalità o volontà, ma come ‘‘atteggiamento interiore’’ o ‘‘animus nocendi’’. Non è senza soddisfazione che posso oggi rivelare come l’origine di codesto importante cambiamento di rotta da parte di Jescheck risalga a un lungo colloquio che ebbi con lui presso l’Istituto Max Planck di Friburgo in Bresgovia, nell’estate del 1987, poco prima che venisse data alle stampe la 4a edizione del suo Lehrbuch. Tale occasione mi diede modo di constatare con quale vivo interesse l’illustre studioso avesse seguito l’esposizione delle nostre tesi dogmatiche, fino a recepirne i motivi essenziali, e modificare in tal senso il testo precedentemente predisposto. Ma non è stato solo lo Jescheck, in seno alla dottrina tedesca, ad apprezzare la rivalutazione della Gesinnung da noi condotta nel quadro del fatto tipico. Anche un altro autorevole collega, Winfried Hassemer — dopo che nella stessa estate del 1987 avevamo a lungo dissertato nel suo Istituto presso l’Università di Francoforte sul Meno — nel suo importante contributo sugli indizi di conoscibilità del dolo (Kennzeichen des Vorsatzes) pubblicato successivamente nel 1989, negli Scritti in memoria di Armin Kaufmann (e tradotto in italiano sotto l’improprio titolo ‘‘Caratteristiche del dolo’’ in Ind. pen., 1991, p. 481 ss.), ebbe esplicitamente a riconoscere che l’essenza del dolo consiste in uno ‘‘stato interiore’’ di ‘‘personale acquisizione’’ o ‘‘accettazione’’ dell’illecito, configurandosi così come una innere Disposition — vale a dire come un atteggiamento interiore — nella quale sussiste sì un momento decisionale (Entscheidung), ma di natura interiore, in quanto rivolto non già verso l’oggetto materiale, sibbene verso l’illecito in sè (4). Se fosse diversamente, non sarebbe necessario ricorrere a degli ‘‘indicatori’’ (KENNZEICHEN) per l’individuazione del dolo, (4) Più recentemente — dopo che nella ZStW, 1995, p. 324 ss., era apparto il nostro scritto ‘‘Die subjektive Elemente der Straftat aus Kriminologischer Sicht’’ — anche SCHÜNEMANN mostra di seguire le nostre tesi, dal momento che definisce il ‘‘moderno concetto di dolo’’ come ‘‘animo di ostilità’’ o di ‘‘indifferenza’’ rispetto al bene giuridico, così come aveva già fatto dai noi PAGLIARO (in Cass. pen., 1991, p. 312 a Principi di diritto penale, 4a ed., 1993, p. 273) dopo la nostra citata monografia del 1989. Lo SCHÜNEMANN assume questa posizione nel 1997, in una relazione congressuale dal significativo titolo: Concepto de dolo en la nueva dogmatica penal (Revista de politica criminal y ciencias penales, Messico, 1999, 1, pp. 69 e 71).
— 1334 — bastando l’accertamento della ‘‘volizione’’, la quale, come volontà di realizzazione, emerge ‘‘visibilmente’’ dal fatto stesso, cosa che avviene peraltro, ma nel solo dolo diretto o intenzionale. ** La linea di sviluppo del pensiero finalista è dunque semplicemente così tracciata. Il dolo deve sì essere spostato dalla teoria della colpevoDel resto, anche a prescindere dalle nostre tesi (risalenti al 1966) sono già da tempo molti in Germania gli studiosi che si rifiutano di costruire il concetto di dolo sulla volontà. In tal senso si sono pronunciati, ad esempio, autori come ZIELINSKI, FRISCH, JAKOBS, SCHROTH, SCHMIDHAÜSER, HERZBERG, SCHLEHOFER, SCHMOLLER, PHILIPPS, SCHUMANN, KINDHAÜSER, PUPPE, SCHRÖDER, etc. Addirittura si è giunti ad affermare, da parte di ZIELINSKI, che ormai il momento volitivo avrebbe perduto ogni ruolo in seno alla prassi forense, finendo per condurre una semplice esistenza scolastico-manualistica (‘‘ein Lehrbuchdasein’’)! Resta il fatto che per la nostra dottrina — impregnata com’è della tradizionale psicologia scolastico-aristotelica, e del tutto impermeabile ai portati psicologici della riforma protestante — codesti assunti appaiono incomprensibili. Mentre è interessante osservare la diversa presa che essi assumono in paesi di lingua iberica, nonostante la comune eredità controrifornistica. Avviene così che da noi invece di imboccare la giusta strada per la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, la quale è — e non può essere altro — quella di una migliore messa a fuoco psicologica, si fugge per la tangente obiettivo-normativa, seguendo pedissequamente formule di moda come quelle del ‘‘rischio consentito’’ e dell’imputazione oggettiva. Ma si tratta di un vicolo cieco, perché presto ci si accorge che il (vero) problema è rimasto insoluto. Ultimamente riprende le tesi dello HASSEMER e del ROXIN sul dolo una elaborata monografia di Stefano CANESTRARI (Dolo eventuale e colpa cosciente, 1999). Peraltro il chiaro autore omette di sottolineare come HASSEMER (cit. III, 2, a, b) abbia anzitutto cercato di spiegare il senso del concetto di dolo proposto da ROXIN come ‘‘decisione contro il bene giuridico’’, e lo abbia individuato in una ‘‘personale acquisizione dell’illecito’’, in una ‘‘disposizione’’, in uno ‘‘stato interiore non direttamente osservabile’’. Ciò fa sì che — anche se HASSEMER qualifica una cotale decisione come un ‘‘fenomeno volitivo’’ (peraltro non come un atto di volontà!) — la sua concessione sia più correttamente classificabile nel quadro dell’atteggiamento interiore. A parte poi il rilievo, già da noi sollevato (e confermato dallo stesso ROXIN: vedi nota 3) che una decisione ‘‘contro un bene protetto’’ è del tutto priva di consistenza psicologica, e cioè è una mera creazione dottrinaria, resta il fatto — da non sottovalutare — che sia ROXIN che HASSEMER non usano il termine Entschluss, che in tedesco prelude ad una azione, bensì il termine Entscheidung, il quale sta a indicare una delibera, una risoluzione, ovverossia una scelta tra una alternativa di comportamenti. Ora giustamente proprio JESCHECK, ha messo in evidenza, nel citato passo della 4a ed. del suo Lehrbuch, p. 269 e nota 29, che è errato intendere la decisione implicita nel dolo eventuale come un Entschluss, ossia come un atto di volontà proteso verso il mondo esterno, trattandosi se mai di quel tanto di ‘‘decisorio’’ che è ontologicamente insito in ogni ‘‘presa di posizione dell’agente rispetto al mondo dei beni giuridici’’ (ENGISCH), ossia in ogni ‘‘innere Einstellung’’ o atteggiamento interiore o animus agendi: l’adesione (= scelta, risoluzione), verso il giusto o l’ingiusto, il bene o il male. Che le cose stiano a questo modo è comprovato dal fatto che lo HASSEMER, fa frequente uso, come sinonimo della ‘‘decisione’’ de quo, di termini come ‘‘acquisizione’’, ‘‘appropriazione’’, ‘‘accettazione’’ dell’illecito. Del resto la formula tradizionale della accettazione del rischio già implica un momento decisorio in quanto: chi accetta ha deciso di accettare. Ma tutto quello che si intende qui asserire è che codesta ‘‘decisione’’ non equivale affatto alla volizione dell’evento, né diretta né indiretta: un eroe in guerra può decidere di accettare la possibilità di morire, ma non per questo può dirsi che ‘‘vuole’’ la propria morte!
— 1335 — lezza a quella del tipo, ma — attenzione! — ciò che deve essere trasferito è il dolo nella sua interezza, ossia non già inteso soltanto come previsione del risultato e volontà della sua realizzazione, e tanto meno come finalità in senso stretto, bensì come atteggiamento interiore antisociale, vale a dire come cosciente adesione al proprio dinamismo istintuale diretto in senso antisociale. Sappiamo bene che un dolo così concepito può andare subito incontro a una prima critica, e cioè che esso esigerebbe una più acuta introspezione psichica da parte del giudice a carico dell’imputato; con la conseguenza di accrescere le difficoltà nel terreno della prova, e d’altro canto, di aggravare le possibilità di arbitrio giudiziario. Ma, a ben guardare, una simile censura non appare pertinente. Anzitutto perché, nella maggior parte dei casi, la Gesinnung del soggetto è in pratica implicitamente inducibile dalle modalità di realizzazione della sua azione, data la notoria natura di illecito modale del torto penale. Come dicevano già i Romani, e nel diritto comune i Commentatori, essa è ‘‘in re ipsa’’, ossia si desume ‘‘per facta concludentia’’. Inoltre, non è affatto vero che nel processo il legislatore non esiga dal giudice una particolare introspezione psichica del soggetto. Nel codice italiano, per esempio, il giudice deve accertare, oltre al dolo e alla colpa, anche il grado della loro ‘‘intensità’’, nonché i motivi a delinquere e il carattere del reo. Per di più, in tema di circostanze, la pena sarà aggravata, ad esempio, se i motivi a delinquere sono « abietti o futili », o se il soggetto ha agito « con sevizie o crudeltà ». Ma altresì nella parte speciale del codice numerosissime sono le ipotesi in cui il giudice deve stabilire se il fatto sia avvenuto, per esempio, « per protesta », « per solidarietà », « per disprezzo », con « atti di brutalità o di oscenità », o « di vilipendio », o « di libidine », « fraudolentemente », e così via dicendo. Nello stesso codice spagnolo abrogato i fatti descritti come colposi si connotavano quali fatti dolosi attraverso la semplice, ma efficace formula ‘‘si mediare malicia’’ (‘‘se commesso con malafede’’: artt. 565, 586, etc.), mentre nel recente codice del 1995 il giudice è tenuto a stabilire in molti casi se nel fatto ci sia ‘‘perfidia’’ (alevosia: artt. 22, 139) o ‘‘animo di lucro’’ (artt. 234, 237, etc.) o ‘‘accanimento" (ensañamiento: art. 139), o ‘‘cattiveria’’ (maldad) o ‘‘frode’’ (art. 295), etc. Addirittura la colpa, nei fondamentali articoli 5 e 10, viene indicata con la terminologia di atteggiamento interiore emozionale usata anche nell’art. 43 del nostro codice, vale a dire come ‘‘imprudencia’’. Ancor più importante è osservare come in tale codice si rinuncia per giunta a definire il dolo. A parte ciò, non si deve comunque dimenticare che un certo grado di introspezione psichica è indispensabile al processo penale, se non si vuole farlo cadere nella più deteriore superficialità e se si intende in tal modo sottrarlo il più possibile agli errori giudiziari e alla responsabilità obiettiva cosiddetta occulta. In ogni caso, dovrebbe essere chiaro che noi non ‘‘pre-
— 1336 — tendiamo’’ che il giudice abbia necessariamente ad ‘‘accertare’’ la sussistenza dell’animus nocendi nel corso del processo. Ci limitiamo solo ad asserire che siffatto atteggiamento interiore rimane comunque al centro dell’indagine processuale, sia pure in maniera inespressa o inconsapevole. Quando la sussistenza degli elementi materiali del fatto risulta comprovata, l’an o il quantum della pena resta essenzialmente dipendente dalla convinzione che il giudice venga a formarsi circa l’an e il quantum della Gesinnung antisociale (dolo) o della Gesinnung indifferente verso il sociale (colpa) nell’imputato, ed è proprio su di ciò che si appunta l’intera difesa processuale. Comunque sia, anche se per pura ipotesi una simile ricerca dell’animus nocendi dovesse essere considerata tra i compiti ineludibili e consapevoli del giudice, e portasse necessariamente ad aggravare le difficoltà di prova, ciò non significherebbe nulla: « adducere incommodum non est resolvere argumentum ». Quello che importa è stabilire, una volta per sempre, che, sul terreno propriamente scientifico, è dolo non già la semplice coscienza e volontà dell’evento, ma l’atteggiamento interiore con cui il soggetto agisce. Sarà poi compito della prassi riuscire o meno ad applicare in concreto un siffatto principio. Come riuscire ad applicarlo è un problema solo pratico, che non toglie né aggiunge nulla alla validità teorica del principio stesso. Come ben si sa, scienza e prassi si muovono su piani diversi e che non sempre coincidono, dovendo la prassi ricorrere a compromessi e ad approssimazioni che alla scienza sono, e devono essere, giustamente, estranei. Si è anche eccepito che un dolo inteso come ‘‘prava voluntas’’ o ‘‘animus nocendi’’ può concepirsi per i soli reati c.d. naturali, ma non per quelli c.d. di mera creazione legislativa. Di vero in questa censura c’è solo che un dolo così conformato è concepibile unicamente per i delitti e non per le contravvenzioni, essendo queste prive di natura criminosa, per cui non destano allarme sociale. Quanto ai delitti, l’agire con la consapevolezza del divieto è già di per sé fondamento di un animus nocendi antisociale anche per i reati di mera creazione legislativa. Ma c’è una critica ancor più radicale che viene sollevata, e alla quale si è già fatto cenno. Si tratta del tanto declamato ‘‘pericolo’’ di una frattura insanabile nei principi di garanzia verso i diritti individuali di libertà assicurati dalla nostra Costituzione: si paventa insomma che attraverso la rilevanza dell’atteggiamento interiore si venga addirittura a tradire il fondamentale principio del fatto, e, quindi, lo stesso principio di stretta legalità sancito dall’art. 1 del nostro codice, per cadere niente di meno che in una sorta di « diritto penale dell’autore », che ricorderebbe molto dai vicino quel Täterstrafrecht invalso in Germania durante il periodo nazista... Ma per fortuna pare sia giunto il momento che timori o censure di tal fatta vengano finalmente, e una volta per tutte, ‘‘demitizzati’’. Il fondamentale principio garantistico della responsabilità per il fatto resta assolutamente fuori discussione. Non si vede proprio la ragione per
— 1337 — cui una teorizzazione del dolo per quello che è, ed è sempre stato, soprattutto nella prassi forense, ossia come atteggiamento interiore, o malafede criminosa, debba comportare la rinuncia, totale o parziale, alla suprema esigenza del rispetto del c.d. Tatbestand, ossia della conformità del fatto concreto al modello legale descritto dal legislatore, in una parola, al principio della tipicità. Accettare la qui proposta visione significa soltanto aggiungere qualcosa di più a questa esigenza, vale a dire richiedere un quid pluris il quale, appunto perché elemento ulteriore rispetto agli elementi meramente materiali alla fattispecie, non fa che svolgere un ruolo individualizzante, e quindi delimitativo della responsabilità, compiendo in tal modo una preziosa funzione correttiva rispetto ad un altro pericolo — stavolta molto più reale — quale quello della responsabilità senza colpa, ossia oggettiva. Sicché il principio della Gesinnung — sempre che venga correttamente inteso, e non pregiudizialmente alterato da luoghi comuni, spesso frutto di fantasie proiettive — non può far altro che giovare sia alla certezza del diritto che ai diritti di libertà dell’individuo; e, pertanto, finisce col tradursi in una linea di garantismo autenticamente liberale, in quanto più ferma e più precisa di quella che corrivamente si suole difendere in piena sintonia con la fondamentale regola dell’habeas corpus. Un garantismo il quale sottovaluti l’effettiva struttura del dolo in sede di accertamento porta inevitabilmente a collocare, al posto dei reali processi psicologici, esangui imputazioni normative alla Hans Kelsen, e, di conseguenza, alla proliferazione di generalizzazioni e di presunzioni del tipo ‘‘non poteva non sapere’’. Un simile ‘‘garantismo’’ finisce così nel degenerare nel suo apposto: l’antigarantismo! In dottrina peraltro non manca chi — pur condividendo codesto rilievo — leva la voce contro lo ‘‘svuotamento’’ del concetto di dolo attraverso il tentativo di costruirlo partendo dalla forma (definita ‘‘marginale’’) del dolo eventuale, paventando che l’eliminazione (vista come ‘‘mutilazione’’) del momento volitivo, che ne consegue, renderebbe indistinguibile il dolo dalla colpa cosciente (5). Per noi — d’accordo, come si è visto, con lo JESCHECK e lo HASSEMER — è vero il contrario. La deplorata ‘‘mutilazione’’, ossia lo ‘‘svuotamento’’ del concetto di dolo si verifica proprio col negarne la natura emozionale e col persistere nel ravvisare un fantomatico elemento volitivo là dove non esiste e, quindi, col tracciare la linea divisoria colla colpa cosciente su processi psicologici del tutto immaginari; ossia — come ha affermato ZIELINSKI — dotati soltato di un ‘‘Lehrbuchdasein’’. ELIO MORSELLI Ordinario di diritto penale nell’Università di Perugia (5) MARINUCCI, Ricorso di Franco Bricola, in Il diritto penale alla svolta di fine millennio, 1998, p. 6.
LA PROCEDURA PENALE COMPARATA TRA ISTANZE DI RIFORMA E CHIUSURE IDEOLOGICHE (1870-1989) (*)
SOMMARIO: 1. Spunti per una storia della procedura penale comparata dall’Italia liberale al codice del 1989: fervori, ripudi e faticosi recuperi. — 2. L’età del fervore (18701913). La comparazione riformista e l’aspirazione a superare ‘‘il torrente dell’empirismo francese’’. Pubblicità per le parti, ‘‘conchiuso di accusa’’ ed esame diretto dei testi, temi centrali della riflessione comparativa. — 3. Il ripudio della comparazione nella ideologia processuale della Scuola positiva e nella dottrina nazionalista del fascismo. — 4. Il ritorno alla procedura penale comparata nel clima riformista degli anni Sessanta. L’apporto degli studi comparativi alla costruzione del codice di procedura penale del 1989. — 5. Verso il XXI secolo. Obiettivi e metodi della comparazione nel diritto processuale penale.
1. Spunti per una storia della procedura penale comparata dall’Italia liberale al codice del 1989: fervori, ripudi e faticosi recuperi. — Il progetto può apparire tanto ambizioso da far pensare seriamente al rischio di rimanere invischiati nella ragnatela di una immensa letteratura giuridica da vagliare all’interno di cornici legislative continuamente mutevoli. L’idea di racchiudere in un sintetico panorama più di un secolo di comparazione nel settore del processo penale italiano ha indubbiamente il sapore di una sfida. Anche perché la storia da ricostruire riguarda una disciplina che è forse la più giovane tra quelle iscritte nei registri dell’anagrafe accademica delle Facoltà di giurisprudenza italiane, essendo stata attivata come insegnamento autonomo solo pochi decenni or sono (1). E persino l’inquadramento storico degli studi comparativi, nell’ambito esterno alla procedura penale, risulta sfornito di acquisizioni sicure quanto a metodo e a limiti cronologici (2). Se però si mettono subito da parte i propositi di dipingere grandi sce(*) Testo della relazione svolta al XIV Colloquio biennale dell’Associazione Italiana di Diritto Comparato, tenutosi a Caserta-Capri nei giorni 3-5 giugno 1999. (1) I primi corsi di diritto processuale penale comparato sono stati istituiti nelle Facoltà di giurisprudenza delle Università di Milano, Torino e Genova tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. (2) V. GORLA, Prolegomeni ad una storia del diritto comparato (e postilla), in Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, p. 879, nt. 2, secondo cui il diritto comparato potrebbe definirsi scienza ingenua perché ‘‘ignora le proprie origini - il suo processo storico’’.
— 1339 — nari e si rifugge dalla tentazione di voler descrivere minutamente profili degli studiosi e contenuti delle opere con la lente dello storico, ci si avvede che può riuscire di qualche utilità anche un lavoro più modesto. Raccogliere materiali e prospettare spunti interpretativi è un contributo da offrire alla riflessione di chi voglia veramente scrivere una storia della procedura penale comparata dall’Italia liberale al codice del 1989. Un primo punto di partenza affiora da una considerazione tutto sommato scontata, ma non priva di interesse per chi si collochi nell’angolo visuale della ricerca storica. L’atto di nascita del processo penale moderno, segnato dal traumatico rigetto della procedura inquisitoria dell’ancien régime in omaggio agli ideali di libertà ed eguaglianza imposti dalla Rivoluzione francese (3), contiene in sé la prima manifestazione di un bisogno comparativo. La procedura penale orale e accusatoria imperniata sulla giuria viene costruita dai philosophes e dagli uomini della Rivoluzione attingendo al modello inglese. Ed anzi proprio questa mitologia del rito accusatorio, come luogo sacro in cui risplendono i valori della pubblicità e del rispetto della dignità dell’uomo, continuerà a costituire il perno ideologico di tutta la ricerca comparativa svolta dagli esponenti della cultura liberale radicatasi nell’Ottocento in Europa. Rito accusatorio, modello inglese e depurazione dalle incrostazioni inquisitorie proprie dei sistemi processuali dell’Europa continentale sono le sequenze logiche che caratterizzano, e in qualche modo anche imbrigliano, gli studi di diritto processuale penale comparato elaborati dai giuristi dell’Italia liberale. Tanto più forte diventa il fascino del processo di common law quando, dopo il trapianto degli istituti inglesi operato per un breve periodo dai decreti della Rivoluzione, a dominare la scena europea è il code d’instruction criminelle del 1808. Il sistema misto inaugurato da questa codificazione, nel giustapporre la fase istruttoria dominata dall’interesse sociale alla difesa dal delitto a quella dibattimentale in cui prevalgono i diritti di garanzia dell’individuo, crea i presupposti per l’emergere di un nuovo orizzonte della ricerca comparativa. La diffusione in Europa del modello napoleonico fa sperimentare un processo penale che incarna gli ideali e l’operatività del rito inquisitorio nella fase istruttoria e induce perciò a cercare extra moenia gli strumenti e i modelli necessari a scrollarsi di dosso l’eredità del sistema misto francese. Per quanto riguarda l’Italia, è negli anni successivi al primo codice unitario del 1865 che si assiste ad un fervore di studi, traduzioni e riflessioni su normative straniere finalizzato a trovare uno sbocco nella riforma del processo penale, nelle parti in cui la normativa aveva recepito i moduli inquisitori del code d’instruction criminelle. Si potrebbe quindi individuare, con una certa dose di convenzionalità, negli anni Settanta l’avvio (3)
CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, 1973.
— 1340 — della prima fase della comparazione in ambito processuale penale, anche perché è proprio in quel decennio che si registra una fioritura di nuove codificazioni processuali nel continente europeo e dallo studio di esse i processualisti italiani traggono lo stimolo a programmare una analoga marcia di distacco dalla matrice francese. Questa età della comparazione riformista antifrancese culmina nel codice di procedura penale del 1913, un testo che, ancor prima che per le scelte normative mutuate dall’esperienza di altri ordinamenti, si fa apprezzare per la straordinaria ricchezza della documentazione comparativa e per la finora ineguagliata finezza della riflessione sulle esperienze straniere sviluppata nella Relazione al codice. A questa stagione di virtù e di entusiasmi fa seguito un periodo di profonda involuzione che approda al rifiuto della comparazione come metodo di studio della procedura penale e come strumento conoscitivo funzionale all’opera di riforma del sistema processuale. Prima la Scuola positiva e poi la dottrina fascista, da posizioni differenti che finiscono peraltro per convergere, ripudiano il diritto comparato. Sarà un lungo black out, destinato a protrarsi anche dopo la caduta del regime e l’avvento della Costituzione repubblicana. Bisogna attendere il lento maturare del riformismo garantista, sorretto anche dalla rinascita del diritto processuale penale come disciplina autonoma, per assistere alla ripresa degli studi comparativi. Attorno agli anni Sessanta la dottrina processualistica avvia una riflessione sul processo di common law e sul rinnovamento dei sistemi processuali continentali i cui frutti sono percepibili nella trama normativa del codice di procedura penale del 1989. 2. L’età del fervore (1870-1913). La comparazione riformista e l’aspirazione a superare il torrente dell’empirismo francese. Pubblicità per le parti, ‘‘conchiuso di accusa’’ ed esame diretto dei testi, temi centrali della riflessione comparativa. — Per i giuristi dell’Italia liberale l’impegno comparativo era divenuto una componente essenziale degli studi sul processo penale. Lo imponevano la ricerca scientifica e l’esperienza professionale maturate nella applicazione di una normativa, quella del codice del 1865, non a torto definita ‘‘un avanzo dei tempi medioevali’’ (4). Era naturale che si cercasse di guardare al di fuori dei confini del Regno italico per capire se negli ordinamenti processuali dell’Europa continentale si aprivano varchi all’intollerabile segretezza istruttoria che, secondi canoni di un puro rito inquisitorio, vietava all’imputato in Italia come in Francia, di nominare un difensore, inibendogli, quindi, non solo di essere assistito, ma pure di conoscere i risultati dell’istruzione e di presentare istanze a fini probatori. La totale estromissione della difesa, aggra(4)
Relazione al codice di procedura penale, 1913, p. 239.
— 1341 — vata dal diritto del pubblico ministero di partecipare a qualsiasi atto istruttorio, e la pressoché illimitata potestà del giudice istruttore di disporre provvedimenti coercitivi rendevano più che mai convinta la dottrina circa la indilazionabilità delle riforme. Il clima culturale di quegli anni è fotografato in modo preciso dalle parole di Emilio Brusa, professore a Torino, che sembra dettare una sorta di manifesto della vocazione comparativa: ‘‘Mai come ai dì nostri si è sentito il bisogno di ritemprare l’opera legislativa nazionale nelle fonti del diritto positivo dei popoli coi quali esista comunanza di principi tradizionali o almeno comunanza di intenti nella attuazione delle nozioni elementari di giustizia’’. E continua cercando di abbozzare una teoria generale degli esiti del lavoro comparativo: talora la norma di diritto straniero — rileva il penalista torinese — incoraggia a fare l’esperimento; talora spinge invece a dettare una norma diversa; comunque — questa è la conclusione — ‘‘giova sempre varcare le frontiere sia dei piccoli che dei grandi stati’’ (5). È naturale che, movendo dall’idea di un lavoro comparativo funzionale alla riforma della normativa processuale penale, i giuristi operanti nelle ultime decadi del XIX secolo dovessero approdare anzitutto al genere letterario della traduzione. Era importante far circolare i modelli scaturiti dal rigetto del processo francese nelle forme concrete assunte all’interno delle nuove codificazioni dei paesi dell’Europa continentale. Nel combattere ‘‘l’idolatria di quanto sa di francese’’, Francesco Carrara esortava a contrapporre alla ‘‘esagerata autorità della Francia’’ ‘‘gli esempi e gli ammaestramenti della dotta Germania’’, per non essere ‘‘sommersi dal torrente dell’empirismo francese che scuola non è perché lo empirismo è la negazione della dottrina scientifica’’ (6). È lo stesso Carrara a presentare ai penalisti italiani il nuovo Regolamento di procedura penale austriaco del 23 maggio 1873, pubblicando nel 1874 la traduzione del Manuale di procedura penale di Carlo Augusto Weiske, con introduzioni e note. Il volume contiene anche il testo integrale di quel codice, nell’intento di offrire ai ‘‘giovani studiosi’’ un raffronto tra il processo inquisitorio puro, descritto dal Manuale e il processo accusatorio puro, delineato dalla nuova normativa (7). Nel 1878 Luigi Lucchini dà alle stampe la versione italiana della Strafprozessordnung per l’Impero germanico del 1o febbraio 1877 con le leggi sull’ordinamento giudiziario. Infine, nel 1900, Emilio Brusa cura un volume dedicato al codice di procedura penale norvegese del 1o luglio (5) BRUSA, Ragionamento sul codice di procedura penale norvegese, in Codice di procedura penale norvegese (1o luglio 1887), Torino, 1900, p. VII. (6) F. CARRARA, Introduzione a WEISKE, Manuale di procedura penale, Firenze, 1874, par. 9. (7) WEISKE, Manuale di procedura penale, con introduzione e note del prof. F. Carrara, Firenze, 1874.
— 1342 — 1887. Il testo italiano della normativa varata nel Paese scandinavo è commentato in un denso saggio del giurista torinese (8). Da questa piattaforma conoscitiva si dipana un dibattito in cui prende concretezza e si affina progressivamente il sapere comparativo. È la ‘‘Rivista penale’’ di Luigi Lucchini il laboratorio che ospita i contributi dei comparatisti riformatori, ai quali si affiancano numerosi studiosi stranieri che delineano i contenuti e le tendenze evolutive dei rispettivi ordinamenti processuali. Oltre all’area austro-tedesca, i riflettori della Rivista si accendono in modo particolare sul processo inglese e americano che finisce peraltro per rimanere sullo sfondo, rispetto alla informazione quantitativamente maggiore acquisita in ambito continentale, probabilmente a causa delle difficoltà derivanti dalla barriera linguistica (9) e dalla minore dimestichezza con le fonti di un sistema non codificato (10). Era inevitabile che in una comparazione contrassegnata dalla forte aspirazione riformistica dovessero nascere fraintendimenti e limiti nella ricostruzione del dato legislativo straniero. Se ne ha traccia nelle deformazioni conseguenti all’intento apologetico di molti contributi. Non va del resto dimenticato che la cultura liberale del tempo aveva in sé una sorta di sindrome legata alla esperienza rivoluzionaria francese: tutti si sentivano orfani del rito accusatorio di stampo inglese coniato dagli uomini della Rivoluzione e spazzato via dal code d’instruction criminelle del 1808. Persino il sommo Carrara non riesce a sottrarsi all’uso della lente deformante della apologia là dove, sia pur incidentalmente, definisce il sistema delineato dalla Strafprozessordnung austriaca del 1873 come il ‘‘tipo del processo accusatorio puro’’ (11). Non manca però chi, con il rispetto dovuto all’indiscusso dominatore della scienza penalistica italiana, si permette di esprimere le sue riserve in proposito: un sistema processuale che, come quello austriaco, manteneva fermo il ruolo del giudice istruttore pur manifestando notevoli aperture al diritto di difesa, non poteva essere considerato ‘‘accusatorio puro’’ perché dove è accolto questo modello ‘‘le operazioni che conducono allo scoprimento della verità non sono compito del giudice, sibbene delle parti, la cui costante partecipazione è la base cardinale di questa forma di procedura’’; ‘‘il giudice nel procedimento accusatorio non inquisisce, essendo l’affare affidato all’a(8) V. supra, nt. 5. (9) Per un cenno a problemi di questo tipo, con riguardo peraltro all’impaccio connesso alla ‘‘difficoltà dell’idioma tedesco, contrapposta alla fatale facilità del francese’’, v. CARRARA, Introduzione a WEISKE, Manuale, cit., p. XIV. (10) Tra i contributi di studiosi inglesi apparsi su ‘‘Rivista penale’’, v. quello di LINDON, Della difesa nell’istruttoria preliminare delle cause penali nel processo inglese, in Riv. pen., 1886, p. 273. (11) Cfr. CARRARA, Avvertenza, in WEISKE, Manuale, cit, p. 264.
— 1343 — zione delle parti’’ (12). Nello stesso ordine di idee, anche altri si discostavano dal giudizio carrariano invitando a ‘‘non esagerare l’importanza della riforma austriaca’’ (13). La suggestione di una nozione dell’accusatorio che si esaurisce nel rispetto della difesa è però significativamente riproposta da quella stessa dottrina che la respingeva nella valutazione dei contenuti della Strafprozessordnung austriaca del 1873. A proposito della riforma del sistema germanico nel quale si diceva fosse prospettata, in relazione alla fase anteriore al dibattimento, ‘‘una transazione fra il sistema inglese e il sistema francese’’, si osservava che il pur apprezzabile passo verso il modello accusatorio non dimostrava affatto l’adozione del ‘‘principio del diritto inglese, che cioè accusa e difesa possano seguire ad ogni passo il giudice istruttore’’ (14). È evidente l’errore di prospettiva: si riteneva che la fase pretrial del processo di common law fosse strutturata come una sequenza di atti da compiersi con la costante presenza del difensore e del prosecutor davanti ad un giudice investigatore. Al di là di questi equivoci, che confermano come la procedura penale comparata si trovasse ancora allo statu nascenti, la ricerca giunge invece a risultati fruttuosi là dove sviluppa la riflessione su ruolo del giudice istruttore, segretezza istruttoria e diritto di difesa. Lo studio delle innovazioni introdotte su questo terreno dai nuovi sistemi processuali austriaco, tedesco e norvegese spinge i giuristi italiani a ripensare l’intera struttura della fase anteriore al dibattimento. Non si tratta di analisi approfondite che mettono a fuoco la normativa straniera alla luce della dimensione sistematica o della concreta operatività degli istituti. Gli spunti tratti dal novum dei codici europei servono ad aprire la strada alla politica delle riforme, sono exempla destinati ad ammonire e sollecitare il legislatore, più che ad aprire un dibattito scientifico su orizzonti dogmatici o questioni di tecnica processuale. L’attenzione si concentra sul superamento della funzione polivalente del giudice istruttore, traguardo propiziato dalla normativa austriaca sul diritto di difesa. Per la prima volta in Europa la Strafprozessordnung fir(12) Cfr. FORLANI, Il nuovo regolamento di procedura penale 23 maggio 1873 (Austria). Profili e appunti critici, in Riv. pen., 1874, pp. 169-170. (13) BORSANI e CASORATI, Codice di procedura penale italiano commentato, Milano, II, 1876, p. 164. (14) BORSANI e CASORATI, op. cit., p. 162. Analogamente, BENEVOLO, Il decreto del 9 ottobre 1789 dell’Assemblea nazionale francese e le moderne legislazioni di procedura penale, in Riv. pen., 1886, p. 533, secondo cui ‘‘in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America il difensore presenzia tutti gli atti istruttori, compresi gli esami testimoniali’’. V., invece, per la consapevolezza dei limiti insiti in un istituto istruttorio come il grand jury, organo condotto per mano del pubblico ministero che opera in un ‘‘giudizio segretissimo in cui si ascoltano solo le testimonianze a carico’’, ALIMENA, Il giudizio di accusa nella legislazione inglese, in Riv. pen., 1890, p. 343.
— 1344 — mata dal celebre criminalista Giulio Glaser prevede la nomina del difensore ‘‘anche durante i rilievi preliminari ed il processo di istruzione’’ (§ 45). E attribuisce inoltre allo stesso il diritto al colloquio con l’arrestato e l’accesso agli atti, qualora ciò ‘‘sia compatibile con lo scopo del procedimento’’, per culminare infine nel riconoscimento del diritto di intervenire ‘‘agli atti giudiziari che riguardano immediatamente la constatazione del fatto e non possono essere ripetuti più tardi’’. L’assistenza del difensore nella fase istruttoria rompe quel sodalizio innaturale tra giudice istruttore-ufficiale di polizia giudiziaria e pubblico ministero che era stato consacrato dal codice di procedura penale italiano del 1865, il cui art. 82 autorizzava l’organo dell’accusa ad intervenire a tutti gli atti istruttori, escludendo invece il difensore. Questa ritrovata eguaglianza, garantita dalla ‘‘pubblicità’’ di taluni atti, fa dire ai comparatisti italiani che il codice austriaco si avvicina al sistema di common law, pur differenziandosene in quanto esclude il difensore dall’interrogatorio dell’imputato e dall’esame dei testimoni (15). Sul piano più strettamente tecnico, gli studi sul processo continentale mettevano capo alla acquisizione di un importante congegno processuale, destinato ad avere una grande fortuna nella evoluzione della procedura penale italiana. Era nato quel meccanismo modernamente denominato incidente probatorio che apre una parentesi giurisdizionale garantita dall’intervento della difesa per l’assunzione di atti non rinviabili al dibattimento. La formula sintetica contenuta nel § 45 della StPO austriaca del 1873 — definito da Carrara un testo ‘‘rigurgitante di progresso civile’’ (16) — imperniato sugli atti che ‘‘non potevano essere ripetuti più tardi’’, aveva trovato un più compiuto sviluppo nel § 191 della StPO germanica del 1877, che richiedeva l’intervento del difensore e la presenza del giudice istruttore, anche nell’ipotesi di indagini condotte dallo Staatsanwalt, qualora fosse necessario ‘‘esaminare un testimone o un perito il quale presumibilmente non potrà presentarsi al dibattimento o la cui comparizione possa riuscire difficile a causa di grande distanza’’. Analogamente, il § 296 del codice norvegese del 1887 rendeva doverosa l’assistenza del difensore ‘‘negli esami testimoniali e nelle perscrutazioni fatte fuori e in anticipazione del dibattimento per la difficoltà o impossibilità o non necessità di farle al dibattimento o per il pericolo in mora o la rinuncia del pubblico ministero a farla o per la facoltà dei testimoni di non comparire al dibattimento’’ (17). (15) BENEVOLO, Il decreto del 9 ottobre 1789, cit., p. 533. (16) Appendice a WEISKE, Manuale di procedura penale, cit., p. 286, nt. 4. (17) Cfr. BENEVOLO, Le riforme al codice di procedura penale. La pubblicità e la difesa nel periodo anteriore al dibattimento, in Riv. pen., 1891, vol. XXXIV, p. 237; ID., Dei limiti legali della prova nei giudizi penali secondo la dottrina e la giurisprudenza, ivi, 1883, Firenze, 1920, p. 213, dove si riassume l’orientamento della dottrina italiana favorevole ad
— 1345 — Questo lavoro di scoperta di uno spazio istruttorio garantito, in funzione di tutela della pubblicità e dell’oralità, ha dato i suoi frutti a livello legislativo. Come è noto, l’art. 279 del codice Finocchiaro Aprile del 1913 ha disciplinato l’incidente istruttorio nell’istruzione sommaria del pubblico ministero sulla scia dei principi accolti dalla normativa austro-germanica-norvegese: il pericolo di non assumere la prova al dibattimento richiede di anticipare alla fase istruttoria l’applicazione delle regole concernenti l’oralità e la ‘‘pubblicità’’, intesa quest’ultima come eccezione alla segretezza nei confronti delle parti e quindi come attuazione del contraddittorio. Su un piano parallelo, l’art. 198 dello stesso codice rendeva ben definito l’elenco degli atti garantiti dall’assistenza dal difensore (esperimenti giudiziari, perizie, perquisizioni domiciliari, ricognizioni). Il primo codice dell’Italia liberale si era dunque collocato in una posizione intermedia tra i fautori del modello austro-germanico e coloro che patrocinavano l’introduzione del modello accusatorio puro di stampo anglosassone (18). Premesso che ‘‘la imitazione dei modelli stranieri non deve indurre ad oltrepassare i confini nei quali essi possono essere conformati ai costumi e alle leggi del nostro Paese’’, il Guardasigilli Finocchiaro Aprile prendeva le distanze dalla common law rilevando gli inconvenienti del sistema processuale inglese sulla base di una analisi assai attenta e informata. Essa denota un notevole grado di consapevolezza comparativa, soprattutto con riguardo alla percezione del ruolo dominante della polizia nella fase pretrial e della posizione passiva del giudice dibattimentale, ritenuta incompatibile con la tradizione italiana (19). La ricchezza della documentazione sulle codificazioni straniere, dall’Austria alla Spagna, dalla Germania alla Norvegia, alla Russia e alla Bulgaria, attesta che il lavoro comparativo avviato negli anni Settanta era pervenuto ormai a livelli avanzati di sviluppo tanto da produrre in sede parlamentare esiti di sicuro orientamento sul piano tecnico. È bensì vero che il succedersi dei vari progetti aveva determinato sovrapposizioni e ripensamenti nella scelta degli istituti, ma alla fine la sede politica si era trovata di fronte al più esteso panorama normativo. E nel settore del diritto di difesa era prevalsa la linea austro-germanica con il suo robusto ridiammettere la presenza dell’imputato, assistito dal difensore, ‘‘a tutti quegli atti che non possono più ripetersi con la stessa efficacia e integrità nell’orale dibattimento’’. Sulla normativa norvegese v. BRUSA, Ragionamento sul codice norvegese, cit., p. XIX. (18) Tra questi ultimi v. soprattutto LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze, 1920, p. 218. (19) Relazione al progetto definitivo, 1913, pp. 256 e 271-272. Al riguardo, qualcuno lamentava persino un eccesso di comparazione che avrebbe condotto a ‘‘transazioni eclettiche’’: ‘‘si ebbero in vista i vari sistemi procedurali di altri Stati e in troppi punti si tenta di riprodurli conciliandoli nelle nuove disposizioni’’, cfr. MAGRI, Sul progetto del nuovo codice di procedura penale, in Riv. pen., 1912, p. 9.
— 1346 — mensionamento della segretezza istruttoria, a lungo patrocinata anche dalla dottrina italiana. Diversa sorte ebbe invece un altro obiettivo di riforma coltivato nella gran parte degli studi affacciati alla ribalta comparativa di fine Ottocento. Nel proposito di ridurre l’area operativa del giudice istruttore, un inquisitore che cumulava le funzioni dell’investigare e del decidere sotto la sorveglianza del pubblico ministero rappresentante del Governo, molti giuristi avevano mostrato interesse per il modello austriaco che esibiva una soluzione inedita in materia di ‘‘conchiuso di accusa’’. Con questa locuzione si usava a quel tempo designare la disciplina della fase conclusiva dell’istruzione, incentrata su una pronuncia in cui il giudice formulava l’accusa, esercitando una funzione incompatibile con la ripartizione naturale dei ruoli tra accusatore e organo giurisdizionale (20). Il modello francese era largamente penetrato nel codice italiano del 1865 così da delineare una triplice ripartizione funzionale in tema di controllo dei risultati dell’istruzione ai fini del rinvio a giudizio: l’emissione delle ‘‘ordinanze definitive sopra l’istruzione’’ era di competenza del giudice istruttore o della camera di consiglio per i reati di competenza del tribunale e spettava invece alla sezione di accusa presso la corte d’appello per i reati di competenza della corte d’assise. Si trattava però di una garanzia solo apparente per l’imputato, di una artificiale complicazione del rito senza costrutto, poiché il ‘‘giudice compilatore del processo’’ era chiamato a deliberare sui risultati delle sue indagini in veste di giudice istruttore ovvero di componente della camera di consiglio (21). Di qui il fascino del sistema austriaco che aveva messo a punto una fase conclusiva dell’istruzione nella quale il controllo giurisdizionale sui risultati delle indagini era demandato alla iniziativa dell’imputato. Formulato l’atto d’accusa da parte dello Staatsanwalt, il giudice istruttore ne curava la notificazione all’imputato al quale era riconosciuto il diritto di proporre opposizione chiedendo ad una corte di giustizia di seconda istanza di pronunciarsi sulla competenza del giudice dibattimentale ovvero sulla ‘‘ammissibilità dell’accusa’’. In mancanza di opposizione, il giudice istruttore era tenuto a trasmettere gli atti all’organo competente per il dibattimento (§ 208, StPO del 1873). L’entusiasmo per questo inedito congegno si diffonde subito tra i giuristi italiani, senza peraltro far maturare un orientamento di riforma capace di imporsi al legislatore del 1913 che confermerà, con qualche ridu(20) Sulle giurisdizioni istruttorie v. soprattutto, BORSANI e CASORATI, Commento, cit., III, 1878, p. 15, i quali rilevavano: ‘‘non è dubbio che la facoltà di formulare le accuse attribuita all’ordine della magistratura giudicante mal si accorda con l’istituto del pubblico ministero’’. (21) Cfr. BORSANI e CASORATI, op. loc. cit..
— 1347 — zione, le giurisdizioni istruttorie ereditate dalla tradizione francese (22). Un ‘‘conchiuso di accusa’’ sottratto all’imprimatur solenne di una sentenza di rinvio a giudizio appariva ai giuristi italiani più rispondente alle esigenze di tutela dei diritti dell’imputato e, al tempo stesso, più idoneo a responsabilizzare l’accusatore, sottratto all’ombrello protettivo della collegialità dei giudici. Istituto di garanzia, capace di dar vita a una fisiologica ripartizione dei ruoli e ad una proficua celerità processuale: da questi profili muoveva la dottrina nel patrocinare l’adozione della riforma austriaca (23). La riflessione su questo istituto assume, agli occhi di chi oggi ricostruisca i percorsi di quella cultura comparativa, una apertura illuminante al fine di comprendere gli sforzi diretti a frantumare la concentrazione dei poteri che faceva capo al giudice istruttore. Il conchiuso d’accusa di stampo austriaco mirava evidentemente a creare una separazione tra le funzioni inquirenti e quelle decisorie del giudice istruttore, secondo una linea di riforma già emersa, tra l’altro, nel pensiero di Carrara. Sulla scia del Weiske, il grande maestro aveva prospettato la necessità di attribuire a due persone diverse i ruoli di ‘‘giudice inquisitore’’ e ‘‘giudice sentenziatore’’ (24). Del resto, di una simile virtuosa scissione offrivano esempio da un lato, la StPO germanica, che attribuiva al giudice dibattimentale il controllo sulla ammissibilità dell’accusa nello Zwischenverfahren, il procedimento ancora oggi finalizzato ad accertare se deve essere aperto il dibattimento (§ 196 e ss.), e, dall’altro, il codice di procedura penale norvegese del 1887, che sottraeva la chiusura dell’istruzione al giudice istruttore riservandola al tribunale (25). (22) V. MORTARA-ALOISI, Spiegazione pratica del codice di procedura penale, Tomo I, Torino, 1914, p. 542. La sola innovazione di rilievo apportata dal codice del 1913 fu l’abolizione della camera di consiglio ritenuta ormai ‘‘un inutile ingombro’’ poiché la collegialità era divenuta una parvenza in conseguenza del ruolo preponderante assunto dal giudice istruttore-relatore che vi prendeva parte esponendo i risultati dal ‘‘suo’’ processo. Un’eco del sistema austriaco era peraltro stata raccolta dal Progetto del Ministro Villa, presentato alla Camera dei deputati il 9 marzo 1880: VACCA, La riforma del codice di procedura penale in Italia, in Riv. pen., 1892, vol. XXXVI, p. 227. (23) V. FORLANI, Il nuovo regolamento, cit., p. 171; PUGLIA, Principi fondamentali di diritto giudiziario penale, Milano, 1919; BORSANI e CASORATI, Codice di procedura penale, cit., III, p. 41. (24) Introduzione a WEISKE, Manuale di procedura penale, cit., p. XXIII: ‘‘che lo stesso giudice il quale ha costruito il processo con abusi ed errori venga poi a giudicare se in quel processo vi sono errori od abusi, la è tale assurdità che basterebbe sola al discredito di un ordinamento procedurale’’. A proposito del giudice istruttore auspicava BRUSA, Ragionamento, cit., p. XXVIII: ‘‘voglia il cielo che in un avvenire non lontano l’attività sua si riduca a ciò solo che deve essere l’ufficio puro e semplice di giudice e che si spogli quindi del dono dell’inquisizione’’. (25) Cfr. BRUSA, Ragionamento sul codice, cit., p. XXV.
— 1348 — Un dibattito di ispirazione comparativa forse meno affollato di quello relativo al ‘‘conchiuso’’, ma altrettanto improduttivo sul piano degli sbocchi legislativi, è stato quello dedicato alla tecnica dell’esame diretto dei testimoni nel dibattimento. Strettamente collegata alla tematica della giuria, vero nodo centrale della procedura penale del secolo XIX, l’analisi della direct examination quale veicolo di rafforzamento dell’oralità, a beneficio dei giurati, è condotta dai giuristi dell’Italia liberale perseguendo l’obiettivo di un sostanziale ridimensionamento del potere inquisitorio del giudice dibattimentale e della sua degenerazione francese incarnata dal pouvoir discrétionnaire del presidente della corte d’assise (26). Per la verità, già l’art. 305 del codice italiano del 1865 prevedeva che i difensori potessero muovere al teste ‘‘le loro interrogazioni anche direttamente, quando ne abbiano domandata ed ottenuta la permissione da chi dirige il dibattimento, il quale però potrà vietare che si dia risposta a quelle interrogazioni che stimi inopportune’’. Peraltro la norma, ispirata ad una palese ‘‘diffidenza verso i difensori’’ (27), era rimasta pressoché inapplicata, così come era divenuto ramo secco la disposizione affine contenuta nella StPO germanica. Essa ancora oggi subordina all’accordo delle parti l’adozione della tecnica dell’esame diretto (§ 238) (28). La ricerca su questo tema si sviluppa in contributi di modesto spessore (29), idonei peraltro a far maturare un orientamento legislativo favorevole alla adozione del modello inglese. Il Progetto Villa del 1880 giunse infatti a stabilire che l’esame dei testi e dei periti, ma non quello dell’imputato, fosse svolto direttamente dal procuratore generale, dalla parte civile e dal difensore. Il legislatore del 1913, pur con qualche tentennamento, non ebbe il coraggio di imboccare questa strada (30). La visione d’assieme del lavoro svolto dai giuristi italiani sui tre temi (26) Sono ben noti i profili degenerativi della legalità della prova connessi al potere discrezionale radicato nella tradizione francese. (27) BENEVOLO, Dei limiti legali della prova nei giudizi penali, in Riv. pen., 1886, p. 216. (28) Il Kreuzverhör è ora disciplinato, con disposizione identica a quelle del 1877, nel § 239. Già a fine Ottocento rilevava BRUSA, Ragionamento, cit., p. XXXIX, che la norma tedesca si risolveva in una ‘‘ironia poiché infatti d’ordinario non se ne fa uso o quasi mai, e non solamente per difetto d’accordo tra le parti, ma altresì perché esse non amano di dare al presidente un voto di sfiducia col proporre l’esame incrociato’’. (29) LUCCHINI, Elementi di procedura penale, cit., p. 286; CASORATI, Il processo penale e le riforme, Milano, 1881, p. 360; STOPPATO, Il presidente della Corte d’assise, in Riv. pen., 1891, p. 141; BORTOLOTTO, L’esame incrociato dei testimoni nel giudizio penale, in Giust. pen., XV, 1909, c. 129, 194. Tra i lavori di giuristi stranieri pubblicati in Italia v. SCHUTZE, La questione dell’interrogatorio incrociato e del precedente giuramento dei testimoni, in Riv. pen., 1874, I, 431. (30) Si era infatti inserita nel Progetto definitivo (art. 446) una disposizione identica a quella del codice del 1865 (esame diretto autorizzato dal Presidente: Relazione Progetto definitivo, 1913, p. 502).
— 1349 — comparativi fin qui esaminati consente di tracciare un primo bilancio. Il fervore di studi che anima i giuristi liberali negli anni tra il 1870 e il 1913 non mette capo ad una produzione comparativa impegnata a ricostruire gli istituti di diritto straniero nei loro precisi contorni e nella concreta articolazione della prassi giudiziaria. Il fascino dell’accusatorio della common law, visto spesso da lontano attraverso gli occhiali dei giuristi austro-tedeschi e rievocato dalle letture dei filosofi della rivoluzione, si unisce ad un radicato sentimento antifrancese enfatizzato dalla vocazione politica a sottrarsi al giogo delle leggi dei tiranni. L’imparzialità del giudice nell’istruzione e nel dibattimento e la ‘‘pubblicità per le parti’’ nella fase istruttoria sono i valori di fondo cui si ispira il lavoro della comparazione riformista. Essa culmina nella codificazione del 1913, certamente il punto più alto, al di là degli esiti legislativi, cui è pervenuta nel secolo XX la procedura penale comparata. Certo, l’Italia non può vantare un comparatista della statura di Carlo Giuseppe Antonio Mittermayer, il maestro del diritto processuale penale comparato, il fondatore di una scienza che egli ha forgiato sul piano metodologico e nella realizzazione concreta della attività di ricerca. Le sue opere rivelano prodigiosa ricchezza culturale ed estrema finezza comparativa. Il ‘‘Trattato della prova’’ del 1834, ‘‘Il processo penale accusatorio e per giurati secondo le varie legislazioni’’ del 1845 e il ‘‘Trattato della procedura penale in Inghilterra, Scozia e Stati Uniti d’America’’ del 1868 offrono al lettore una magnifica visuale del processo penale dell’Ottocento, visto nella sua applicazione pratica, nelle articolate prospettive di riforma e nel raffronto sia tra i modelli dell’area continentale, sia tra il sistema di common law e quello franco-germanico (31). Anche se nel panorama italiano mancano giuristi del rango del maestro di Heidelberg, l’autonomia scientifica e culturale esibita dagli esponenti della comparazione riformista di casa nostra sono sufficienti per riconoscerne il peso determinante ai fini del distacco dalla soffocante eredità francese. 3. Il ripudio della comparazione nella ideologia processuale della Scuola positiva e nella dottrina nazionalista del fascismo. — Mentre la Scuola classica di diritto penale aveva puntato sulla comparazione nell’o(31) Sull’opera di Mittermayer, uomo politico e giurista, v. la nota di A. CHAUFFARD, premessa al Traité de la procédure criminelle en Angleterre, en Ecosse et dans l’Amérique du Nord, Paris, 1868. Un’ampia ricostruzione del pensiero del giurista di Heidelberg si trova negli Atti del Convegno tenutosi nel 1987 in quella Università, anche se nelle diverse relazioni manca una specifica attenzione agli studi comparativi del maestro tedesco: cfr. CARL JOSEPH MITTERMAYER, Symposium 1987 in Heidelberg, Vorträge und materialien, I, a cura di W. KÜPER, Heidelberg, 1988.
— 1350 — rizzonte della riforma garantista, la Scuola positiva di Enrico Ferri edifica una teoria processuale nella quale non c’è spazio per il diritto straniero. Concepito il processo come un laboratorio tecnico in cui giudici in camice bianco non devono ‘‘misurare il grado di responsabilità morale nel delinquente’’, ma ‘‘stabilire la forma di preservazione sociale meglio adatta al giudicabile per il reato commesso, secondo la categoria antropologica cui esso appartenga’’ ne deriva un programma di procedura penale in cui scompaiono tutte le forme garantistiche. Presunzione di innocenza, giuria, diritto di difesa sono ‘‘esagerazioni individualistiche portate dalla scuola classica’’. I magistrati antropologi sono interpreti di una funzione di difesa sociale che li pone in un rapporto di ‘‘continuità solidale’’ con la polizia giudiziaria e gli organi dell’esecuzione (32). In questo assetto ideologico non poteva esserci spazio per il diritto comparato. Più correttamente si dovrebbe dire che la normativa straniera viene talvolta evocata dai positivisti, ma il più delle volte con due obiettivi che denunciano la pregiudiziale autoctona impeditiva del dialogo. Da un lato, si enfatizzano i difetti dei sistemi giuridici di common law per la povertà di elaborazione e costruzione sistematica, che ne svela il fondamento su ‘‘dati semplici dell’esperienza senza la potenza dei metodi giuridici che... ebbero i Romani’’ (33). Dall’altro, si seleziona il dato normativo straniero solo per trarne spunto in favore di un ritorno ad un sistema processuale di impronta fortemente repressiva, come quando si invoca il modello austro-germanico di una revisione del giudicato anche contra reum (34) o si auspica che in Inghilterra si istituisca l’ufficio del pubblico ministero perché realizzi le esigenze repressive della sociologia criminale (35). La chiusura ideologica della Scuola positiva trova una puntuale eco, ancor più dichiarata e marcata, nella dottrina del totalitarismo che ispira il codice Rocco. È il bisogno di respingere le teorie ‘‘demoliberali’’ su cui si fonda l’individualismo a motivare il ripudio dello strumento comparativo. Si vuol combattere, insomma, qualcosa di più del semplice metodo. Si mira a tagliar fuori quel garantismo penale che potrebbe affiorare ove si aprisse la porta alla considerazione delle scelte processuali compiute ne(32) FERRI, Sociologia criminale, 5a ed., Torino, II, 1930, pp. 305-306. (33) FRANCHI, Il sistema giuridico della difesa sociale e i suoi presupposti storici e antropo-sociologici, in Scuola pos., 1910, p. 101. (34) FERRI, Sociologia criminale, cit., p. 320. (35) FERRI, op. loc. cit., p. 323. Non mancano però studiosi che, pur movendo da un impianto ideologico positivista, continuano ad utilizzare la comparazione come strumento per l’elaborazione di riforme processuali: v. GAROFALO e CARELLI, Riforma della procedura penale in Italia. Progetto di un nuovo codice, Torino, 1889, ove non mancano riferimenti ai sistemi continentali e di common law.
— 1351 — gli altri Paesi, tra le quali assume una posizione di primo piano quella del rito accusatorio. Lo stesso Enrico Ferri ebbe modo di rivendicare l’esistenza di un carattere comune tra fascismo e scuola criminale positiva, individuandolo nella ‘‘italianità dell’uno come dell’altra’’ (36). Deprecando l’ammirazione e l’imitazione delle dottrine germaniche da parte dei giuristi italiani, il fondatore del positivismo combatteva ‘‘l’ipnotizzazione tedesca’’ e invitava gli italiani ad ‘‘attenersi al proprio genio di pensiero chiaro e positivo’’ (37). La visuale nazionalista è chiaramente esplicitata dalla Relazione al Progetto preliminare del codice del 1930. Dopo aver negato che sia concepibile, se non nell’ambito delle dottrine demoliberali, una contrapposizione tra individuo e Stato, tra imputato e Autorità giudiziaria, il Guardasigilli rileva che il Progetto ‘‘ha carattere squisitamente italiano non solo perché, come ho detto, s’ispira ai concetti fondamentali della dottrina fascista dello Stato, che è dottrina di pura marca italiana, ma altresì perché, anche nella sua struttura tecnico-legislativa, deliberatamente si è svincolato da ogni modello straniero’’ (38). La dichiarata ostilità verso la comparazione non può peraltro impedire di scorgere una realtà ben diversa (39). A ben vedere il codice del 1930, con il cancellare le conquiste della cultura liberale in materia di diritto di difesa e di libertà personale, non faceva altro che riesumare la segretezza istruttoria di puro stampo inquisitorio sperimentata in Europa sulla falsariga del sistema francese. E con l’abolire la giuria, già fieramente avanzata dai positivisti (40) sostituita da un collegio misto di giudici popolari e togati, Alfredo Rocco finiva per ripiegare sullo scabinato (36) E. FERRI, Fascismo e scuola positiva nella difesa sociale contro la criminalità, in Scuola pos., 1926, p. 241. (37) Così E. FERRI, op. loc. cit., pur con una attenuazione di facciata: ‘‘io non dico che si debba fare della scienza ristrettamente nazionale senza tener conto del contributo che altri paesi ed altre mentalità portano alla ricerca del vero’’, ma ‘‘ogni popolo deve portare il contributo del suo pensiero originale’’. (38) Relazione al Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale, Lavori preparatori, vol. VIII, 1929, p. 7. All’unisono rilevava ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, Milano, 1932, p. 1, che il codice del 1913 chiudeva ‘‘definitivamente un periodo della nostra legislazione in cui non avevano ancora saputo affrancarci dalle influenze dei modelli stranieri’’. (39) Rileva GORLA, Prolegomeni ad una storia del diritto comparato, cit., p. 887, che ‘‘in sede storica non si possono scartare le comparazioni apologetiche o orgogliose del diritto del proprio paese o ostili al diritto altrui’’ perché ‘‘in molti casi hanno determinato reazioni e risposte, e così hanno dato luogo ad una specie di dialettica nel processo storico del diritto comparato’’. (40) L’abolizione della giuria, incompatibile con il giudizio scientifico finalizzato alla classificazione antropologica del processato, costituì uno dei temi centrali della dottrina positivista. Per una rassegna dei numerosi interventi pubblicati da quasi tutti i giuristi della ‘‘nuova scuola’’ su questo fronte v. FERRI, Sociologia criminale, cit., p. 387, nt. 1.
— 1352 — della tradizione tedesca, non avendo il coraggio di far scomparire del tutto la partecipazione popolare che costituiva il secolare pilastro del processo penale europeo. 4. Il ritorno alla procedura penale comparata nel clima riformista degli anni Sessanta. L’apporto degli studi comparativi alla costruzione del codice di procedura penale del 1989. — Il lungo silenzio dovuto alla cultura autoritaria anticomparativa ha reso indubbiamente più lento e faticoso, per i processualisti, il ritorno ad un metodo di lavoro che era invece divenuto connaturale alla attività di ricerca dei giuristi dell’Italia liberale. Le ragioni del ritardo sono anche d’ordine interno alle circostanze che contrassegnano la rinascita della scienza processualpenalistica nel dopoguerra. Per conquistare la sua autonomia sul piano scientifico ed accademico, il diritto processuale penale doveva puntare verso la robustezza e la finezza dogmatica degli studi sul sistema vigente. Di qui una certa disattenzione per una metodologia certo di più ampio respiro culturale e istituzionale rispetto alla sistematica, ma indubbiamente meno capace di fungere da trampolino per il rilancio di una materia mortificata e sacrificata dal pensiero autoritario del ventennio. Del resto, va pure osservato che il lavoro più urgente, impostosi agli studiosi del processo penale nel dopoguerra è stato quello di depurare il codice Rocco dalle sue strutture inquisitorie, utilizzando le risorse delle norme costituzionali. Solo nella fase successiva al ripristino del minimum di garanzie imposto dalla Costituzione, un obiettivo realizzato sia mediante la riforma del 1955, sia in forza delle declaratorie di illegittimità pronunciate dalla Corte, si è aperta una stagione propizia al metodo comparativo. Giunti al tetto della massima recuperabilità del sistema allora vigente, diventava inevitabile imboccare la strada della edificazione di un nuovo sistema. Di qui il ricorso alla comparazione. L’invito ad ampliare gli orizzonti al di là dell’ordinamento italiano veniva anche dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Gli studi di Mario Chiavario e di altri giuristi che hanno cercato di mettere a fuoco l’impatto della Carta europea sul nostro processo penale hanno svolto una funzione comparativa in senso lato (41). Quale sistema uniforme delle garanzie processuali in Europa, la Convenzione sollecitava non solo a guardare in casa propria, per misurare l’adeguatezza del sistema processuale nazionale, ma anche a mettere il naso al di là dei confini per vagliare, alla (41) Cfr. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969. Per un panorama dell’incidenza della normativa di fonte europea sulla giustizia penale italiana, v. il mio L’attività del consiglio d’Europa e il processo penale italiano, in L’influenza del diritto europeo sul diritto italiano, Milano, 1982, p. 567 ss.
— 1353 — luce della giurisprudenza della Corte e della Commissione, il grado di incidenza e di rispetto delle norme convenzionali negli altri sistemi. Qualcosa di simile è avvenuto anche in Francia, più di recente. In un Paese fortemente arroccato sulla sua tradizione inquisitoria, consacrata dalla consapevolezza di aver dato i natali al giudice istruttore, i giuristi francesi tentano di avviare riforme in senso garantista aggrappandosi all’ombrello dei diritti dell’uomo di conio europeo (42). È un modo di ricercare in sede comparativa, agitando le bandiere della armonizzazione delle procedure europee, una forza riformatrice che si dubita di poter acquisire nel proprio contesto politico-istituzionale. È dunque solo a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta che riesce a rifiorire in Italia la procedura penale comparata (43). Nel clima della riforma che punta al nuovo codice di procedura penale, Vittorio Barosio analizza la riforma tedesca del 1965, importante soprattutto per la ristrutturazione della normativa in materia di libertà personale (44); Metello Scaparone propone la prima ricostruzione complessiva del processo statunitense (45) e Vittorio Fanchiotti esplora le radici comparative del giudizio direttissimo (46). Seguono poi i contributi di Rosanna Gambini Musso sul plea bargaining e sul diritto di difesa negli U.S.A. (47), quello di Novella Galantini sulla giustizia penale francese nonché il mio saggio sul modello accusatorio statunitense (48). Una particolare attenzione viene dedicata, nelle monografie più recenti, all’esperienza francese e a quella angloamericana (49). (42) È l’esperimento avviato dalla commissione Justice pénale et droits de l’Homme presieduta da M. DELMAS-MARTY: v. La fase preparatoria del processo penale nel progetto Delmas Marty, a cura di PISANI e GALANTINI, Bologna, 1994. (43) Sul nesso inscindibile tra esigenza di ricodificazione della procedura penale e riscoperta della comparazione v. CONSO, La comparazione e il processo penale oggi, in L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, Milano, 1980, p. 187 ss.. (44) BAROSIO, Il processo penale tedesco dopo la riforma del 1965, Milano, 1967. (45) SCAPARONE, Common law e processo penale, Milano, 1971. (46) FANCHIOTTI, Politica criminale e giudizio direttissimo, Milano, 1980. Dello stesso FANCHIOTTI v., poi, il volume del 1987 sui Lineamenti del processo penale statunitense e la monografia del 1988 sulla Testimonianza nel processo ‘‘adversary’’. (47) GAMBINI MUSSO, Il plea bargaining tra common law e civil law, Milano, 1985. Alla cura della stessa GAMBINI MUSSO si deve la pubblicazione del più recente volume sul Processo penale statunitense. Soggetti ed atti, Torino, 1994, con i contributi di DEGANELLO, GASPARINI, MOLLO e ROSSETTO. (48) GALANTINI, Profili della giustizia penale francese, Torino, 1988; AMODIO, Il modello accusatorio statunitense e il processo penale italiano. Miti e realtà della giustizia americana, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, Milano, 1988, a cura di AMODIO e BASSIOUNI. (49) Con riguardo al sistema francese v. DELLA CASA, Esecuzione e giurisdizione nelle esperienze franco-italiana, Milano, 1988; CONFALONIERI, Il controllo giurisdizionale sulla custodia cautelare. Esperienze italiana e francese a confronto, Padova, 1996. Sul processo angloamericano v. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Milano,
— 1354 — Volendo confrontare questa produzione scientifica con la letteratura apparsa alla fine del secolo scorso vien subito in evidenza il taglio differente. Nei lavori più recenti la comparazione è condotta direttamente sulle fonti normative e giurisprudenziali e con una conoscenza della letteratura straniera incomparabilmente più vasta di quella rinvenibile negli scritti di fine ottocento. Se è vero che anche negli ultimi decenni il proposito del comparatista, come cento anni or sono, è quello di conoscere per far comprendere all’interno della nostra cultura istituti che non sono ancora percepiti o sono rappresentati in modo deformato, la finalità riformista è oggi assai meno forte e, comunque, di certo meno condizionante. La consapevolezza critica dei limiti insiti in istituti in parte già importati da noi, come ad esempio il bargaining, fa intendere come la moderna procedura penale comparata sia lontana da intenti apologetici e da fuorvianti mitizzazioni che tanto peso invece hanno avuto negli studi dei giuristi dell’Italia liberale. Piuttosto si può lamentare la mancanza di quel fervore che, un secolo fa, faceva discutere sulle riviste giuridiche di un certo istituto processuale osservato in un sistema straniero, per vederne pregi e difetti. C’è oggi un grande divorzio tra scienza e protagonisti della elaborazione politico-legislativa che fa apparire un fuor d’opera impegnarsi ad intervenire a caldo, nelle vesti di giurista, per fornire le indicazioni tratte dalla propria ricerca. A dire il vero, un apporto cospicuo dei processualisti al lavoro legislativo c’è stato in passato. La seconda legge delega e il testo del Progetto del 1989 sono stati redatti con il contributo di giuristi che non erano insensibili alle tematiche comparative. Come peraltro ho già avuto occasione di rilevare (50), la partecipazione di accademici alla attività di stesura delle norme di principio e codicistiche non ha però inciso sulla costruzione del modello accusatorio. L’architettura del nuovo processo è scaturita dalla reazione manifestata dalla cultura italiana nei confronti del codice Rocco. Non c’è stata, insomma, la recezione di uno schema astratto ricalcato dall’esperienza inglese o americana. Il valore dell’imparzialità del giudice, nella fase delle indagini preliminari e nel dibattimento, così come l’obiettivo dell’oralità, perseguito mediante il meccanismo del doppio fascicolo, sono venuti fuori dall’insofferenza verso i poteri inquisitori largamente attribuiti all’organo giurisdizionale dal codice del 1930 e dalla volontà di rimuovere l’uso indiscriminato dei verbali, ben conosciuto dalla prassi del sistema abrogato. La comparazione ha invece avuto un ruolo assai significativo nella 1996, nonché BERNASCONI, La collaborazione processuale. Incentivi, protezione e strumenti di garanzia a confronto con l’esperienza statunitense, Milano, 1995 e CATALANO, La prova d’alibi, Milano, 1998. (50) Cfr. la mia relazione sul Processo penale, in Giuristi e legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto, Milano, 1997, p. 374.
— 1355 — messa a punto di singoli istituti. Rito abbreviato, patteggiamento, disciplina della istruzione dibattimentale, solo per fare qualche esempio, rivelano certamente la loro parentela con moduli processuali familiari alla common law. A me pare, però, che tutti questi spunti siano stati filtrati prima di essere calati nella normativa codicistica, utilizzando parametri connaturali alla nostra tradizione. Ne è nato così un inedito sistema che ben può definirsi ‘‘accusatorio all’europea’’ (51). 5. Verso il XXI secolo. Obiettivi e metodi della comparazione nel diritto processuale penale. — Quale ruolo spetterà alla procedura penale comparata nell’Italia del terzo millennio? È prevedibile il rinnovarsi degli splendori che hanno caratterizzato la ricerca giuridica nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento o c’è invece da temere il riproporsi di chiusure ideologiche destinate ad alimentare l’ostilità verso la comparazione? Non c’è dubbio che la sempre più marcata apertura verso l’Europa, non solo sul piano economico ma anche su quello culturale e giuridico, renderà sempre più debole la pregiudiziale nazionalistica che impedisce lo sviluppo della comparazione. La consapevolezza delle dimensioni transnazionali di talune forme di criminalità e l’individuazione di problemi comuni nel settore della giustizia penale, come la necessità di affrontare la sfida posta dai grandi numeri del lavoro giudiziario e l’esigenza di trovare giusti equilibri tra potere politico e magistratura, aprono la strada ad indagini comparative che appaiono veramente ineludibili. Preso atto di ciò, occorre aver presente i pericoli che si nascondono nei nuovi orizzonti culturali. C’è anzitutto il rischio di soffocare la comparazione rendendola funzionale in via esclusiva alla armonizzazione tra i diversi sistemi processuali. È questa la visuale patrocinata da alcuni giuristi francesi che assegnano al diritto comparato, nel settore del processo penale, il compito di ricercare un ‘‘fondo comune’’ tra i diversi ordinamenti e lo ritrovano modernamente nelle carte internazionali sui diritti dell’uomo (52). (51) Mentre non si esita di frequente a rimproverare al legislatore italiano di aver costruito un sistema ibrido destinato al fallimento, si trascura di rilevare come il codice italiano del 1989 abbia conosciuto una notevole fortuna all’estero, tanto da influenzare in modo vistoso il codice portoghese del 1987, che replica intere parti del nostro progetto del 1978, e da dischiudere visuali nuove nel pur compatto nazionalismo giuridico francese, che sembra aver avviato una fruttuosa riflessione almeno sulla figura del nostro giudice per le indagini preliminari: v. M. DELMAS-MARTY, Due riforme in marcia, in Il codice di procedura penale visto dall’estero, a cura di CHIAVARIO, Milano, 1991, p. 58, ove si ammette che nel progetto francese è stata proposta una separazione delle funzioni tra pubblico ministero e giudice della fase preparatoria che ‘‘porta ad un sistema molto vicino al vostro’’. (52) M. DELMAS-MARTY, Introduzione a Procedure penali d’Europa, ed. it. a cura di CHIAVARIO, Padova, 1998, p. 2.
— 1356 — Pur essendo innegabile l’utilità di una comparazione finalizzata al diritto uniforme, è però indispensabile rifuggire dall’errore di escludere dall’area comparativa l’indagine protesa a far emergere le differenze tra i diversi sistemi e a riflettere proprio sulle radici degli istituti che rivelano un assetto divergente. Perseguendo l’obiettivo della ‘‘armonizzazione pluralistica’’ che dovrebbe consacrare ‘‘l’adozione di un modello europeo di processo penale’’ (53) si corre, insomma, il rischio di archiviare l’uso della lente di ingrandimento proprio con riguardo a quelle peculiarità di un sistema processuale straniero che meritano invece di essere studiate per capirne lo spirito e le origini. Senza andare al di là della ‘‘armonizzazione’’ non si potrebbe intendere l’importanza dei ‘‘conflitti valutativi’’ tra diverse culture. Accade infatti spesso di registrare come un certo istituto, sottoposto a critica da parte di chi opera nell’ordinamento in cui esso è inserito, si guadagni invece l’interesse da parte di giuristi che sono attratti dai suoi profili strutturali e funzionali, osservati dall’angolo visuale di una diversa esperienza processuale. È il caso del giudice istruttore, le cui funzioni sono state oggetto nell’Europa continentale di un intenso dibattito critico che ha fatto prevalere la tesi abolizionista in Germania e in Italia, ma che è stato guardato invece con interesse e simpatia, fin dall’Ottocento, dai giuristi inglesi (54) e, più recentemente, dagli studiosi statunitensi (55). Evidentemente è la differenza dei punti di vista a dar vita al diverso approccio valutativo. Per i continentali che conoscono gli eccessi di un giudice investigatore il quale assume le prove a carico, formula sostanzialmente l’accusa e dispone il rinvio a giudizio la reazione non può essere che orientata verso la ricerca di un giudice meno coinvolto nelle indagini e capace di far da moderatore alle iniziative in chiave accusatoria del pubblico ministero. Al contrario, per gli studiosi di common law, non può non esercitare un qualche fascino l’idea di un giudice forte, capace di fare da supervisore in una fase pretrial tradizionalmente dominata, in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America, in via esclusiva dalla polizia. (53) M. DELMAS-MARTY, op. cit., p. 8. (54) Osservava già MITTERMAYER, Il processo orale accusatorio e per giurati secondo le varie legislazioni, versione italiana dell’avv. M.M., Reggio-Modena, 1851, p. 302, che ‘‘i giuristi inglesi ravvisano un’altra preferenza della procedura francese nella uniformità della procedura, nell’investigazione preliminare e nell’istituzione del giudice inquirente’’ pur dando atto che ‘‘riguardevoli giuristi inglesi sono contrari al giudice inquirente francese’’ perché il fine ‘‘di perseguire delinquenti lo colloca in una pericolosa situazione e lo mette in tentazione di vedere dappertutto delitti’’ (nota 3). (55) V. MÜLLER e LE POOLE, The United States Commissioner Compared with the European Investigating Magistrate, 10 Crim. Law Quarterly, 1968, p. 172. Per i termini del dibattito svoltosi negli Stati Uniti d’America sulla prospettiva di recepire il rito inquisitorio continentale v. il mio Il modello accusatorio statunitense, cit., p. X, nt. 4.
— 1357 — Oltre ai ‘‘conflitti valutativi’’, che sono espressione di difformità assiologiche riguardanti la medesima realtà, non vanno trascurate le resistenze radicate nelle tradizioni giuridiche dei singoli Paesi. Come è noto, il ceto degli operatori giuridici in senso lato — giudici, avvocati e appartenenti ai corpi di polizia — è quanto mai refrattario alle innovazioni, specialmente nella materia processuale che investe il modo stesso di gestire le risorse e di attivare le condotte necessarie al funzionamento della giustizia penale (56). Anche nella adesione ad una piattaforma comune, come può essere quella proposta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, continueranno perciò a persistere quei fattori di autonomia con i quali sarà sempre necessario fare i conti, sia nel condurre il raffronto tra i diversi sistemi, sia nel progettare il trapianto di istituti esogeni. Esempi illuminanti del grado di resistenza delle singole culture al novum sono rinvenibili anche recentemente nell’esperienza riformista dei Paesi al di qua e al di là della Manica. In Francia, la legge del gennaio 1993 che aveva introdotto l’esame diretto e incrociato dei testi è stata abrogata ancor prima della sua entrata in vigore (57). In Inghilterra, la sostanziale soppressione dell’udienza preliminare, sostituita da un meccanismo procedurale di controllo eventuale ad istanza dell’imputato denominato transfer for trial, non è mai divenuta operativa a causa dell’opposizione della classe forense (58). Per quanto riguarda il nostro Paese, poi, le vicende che hanno condotto a trasfigurare il modello accusatorio del 1989 a colpi di sentenze costituzionali e modifiche legislative, mostrano bene quanta forza abbia avuto la magistratura italiana nel contrastare un nuovo rito che spostava il baricentro della prova dal giudice alle parti, caricando il pubblico ministero di nuovi oneri nella gestione dell’accusa al dibattimento. Negli anni a venire, proprio per l’esperienza maturata dal nostro Paese nelle riforme processuali, sembra destinata a non avere più spazio la ‘‘comparazione apologetica’’ che, nell’Ottocento ha mitizzato la common law inglese. Gli studi moderni di procedura penale comparata lasciano scorgere, in Italia, un grado di approfondimento dei sistemi stranieri, dovuto alla più agevole reperibilità delle fonti sulla fisionomia e sul funzionamento pratico degli istituti, che rende i comparatisti meno sensibili alla suggestione degli scenari luminosi d’oltre confine, anche in ragione della possibilità di apprendere i risvolti critici degli istituti stranieri (56) Per il rilievo secondo cui ‘‘il processo offre il più alto grado di resistenza ad ogni tentativo di riforme’’ v. GIULIANI, Ordine isonomico e ordine asimmetrico: nuova retorica e teoria del processo, in Soc. dir., 1986, p. 83. (57) Cfr. SPENCER, Le prove, in Procedure penali d’Europa, cit., p. 568. (58) Sulle vicende della riforma e controriforma inglese v. GALBUSERA, L’udienza preliminare nel processo penale inglese: dalle spinte abolizioniste agli interventi di destrutturazione, in Cass. pen., 1998, p. 328.
— 1358 — dalla stessa letteratura che è frutto della osservazione diretta della operatività concreta degli stessi (59). Dalla ricchezza e dalla facilità dell’informazione sul processo penale straniero viene peraltro un diverso rischio, che si manifesta al di fuori della sede propriamente scientifica: quello della divulgazione deformante dovuta a coloro che apprendono il diritto straniero dai media e dal cinema. L’avvertenza vale soprattutto per il processo penale anglo-americano che viene spesso raccontato sulla falsariga del ‘‘modello Perry Mason’’ da parte di chi non si è mai accostato alle fonti di quel sistema né, tanto meno, ha mai avuto frequentazioni che hanno consentito di attingere notizie e commenti dalla voce di studiosi o practitioners inglesi o statunitensi. Per quanto attiene al metodo, mantiene dunque intatta la sua vitalità l’insegnamento dei comparatisti del secolo scorso. Anzitutto non ha ragion d’essere l’interrogativo circa la configurabilità o meno della procedura penale comparata come ‘‘scienza pura’’ poiché ‘‘non si può concepire idea chiara e distinta delle istituzioni giudiziarie d’uno stato straniero senza sapere precisamente qual sia la forma del suo governo, senza essere talvolta entrati in assai minute particolarità su tal proposito’’ (60). Fin dalle sue origini, la comparazione manifesta nel modo più inconfondibile la sua vocazione a conoscere una realtà, il processo penale, che ‘‘in ogni sua parte è in connessione con le istituzioni politiche’’ (61). La visuale storico-politica e l’impegno a conoscere anche la prassi, secondo un monito anch’esso risalente (62), consentono di tracciare, per la procedura penale comparata del terzo millennio, un itinerario sufficientemente sicuro verso obiettivi di conoscenza e di rielaborazione riformistica del processo penale italiano, anzitutto sui nodi irrisolti dell’alternativa tra obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale e dell’effettività del diritto alla prova. ENNIO AMODIO Ordinario di procedura penale Università degli Studi di Milano
(59) Sui rischi di questo approccio v. già nell’Ottocento, CHAUFFARD, Introduzione a MITTERMAYER, Traité de la procédure criminelle en Angleterre, en Ecosse et dans l’Amérique du Nord, cit., p. VII, che metteva in guardia dalla fuorviante esagerata ammirazione per gli istituti del diritto straniero. (60) G.D. MEYER, Spirito, origine e progressi delle istituzioni giudiziarie dei primari Stati d’Europa, trad. it., I, Prato, 1838, p. XLII. (61) MITTERMAYER, Il processo orale accusatorio, cit., p. 283. (62) Cfr. MITTERMAYER, Il processo orale accusatorio, cit., p. 301, a proposito dei suoi studi sul processo penale inglese: ‘‘da molti anni l’Autore di quest’opera si propose l’assunto di istruirsi sulle singole minute questioni relative al processo orale dei diversi paesi, sia per mezzo di accurate informazioni presso i pratici nelle loro diverse cariche, o sia corrispondendo con uomini sperimentati e cercò in tal modo di formarsi solide opinioni intorno al merito, per esperienza manifestatosi, delle diverse forme processuali’’.
INCOMPATIBILITÀ, ASTENSIONE E RICUSAZIONE NEL PROCESSO PENALE: DELIMITAZIONE DELLE FATTISPECIE; NUOVE NORME IN TEMA DI GIUDICE UNICO; EFFETTI PROCESSUALI DERIVANTI DALLA VIOLAZIONE DELLA DISCIPLINA (*)
SOMMARIO: 1. Incompatibilità, astensione e ricusazione: gli elementi tipicizzanti. — 2. Le varie ipotesi di incompatibilità delineate dal codice ... — 3 ... e dalla normativa sull’ordinamento giudiziario. — 4. Le problematiche connesse agli istituti dell’astensione e della ricusazione. — 5. Gli effetti della normativa sul giudice unico. — 6. Le conseguenze derivanti dalla verificazione di una causa di incompatibilità.
1. Incompatibilità, astensione e ricusazione: gli elementi tipicizzanti. — La comune finalità di garantire il principio dell’imparzialità, rappresentante l’essenza stessa dell’attività di chi è chiamato a rendere giustizia, giustifica la riconduzione entro un unico ambito ideale degli istituti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione. Tali istituti « se per un verso assolvono ad identica funzione, essendo predisposti per la tutela del medesimo valore, per altro verso, conseguono il medesimo effetto, cioè l’estromissione da un dato processo o da una determinata attività giurisdizionale, del giudice-persona fisica » (1). Fatta questa doverosa premessa, va poi rilevato come ai sensi dell’art. 36 lett. g) c.p.p. le situazioni di incompatibilità stabilite dagli artt. 34 e 35 c.p.p. e dalle leggi di ordinamento giudiziario costituiscano motivo di astensione e, in base al disposto dell’art. 37 lett. a) c.p.p., che richiama l’art. 36 lett. g), possano rappresentare il presupposto per una dichiarazione di ricusazione. Questa parziale intersecazione non può peraltro far dimenticare la sussistenza di autonomi elementi caratterizzanti e di una conseguente distinta configurazione dei rispettivi istituti; basterebbe ricordare ad esempio, onde pervenire alla differenziazione dell’astensione ri(*) Testo, corretto ed integrato, della Relazione tenuta a Frascati il 2 marzo 1999 nell’ambito dell’incontro di studio organizzato dal C.S.M. sul tema: « L’imparzialità del giudice ». (1) T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione del giudice nel processo penale, Milano, 1996, p. 64.
— 1360 — spetto alla ricusazione, che mentre l’astensione trae vita dal ‘‘dovere’’ di imparzialità, la ricusazione ha a fondamento il ‘‘diritto’’ a tale imparzialità. Per quanto invece concerne l’individuazione dell’elemento di discrimine tra l’incompatibilità e gli istituti dell’astensione e della ricusazione bisogna tener conto delle indicazioni provenienti da alcune recenti pronunce della Corte costituzionale. Con la sent. n. 306 del 1997 (2) il giudice delle leggi ha affermato che la ratio della disciplina dell’incompatibilità è « primariamente quella obiettiva del rispetto della logica del processo penale, delle sue scansioni e delle differenze di ruoli che in esso i diversi soggetti sono chiamati a svolgere: il giudizio non si deve confondere, attraverso una sorta di unione personale, con altre attività che attengono al processo e che hanno una loro diversa ragion d’essere e il cui compimento potrebbe costituire pregiudizio rispetto al giudizio medesimo »; invece le cause di astensione e di ricusazione — fatte ovviamente salve quelle indicate nell’art. 36, comma 1, lett. g) c.p.p., richiamate dall’art. 37, comma 1, lett. a) c.p.p., e consistenti in situazioni di incompatibilità — si collocherebbero su di un piano diverso, in quanto prescinderebbero « da qualunque riferimento alla struttura del processo e all’esistenza del rispetto della logica intrinseca ai suoi diversi momenti di svolgimento ». La parte motiva di tale decisione, nell’evidente ricerca di un ideale spartiacque, sottolinea che le cause di astensione e di ricusazione « sono previste in modo da operare non in astratto ma in concreto ». Questa impostazione è stata recepita e sviluppata da ulteriori sentenze — immediatamente successive — della stessa Corte costituzionale, volte a ribadire come la scelta del legislatore di qualificare una determinata situazione come causa di incompatibilità o di astensione e ricusazione discenda « dalla possibilità o dalla impossibilità di valutarne preventivamente e in astratto l’effetto pregiudicante per l’imparzialità del giudice penale » (3). L’incompatibilità sarebbe ravvisabile solo laddove sussista detta possibilità, mentre, qualora l’effetto pregiudicante sia meramente eventuale, e vada quindi accertato in concreto, si dovrebbe ricorrere all’astensione ed (2) Corte cost., sent. 1o ottobre 1997, n. 306, in Giur. cost., 1997, p. 2875, con nota di P.P. RIVELLO, Tre concomitanti pronunce di inammissibilità della Corte costituzionale: l’astensione e la ricusazione come alternative all’incompatibilità. (3) Corte cost., sent. 1o ottobre 1997, n. 308, in Gazz. giur., 1997, n. 37, p. 40; in dottrina N. GALANTINI, Principio della conservazione degli atti e incompatibilità del giudice, in Cass. pen., 1997, p. 586, ha osservato che l’astensione e la ricusazione esigono « una valutazione mirata allo specifico caso che viene ad integrarsi e giustificano conseguentemente la discrezionalità giudiziale sia in ordine alla fondatezza della relativa dichiarazione o istanza, sia in relazione al grado di affidabilità degli atti compiuti precedentemente al provvedimento di accoglimento », mentre l’incompatibilità « non richiede viceversa un simile approccio, essendo le situazioni ad essa riconducibili di natura tale da non esigere un esercizio di discrezionalità in quei termini ».
— 1361 — alla ricusazione. La pronuncia n. 331 del 1997 (4) ha rilevato che nelle ipotesi configurate come cause di incompatibilità « accanto alla tutela ripristinatoria rimessa all’iniziativa del giudice e delle parti con gli appositi strumenti dell’astensione e della ricusazione » risulta « esigibile anche una tutela preventiva da attuarsi attraverso mezzi organizzativi in grado di assicurare uno svolgimento spontaneo del principio del giusto processo ». Detta tesi, secondo cui la possibilità di un’anticipata individuazione della compromissione al principio di imparzialità del giudicante, atta a permettere all’ordinamento di apprestare gli opportuni strumenti di contrasto, costituirebbe l’elemento distintivo rispetto alle situazioni evidenziabili esclusivamente attraverso l’astensione e la ricusazione, mira al contempo ad attenuare la ‘‘pressione’’ che si andava accumulando sull’art. 34 c.p.p., a causa di una continua richiesta di pronunce in chiave additiva volte ad estenderne la portata. 2. Le varie ipotesi di incompatibilità delineate dal codice ... — L’art. 34 comma 1 c.p.p. si occupa dell’incompatibilità con riferimento alla progressione ‘‘in verticale’’ del processo (5); in base a detta norma infatti il magistrato che abbia pronunciato o abbia concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può svolgere le funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento o al giudizio per revisione. Uno dei maggiori pericoli di compromissione al principio di imparzialità è rappresentato infatti dall’eventuale possibilità per il giudice di pronunciarsi in ordine alla medesima causa nei vari gradi del procedimento; detta possibilità finirebbe con il vanificare la ratio delle impugnazioni, volte a garantire una nuova valutazione, da parte di altri magistrati, delle risultanze procedimentali. È stato anzi osservato come siano le stesse caratteristiche funzionali della competenza per gradi a rendere incompatibile il magistrato che abbia già giudicato in ordine allo stesso fatto, e come il conseguente divieto altro non rappresenti se non il doveroso adeguamento al canone del ne bis in idem soggettivo (6). L’art. 34 comma 1 c.p.p. non si occupa soltanto della partecipazione ai diversi gradi del procedimento, in quanto determina la sussistenza di (4) Corte cost., sent. 14 novembre 1997, n. 331, in Giur. cost., 1997, p. 3355, con commento di P.P. RIVELLO, Sui rapporti tra l’incompatibilità e l’astensione o la ricusazione di un giudice; in ordine alla stretta correlazione intercorrente tra la sent. n. 331 del 1997 e le precedenti pronunce nn. 306, 307 e 308 dello stesso anno v. G. DI CHIARA, Più che all’incompatibilità si guardi adesso alle cause di astensione e ricusazione, in Dir. pen. proc., 1998, p. 237. (5) G. SPANGHER, Soggetti, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso - V. Grevi, IV Ed., Padova, 1996, p. 24. (6) GIU. SABATINI, Trattato dei procedimenti incidentali nel processo penale, Torino, 1952, p. 215.
— 1362 — un’incompatibilità anche con riferimento al giudizio di rinvio dopo l’annullamento ed al giudizio di revisione. Per quanto concerne l’annullamento con rinvio bisogna chiarire quali siano le interconnessioni tra l’art. 34 e gli artt. 604 e 623 c.p.p. Va ricordato che, ai sensi dell’art. 623 lett. c) c.p.p., se è annullata la sentenza di una corte di assise di appello o di una corte di appello ovvero di una corte di assise o di un tribunale, il giudizio deve essere rinviato ad un’altra sezione della stessa corte o dello stesso tribunale o, in mancanza, alla corte o al tribunale più vicino. Al fine di giustificare la coesistenza di un simile disposto con quello del primo comma dell’art. 34 c.p.p., o meglio per negare la sovrapposizione di norme aventi apparentemente la stessa valenza e portata, è stato rilevato che l’art. 623 lett. c) c.p.p. mira ad evitare l’incompatibilità ‘‘a monte’’, attribuendo la causa ad un diverso organo giudiziario, mentre il primo comma dell’art. 34 c.p.p. prende in esame la posizione di ogni singolo giudice (7). Le due norme sembrano dunque interessare aspetti fra loro distinti, in quanto l’art. 34 comma 1 c.p.p. di per sè non vieterebbe che in caso di annullamento con rinvio la causa fosse ritrasmessa allo stesso organo giudiziario, purchè composto da altri magistrati; a sua volta l’art. 623 lett. c) c.p.p. non varrebbe ad escludere, in assenza di raccordo con la norma sovracitata, una consistente serie di incompatibilità, ben potendo accadere, in caso di rinvio ad un’altra sezione o ad un’altra corte, che di detta sezione o corte sia successivamente venuto a far parte uno dei componenti del collegio che emise la sentenza annullata. Gli artt. 34 comma 1 e 623 lett. c) c.p.p. appaiono così almeno parzialmente complementari, giacchè solo il loro combinato disposto elimina totalmente il pericolo di verificazione di ipotesi di incompatibilità. Un analogo richiamo va operato con riferimento all’art. 623 lett. b) c.p.p. In base a detta norma la Corte di cassazione deve disporre la trasmissione degli atti « al giudice di primo grado » qualora venga annullata una sentenza di condanna nei casi previsti dall’art. 604 comma 1 c.p.p., e cioè ogni qualvolta sia stata dichiarata la nullità per difetto di contestazione, non rilevato in appello, di una sentenza di condanna emessa per un fatto diverso da quello originariamente attribuito, o che abbia ritenuto applicabile una circostanza aggravante, non precedentemente menzionata, ad effetto speciale, purchè non siano state giudicate prevalenti od equivalenti le circostanze attenuanti. Nel valutare in sede interpretativa se il riferimento al « giudice di primo grado » concerna, genericamente, l’organo giudiziario o invece ri(7) T. RAFARACI, Sub art. 34 c.p.p., in Commento al codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Primo aggiornamento, Torino, 1993, p. 23.
— 1363 — guardi la persona fisica del singolo magistrato, va tenuto conto del fatto che nella prima ipotesi la norma risulta pienamente compatibile con l’esigenza di evitare l’insorgere di possibili compromissioni al canone dell’imparzialità del giudicante, mentre in caso contrario essa dovrebbe invece essere considerata derogatrice rispetto a detto canone, imponendo la trasmissione degli atti allo stesso soggetto che già in precedenza fu chiamato a giudicare. Proprio alla luce delle conseguenze prospettate non v’è dubbio in ordine alla necessità di accogliere la prima soluzione, non potendosi prescindere, anche con riferimento all’annullamento con rinvio, dalle indicazioni generali emergenti dall’art. 34 c.p.p. Analoghe considerazioni vanno ripetute relativamente alle nullità accertate dal giudice di appello, ai sensi del quarto comma dell’art. 604 c.p.p., con conseguente regressione del processo ed instaurazione di un nuovo giudizio di primo grado. La predetta conclusione emerge del resto con assoluta chiarezza dalla pronuncia n. 363 del 1997 della Corte costituzionale (8), ove si è osservato che « nella prospettiva del giudice chiamato a giudicare, la regola dell’incompatibilità, secondo il significato proprio delle parole che la esprimono, si riferisce ad ogni caso di giudizio di rinvio a seguito di annullamento della sentenza, e ciò in corrispondenza con la finalità del regime delle incompatibilità, che specificamente esclude che lo stesso giudice possa pronunciarsi più volte nel merito dello stesso giudizio », sottolineandosi come il rinvio degli atti al giudice che procedeva quando si è verificata la nullità non escluda che « così individuato l’ufficio giudiziario competente per l’ulteriore corso del procedimento, valgano poi, quanto alla partecipazione al giudizio, le regole proprie dell’incompatibilità, che riguardano non l’ufficio chiamato a giudicare ma la persona che, nel singolo caso, è investita delle relative funzioni, perchè in concreto sia garantita l’imparzialità del giudizio ». L’art. 34 comma 2 c.p.p. mira invece ad evitare il pericolo di ‘‘condizionamenti’’ collegati allo sviluppo ‘‘in orizzontale’’ del processo e dovuti al pregresso compimento di determinati atti ad opera dello stesso magistrato. L’originario disposto codicistico appariva caratterizzato al riguardo da numerose ‘‘dimenticanze’’; l’evidente lacunosità della disciplina rendeva conseguentemente concreto il rischio della presenza di un iudex suspectus. È spettato alla Corte costituzionale il compito di eliminare le discrasie ravvisabili in questo campo, estendendo il regime dell’incompatibilità a situazioni che non erano state prese in esame dal legislatore, pur ri(8) Corte cost., sent. 28 novembre 1997, n. 363, in Giur. cost., 1997, p. 3515, con commento di P.P. RIVELLO, La Corte costituzionale chiarisce l’ambito di applicazione dell’art. 34 comma 1 c.p.p. in ordine ai rapporti tra annullamento con rinvio ed incompatibilità.
— 1364 — sultando assimilabili sotto ogni aspetto a quelle espressamente contemplate, e ritenute lesive dell’imparzialità del giudice. In materia si è assistito ad un processo definito di ‘‘gemmazione’’ (9) o di ‘‘trascinamento’’ (10), in quanto le varie pronunce additive hanno condotto ad una serie di ulteriori dichiarazioni di parziale incostituzionalità, fino a pervenire ad una sostanziale ‘‘riscrittura’’ dell’art. 34 c.p.p. Si pensi alle sentenze 496/1990 (11), 401/1991 (12) e 502/1991 (13), concernenti l’incompatibilità a partecipare al giudizio gravante sul magistrato che abbia precedentemente disposto il c.d. esercizio coartato dell’azione penale, compiendo in tal modo una valutazione ‘‘contenutistica’’ in ordine alle risultanze delle indagini preliminari, finalizzata al controllo sull’effettivo rispetto del dettato di cui all’art. 112 Cost. Parimenti emblematiche in tal senso appaiono le decisioni 124/1992 (14), 186/1992 (15), 399/1992 (16) e 439/1993 (17), volte a ravvisare un’incompatibilità a carico del giudice precedentemente pronunciatosi sulla richiesta di applicazione della pena, ed incentrate sulla considerazione in base alla quale l’analisi concernente la correttezza della definizione giuridica del fatto, la sussistenza di circostanze attenuanti od aggravanti ed il loro bilanciamento, nonché la congruità della pena proposta dalle parti, evidenzia l’avvenuto compimento di una valutazione così pregnante da poter ‘‘condizionare’’ il magistrato che debba successivamente partecipare alla fase del giudizio. Non è questa la sede per esaminare tutti i vari interventi della Corte costituzionale in materia (18). Dobbiamo comunque ricordare come, all’esito di lunghi contrasti, la Corte, abbandonando il proprio precedente (9) G. CONTI, L’istituto dell’incompatibilità del giudice tra microconflittualità costituzionale e prospettive di riforma ordinamentale, in Gazz. giur., 1996, n. 9, p. 2. (10) P.P. RIVELLO, Analisi dei più recenti orientamenti della Corte costituzionale in tema di incompatibilità del giudice penale, in Giur. cost., 1992, p. 1349. (11) Corte cost., 26 ottobre 1990, n. 496, in Cass. pen., 1991, II, p. 1, con nota critica di M. VESSICHELLI, Ancora una discutibile pronuncia di illegittimità costituzionale. (12) Corte cost., 12 novembre 1991, n. 401, in Giur. cost., 1991, p. 3487, con nota di P.P. RIVELLO, Un articolato intervento della Corte costituzionale in tema di incompatibilità del giudice. (13) Corte cost., sent. 30 dicembre 1991, n. 502, in Giur. cost., 1991, p. 4028. (14) Corte cost., sent. 25 marzo 1992, n. 124, in Giur. cost., 1992, p. 1065. (15) Corte cost., sent. 22 aprile 1992, n. 186, in Giur. cost., 1992, p. 1343, con nota di P.P. RIVELLO, Analisi dei più recenti orientamenti della Corte costituzionale, cit. (16) Corte cost., sent. 26 ottobre 1992, n. 399, in Giur. cost., 1992, p. 3457, con nota di P.P. RIVELLO, Incompatibilità a giudicare per il magistrato che abbia respinto la richiesta di applicazione della pena concordata tra le parti. (17) Corte cost., sent. 16 dicembre 1993, n. 439, in Giur. cost., 1993, p. 3587. (18) Per un’attenta e rigorosa ricostruzione degli orientamenti accolti dalla Corte costituzionale v. G. DI CHIARA, Tra crisi del sistema e ricerca d nuovi equilibri: il codice di procedura penale negli itinerari della giurisprudenza costituzionale (1992-1995), in Foro it., 1995, I, c. 2683 ss.
— 1365 — orientamento che, sulla base della ravvisata differenza di oggetto e di funzioni tra l’accertamento de libertate e quello compiuto all’esito del giudizio, negava al riguardo la sussistenza di un’incompatibilità, sia giunta ad escludere la possibilità di una coincidenza soggettiva tra il giudice chiamato a pronunciarsi sull’adozione di una misura cautelare personale, sulla relativa richiesta di riesame o sull’appello proposto ai sensi dell’art. 310 c.p.p. ed il magistrato che deve partecipare al successivo giudizio di merito. Il superamento della precedente impostazione fu operato dalla sent. 432/1995 (19), con cui venne dichiarata l’illegittimità dell’art. 34 comma 2 c.p.p. « nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato ». Al fine di spiegare le ragioni del proprio mutamento giurisprudenziale la Corte costituzionale in tale sentenza pose l’accento sulla variazione del quadro normativo di riferimento, conseguente alla riforma novellistica operata dalla l. 8 agosto 1995, n. 332, che « accentuando ancor più il carattere di eccezionalità dei provvedimenti limitativi della libertà personale disposti prima della condanna, comporta indubbiamente una maggiore incisività dell’apprezzamento del giudice sul punto ». Alla pronuncia 432/1995 si collegano strettamente, in via di logica conseguenzialità, le sentenze 131/1996 (20) e 155/1996 (21). La sent. 131/1996 riconobbe la fondatezza della questione di legittimità concernente l’art. 34, comma 2, c.p.p. nella parte in cui tale norma non escludeva dal successivo giudizio di merito il magistrato che, in relazione allo stesso procedimento, avesse fatto parte del collegio chiamato a pronunciarsi sul riesame, ai sensi del’art. 309 c.p.p., o sull’appello proposto, in conformità dell’art. 310 c.p.p., nei confronti delle ordinanze in materia di misure cautelari personali. La sent. 155/1996 dichiarò invece l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non escludeva la partecipazione al giudizio abbreviato del g.i.p. che avesse disposto una misura cautelare personale. La Corte costituzionale con que(19) Corte cost., sent. 15 settembre 1995, n. 432, in Giur. cost., 1995, p. 3371, con nota di P.P. RIVELLO, Un significativo mutamento d’indirizzo della Corte costituzionale: finalmente riconosciuta l’incompatibilità del magistrato chiamato a partecipare al dibattimento dopo aver adottato quale Gip una misura cautelare personale; ed in Cass. pen., 1996, p. 433, con nota di E. SQUARCIA, Incompatibilità tra giudice della misura cautelare e giudice del dibattimento: un significativo ‘ripensamento’ della Corte costituzionale. (20) Corte cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131, in Dir. pen. proc., 1996, p. 579, con commenti di P.P. RIVELLO e di G. SPANGHER; per un’ulteriore analisi di detta pronuncia v. G. DI CHIARA, Giudizio cautelare, « forza della prevenzione » e incompatibilità del giudice: appunti sparsi « a prima lettura » su Corte cost. 131⁄96, in Foro it., 1996, I, c. 1489. (21) Corte cost., sent. 20 maggio 1996, n. 155, in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 337.
— 1366 — st’ultima decisione riconobbe altresì l’incompatibilità del magistrato che, dopo aver emesso una misura cautelare personale, debba pronunciarsi in ordine alla richiesta di applicazione della pena concordata dalle parti; al contempo l’incompatibilità venne estesa anche con riferimento all’ipotesi della modifica, della sostituzione o della revoca di una misura cautelare personale o del rigetto della richiesta di applicazione, modifica, sostituzione o revoca di tale misura. Venendo infine all’analisi del terzo comma dell’art. 34 c.p.p. si può notare come venga individuata quale possibile causa di ‘‘condizionamento’’ la situazione verificabile qualora allo svolgimento di funzioni differenti da quelle di giudice segua l’esercizio delle funzioni giudiziarie in relazione alla stessa causa. In base a tale norma infatti chi è stato pubblico ministero, o ha compiuto atti di polizia giudiziaria, o ha prestato l’ufficio di difensore, di procuratore speciale o di curatore di una parte, di testimone, perito, consulente tecnico, o ha proposto denuncia, querela, istanza o richiesta, o ha deliberato o concorso a deliberare l’autorizzazione a procedere, non può poi esercitare nel medesimo procedimento l’ufficio di giudice. Per quanto concerne il divieto, posto a carico di chi abbia esercitato le funzioni di pubblico ministero, di svolgere nello stesso procedimento quelle di giudice, va riconosciuto che « chi accusa non può giudicare e chi ha accusato in un determinato procedimento non può nello stesso procedimento assumere quel diverso atteggiamento psicologico che deve essere proprio del giudice il quale guarda con serenità e senza prevenzione allo svolgersi dinanzi a sé del dibattito per trarne con obiettività le conclusioni che gli saranno dettate dalla propria coscienza » (22). L’incompatibilità si configura solo qualora il magistrato abbia svolto effettivamente l’attività di pubblico ministero nella stessa causa; non viene dunque in rilievo ai fini in esame il caso in cui l’interessato abbia in passato ricoperto la carica di capo dell’ufficio della procura, non compiendo però alcuna attività investigativa, o di coordinamento delle indagini, in relazione al procedimento sul quale si trovi poi chiamato a giudicare. La Corte europea dei diritti dell’uomo, mentre ha negato che l’incompatibilità possa derivare dal fatto che il giudice abbia anteriormente ricoperto le funzioni di pubblico ministero nell’ambito di altri procedimenti o abbia retto la procura all’epoca in cui erano in corso le investigazioni concernenti la vicenda sottoposta successivamente al giudizio di merito, ha invece significativamente ravvisato la predetta incompatibilità nell’ipotesi in cui un magistrato, avendo esercitato in precedenza le funzioni di capo dell’ufficio della procura (o comunque una funzione di vertice quale (22) 216.
GIU. SABATINI, Trattato dei procedimenti incidentali nel processo penale, cit., p.
— 1367 — quella di procuratore aggiunto), pur senza effettuare direttamente le indagini si fosse comunque trovato a svolgere un’attività di controllo e di orientamento rispetto le operazioni condotte dai sostituti ai quali era stata affidata l’inchiesta (23). Per quanto concerne l’incompatibilità posta a carico di chi abbia compiuto atti di polizia giudiziaria, va osservato anche in tal caso come si sia in presenza di un pericolo di prevenzione dovuto al previo compimento di attività investigative. È parimenti evidente, relativamente al precedente espletamento dell’attività di difensore nell’ambito dello stesso procedimento, che i rapporti intercorrenti tra la parte ed il suo patrocinante appaiono del tutto incompatibili con l’equidistanza che deve caratterizzare l’operato del giudice, il quale in tal caso, oltretutto, si sarebbe già formato un convincimento dal quale ben difficilmente potrebbe poi svincolarsi. In ordine alla posizione di chi sia stato antecedentemente perito o consulente tecnico bisogna rilevare che le funzioni svolte in tale veste determinano la focalizzazione dell’interesse su di un frammento della vicenda, della cui integralità si viene poi chiamati a giudicare; inoltre il parere a suo tempo espresso nell’esercizio di dette funzioni rischierebbe di rendere il magistrato non del tutto sereno in sede di valutazione finale della causa. Stante l’assenza di un’attività valutativa in ordine ai fatti di causa la legge non estende invece l’incompatibilità all’interprete, la cui opera, pur tenendo conto delle varie possibilità di traduzione di uno scritto o di una narrazione orale, appare caratterizzata da margini di discrezionalità sostanzialmente ridotti, e tali comunque da escludere la precostituzione di un convincimento atto a compromettere un’analisi obiettiva della vicenda processuale. Invece chi abbia in precedenza esercitato le funzioni di testimone non può celebrare il giudizio nella stessa causa, così come, all’inverso, non potrebbe essere assunto come testimone il soggetto che nel medesimo procedimento svolgesse le funzioni di giudice, ai sensi dell’art. 197 lett. d) c.p.p. Del resto, come è stato osservato (24), a causa della sua « personale esperienza in relazione ai fatti da accertare », tale da determinare una visione « unilateralmente costituita », il magistrato che abbia in precedenza svolto le funzioni di testimone nella stessa causa apparirebbe « il meno idoneo ad assumere funzioni di giudice, poichè tali funzioni non soltanto implicano la verginità da esperienze personali, ma soprattutto una posizione psicologica così libera da poter accogliere e valutare obiettivamente e complessivamente tutte le varie esperienze processuali ». (23) Cour eur. D.H., Arrêt Piersack du 1er octobre 1982, Série A no 53. (24) T. RAFARACI, Sub art. 34 c.p.p., cit., p. 39, nota 32.
— 1368 — In base all’art. 35 c.p.p. i giudici che siano tra loro parenti od affini entro il secondo grado non possono esercitare, nello stesso procedimento, funzioni anche separate o diverse. Si è voluto in tal modo evitare che i rapporti di parentela o di affinità influiscano sulla serenità del giudizio. La norma va coordinata con l’art. 19 ord. giud., il cui terzo comma esclude che facciano parte dello stesso collegio, nelle corti e nei tribunali, i parenti e gli affini fino al quarto grado incluso. Il timore di un condizionamento determinato dal vincolo familiare appare, almeno generalmente, di intensità differente a seconda che i giudici svolgano o meno identiche funzioni; è stato rilevato che qualora i soggetti legati tra loro da rapporti di parentela o di affinità compongano il medesimo collegio si delinea una situazione assai più pericolosa (in chiave di possibile turbativa alla serenità del giudizio) rispetto a quella derivante dall’intervento di tali magistrati in fasi diverse dello stesso procedimento. Nel primo caso infatti « il condizionamento non opera indirettamente sulla volontà del giudice, ma può influire direttamente sui risultati della votazione collegiale », mentre nella seconda ipotesi si verifica quantomeno l’« impossibilità di esercitare un’influenza determinante sull’esito del giudizio se non mediante un’opera di condizionamento svolta al di fuori del processo » (25). Proprio per tale motivo l’attuale art. 35 c.p.p., così come già faceva l’art. 62 c.p.p. 1930, limita l’incompatibilità al secondo grado di parentela, mentre l’art. 19 ord. giud. la estende invece fino al quarto. Un raffronto tra le due norme evidenzia del resto la sussistenza di ulteriori elementi di diversità. Per quanto concerne la sfera soggettiva di riferimento, va sottolineato in particolare come l’art. 35 c.p.p. si applichi a tutti i giudici, e cioè sia a quelli ‘‘togati’’ che ai ‘‘laici’’, laddove l’art. 19 ord. giud. limita la sua portata esclusivamente agli appartenenti all’ordine giudiziario. 3. ... e dalla normativa sull’ordinamento giudiziario. — L’esigenza di tutelare l’imparzialità nel giudizio è altresì perseguita dall’art. 18 ord. giud. (incompatibilità di sede per parentela o affinità con professionisti). La disposizione in oggetto esclude che i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali possano appartenere ad uffici giudiziari nelle sedi presso le quali i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, risultino iscritti nell’albo professionale degli avvocati, ed al contempo impedisce che i predetti magistrati prestino servizio in uffici giudiziari innanzi ai quali i loro parenti, nei gradi sovraspecificati, esercitano abitualmente l’attività di avvocato. (25) L. DITTRICH, L’incompatibilità determinata da rapporti di parentela ed affinità, in Giur. it., 1988, II, c. 347 ss.
— 1369 — L’attuale normativa non appare peraltro assolutamente soddisfacente giacché, almeno per quanto concerne il disposto di cui alla prima parte dell’art. 18 ord. giud., configura una sorta di presunzione iuris et de iure di incompatibilità, derivante dalla semplice iscrizione all’albo da parte del parente. Al fine di pervenire ad una più razionale soluzione sono state formulate nel corso degli anni numerose proposte di modifica, dirette a prevedere la sola incompatibilità dovuta alla coincidenza tra l’ufficio giudiziario ove il magistrato presta il proprio servizio e la sede ove il parente svolge ‘‘abitualmente’’ la professione forense; è stato altresì sostenuto che l’incompatibilità andrebbe espressamente esclusa laddove risultasse immediatamente accertabile che le rispettive attività dell’avvocato e del giudice, fra loro parenti, concernono ambiti del tutto differenziati fra loro. Un punto particolarmente controverso è rappresentato poi dall’interrogativo se l’art. 18 ord. giud. permetta di delineare un’ipotesi di incompatibilità tra il magistrato ed il coniuge esercente la professione forense. Premesso che risulta incomprensibile dover tener conto della posizione dei parenti ed affini ma non di quella del coniuge (al riguardo le varie proposte di modifica estendono invece l’incompatibilità non solo al coniuge, ma anche al convivente di fatto), va peraltro osservato che, de iure condito, non sembra facilmente accoglibile la tesi di chi ritiene che già alla luce dell’attuale disposto tra le varie ipotesi di incompatibilità di sede rientrerebbe anche quella derivante dal rapporto di coniugio. Infatti alla norma in oggetto viene generalmente attribuita una natura eccezionale, in quanto essa impone una delimitazione alla facoltà di scelta della sede da parte del magistrato, nonchè, una volta verificatasi l’ipotesi di incompatibilità, una possibile deroga, a causa dell’eventuale trasferimento d’ufficio, al principio costituzionale di inamovibilità; la natura eccezionale del disposto di legge in esame esclude un’interpretazione analogica in malam partem. D’altra parte l’art. 18 ord. giud. non sembra giustificare il ricorso all’interpretazione evolutiva, giacché all’epoca in cui venne emanata la norma, mentre era precluso l’accesso alla magistratura alle donne, già vi erano avvocati di sesso femminile, e dunque sarebbe stato possibile prevedere un’ipotesi di incompatibilità da coniugio, cosicchè il mancato intervento al riguardo pare assumere il valore di un’espressa presa di posizione volta ad escludere la sussistenza di un’incompatibilità. Comunque la mancanza di un chiarimento legislativo, favorendo il diffondersi di illazioni e critiche più o meno velate nei confronti dei coniugi che nella stessa sede svolgano rispettivamente l’attività di magistrato e di avvocato, nuoce gravemente al prestigio di entrambe le categorie. Il magistrato il cui coniuge eserciti la professione forense è tenuto ad usare la massima cautela per evitare l’insorgenza di eventuali compromis-
— 1370 — sioni alla connotazione di imparzialità che deve caratterizzare il suo operato; qualora ciò non avvenga potrà scattare il meccanismo del trasferimento per incompatibilità ambientale. L’art. 19 primo comma ord. giud. esclude che i magistrati aventi tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al terzo grado facciano parte « della stessa corte o dello stesso tribunale ordinario o dello stesso ufficio giudiziario ». Ai sensi del successivo secondo comma la sussistenza di detta incompatibilità risulta esclusa qualora, a giudizio del C.S.M., in seguito ad un’analisi della concreta realtà ambientale basata in particolare sulla valutazione del numero dei componenti dell’ufficio, possa essere smentita la sussistenza di pericoli di attentato all’imparzialità del giudice. È evidente infatti che i sospetti di pressioni o condizionamenti che possono apparire credibili in una piccola sede giudiziaria risultano non di rado infondati in un diverso contesto. L’art. 19 ord. giud. non menziona la sussistenza del vincolo coniugale fra magistrati della stessa sede quale possibile causa di incompatibilità. Le considerazioni fatte nell’esaminare l’incompatibilità derivante dalla presenza di familiari esercenti l’attività professionale nello stesso ambito territoriale ove il magistrato svolge le sue funzioni non sono integralmente riproponibili ai fini in esame. Infatti mentre in relazione all’art. 18 ord. giud. è possibile sostenere che la mancata previsione del vincolo di coniugio debba essere considerata come una scelta consapevole da parte del legislatore giacchè all’epoca v’erano casi di donne esercenti la professione forense, questa affermazione non può invece valere per la magistratura: quando l’articolo fu predisposto, essendo precluso alle donne di farne parte, non era ipotizzabile il caso di magistrati legati fra loro dal vincolo coniugale. 4. Le problematiche connesse agli istituti dell’astensione e della ricusazione. — Le ipotesi di astensione e di ricusazione sono sovrapponibili; vanno peraltro escluse le « altre gravi ragioni di convenienza », che possono giustificare soltanto l’astensione, e non anche la ricusazione (26), mentre l’aver « manifestato indebitamente il proprio convincimento sui (26) Nella Relazione prog. prel. c.p.p., in Gazz. uff., 24 ottobre 1988, n. 250, Suppl. ord. n. 2, p. 20, si osserva come ciò sia stato dovuto alla volontà di impedire « richieste strumentali e pretestuose », conseguenti all’« estrema genericità » dell’ipotesi in esame. L’ambito della ricusazione è infatti ispirato a criteri di tassatività, a differenza ad esempio dell’impostazione accolta dall’ordinamento tedesco, caratterizzato da una previsione generale di ricusabilità, ai sensi del § 24, I St. PO. Al contempo la giurisprudenza ha sottolineato come le norme che regolano la ricusazione siano eccezionali « in quanto, comportando la possibilità di mutamento del giudice precostituito, incidono sul principio di immutabilità del giudice naturale » (così Cass., sez. I, 15 ottobre 1996, Priebke, in Cass. pen., 1997, p. 1058, n. 665; analogamente Cass., sez. II, 5 giugno 1992, Falbo ed altro, ivi, 1993, p. 2293, n. 1386).
— 1371 — fatti oggetto dell’imputazione » interessa unicamente l’istituto della ricusazione. L’astensione, che il legislatore configura come obbligatoria, ricorrendone i presupposti, rappresenta un atto unilaterale, a contenuto abdicativo, del magistrato chiamato a giudicare (27). La ricusazione invece « si configura alla stregua di eccezione, quale atto con cui una delle parti chiede l’estromissione di un giudice dall’esercizio delle sue funzioni in un determinato procedimento, per uno dei motivi individuati dalla legge come capaci di turbarne la serenità o di scuotere la fiducia nella sua imparzialità » (28). Ai sensi dell’art. 39 c.p.p. la dichiarazione di ricusazione si considera come non proposta quando il giudice, anche successivamente, dichiara di astenersi e l’astensione è accolta (29). L’accoglimento dell’astensione può così configurarsi come una causa di improcedibilità nei confronti della ricusazione. Per quanto concerne le varie ipotesi di astensione (e, correlativamente, di ricusazione) ricorderemo che l’« interesse nel procedimento » può essere individuato in qualunque aspettativa di un vantaggio o di un pregiudizio, non necessariamente a carattere patrimoniale. Al riguardo si è assistito ad un ampio dibattito circa la doverosità di astensione o l’insorgenza di un potere di ricusazione derivante da un supposto «interesse politico» del giudice in relazione alla causa in corso. Riteniamo decisamente preferibile la tesi, attualmente maggioritaria, volta a fornire una risposta negativa al quesito, in base alla considerazione secondo cui in caso contrario si potrebbe dar vita ad una pericolosissima ‘‘caccia alle streghe’’ nei confronti di qualsivoglia opinione personale del magistrato (30). (27) T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione, cit., p. 108. (28) T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione, cit., p. 109. (29) Come osservato da G. PICA, voce Ricusazione e astensione del giudice, in Dig. disc. pen., vol. XII, Torino, 1997, p. 230: « il favor per l’astensione è motivato dal fatto che essa non intacca l’immagine dell’organo giudiziario né della persona fisica del giudice, costituendo anzi un comportamento di esemplare correttezza ». (30) Cfr. in tal senso O. MAZZA, Indipendenza e imparzialità del giudice, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. Chiavario - E. Marzaduri, Protagonisti e comprimari del processo penale, contributi coordinati di M. Chiavario, Torino, 1995, p. 65; A. PIZZORUSSO, Sul significato dell’espressione giudice naturale nell’art. 25 comma 1o Cost., in Giur. cost., 1970, p. 1079; S. RAMAJOLI, La ricusazione del giudice: presupposti, condizioni e motivi, con specifico riferimento alle ipotesi di « inimicizia grave » e di « interesse personale » nel procedimento, in Cass. pen., 1989, p. 416; R. ROMBOLI, L’interesse politico come motivo di ricusazione del giudice, in Riv. dir. proc., 1982, p. 455 ss.; nonché E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, Milano, 1989, p. 108; per la soluzione opposta v. invece T. DELOGU, Giustizia e politica, in questa Rivista, 1973, p. 629; S. LA CHINA, Il giudice ‘‘politico’’ e la ricusazione, in Riv. dir. proc., 1977, p. 729. A sostegno di questa diversa impostazione viene talora richiamata la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, 25 novembre 1993, n. 279-A, Holm c. Svezia, concernente la ri-
— 1372 — Si rientra invece nel caso configurato dall’art. 36, lett. c) c.p.p., richiamato dall’art. 37 lett. a) c.p.p., qualora il giudice abbia dato suggerimenti sul comportamento processuale da tenere o abbia manifestato le proprie impressioni relativamente al prevedibile risultato di un determinato procedimento. Per quanto concerne l’« inimicizia grave » tra il giudice o un suo prossimo congiunto ed una delle parti private viene generalmente osservato che essa deve emergere da circostanze oggettive e non può essere basata su mere opinioni od impressioni del ricusante; si aggiunge che essa interessa la sfera privata, a nulla rilevando i rapporti interpersonali derivanti dalla celebrazione del procedimento (31). L’inimicizia atta ad imporre l’obbligo di astensione ed a configurare un’ipotesi di ricusazione è quella del giudice nei confronti delle parti, stante l’irrilevanza dell’astio intercorrente in senso inverso; ai fini in esame non interessa dunque la presentazione di denunce, esposti o ricorsi, provenienti dall’imputato, nei confronti del giudice; del resto se così non fosse chiunque potrebbe precostituirsi la possibilità di avvalersi dell’istituto della ricusazione nei confronti di un giudice ‘‘scomodo’’ (32). Avverso il rigetto della dichiarazione di astensione del giudice non è esperibile alcun mezzo di impugnazione (33). Per quanto invece concerne la domanda di ricusazione del giudice (34) va ricordato che essa può essere formulata, ai sensi dell’art. 37 comma 1 c.p.p., dalle « parti », e dunque dall’imputato, dal pubblico ministero, dalla parte civile, dal responsabile civile o dal civilmente obbligato alla pena pecuniaria. Relativamente alla legittimazione del difensore delle parti private ad inoltrare la domanda di ricusazione il dettato dell’art. 38 comma 4 c.p.p., in base al quale « la dichiarazione, quando non è cusazione dei componenti di una giuria popolare — in quanto aderenti al partito socialdemocratico svedese —, nell’ambito di un processo per diffamazione a mezzo stampa concernente uno scritto pubblicato da una casa editrice la cui maggioranza delle quote azionarie apparteneva al predetto partito. (31) V. per quest’ultimo aspetto Cass., sez. II, 2 dicembre 1993, Montagner, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 258; Cass., sez. I, 27 marzo 1992, Neri, in Cass. pen., 1993, p. 1487, n. 876; Cass., sez. I, 1o febbraio 1988, De Stefano, ivi, 1989, p. 410, n. 416, annotata da S. RAMAJOLI, La ricusazione del giudice: presupposti, condizioni e motivi, con specifico riferimento alle ipotesi di « inimicizia personale » nel procedimento, con cui si è affermato che le ragioni di grave inimicizia devono « rinvenirsi in fatti personali, anteriori ed estranei al procedimento e alla sua conduzione ». (32) S. RAMAJOLI, La ricusazione del giudice, cit., p. 414. (33) Cass., sez. III, 10 ottobre 1996, Montini Trotti, in Cass. pen., 1998, p. 536, n. 292. (34) In ordine al « carattere rigorosamente formale, sia per quanto attiene l’allegazione di prove e documenti che per quanto riguarda il termine ed il modo di presentazione », della domanda di ricusazione v. Cass., sez. II, 22 febbraio 1992, Lagostena, in Cass. pen., 1992, p. 2120, n. 1140.
— 1373 — fatta personalmente dall’interessato, può essere proposta a mezzo del difensore o di un procuratore speciale » ha dato luogo ad interpretazioni non univoche. All’impostazione volta a sostenere che in tal caso « il difensore può fungere solo da nuncius, ossia presentare in cancelleria la dichiarazione di ricusazione formulata e sottoscritta dal suo assistito » (35) si è infatti contrapposta la tesi secondo cui la dichiarazione di ricusazione « può essere proposta in via autonoma anche dal difensore non munito di mandato speciale » (36). Sul punto è infine intervenuta una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, volta a stabilire che il giudice può essere ricusato soltanto dalla parte, « per cui è da escludere un’autonoma parallela legittimazione del difensore il quale, pur potendo validamente proporre l’atto di ricusazione, deve avere indefettibilmente ricevuto a tale fine apposito mandato, anche se non necessariamente nelle forme della procura speciale; infatti, in considerazione del dato testuale ricavabile dall’art. 38.4 c.p.p., che menziona separatamente il difensore ed il procuratore speciale, attribuendo così rilievo al rapporto fiduciario fra il professionista ed il cliente, il primo non è tenuto a documentare i suoi poteri con una procura avente i requisiti ed il contenuto di quella prevista dal combinato disposto degli artt. 122 e 38.4, ultima parte, c.p.p. » (37). Parimenti controversa è risultata la questione concernente l’individuazione dei soggetti ai quali deve essere dato avviso dell’inoltro della dichiarazione di ricusazione, onde permetterne la partecipazione all’udienza camerale, fissata ai sensi dell’art. 41 comma 3 c.p.p. È stato affermato che la dichiarazione di ricusazione innesterebbe un subprocedimento al quale sarebbe interessato soltanto il soggetto ricusante (38); alla luce di detta impostazione si è esclusa la nullità della decisione non preceduta dall’avviso al coimputato del ricusante (39). In senso contrario si è invece sostenuto che « proposta da una parte processuale la dichiarazione di ricusazione, il procedimento conseguente coinvolge tutte le altre parti, che hanno interesse a far valere il proprio punto di vista per conseguire il mutamento, o l’intangibilità del giudice, secondo che condividano, o no, i motivi addotti dal ricusante », in quanto (35) Cass., sez. II, 22 febbraio 1992, Lagostena, cit.; analogamente Cass., sez. I, 30 settembre 1993, Platania, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 258; Cass., sez. I, 7 luglio 1992, Vianale, in Cass. pen., 1994, p. 1285, n. 778. (36) Cass., sez. VI, 21 gennaio 1993, Ceruti, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 75. (37) Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, Battaggia, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 57; in tal senso, successivamente, Cass., sez. VI, 16 ottobre 1995, Vitalone, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1355, con nota di T. TREVISSON LUPACCHINI. (38) Cass., sez. VI, 17 marzo 1997, Ferretti, in Gazz. giur., 1997, n. 37, p. 29. (39) Cass., sez. II, 6 ottobre 1992, Rossi, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 461.
— 1374 — la procedura di ricusazione « con il richiamo all’art. 127 evidenzia il coinvolgimento di tutte le parti nel procedimento incidentale » (40). A questa seconda soluzione ha mostrato di aderire la dottrina, che ha rilevato come « al diritto di una parte a veder estromesso dal giudizio un certo magistrato potrebbe contrapporsi un opposto interesse delle controparti e, ove parte ricusante sia l’imputato, magari anche di eventuali coimputati, a non veder modificate nel corso della vicenda penale la scelta e la costituzione del giusdicente » (41). La questione s’inserisce in un contesto più ampio, che coinvolge tra l’altro anche l’accertamento dei poteri spettanti al magistrato fatto oggetto di una richiesta di ricusazione. Si è affermato che costui non sarebbe legittimato ad impugnare la decisione relativa alla ricusazione, essendo principio fondamentale dell’ordinamento processuale che il giudice non possa essere nello stesso tempo parte, nè divenire controinteressato rispetto alle istanze delle parti private, in quanto portatore di esigenze personali, da far valere in sede di gravame (42). Simile impostazione non appare peraltro accettabile, essendo contrastante con il disposto dell’art. 127 c.p.p. (43), ed è stata successivamente abbandonata dalla stessa giurisprudenza, che ha osservato come il codice attribuisca al giudice fatto oggetto della dichiarazione di ricusazione « il ruolo di parte nel relativo procedimento camerale: come tale, lo fa destinatario della comunicazione dell’ordinanza che decide nel merito, proprio al fine di poter proporre ricorso », evidenziando che tale magistrato « è un giudice che vede contestata da una parte del processo la sua imparzialità di giudizio, sicchè è logico che diventi a sua volta parte nel procedimento incidentale di ricusazione e possa per conseguenza ricorrere contro la decisione di merito » (44). I termini indicati dall’art. 38 c.p.p. per la proposizione della ricusa(40) Cass., sez. I, 15 ottobre 1996, Priebke, cit. (41) T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione, cit., p. 221. (42) Cass., sez. VI, 23 aprile 1993, Rotunno, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 102. (43) V. sul punto T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione, cit., p. 226 e 227: « il giudice ricusato è legittimato al ricorso. Infatti, il primo comma dell’art. 127 stabilisce che la data dell’udienza vada comunicata, oltre che alle parti, anche alle ‘‘altre persone interessate’’, successivamente il comma settimo attribuisce la legittimazione a proporre ricorso per cassazione, contro la decisione, a tutti i soggetti indicati al primo comma. Posto che nel procedimento di ricusazione, al di là delle parti del procedimento principale, soggetto interessato è soltanto il giudice, sembra potersi desumere dalla lettera della legge, che il ricusato non solo possa interloquire come contraddittore necessario, ma che sia anche legittimato ad impugnare l’ordinanza che dichiari fondata la ricusazione, così che risulta perfettamente delineato il suo ruolo di parte, nella vicenda di ricusazione »; per ulteriori considerazioni al riguardo v. M. COLAMUSSI, Astensione e ricusazione del giudice: in comune solo la ratio, in Cass. pen., 1998, p. 549. (44) Cass., sez. III, 10 ottobre 1996, Montini Trotti, cit.
— 1375 — zione sono perentori, con decadenza dal potere di formulare la relativa domanda, in caso di loro inosservanza. Comunque, al fine di permettere la ricusazione anche in relazione a situazioni inizialmente ignote alle parti, l’art. 38 comma 3 c.p.p. ammette che in tal caso la dichiarazione possa essere proposta entro tre giorni dal momento in cui la causa di ricusazione sia sorta o sia divenuta nota. Qualora ciò si verifichi durante l’udienza la dichiarazione di ricusazione deve comunque essere proposta prima del termine dell’udienza stessa. Al riguardo, con un’interpretazione antiletterale, si è tentato di sostenere che la domanda di ricusazione potrebbe essere formulata fino al momento della chiusura del dibattimento (45); tale impostazione è stata peraltro contestata da una parte della dottrina, che ha sottolineato come il termine « udienza » valga in tal caso ad indicare l’unità giornaliera di lavoro (46). L’eventuale revoca della dichiarazione di ricusazione « non produce effetti giuridici, perchè il relativo procedimento è previsto a tutela dell’interesse pubblico alla retta amministrazione della giustizia, e pertanto, una volta attivato, deve necessariamente concludersi con l’accertamento dell’esistenza o meno del motivo di ricusazione prospettato » (47). Circa la possibilità di ricusare l’intero collegio la giurisprudenza e la dottrina dominanti hanno osservato come l’istituto in esame appaia utilizzabile nei confronti dei singoli magistrati, e non rispetto all’organo giudicante valutato nel suo complesso (48), conformemente del resto alle indicazioni offerte dal dettato dell’art. 37 c.p.p., caratterizzato « dall’uso costante del termine ‘‘giudice’’ preceduto dall’articolo determinativo o indeterminativo, e mai dalle parole ‘‘organo’’ o ‘‘collegio’’ » (49). È invece possibile formulare richieste di ricusazione nei confronti dei vari magistrati componenti il collegio, purchè considerati singolarmente. Anche successivamente alla dichiarazione di ricusazione il giudice è facoltizzato a continuare a compiere qualunque atto del procedimento (e non soltanto quelli urgenti), risultantandogli tuttavia preclusa la possibilità di pervenire a sentenza. Ai sensi dell’art. 41 comma 2 c.p.p. il giudice competente a pronunciarsi sulla ricusazione può comunque disporre con ordinanza che il magistrato nei cui confronti risulti pendente una domanda di ricusazione sospenda temporaneamente ogni attività proces(45) Cass., sez. I, 13 novembre 1992, Durante, in Giur. it., 1994, II, c. 13. (46) F. CORDERO, Procedura penale, IV Ed., Milano, 1998, p. 177; T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione, cit., p. 235. (47) Cfr. G. GARUTI, Sub art. 38 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda-G. Spangher, Milano, 1997, p. 193. (48) Cass., sez. IV, 30 aprile 1993, Cuccurullo, in Cass. pen., 1994, p. 1285, n. 779; in dottrina T. TREVISSON LUPACCHINI, op. cit., p. 181 ss. (49) T. TREVISSON LUPACCHINI, op. loc. cit.
— 1376 — suale o si limiti al compimento degli atti urgenti; trattasi « di una decisione discrezionale di natura cautelare, evidentemente basata non solo sulla consistenza e sulla fondatezza dei motivi di ricusazione, ma anche sul possibile concreto pregiudizio che possa derivare all’istante dal prosieguo del procedimento principale; sempre nel quadro, però, dell’interesse a non bloccare l’attività giurisdizionale con provvedimenti talora inutili quanto odiosi » (50). Circa l’impossibilità per il giudice ricusato di pronunciare sentenza, onde evitare che un uso strumentale e distorto dell’istituto possa finire con il paralizzare a tempo indeterminato le istanze di giustizia e con l’impedire la conclusione del processo la sent. n. 10 del 1997 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 37 comma 2 c.p.p. « nella parte in cui, qualora sia riproposta la dichiarazione di ricusazione, fondata sui medesimi motivi, fa divieto al giudice di pronunciare o concorrere a pronunciare la sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione » (51). Ai sensi dell’art. 40 comma 3 c.p.p. non è ammessa la ricusazione dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione; tale impostazione, volta ad evitare una dilatazione del ricorso all’istituto in esame, è stata peraltro non a torto fatta oggetto di rilievi critici, essendosi osservato che essa determina una compressione delle garanzie offerte alla parte pregiudicata: « la preoccupazione di un uso dilatorio o, comunque, improprio, dell’istituto, che forse ha ispirato la norma, non può giustificare una scelta tanto drastica da risolversi, in concreto, nell’impossibilità di un raggiungimento dello scopo per il quale lo strumento è stato congegnato: inutile chiedere l’esclusione di un giudice, non estraneo agli interessi della parte avversa, ad un altro giudice altrettanto parziale » (52). Secondo la giurisprudenza dominante, preoccupata di evitare che l’istituto della ricusazione venga utilizzato per finalità meramente strumentali, alla dichiarazione di ricusazione consegue, in via automatica, la sospensione dei termini della custodia cautelare, secondo la previsione del(50) G. SPANGHER, Soggetti, cit., p. 29. (51) Corte cost., sent. 23 gennaio 1997, n. 10, in Cass. pen., 1997, p. 1305, n. 790; per alcune significative osservazioni in ordine all’ambito di detta pronuncia (ed in particolare circa il fatto che essa non vale a scongiurare tutti i possibili abusi ipotizzabili in materia, quali la reiterazione di dichiarazioni di ricusazione da parte dei diversi coimputati o la proposizione di distinte ricusazioni nei confronti dei vari giudici componenti il collegio) cfr. V. GREVI, Un freno all’uso distorto della richiesta di rimessione a tutela dell’« efficienza » del processo penale: la parziale illegittimità dell’art. 47 comma 1 c.p.p. (con un corollario sulla correlativa illegittimità dell’art. 37 comma 2 c.p.p. in tema di ricusazione), ivi, 1997, p. 1287. (52) T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione del giudice, cit., p. 170.
— 1377 — l’art. 304 comma 4 c.p.p., in collegamento con il comma 1 lett. a) dello stesso articolo (53). È stato peraltro obiettato che in tal modo si finisce con lo scoraggiare ingiustamente il ricorso a tale istituto, e si è affermato che la soluzione corretta sarebbe invece quella volta a rimettere al giudice chiamato a pronunciarsi sulla ricusazione non solo la valutazione concernente l’eventuale sospensione di ogni attività processuale, ex art. 41 comma 2 c.p.p., ma anche quella relativa alla sospensione dei termini di custodia cautelare (54). Il provvedimento che accoglie la dichiarazione di ricusazione (soggetto a ricorso per cassazione) dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato conservano efficacia. Questa disposizione viene generalmente considerata un’espressione del principio di conservazione degli atti processuali. In caso invece di rigetto della domanda di ricusazione, la parte privata che l’abbia proposta può essere condannata, ai sensi dell’art. 44 c.p.p., al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma di denaro. La condanna, come chiaramente emerge dal dettato della norma, non si ricollega automaticamente al rigetto della domanda, ma discende da una valutazione discrezionale, che deve ovviamente tener conto degli elementi che hanno giustificato l’inoltro della domanda di ricusazione. La previsione in oggetto, finalizzata a scongiurare la diffusione abnorme di domande di ricusazione, non si applica al p.m. che, in quanto organo pubblico, in caso di formulazione di un’istanza di ricusazione palesemente infondata risulta comunque assoggettabile ad un provvedimento disciplinare. Alla condanna della parte privata, ai sensi dell’art. 44 c.p.p., può poi far seguito un’autonoma iniziativa giudiziaria del giudice ricusato, per il risarcimento dei danni morali causati dalla dichiarazione di ricusazione. 5. Gli effetti della normativa sul giudice unico. — La Corte costituzionale, con la sent. n. 131 del 1996, aveva sottolineato che il cammino tracciato dalle varie pronunce di illegittimità in chiave additiva, volte ad ampliare l’area dell’incompatibilità, « chiamavano alle proprie responsabilità gli altri organi costituzionali, i quali avrebbero dovuto porvi rimedio, con appropriati interventi e riforme di ordine normativo ed organizzativo ». Al riguardo la legge-delega 16 luglio 1997, n. 254, in tema di istituzione del giudice unico di primo grado, ha previsto una modifica dell’art. 7-ter dell’ordinamento giudiziario, onde realizzare la diversificazione sog(53) Cass., sez. I, 19 giugno 1997, Cannatella, in Cass. pen., 1998, p. 2999, n. 1624. (54) I. FRIONI, Istanza di ricusazione e sospensione dei termini di custodia cautelare: l’ennesimo conflitto tra efficienza e garanzie auspica il risveglio del legislatore, in Cass. pen., 1998, p. 3004.
— 1378 — gettiva tra il giudice per le indagini preliminari ed il giudice per l’udienza preliminare. Come osservato in sede di Relazione illustrativa al decreto legislativo recante « Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado » (55) le strade astrattamente percorribili al riguardo erano due, potendosi o separare tabellarmente le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare « considerandoli come uffici diversi », o « sancire semplicemente l’obbligo di differenziare la persona che si occupa delle indagini da quella che procede all’udienza preliminare nell’ambito del singolo procedimento ». Con l’art. 6 del decreto legislativo 19 febbraio 1998 n. 51 è stata adottata questa seconda soluzione (56) che dovrebbe permettere, come osservato nella Relazione, di ridurre le difficoltà organizzative, dando la possilità di realizzare un’adeguata ripartizione dei compiti, per cui chi svolge le funzioni di g.i.p. in un procedimento potrà poi svolgere quelle di g.u.p. in un altro (57). Tale criterio appare d’altra parte pienamente idoneo a rispondere « all’esigenza di estendere al giudice dell’udienza preliminare l’assoluta terzietà già propria del giudice del dibattimento (l’udienza preliminare ne trae senz’altro maggiore dignità, risultando esaltata, con l’assoluta garanzia del giudizio proveniente da un giudice che non ha mai conosciuto di quel procedimento, la sua funzione istituzionale di filtro tra le indagini preliminari ed il giudizio vero e proprio » (58). L’art. 171 del citato decreto legislativo (59) ha poi inciso sul testo dell’art. 34 c.p.p., prevedendo l’inserimento del comma 2-bis, in base al quale « il giudice che nel medesimo procedimento ha esercitato funzioni di giudice per le indagini preliminari non può emettere il decreto penale di condanna, né tenere l’udienza preliminare; inoltre, anche fuori dei casi previsti dal comma 2, non può partecipare al giudizio ». (55) L’estratto di tale Relazione è riportato in Gazz. uff., 20 marzo 1988, n. 66, Suppl. ord. n. 2. (56) Nella Relazione illustrativa al decreto legislativo recante: « Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », cit., p. 8, si rileva che tale soluzione è apparsa preferibile « non soltanto perchè maggiormente in linea con la lettera delle legge delega, ma anche per ragioni di ordine sostanziale, afferenti segnatamente alla necessità di rafforzare gli uffici del giudice per le indagini preliminari (cui non sarebbe consentanea la rigida distinzione tra giudici per le indagini preliminari e giudici dell’udienza preliminare); all’esigenza di assicurare una razionale ripartizione dei carichi di lavoro (altrimenti ostacolata dalla discontinuità del flusso dei fascicoli dall’ufficio del pubblico ministero); all’opportunità, infine, di utilizzare al meglio la professionalità dei magistrati (certamente impoverita e svilita dalla radicale separazione delle due funzioni) ». (57) V. sul punto C. RIVIEZZO, Giudice unico di primo grado, Milano, 1998, p. 193. (58) F. PASI-L. RICCOMAGNO, Modifiche all’ordinamento giudiziario per l’istituzione del giudice unico, in Dir. pen. proc., 1998, p. 547; per ulteriori rilievi al riguardo v. G. SPANGHER, Processo penale da adeguare all’istituzione del giudice unico, ivi, 1998, p. 681. (59) Per un’analisi di tale norma cfr. C. RIVIEZZO, Giudice unico di primo grado. Commento al d.lg. n. 51 del 1998, in Gazz. giur., 1998, suppl. al n. 13, p. 72.
— 1379 — Si è così ulteriormente ampliata l’area delle incompatibilità (60), in omaggio a considerazioni già formulate all’epoca dell’elaborazione dell’attuale codice, ma che non avevano trovato una concreta traduzione normativa. In effetti già la Commissione parlamentare in sede di Parere definitivo sul codice di procedura penale aveva espresso numerose perplessità circa la partecipazione al giudizio del magistrato che abbia in precedenza emesso un provvedimento nel corso delle indagini preliminari concernenti lo stesso procedimento, e nella Relazione al testo definitivo era stata sottolineata la fondatezza di simili perplessità (61). Tali considerazioni erano peraltro state ritenute subvalenti rispetto all’esigenza di garantire la funzionalità dell’apparato giudiziario, particolarmente nelle piccole sedi, ove maggiori appaiono i problemi provocati dall’incremento delle cause di incompatibilità. È quasi superfluo sottolineare la valenza dell’attuale intervento normativo. Per quanto concerne in particolare il divieto posto a carico del g.i.p. di esercitare nell’ambito dello stesso procedimento le funzioni di giudice per l’udienza preliminare va rilevato con soddisfazione come in tal modo risultino rafforzate « le garanzie di neutralità del momento di ‘‘filtro’’ » rappresentato dall’udienza preliminare (62). L’accresciuto rilievo dell’udienza preliminare, a seguito della modifica dell’art. 425 c.p.p. ad opera della l. n. 105 del 1993, confermava del resto l’assoluta necessità della previsione di un’incompatibilità al riguardo. Ad esempio, nell’ipotesi della cosiddetta « imputazione coatta », delineata dall’art. 409 comma 5 c.p.p., in mancanza di una simile previsione l’udienza preliminare risulta svuotata di ogni effettivo significato, traducendosi in un inutile dispendio di energie processuali; il suo esito infatti è scontato a priori, non essendo seriamente credibile che lo stesso magistrato, dopo aver valutato i risultati delle indagini preliminari, individuando la sussistenza di circostanze tali da imporre la formulazione dell’imputazione, contraddica poi a distanza di pochi giorni le proprie precedenti analisi, smentendosi così clamorosamente, e giunga ad affermare, con una sentenza di non luogo a procedere, che dagli elementi presi in esame emerge l’insussistenza del fatto o l’estraneità al reato da parte dell’imputato. Il diritto di difesa subisce così una palese compromissione, giacchè le argomentazioni volte a sostenere la necessità di una pronuncia di non luogo a procedere non possono non ricalcare quelle già sviluppate (60) V. le considerazioni di R. BRICCHETTI, « Consacrata » l’incompatibilità tra g.i.p. e g.u.p., in Guida dir., Dossier mensile, Il giudice unico di primo grado, 1998, n. 3, p. 161. (61) Relazione testo def. c.p.p., in Gazz. uff., 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 169. (62) Cfr. G. SPANGHER, Processo penale da adeguare all’istituzione del giudice unico, loc. cit.
— 1380 — nell’udienza camerale disposta ex art. 409 comma 2 c.p.p., ritenute purtuttavia insufficienti nel caso concreto a suffragare la richiesta di archiviazione e ad evitare l’instaurazione dell’azione penale, attraverso il meccanismo dell’imputazione coatta. Come è stato acutamente osservato, se il g.i.p. respinge la richiesta di archiviazione, ordinando al p.m. di formulare l’imputazione, l’udienza, qualora non venga delineata un’ipotesi di incompatibilità, finisce per svolgersi « in un clima davvero singolare, in una dimensione quasi comica », giacchè il giudice, chiamato a decidere imparzialmente tra il rinvio a giudizio e l’emissione di una sentenza di non doversi procedere, appare « in realtà a priori orientato verso il rinvio, dato il rifiuto opposto al pubblico ministero di archiviare la notizia di reato » (63). 6. Le conseguenze derivanti dalla verificazione di una causa di incompatibilità. — Nell’esaminare gli effetti processuali conseguenti alla configurazione delle varie ipotesi di incompatibilità, si può osservare, in via di prima approssimazione, come in materia si fronteggino tesi contrastanti fra loro. Secondo l’orientamento assolutamente prevalente in giurisprudenza, e ribadito dalle stesse Sezioni Unite della Cassazione (64), le cause di incompatibilità non incidono sui requisiti di capacacità del giudice e non determinano alcuna nullità, potendo essere rimosse soltanto mediante il ricorso agli istituti dell’astensione e della ricusazione (a sostegno di tale impostazione viene rilevato infatti che tutte le cause di incompatibilità sono state contemplate come motivi di astensione e di ricusazione). Una parte della dottrina ha peraltro obiettato che un giudice « incompatibile rispetto ad una concreta vicenda processuale, ancorchè investito della giurisdizione, in quello specifico caso non la può esercitare, indipendentemente da ciò che ritengano le parti, alla cui volontà non può essere condizionata l’attitudine a giudicare, la quale, riflettendosi sulla costituzione dell’organo giudicante, è materia indisponibile per dettato costituzionale » (65). Si assiste dunque alla contrapposizione fra una soluzione volta a considerare l’incompatibilità come requisito negativo della capacità del giudice, tale da determinare una nullità assoluta di ordine generale, e l’opposto orientamento secondo cui l’astensione e la ricusazione sarebbero gli unici rimedi atti ad evitarne la configurazione. (63) P. FERRUA, Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini preliminari e nell’udienza preliminare, in ID., Studi sul processo penale, vol. I, Torino, 1990, p. 64-65; in tal senso v. altresì G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, II Ed., Torino, 1996, p. 42. (64) Cass., sez. un., 17 aprile 1996, D’Avino, in Cass. pen., 1996, p. 2507, n. 1420. (65) T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione del giudice nel processo penale, cit., p. 105.
— 1381 — L’esigenza di garantire un principio cardine quale quello dell’imparzialità del giudice sembrerebbe imporre una tutela processuale più pregnante di quella affidata esclusivamente alle determinazioni, seppur vincolate, del soggetto direttamente coinvolto, e cioè del giudice incompatibile, tenuto ad astenersi, o alla volontà delle parti, facoltizzate alla dichiarazione di ricusazione. Non può essere considerato particolarmente rilevante ai fini in esame il fatto che il legislatore abbia delineato il concetto di capacità in un Capo topograficamente separato ed autonomo rispetto a quello dedicato alle cause di incompatibilità ed ai motivi di astensione e di ricusazione. La semplice collocazione sistematica non permette infatti di giungere ad alcuna conclusione certa (66). Analogamente deve escludersi che possa assumere una valenza decisiva la ricomprensione tra le cause di astensione e ricusazione non solo delle incompatibilità delineate dal codice di procedura penale, ma anche di quelle disciplinate dalle norme di ordinamento giudiziario. L’espressa riconduzione di tutte le incompatibilità fra le cause di astensione o di ricusazione non implica la volontà di escludere la previsione di ulteriori strumenti processuali. Cerchiamo di analizzare con maggiore analiticità le argomentazioni volte a sostenere la tesi secondo cui l’astensione e la ricusazione sarebbero gli unici rimedi nei confronti della verificazione di una causa di incompatibilità. Come già accennato, a supporto di detta conclusione si osserva che l’art. 33 c.p.p., disciplinando la capacità del giudice in un Capo a sè stante, e delineandola come nozione a portata generale, sembrerebbe ricollegarla esclusivamente alle disposizione di ordinamento giudiziario. Tale lettura dell’art. 33 c.p.p. conduce peraltro in più di un’ipotesi a soluzioni del tutto insoddisfacenti, se non addirittura paradossali. Si faccia il seguente caso: secondo il disposto dell’art. 41 comma 2 c.p.p. una volta presentata la richiesta di ricusazione la corte od il tribunale può disporre che il giudice sospenda temporaneamente ogni attività processuale, o si limiti al compimento degli atti urgenti; se, ciò nonostante, il giudice ricusato disattendesse la sovracitata previsione normativa, tale comportamento, al di là degli innegabili risvolti in chiave disciplinare ed eventualmente anche penale, risulterebbe allora improduttivo di dirette conseguenze giuridiche, proprio perchè, non essendo vietato da alcun articolo dell’ordinamento giudiziario, non renderebbe « incapace » il giudice. Solo in caso di eventuale acquisizione di prove potrebbe scattare la sanzione dell’inutilizzabilità, di cui all’art. 191 c.p.p., collegata alla violazione dei divieti di legge. (66) Come giustamente osservato da F. CORDERO, Procedura penale, IV Ed., Milano, 1998, p. 171: « le posizioni topografiche non sono norme ».
— 1382 — Non si potrebbe d’altra parte fare riferimento al meccanismo predisposto dal secondo comma dell’art. 42 c.p.p., in base al quale, come già osservato, nel provvedimento che accoglie la domanda di astensione o di ricusazione viene dichiarato se ed in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia; tale previsione infatti, sicuramente riferibile a tutte le ipotesi di ricusazione non interessate dal disposto di cui al secondo comma dell’art. 41 c.p.p., nonchè ai casi in cui, essendo stata imposta la limitazione delle attività processuali del magistrato ricusato al solo compimento degli atti urgenti, si tratti di valutare se gli atti successivamente compiuti rivestissero o meno carattere di urgenza, non concerne la tematica in esame, non essendo ipotizzabile alcun « salvataggio » di quanto effettuato in violazione del provvedimento di sospensione di ogni attività processuale. Analogamente non si vede come potrebbe essere risolto, se non ammettendo che l’incapacità discenda anche dalla violazione di norme del codice di procedura penale, l’impasse derivante dalla mancanza di un espresso richiamo alla sanzione della nullità in relazione all’ipotesi di cui all’art. 42 comma 1 c.p.p. Detto comma infatti prevede che, qualora la dichiarazione di astensione o di ricusazione venga accolta, il giudice non possa più compiere alcun atto del procedimento, ma nulla dice in ordine alle eventuali conseguenze derivanti dalla violazione di questa norma, a differenza di quanto invece stabiliva al riguardo il primo comma dell’art. 70 c.p.p. 1930, che comminava espressamente la nullità. Trattandosi di comportamenti successivi al provvedimento di accoglimento delle dichiarazioni di astensione o di ricusazione, dette conseguenze non sarebbero eliminabili mediante il ricorso al secondo comma dell’art. 42 c.p.p., che concerne esclusivamente gli atti compiuti prima dell’accoglimento della domanda di astensione o di ricusazione (67). Non potendosi peraltro ritenere che non vi sia alcuna norma processuale che impedisca la protrazione di tale anomala condotta da parte del giudice è necessario operare un richiamo al concetto di capacità. Si faccia parimenti l’ipotesi del giudice che, in violazione dell’art. 37 comma 2 c.p.p., abbia emesso la sentenza successivamente alla dichiarazione di ricusazione nei suoi confronti ed anteriormente all’emissione della pronuncia volta ad accogliere o rigettare la ricusazione stessa. Se si sostiene che il caso in esame non configura un vizio di capacità e non determina una nullità assoluta, non risultando delineato dalle norme di ordinamento giudiziario bensì dalle prescrizioni contenute nel codice di rito, non si può evitare l’insorgenza di conseguenze assolutamente inaccetta(67) Cfr., circa la sorte di detti atti, G. DI CHIARA, Astensione e ricusazione del giudice: il regime degli « atti precedentemente compiuti » tra « vecchio » e « nuovo » codice, in Giur. mer., 1991, II, p. 589 ss.
— 1383 — bili. Al riguardo la stessa dottrina volta a sostenere l’impostazione sovradelineata è costretta a rilevare come sia « privo di una risposta soddisfacente il quesito relativo al vizio della sentenza medesima, ove non si configuri una nullità assoluta per carenza del potere giurisdizionale nel giudice ricusato » (68). Anche in tal caso, essendo già stata emessa la sentenza, non appare utilizzabile il disposto del secondo comma dell’art. 42 c.p.p., volto ad attribuire al giudice chiamato a decidere sull’astensione o sulla ricusazione il compito di dichiarare quali atti precedentemente compiuti dal magistrato astenutosi o ricusato conservino efficacia. Inoltre la tesi diretta a negare che l’incompatibilità del giudice determini una causa di nullità finisce per ricollegare ad una simile ipotesi conseguenze processuali di portata inferiore rispetto a quelle previste per l’incompatibilità di altri soggetti partecipanti al processo. Basterebbe ricordare che l’incompatibilità del perito configura una nullità, ai sensi del combinato disposto degli artt. 222 lett. d) e 197 c.p.p. Tutt’altro che decisive appaiono d’altra parte le ulteriori considerazioni addotte per avvalorare questo orientamento. In particolare non possono certo essere ritenute risolutive al riguardo le seguenti opinioni espresse in sede di Relazione al progetto preliminare: « si è molto discusso, in seno alla Commissione, se nell’incompatibilità debba vedersi la mancanza di un requisito di capacità del giudice o un caso di astensione e ricusazione e si è infine optato per la seconda tesi » (69). Dubbi ancora maggiori suscita peraltro la tesi volta ad individuare nelle incompatibilità delle cause di nullità relativa. Essa non riesce infatti a superare l’obiezione in base alla quale il principio di tassatività delle nullità esclude, nell’ipotesi in esame, caratterizzata dall’assenza di una previsione specifica, la possibilità di individuare una «terza rispetto all’alternativa tra la conclusione diretta ad escludere ogni nullità e quella volta a ricollegare alla sussistenza delle incompatibilità una nullità assoluta. Un ulteriore orientamento ipotizza una nullità in relazione alle sole incompatibilità delineate dall’ordinamento giudiziario; si afferma che l’art. 33 c.p.p., facendo riferimento alle norme di ordinamento giudiziario per delimitare il concetto di incapacità, non potrebbe non ricomprendere in tale ambito anche gli artt. 18 e 19 ord. giud., mentre escluderebbe le disposizioni attinenti all’incompatibilità contenute nel codice di procedura penale. Viene sostenuto che, stante l’assenza di previsioni normative di segno contrario, il riferimento operato alle condizioni di capacità previste dall’ordinamento giudiziario riguarda, oltre ai requisiti positivi, richiesti (68) T. RAFARACI, Sub art. 37 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, Torino, 1989, p. 210. (69) Rel. prog. prel. c.p.p., cit., p. 19.
— 1384 — per consentire l’esercizio del potere giurisdizionale, anche quelli negativi, la cui assenza è parimenti necessaria per non impedire tale esercizio (70). Questa impostazione presta peraltro il fianco ad una critica di fondo. Appare difficile sostenere che l’eventuale differenza di trattamento tra le incompatibilità previste dal codice di procedura penale e quelle delineate dall’ordinamento giudiziario sarebbe giustificata dalla diversa natura delle due categorie di incompatibilità. Se si raffronta l’art. 35 c.p.p. con l’art. 19 ord. giud. risulta evidente l’analogia di ratio e la sostanziale affinità di contenuto tra le due norme. Non si riesce pertanto a comprendere perchè alla sola incompatibilità delineata dall’art. 19 ord. giud., e non anche a quella prevista dalla norma codicistica, vada ricollegata la sanzione della nullità. Si prenda ad esempio l’ipotesi in cui magistrati legati fra loro da un rapporto di parentela esercitino nello stesso procedimento identiche funzioni, essendo componenti dello stesso collegio giudicante. Trattasi di un caso rientrante sia nel disposto dell’art. 19 ord. giud. che in quello dell’art. 35 c.p.p. Peraltro, poichè l’art. 19 comma 3 ord. giud. estende fino al quarto grado l’incompatibilità nei confronti dei parenti ed affini che facciano parte come giudici dello stesso collegio, laddove l’art. 35 c.p.p. limita detta incompatibilità al secondo grado per i magistrati che esercitino nello stesso procedimento funzioni anche separate o diverse, paradossalmente nelle ipotesi meno significative, in quanto caratterizzate da un legame parentale non particolarmente stretto, e cioè di terzo o quarto grado, si dovrebbe pervenire in ogni caso all’individuazione di una causa di nullità — trattandosi di situazioni rientranti unicamente sotto la previsione dell’art. 19 ord. giud. —; invece per il legame di parentela od affinità di primo o secondo grado non si saprebbe se ricollegare all’incompatibilità la sola conseguenza dell’astensione e della ricusazione (essendo l’ipotesi prevista da una norma codicistica, quale appunto l’art. 35 c.p.p.), od anche la sanzione della nullità, poichè una simile vicenda rientra comunque nell’ambito dell’art. 19 ord. giud. Evidenti appaiono le perplessità al riguardo, giacchè « se si dovesse negare il ricorso al difetto di capacità, si giungerebbe all’assurdo di aver previsto la ricusazione per la relazione più stretta (primo e secondo grado) e l’accesso alla sanzione di nullità per mancanza di capacità se il legame è di terzo o quarto grado » (71). Indubbiamente la maggior garanzia di tutela del canone dell’imparzialità del giudice sarebbe offerta dalla tesi volta a ritenere cause di nullità assoluta, in quanto concernenti i requisiti di capacità del giudice (tradu(70) E. ZAPPALÀ, Sub art. 33 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, p. 188. (71) M.V. FOSCHINI, Il principio di tassatività delle cause di incompatibilità e le ipotesi « sopravvenute », in Cass. pen., 1990, I, p. 1234.
— 1385 — cendosi in altrettante cause di non-capacità), tutte le ipotesi di incompatibilità, siano esse previste dall’ordinamento giudiziario o dal codice di procedura penale. L’imparzialità del magistrato, in quanto canone coessenziale alla stessa funzione giudiziaria, non può tradursi semplicemente in « un potere d’invalidazione rimesso alla scelta delle parti interessate » o « all’adempimento di quell’obbligo di dichiarazione che fa capo allo stesso giudice incompatibile » (72). Del resto l’analisi delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo evidenzia come il principio di imparzialità del giudice non rientri « nella disponibilità delle parti interessate » (73); conseguentemente il nostro Paese rischia di essere condannato per violazione dell’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo (74), qualora non si abbandoni l’orientamento secondo cui le cause di incompatibilità non configurerebbero alcuna nullità e, in caso di mancata astensione, andrebbero fatte valere solo con la ricusazione; infatti, secondo l’impostazione accolta dalla giurisprudenza italiana, l’imparzialità sembra poter essere considerata alla stregua di « un valore disponibile » (75). Va comunque osservato come in materia sarebbe necessaria una diversa e più chiara formulazione legislativa (76). Alla luce dell’attuale previsione, la stessa tesi volta a ravvisare la sussistenza di una nullità nelle ipotesi in esame può dar luogo a dubbi interpretativi. Si deve infatti riconoscere la fondatezza del rilievo secondo cui il disposto dell’art. 41 comma 2 c.p.p., volto a prevedere come semplice eventualità la sospensione dell’attività processuale del giudice astenutosi o ricusato, parrebbe dimostrare che, potendo nelle altre ipotesi il magistrato proseguire nello svolgimento della propria ordinaria attività giurisdizionale, questi « continua a mantenere la sua capacità » (77). D’altra parte l’art. 42 comma 2 stabilisce che in caso di accoglimento della dichiarazione di astensione o di ricusazione bisogna dichiarare se ed in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o (72)
T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione del giudice nel processo penale, cit., p.
105. (73) O. MAZZA, La proliferazione delle incompatibilità è giunta al capolinea?, in Dir. pen. proc., 1996, p. 980-981. (74) G. UBERTIS, Verso un « giusto processo » penale, Torino, 1997, p. 61; in tal senso v. altresì G. INZERILLO, Il difficile equilibrio tra diritto al « giusto processo » e valore dell’imparzialità del giudice penale nelle sentenze della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1998, p. 1306 e 1308. (75) V. i puntuali rilievi critici di N. GALANTINI, Principio della conservazione degli atti e incompatibilità del giudice, cit., p. 585. (76) P.P. RIVELLO, L’incompatibilità del giudice penale, Milano, 1996, p. 515 ss. (77) S. PATANÈ, Requisiti per la nomina a giudice popolare ed incompatibilità: concetti da non confondere, in Giust. pen., 1993, III, c. 173.
— 1386 — ricusato conservino efficacia: poichè tra le ipotesi di astensione e di ricusazione vi sono anche le incompatibilità, dovrebbe affermarsi che tale regime vale anche nei loro confronti, e la conservazione di efficacia degli atti compiuti dal giudice incompatibile sembrerebbe smentire la tesi della nullità. Inoltre, accogliendo la tesi in base alla quale tutte le incompatibilità determinano una causa di nullità, si dovrebbe ricomprendere in questo ambito anche le ipotesi di nullità di cui agli artt. 16 e 17 ord. giud. Trattasi peraltro di vicende, concernenti il rapporto di servizio del magistrato, che risultano palesemente estranee alla tematica dell’incapacità; negare detta estraneità significherebbe accettare, in relazione ad ogni processo, l’alea di imprevedibili futuri accertamenti volti ad individuare, ad esempio, l’effettuazione da parte del magistrato di incarichi extragiudiziari non consentiti. Va sicuramente escluso che una simile circostanza possa condurre ad una conseguenza devastante come quella della nullità di tutti gli atti compiuti da tale magistrato. dott. PIER PAOLO RIVELLO
INTERROGATORIO IN VINCULIS DELL’IMPUTATO: TRA ISTANZE DI DIFESA, ESIGENZE DI GARANZIA, RAGIONI DI ACCERTAMENTO
SOMMARIO: I. Premessa. — II. Le regole generali degli artt. 64 e 65 c.p.p. — III. Le finalità ‘‘probatorie’’ delle misure cautelari. — IV. La funzione specifica degli interrogatori in vinculis dell’imputato; gli interrogatori condotti da un organo giurisdizionale super partes: a) l’interrogatorio disciplinato dall’art. 294 c.p.p.; b) l’interrogatorio in sede di procedimento modificativo od estintivo delle misure cautelari e di proroga della custodia cautelare: gli artt. 299, comma 3-ter, c.p.p. e 301, comma 2-ter, c.p.p.; c) l’interrogatorio in sede di udienza di convalida dell’arresto o del fermo; d) l’interrogatorio disciplinato dagli artt. 421, comma 2, c.p.p. e 422, comma 3, c.p.p. in sede di udienza preliminare. — V. L’« audizione » della persona in vinculis in sede di riesame delle misure coercitive e di appello delle misure cautelari. — VI. Gli interrogatori in vinculis condotti dal pubblico ministero. — VII. Le sommarie informazioni della polizia giudiziaria. — VIII. Le novità della l. 16 luglio 1997, n. 234. — IX. Le contraddizioni interne al sistema: ovvero sulla diversità, anche psicologica, della difesa dell’imputato in vinculis. — X. L’incidenza dei vizi della volontà. — XI. Gli artt. 503, comma 5 e 6, c.p.p., e 513, comma 1, c.p.p. — XII. La valenza probatoria della confessione e della ritrattazione. — XIII. Considerazioni conclusive.
I. Premessa. — Il poliedrico ruolo dell’imputato, alternativamente considerato come organo di difesa o ‘‘mezzo’’ di prova in relazione all’utilizzo degli istituti lato sensu cautelari, rappresenta da sempre l’espressione più significativa del difficile equilibrio raggiunto o raggiungibile dai rapporti tra autorità e libertà (1). Tradizionalmente si afferma che in un sistema a carattere inquisitorio l’imputato è visto come depositario della verità, da ‘‘spremere’’ ad ogni costo (2), anche esercitando nei suoi confronti poteri di coercizione personale e morale e di conseguenza che l’interrogatorio è inteso come strumento probatorio (3). (1) A. GIARDA, Persistendo ‘l reo nella negativa, Milano, 1980, p. 5 ss.; V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, Milano, 1972, p. 40 ss. e p. 47 ss. Più di recente F. PERONI, Precisazioni in tema di diritto al silenzio ed impiego delle misure cautelari per esigenze probatorie, in Cass. pen., 1993, p. 1183; O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia probatoria, in questa Rivista, 1994, p. 822 ss. (2) F. CORDERO, Proc. pen., 9a ed., Milano, 1987, p. 19. (3) V. GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’imputato, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale as-
— 1388 — Per converso, un sistema accusatorio attribuisce all’imputato il diritto a tacere e a rifiutare la propria collaborazione: il che si risolve nel divieto per l’autorità procedente di ricorrere a misure coercitive, anche indirette, allo scopo di ottenere dichiarazioni confessorie, e nella necessità di considerare l’interrogatorio un mezzo di difesa. Ciò non toglie che l’imputato possa, per sua scelta, ammettere la propria responsabilità (confessione), o rendere comunque dichiarazioni sul fatto proprio (espressioni di autodifesa) o diventare testimonio in senso stretto mediante dichiarazioni sul fatto altrui (chiamata in reità o in correità) (4). Il nuovo codice di rito, chiamato ad ‘‘attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio’’ (5), si è avviato su quest’ultima strada, conformandosi a quei diritti riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali dei diritti dell’uomo (in primis il diritto di difesa, la libertà inviolabile, la presunzione di innocenza), che presuppongono e implicano un imputato liberamente operante nella dialettica delle parti e non soggetto alla potestà di imperio (6). Il legislatore, però, non ha saputo percorrere fino in fondo tale strada. Come è stato dimostrato da indagine storica (7), basata su documenti di prima mano, non si è mai riusciti a fare a meno dell’apporto ‘‘testimoniale’’ dell’imputato per il conseguimento della verità materiale, ‘‘fine primario ed ineludibile del processo penale’’ (8). Ed anche l’attuale codice, ad un esame attento della disciplina, non si sottrae alla stessa tentazione soprattutto dopo le sentenze n. 24, 254 e setto delle indagini preliminari, Milano, 1995, p. 10 ss.; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. UBERTIS, Milano, 1992, p. 80; M. NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, p. 78. Sotto il vecchio codice vedi fra gli altri: O. CAMPO, Interrogatorio dell’imputato, in Enc. dir., vol. XXII, Milano, 1972, p. 334; G.D. PISAPIA, Compendio di procedura penale, 3a ed., Padova, 1982, pp. 19 ss. e 248 ss.; A. BUZZELLI, Sull’interrogatorio dell’imputato, in Riv. dir. proc., 1972, p. 464 ss. (4) Sul significato di tali distinguo vedi A. GIARDA, sub art. 210, in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, Milano, 1997, p. 775 ss.; ID., Le ‘‘novelle’’ di una notte di mezza estate, in AA.VV., Le nuove leggi penali. Abuso d’ufficio, dichiarazioni del coimputato, videoconferenze giudiziarie, Padova, 1998, p. 137 ss. (5) Così l’art. 2, comma 1, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81. (6) R.E. KOSTORIS, sub art. 1 l. n. 332/1995, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, p. 41; ID., sub artt. 64-65, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. I, Torino, 1989, p. 327. (7) A. GIARDA, Persistendo ‘l reo nella negativa, cit.; vedi ID., Praxis criminalis, Milano, 1994, p. 21. (8) Così, in particolare, Corte cost., sent. 24-26 marzo 1993, n. 111. Vedila pubblicata in questa Rivista, 1994, p. 1057, con nota di P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale. Per un ulteriore commento A. GIARDA, Astratte modellistiche e principi costituzionali del processo penale, in Praxis criminalis, cit., p. 528.
— 1389 — 255 del 1992 della Corte costituzionale e le modifiche legislative intervenute con la l. 7 agosto n. 356 dello stesso anno, che hanno determinato una vera e propria involuzione inquisitoria (9). La riforma in materia di misure cautelari e diritto di difesa operata dalla l. n. 332 del 1995 e le recenti novelle legislative (l. n. 234 e n. 267 del 1997) hanno cercato di riportare il sistema all’originaria ispirazione accusatoria, ma, come è stato correttamente affermato, quando esso ‘‘subisce... manipolazioni che incidono sul suo patrimonio genetico, qualsiasi novellazione settoriale, che non sia teleologicamente orientata, reca gli inconfondibili segni della precarietà ed ambiguità’’ (10) e contribuisce, inevitabilmente, ad accentuare le contraddizioni già esistenti. Emblematica è, al riguardo, la disciplina dell’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato in vinculis, all’interno della quale coesistono, in modo forse inconciliabile, da un lato funzioni di difesa, di controllo e di garanzia, dall’altro funzioni tipicamente probatorie. II. Le regole generali degli artt. 64 e 65 c.p.p. — Una prima scelta di campo operata dal legislatore in materia emerge dall’applicabilità generale delle regole previste dall’art. 64 c.p.p., valevoli, come confermato dalla Relazione al progetto preliminare (11), per ‘‘ogni atto di indagine [...] che, per quanto non tecnicamente denominabile interrogatorio, comporti domande all’indiziato e all’imputato’’. Attraverso tale norma (e l’articolo immediatamente successivo) il legislatore ha inteso dare attuazione alla direttiva contenuta nell’art. 2 n. 5 della legge delega n. 81/1987 di disciplinare l’interrogatorio essenzialmente come strumento di difesa (12). Il che è avvenuto, in primis, con il riconoscimento all’imputato del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere, di cui al comma 2 del(9) P. FERRUA, Anomarfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, II, Torino, 1992, p. 157 ss.; G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della Corte costituzionale nella motivazione della sent. n. 255 del 1992, in Giur. cost., 1992, p. 1973; G.P. VOENA, Investigazione ed indagini preliminari, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 264 ss. (10) Così, seppure con specifico riferimento alla riforma del 1995, G. GIOSTRA, Problemi irrisolti e nuove prospettive per il diritto di difesa: dalla registrazione delle notizie di reato alle indagini difensive, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, a cura di V. GREVI, Milano, 1996, p. 182. (11) Relazione prog. prel. c.p.p. in G.U., 24 ottobre 1988, n. 200, suppl. ord. n. 2, p. 32. (12) La dottrina sul punto è unanime: vedi, fra gli altri, R.E. KOSTORIS, sub artt. 64 e 65 c.p.p., cit., p. 327; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, cit., p. 87; O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di effiicacia probatoria, cit., p. 826 ss.; G.P. VOENA, I soggetti, in AA.VV. Profili del nuovo codice di proc. pen., a cura di G. CONSO-V. GREVI, 5a ed., Padova, 1996, p. 79.
— 1390 — l’art. 64 c.p.p. (13), e la correlativa previsione dell’obbligo per l’autorità procedente di renderlo edotto di tale facoltà (14). È la consacrazione nell’attuale sistema processuale, in modo analogo a quanto previsto nel codice Rocco dall’art. 75, comma 3, c.p.p., novellato dalla l. 5 dicembre 1969, n. 932, del principio nemo tenetur se detegere (15), espressione fra le più significative di quel diritto di autodifesa, che trova il suo fondamento nell’art. 24, comma 2, della Costituzione e che è radicato nella considerazione di non colpevolezza sancita dall’art. 27, comma 2, della Carta fondamentale (16). Inoltre il diritto al silenzio è al centro della nozione stessa di processo giusto, quale scaturisce dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (17), e trova un suo riconoscimento formale nell’art. 14 comma 3 lett. g) del Patto internazionale dei diritti civili e politici, il quale stabilisce che ogni individuo accusato di un reato ha diritto a ‘‘non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole’’ (18). Il principio de quo rimarrebbe una formula vuota, se non fosse garan(13) R.E. KOSTORIS, sub artt. 64 e 65 c.p.p., cit., p. 329. Sotto il vecchio codice V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, cit., p. 61 ss.; E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione, in Riv. dir. proc., 1974, p. 408 ss. (14) L’omesso avvertimento è causa di nullità a regime intermedio ai sensi degli artt. 178 lett. c) e 180 c.p.p., incidendo sul diritto di difesa dell’imputato. La dottrina al riguardo è pressoché unanime. Vedi per tutti: N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 342 ss. Conforme di recente Cass., Sez. I, 18 luglio 1997 (c.c. 20 giugno 1997), Masone, in CED, 208597. La giurisprudenza prevalente, però, degrada il vizio a mera nullità relativa o irregolarità. V. Cass., Sez. II, sent. 9 ottobre 1992 (c.c. 19 giugno 1992), Capasso, in CED, 193122; Cass., Sez. VI, sent. 9 gennaio 1992 (c.c. 12 novembre 1991), Marino ed altri, in CED, 188836. (15) In materia rimane fondamentale l’opera di V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, cit., a cui si rinvia per ogni approfondimento. (16) Vedi, fra gli altri, V. GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’imputato, cit., p. 12. (17) Corte eur. dir. uomo, 8 febbraio 1996, John Murray c. Gran Bretagna, in La leg. pen., 1997, p. 215, con nota di C. MAINA, Riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul diritto al silenzio, ivi, p. 189 ss. (18) In generale M. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969; E. AMODIO, La tutela della libertà personale dell’imputato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 1967, p. 884 ss.; M. PISANI, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e riforma del processo penale, in Foro it., 1966, V, c. 33 ss. Da ultimo vedi M. SCAPARONE, Il diritto di difesa dell’imputato nella costituzione e nelle convenzioni internazionali, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Milano, 1997, p. 23 ss.; E. MARZADURI, L’identificazione del contenuto del diritto di difesa nell’ambito della previsione dell’art. 6 n. 3 lett. c) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1997, p. 268. Per un’analisi comparatistica con il diritto inglese v. F. SIRACUSANO, Le possibili proiezioni del diritto al silenzio in Inghilterra: una messa a punto sui nuovi itinerari fissati dal ‘‘Criminal Justice and Public Order Act’’ del 1994, in La leg. pen., 1997, p. 445.
— 1391 — tita, allo stesso tempo, la libertà morale dell’interrogato e la capacità di autodeterminarsi dello stesso (19). A tal fine, l’art. 64, comma 1, c.p.p., espressione dell’art. 13 della Costituzione (20), attribuisce in primo luogo all’imputato, ‘‘anche se detenuto o in stato di custodia cautelare’’, il diritto a intervenire libero all’interrogatorio, salvo eventuali cautele necessarie a prevenire il pericolo effettivo di fuga o di violenza, a garanzia della libertà sul piano fisico che è condicio sine qua non della libertà sul piano morale (21). In secondo luogo il comma 2 dell’art. 64 c.p.p. introduce il divieto assoluto di utilizzare, anche in presenza del consenso della persona interrogata, ‘‘metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti’’. Ci troviamo di fronte ad un principio generale del sistema (22), il quale, prima ancora che ricondursi al diritto di autodifesa, si annovera fra i diritti inviolabili della persona, garantiti dall’art. 2 della Costituzione (23): l’interrogatorio dell’imputato è atto caratterizzato dalla ‘‘volontarietà naturale’’ (24), espressione necessaria di una scelta libera, spontanea e cosciente (25). L’essenziale connotazione difensiva dell’istituto è confermata, per altro verso, dall’art. 65 c.p.p. L’autorità interrogante deve contestare all’imputato ‘‘in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito’’; rendere noti gli elementi di prova a lui contrari e, purché siano salvaguardate le indagini, comunicarne le fonti; infine deve invitarlo ad ‘‘esporre quanto ritiene utile per la sua difesa’’. Alla luce di queste regole si può anche convenire con chi qualifica ulteriormente l’interrogatorio quale mezzo per contestare l’imputazione, seppure provvisoria (26); ma con ciò non si aggiunge nulla alla natura difensiva dell’atto (27). (19) V. Corte europea dei dir. dell’uomo, 8 febbraio 1996, John Murray c. Gran Bretagna, cit., pp. 215 e 216. (20) M. CERESA GASTALDO, Diritto al silenzio aspettative di ‘‘collaborazione’’ dell’imputato e controlli sull’impiego della custodia cautelare, in questa Rivista, 1993, p. 1162. (21) O. DOMINIONI, sub artt. 64 e 65 c.p.p., in AA.VV., Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. AMODIO-O. DOMINIONI, vol. I, Milano, 1989, p. 402. (22) M. NOBILI, sub art. 188 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. II, Torino, 1990, p. 306. (23) In questo senso, con riferimento all’art. 188 c.p.p., Corte cost., sent. 1-19 giugno 1998, n. 229, in G.U., 1 luglio 1998, I serie speciale, n. 26, p. 72 ss. Per un commento v. D. POTETTI, Note in tema di sequestro avente ad oggetto appunti predisposti a fini difensivi, in Cass. pen., 1999, p. 817 ss. (24) O. DOMINIONI, sub artt. 64 e 65 c.p.p., cit., p. 402. (25) R.E. KOSTORIS, sub artt. 64 e 65 c.p.p., cit., p. 327. (26) O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia probatoria, cit., p. 844; O. DOMINIONI, sub artt. 64 e 65 c.p.p., cit., p. 406. (27) Rimangono valide le osservazioni di V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, cit., p. 129, nota 174.
— 1392 — Il suddetto obbligo di informazione, dall’angolo prospettico di chi interroga, rappresenta una regola minimale volta a consentire all’imputato l’autodifesa (28). Da tale considerazione scaturisce la necessità, al di là di qualsiasi richiamo espresso, di applicare l’art. 65 c.p.p. a tutti i modelli di interrogatorio e, specificatamente, a tutti gli interrogatori in vinculis dell’imputato (29). L’esercizio del diritto al silenzio diventa, poi, strategia difensiva consapevole proprio nel momento in cui l’imputato viene a conoscenza dell’addebito mossogli e degli elementi probatori raccolti dal pubblico ministero. Se, pertanto, è da escludersi un obbligo per l’autorità procedente di esporre in ogni caso all’imputato le fonti di prova, al fine di salvaguardare l’interesse preminente dell’attività di indagine (30), occorre ritenere indefettibile, per il resto, il dovere di comunicazione di cui all’art. 65, commi 1 e 2, c.p.p. (31). Due i corollari: tale obbligo deve essere assolto prima che l’imputato si avvalga della facoltà di non rispondere (32); lo stesso imputato non è tenuto ad esercitare tale facoltà subito dopo il relativo avvertimento, ma anche in seguito e con riferimento a singole domande (33). III. Le finalità ‘‘probatorie’’ delle misure cautelari. — È in relazione all’utilizzo degli istituti cautelari e, in particolare, della custodia cautelare in carcere che sussiste il pericolo di attuare una vera e propria coazione fisica e psicologica nei confronti dell’imputato, al fine di indurlo a rendere dichiarazioni confessorie. È uno degli aspetti più delicati della materia che ne occupa, e riguardo al quale si registra spesso una vera e propria divergenza tra scelte formali e prassi del foro. L’art. 274, comma 1, lett. a), c.p.p., che è, sul punto, la norma cardine del sistema, è chiaro: la misura cautelare può essere disposta in quanto ‘‘sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova’’ (34). (28) In questo senso richiamato dal GREVI (vedi nota precedente) G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, II, Napoli, 1961, p. 249 ss. (29) V., però, la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di sommarie informazioni della polizia giudiziaria, infra, par. VII. (30) Cass., Sez. I, 18 gennaio 1994, De Tursi, in Cass. pen., 1995, p. 3420, con nota di S. LORUSSO, Interrogatorio della persona sottoposta alle indagini preliminari e comunicazioni delle fonti di prova. (31) O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia probatoria, cit., pp. 843 e 844. (32) O. DOMINIONI, sub artt. 64 e 65 c.p.p., cit., p. 404. (33) Vedi per tutti, G. UBERTIS, Intervento, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari, cit., p. 149. (34) Cfr., da ultimo, G. SPANGHER, sub art. 274, in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 1025 ss.; E. MARZADURI, sub
— 1393 — Al di là del ricorso del legislatore, nella norma novellata dalla l. n. 332 del 1995, ad un’aggettivazione ridondante (35), si evince, in via immediata, l’intento di ricondurre ad una rigorosa discrezionalità vincolata, il potere giurisdizionale di limitare la libertà personale dell’imputato per finalità probatorie (36). Particolarmente significativo è, poi, il fatto che il legislatore, per la prima volta, abbia esplicitato princìpi interni al sistema (37): l’esigenza cautelare deve sussistere in relazione ai fatti per i quali si procede, ed il periculum libertatis non si può ricavare dall’eventuale rifiuto dell’imputato di rendere dichiarazioni o di riconoscere gli addebiti (38). Si è così rimarcato con forza, come le misure cautelari non possano essere utilizzate a fini ‘‘esplorativi’’ e che il silenzio dell’imputato, in quanto diritto costituzionalmente garantito, debba risultare processualmente ‘‘neutro’’; non può fondare, perciò, nessun tipo di esigenza cautelare e giustificare provvedimenti restrittivi della libertà personale (39). E sempre con questo fine evidente, si è voluto ribadire nell’art. 274, comma 1, lett. a), c.p.p. l’obbligo, già contenuto nell’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p. di indicare in modo espresso nel provvedimento cautelare, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, le circostanze di fatto poste a integrare il pericolo di inquinamento delle prove. Da più parti si è sottolineato la natura ‘‘didascalica’’ (40) di queste norme; la volontà di lanciare un messaggio inequivocabile agli operatori art. 274 c..p.p., in AA.VV., Commento al codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, 3o agg., Torino, 1998, p. 147 ss. (35) G. ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari e procedimento applicativo, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, cit., p. 76. (36) E. AMODIO, I presupposti delle misure, in AA.VV., Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, a cura di E. AMODIO, Milano, 1995, p. 11; L. D’AMBROSIO, Brevi osservazioni sugli articoli della l. 8 agosto 1995, n. 332, in Dir. pen. proc., 1995, p. 1169. (37) V. GREVI, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995, n. 332 tra istanze garantistiche ed esigenze del processo, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, cit., p. 8; G. ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari e procedimento applicativo, cit., p. 77. Vedi ad es. prima della riforma M. SCAPARONE, La libertà personale, in AA.VV., Il codice di procedura penale: esperienze, valutazioni, prospettive, Milano, 1994, p. 115. (38) È chiaro che il principio vale anche per le ‘‘esigenze cautelari’’, di cui alle lett. b) e c) dell’art. 274. Vedi sempre, fra gli altri, G. ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari e procedimento applicativo, cit., p. 81 ss. In giurisprudenza Cass., Sez. II, 16 aprile 1996 (c.c. 27 marzo 1996), Papagna, in CED, 204747. (39) La dottrina è unanime sul punto. Vedi, per tutti, V. GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’imputato, cit., pp. 15 e 16. La giurisprudenza, a volte, invece, si è espressa in modo discutibile. Ad es. Cass., 18 agosto 1992, Schiavone, in Cass. pen., 1993, p. 1507; Id., 25 gennaio 1993, Damiani, ivi, 1994, p. 2491. (40) G. ILLUMINATI, Commento all’art. 3, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, cit., p. 68.
— 1394 — pratici di evitare ‘‘rigorosamente ogni strumentalizzazione delle misure cautelari — ed in particolare della custodia cautelare — a finalità di stimolo ad una partecipazione attiva dell’imputato’’, e un ‘‘utilizzo delle cautele a scopi, più o meno direttamente, estorsivi di confessioni’’ (41). Non è, però, con queste regole che si evita di fatto tale distorsione applicativa. La collaborazione dell’imputato, attraverso il riconoscimento della responsabilità propria o di altri, se non può fondare, può, senza alcun dubbio, far venir meno o attenuare le esigenze cautelari già esistenti (42); ma il confine ‘‘tra irrilevanza del silenzio e rilevanza della collaborazione è sottile’’ (43). La sequela che spesso si verifica (carcerazione, confessione, rimessione in libertà) fa sorgere più di un dubbio sull’effettivo rispetto del principio nemo tenetur se detegere; verità che, ben difficilmente, troverà riscontro nelle motivazioni delle ordinanze restrittive (44). Non è poi richiedendo una specificità, forse esasperata, delle stesse (45), che si evita all’imputato di subire la pressione psicologica, derivante dallo stato di restrizione della libertà personale. Più utile, in questa prospettiva, è l’introduzione, fra l’altro, dell’art. 141-bis c.p.p., con il quale il legislatore ha stabilito di documentare ‘‘ogni interrogatorio di persona che si trovi, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione, e che non si svolga in udienza [...], con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva’’ (46). Ci troviamo, sicuramente, di fronte ad un istituto, volto quanto meno (41) Così Rel. prog. prel. c.p.p., in G.U., 24 ottobre 1988, suppl. ord. n. 2, p. 72. (42) Corte cost., sent. 14 ottobre-5 novembre 1996, n. 384, in Giur. cost., 1996, p. 3534; su tale decisione più ampiamente infra, par. IV, sub lett. a) e lett. c). In dottrina, per una limpida analisi del problema, V. GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale, cit., p. 15 ss.; F. PERONI, Precisazioni in tema di diritto al silenzio ed impiego delle misure cautelari per esigenze probatorie, cit., p. 1189 ss.; P. FERRUA, Poteri istruttori del pubblico ministero e nuovo garantismo: un’inquietante convergenza degli estremi, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, cit., p. 264 ss. (43) Così P. FERRUA, loc. ult. cit. (44) V., fra gli altri, E. MARZADURI, Quale rimedio è invocabile dinanzi a prove costituite da dichiarazioni rese sotto la pressione della custodia in carcere in atto o annunciata da inequivoci precedenti giudiziari?, in Crit. dir., 1995, p. 59. (45) Al riguardo leggi G. GIOSTRA, Sul vizio di motivazione dell’ordinanza cautelare, ovvero sul degrado della tecnica legislativa, in Cass. pen., 1995, p. 2428. (46) Per un commento in generale vedi R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 2, cit., p. 53 ss; L. BRESCIANI, sub art. 141-bis, in AA.VV., Commento al codice di procedura penale, coord. da CHIAVARIO, 3o agg., cit., p. 98 ss.; V. SGROMO, sub art. 141-bis, in AA.VV., Cod. proc. pen. commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 525 ss.; M. BARGIS, La riproduzione fonografica o audiovisiva prescritta dall’art. 141-bis c.p.p.: distinzioni interpretative in ordine al concetto di interrogatorio, in Cass. pen., 1998, p. 1662 ss.; P.P. RIVELLO, La struttura, la documentazione e la traduzione degli atti, in Trattato di procedura penale, diretto da G. UBERTIS-G.P. VOENA, Milano, 1999, p. 172 ss.
— 1395 — a scoraggiare nella prassi un utilizzo ‘‘improprio’’ degli istituti cautelari; davanti ad un presidio posto a tutela della libertà morale della persona in vinculis sottoposta ad interrogatorio e della genuinità delle sue dichiarazioni (47). Occorre, però, rilevare, anche in questo caso, gravi limiti. Intanto la tutela apprestata dall’art. 141-bis c.p.p. vale durante lo svolgimento dell’interrogatorio (48); ‘‘mentre eventuali pressioni indebite, eventuali « trattative » per fornire versioni « concordate » dei fatti potrebbero aver luogo prima di quel momento’’ (49) e anche con riferimento a quegli interrogatori che si svolgono in udienza (50); in generale poi la persona in stato di restrizione della libertà personale si trova di fatto in una situazione di inferiorità psicologica e di sostanziale compressione della capacità di autodeterminarsi (51). IV. La funzione specifica degli interrogatori in vinculis dell’imputato, gli interrogatori condotti da un organo giurisdizionale super partes: a) l’interrogatorio disciplinato dall’art. 294 c.p.p. — Il legislatore e la Corte costituzionale sembrano aver assunto sempre maggiore coscienza di questi aspetti, come emerge dagli ultimi interventi, volti a ridefinire e precisare in chiave garantistica le finalità specifiche di ciascun interrogatorio dell’imputato in vinculis; anche se, in realtà, si sono accentuate contraddizioni già interne al sistema e se ne sono create di nuove. Preliminare all’individuazione di queste finalità è il distinguo tra in(47) R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 2, cit., p. 54; P.P. RIVELLO, La struttura, la documentazione e la traduzione degli atti, cit., p. 172 ss. (48) In modo discutibile non sono ricomprese nella nozione di interrogatorio di cui all’art. 141-bis c.p.p. le sommarie informazioni raccolte dalla polizia giudiziaria; v. infra, par. VII. (49) Sempre R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 2, cit., p. 55. (50) Primo fra tutti l’interrogatorio dell’arrestato o del fermato in sede di udienza di convalida ai sensi dell’art. 391, comma 2, c.p.p. Per la discutibilità di tale scelta G. CONTI, Le modalità di documentazione dell’interrogatorio nel nuovo art. 141-bis c.p.p., in Cass. pen., 1995, p. 2434; R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 2, cit., p. 58. La Corte costituzionale si è astenuta dall’affrontare la questione sollevata dal g.i.p. del Tribunale di Lucca (leggine l’ordinanza del 2 settembre 1995, in Dir. pen. proc., 1996, con nota di G. SPANGHER), escludendo il requisito della pregiudizialità e rilevanza nel giudizio a quo: Corte cost., ord. 23 febbraio 1996, in Giust. cost., 1996, p. 360. (51) Il mancato rispetto dell’obbligo di documentazione fissato dalla norma de qua determina un’inutilizzabilità assoluta, nel senso che le dichiarazioni rese durante l’interrogatorio ‘‘non potranno essere poste a supporto di alcun provvedimento coercitivo [...], né di una decisione conclusiva di uno dei riti alternativi al dibattimento, né potranno essere lette in giudizio o utilizzate per le contestazioni’’. Così R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 2, cit., p. 59. V. anche M. BARGIS, Non utilizzabili contro terzi le dichiarazioni rese in interrogatorio non documentato, in Dir. pen. proc., 1999, p. 79 ss.; P.P. RIVELLO, La struttura, la documentazione e la traduzione degli atti, cit., p.175 ss. Tale tesi è stata accolta dalle Sezioni unite della Suprema Corte; v. Cass., Sez. un., 30 giugno 1998 (c.c. 25 marzo 1998), Savino, in Gazz. giur. Giuffrè, n. 32, 1998, p. 51 ss.
— 1396 — terrogatori condotti da un organo giurisdizionale super partes ed in particolare dal giudice delle indagini preliminari e interrogatori condotti dal pubblico ministero (52). Fra i primi il modello più significativo è, senza alcun dubbio, rappresentato dall’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p. (53), al quale è sottoposto l’indagato-imputato, a seguito di applicazione di una misura cautelare, nel termine di cinque o dieci giorni dall’esecuzione del provvedimento, a seconda che si tratti, rispettivamente, di custodia cautelare in carcere o altra misura. In relazione a tale istituto occorre soffermarsi, da ultimo, sulle sentenze 24 marzo-3 aprile 1997, n. 77 (54) e 10-17 febbraio 1999, n. 32 (55), con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità, proprio dell’art. 294 c.p.p. (oltre che dell’art. 302 c.p.p.), prima ‘‘nella parte in cui non prevede[va]’’ che, ‘‘fino alla trasmissione degli atti al giudice del dibattimento’’ e poi ‘‘fino all’apertura del dibattimento’’, il giudice proceda all’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere; occorre, inoltre, analizzare la l. 21 aprile 1999, n. 109 (56), di conversione con modificazioni del d.l. 22 febbraio 1999, n. 29 (57) che ha modificato sempre l’art. 294 c.p.p., adeguandolo alle decisioni del Giudice delle leggi. (52) Cfr. S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato, cit., p. 89. In generale vedi V. GREVI, La garanzia dell’intervento giurisdizionale nel corso delle indagini preliminari, in AA.VV., Verso una nuova giustizia penale, Milano, 1989, p. 55 ss. (53) In materia prima della riforma del 1995 vedi: G. AMATO, sub art. 294, in AA.VV., Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. AMODIO-O. DOMINIONI, vol. III, Milano, 1990, p. 139 ss.; C. TAORMINA, Dir. proc. pen., vol. I, Torino, 1995, p. 437 ss.; G. CIANI, sub art. 294, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. III, Torino, 1990, p. 180 ss. Dopo la riforma del 1995 G. SPANGHER, sub art. 294 c.p.p., in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 1141 ss.; R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 11, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, cit., p. 145 ss.; L. BRESCIANI, Art. 11 l. 8 agosto 1995, n. 332, in La leg. pen., 1995, p. 666; ID., sub art. 294 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, 3o agg., cit., p. 254 ss.; G. MAZZI, sub art. 294 c.p.p., in AA.VV., Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina. Misure cautelari, Milano, 1998, p. 358 ss.; D. MANZIONE, sub artt. 294-302 c.p.p., in AA.VV., Commento al cod proc. pen., coordinato da M. CHIAVARIO, 4o agg., Torino, 1998, p. 47 ss. (54) Leggila in Guida al diritto, n. 15, 1997, p. 59, con nota di G. FRIGO, La Corte costituzionale estende le garanzie alla fase degli atti preliminari al dibattimento. (55) Si può leggere in Guida al diritto, n. 9, 1999, p. 23 ss., con nota di R. BRICCHETTI, Così il legislatore colma i vuoti normativi e l’interprete si ritrova con più certezze. Per ulteriori commenti v. C. SANTORIELLO, La nuova disciplina dell’interrogatorio della persona sottoposta a provvedimento cautelare. Una prima lettura, in Giur. it., 1999, p. 1256 ss.; F. NUZZO, L’estensione dell’interrogatorio di garanzia per l’imputato in vinculis, in Cass. pen., 1999, p. 1728 ss. (56) Si può leggere in Dir. pen. proc., 1999, pp. 552 e 553, con commento di G. SPANGHER, Convertito il decreto legge in tema di competenza per materia ed interrogatorio di garanzia. (57) Si può leggere sempre in Dir. pen. proc., 1999, pp. 274 e 275, con commento di
— 1397 — Innanzi tutto i dicta di queste ultime pronunce, che non potevano travalicare i limiti delle questioni sollevate dai giudici a quibus, riguardano la sola ipotesi di restrizione prevista dall’art. 285 c.p.p. (58) È indubbio, però, che i princìpi espressi nelle motivazioni hanno un’importante valenza di sistema e vanno ben al di là degli specifici casi esaminati. Secondo la Consulta, l’intervento di un organo giurisdizionale super partes, all’interno del procedimento applicativo delle misure cautelari, è essenziale ‘‘a prescindere dalla fase procedimentale in cui la privazione dello status libertatis [dell’indagato-imputato] è avvenuta’’, e non più, pertanto, nella sola fase delle indagini preliminari come inizialmente richiesto dal codice di rito. Tale intervento rappresenta il momento imprescindibile, nel quale il giudice deve verificare, in conformità al dettato normativo, la sola sussistenza o permanenza dei presupposti di applicazione delle misure cautelari, al fine, eventualmente, di revocarle o sostituirle, anche d’ufficio; una verifica indispensabile, in quanto non sempre è ‘‘collegata al contesto indiziario a carico, assumendo particolare rilievo le esigenze cautelari [il corsivo è nostro] che, proprio in forza delle dichiarazioni dell’imputato, potrebbero assumere una più limitata valenza fino a determinare il giudice a rimettere l’imputato in libertà ovvero ad applicare nei suoi confronti una misura meno gravosa’’ (59). Per altro verso, in virtù di un’altra importante decisione della Corte costituzionale — la sentenza n. 71/1996 (60) — anche la valutazione richiesta dall’art. 273 c.p.p. non è ‘‘assorbita’’ dall’emissione del decreto che dispone il giudizio (a fortiori dalla richiesta di rinvio a giudizio), il quale comporta, in particolare in presenza di un quadro probatorio insufficiente o contraddittorio, una delibazione orientata in modo esclusivo alla necessità del dibattimento. Solo la pronuncia di una sentenza che vada ad incidere profondamente nel merito preclude al giudice di riconsiderare, dopo aver sentito la persona in vinculis, anche il quadro indiziario. L’interrogatorio disciplinato dall’art. 294 c.p.p. assume, in questo modo, oltre all’essenziale e generale connotazione difensiva, come comprovato dal richiamo espresso degli artt. 64 e 65 c.p.p., una tipica funG. SPANGHER, Le nuove disposizioni sulla competenza per materia e l’interrogatorio di garanzia. (58) Cfr. V. BONINI, La Corte costituzionale e la centralità dell’ ‘‘interrogatorio di garanzia’’ nella disciplina delle misure cautelari personali, in La leg. pen., 1997, p. 863 ss. (59) Così sempre Corte costituzionale, n. 77/1997, cit., p. 66. (60) Corte cost., sent. 7 marzo-15 marzo 1996, n. 71, in Giur. cost., 1996, p. 669 ss., con nota di L. SCOMPARIN, La rivalutabilità dei gravi indizi di colpevolezza dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio: una sentenza additiva che riscopre alcuni capisaldi del rito penale. I Giudici della Consulta con tale pronuncia hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 309 e 310 c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede[vano] la possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nell’ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio a norma dell’art. 429 dello stesso codice’’.
— 1398 — zione di controllo e di garanzia (61) valida per tutto l’arco del procedimento. Sennonché fondamentale, al riguardo, è la precisazione, rispetto alla sentenza n. 77/1997, contenuta nella decisione n. 32/1999. L’espletamento dell’atto di cui si discute ‘‘presuppone che non sia stata ancora instaurata la fase del giudizio che, per i suoi caratteri essenziali di pienezza del contraddittorio e per l’immanente presenza dell’imputato, assorbe la stessa funzione dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 comma 1: senza contare che il giudice del dibattimento, quale giudice che « attualmente » potrà procedere all’esame dell’imputato in vinculis su ogni elemento dell’imputazione e sulle condizioni legittimanti lo status custodiae, ha in ogni momento della fase la possibilità di verificare sia la legittimità dello status sia la permanenza delle condizioni che determinano l’adozione della misura custodiale’’. Evidente la volontà, espressa dalla Consulta, di garantire l’immediato contatto dell’imputato con un organo giurisdizionale super partes in fasi del procedimento, quali quella ricompresa tra la richiesta di rinvio a giudizio e l’udienza preliminare, ovvero l’emissione del decreto di cui all’art. 429 c.p.p. e la dichiarazione di apertura del dibattimento, contraddistinte da termini ordinatori incerti e spesso lunghi; chiara la convinzione che questo problema non si ponga nel ‘‘giudizio’’. Ma proprio questa considerazione, sottesa all’ultima declaratoria di illegittimità della Corte, non è pienamente da accogliere. Il dibattimento, con le sue garanzie, al più potrebbe assorbire la funzione dell’interrogatorio de quo nel caso in cui si esaurisca in un’unica udienza. Ci si dimentica, però, in questo modo, dei processi caratterizzati da una pluralità di imputati e da innumerevoli imputazioni, che si protraggono a lungo nel tempo senza che la persona in vinculis abbia la possibilità di essere sentito. Non pare condivisibile, inoltre, l’assimilabilità dell’« esame » all’atto disciplinato dall’art. 294 c.p.p. L’ « esame » è incentrato sul meritum causae ed è rimesso all’iniziativa di parte. Per converso, come correttamente affermato dalla stessa Corte costituzionale nella precedente sentenza n. 77/1997 rispetto alla quale si è ‘‘aggiustato il tiro’’, il contenuto, l’obbligatorietà e la perentorietà dei termini di svolgimento (il cui mancato rispetto porta alla caducazione per lo meno della sola custodia cautelare in carcere ex art. 302 c.p.p.) (62), rendono l’atto di cui si discute del tutto (61) La dottrina è unanime; v., fra gli altri, R.E. KOSTORIS, sub art. 11, cit., p. 145 ss.; G. LOZZI, Lezioni di proc. pen., 2a ed., Torino, 1997, p. 263. In generale sulla funzione di controllo e di garanzia del g.i.p. v. M. FERRAIOLI, Il ruolo di ‘‘garante’’ del giudice per le indagini preliminari, Padova, 1993; F. RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia nelle indagini preliminari, Milano, 1996. (62) Per un commento di tale norma e delle problematiche ad essa connesse v. G. SPANGHER, sub art. 302, in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A.
— 1399 — peculiare e infungibile con qualsiasi altro interrogatorio dell’indagato-imputato (63). Assolutamente da apprezzare ed evidenziare come la ‘‘matrice’’ dell’interrogatorio che ne occupa è rinvenuta, finalmente in modo espresso dal Giudice delle leggi nelle sentenze de quibus, nelle Carte internazionali (64) e, specificatamente, nell’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nell’art. 9 del Patto internazionale dei diritti civili e politici, che garantiscono in ogni caso il diritto a chiunque sia in stato di restrizione della libertà personale, ad ‘‘essere tradotto al più presto dinanzi a un giudice’’, per una verifica sulla legalità della cautela adottata. La Consulta, nella decisione 10-17 febbraio 1999, n. 32, aveva rimesso alla discrezionalità del legislatore individuare modalità e termini di effettuazione dell’interrogatorio di garanzia, per lo meno nella nuova fase processuale di svolgimento dell’atto e si imponeva, in ogni caso, un intervento. La l. 21 aprile 1999, n. 109, di conversione con modificazioni del d.l. 22 febbraio 1999, n. 29 (65), ne rappresenta la pronta attuazione. Da un lato, realizzando correttamente le indicazioni di carattere sistematico elaborate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, si è finalmente stabilito che l’indagato-imputato sottoposto a misura cautelare (66) debba essere sentito entro cinque o dieci giorni fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento. Dall’altro si è fissato che ‘‘quando la misura cautelare è stata disposta dalla corte di assise o dal tribunale, all’interrogatorio procede il presidente del collegio o uno dei componenti da lui delegato’’ (67). GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 1202 ss. V. anche G. INZERILLO, Reiterazione di misure custodiali e contraddittorio, in Giur. it., 1999, p. 1478. (63) G. DI CHIARA, Nota a sent. n. 77/1997 della Corte cost., in Foro it., 1997, I, c. 978; V. BONINI, La Corte costituzionale e la centralità dell’interrogatorio di garanzia, cit., p. 865. In particolare la Corte costituzionale individua gli elementi peculiari dell’interrogatorio di garanzia rispetto ad altre possibili ‘‘audizioni’’ di persona in stato di restrizione della libertà personale e precisamente gli interrogatori previsti dagli artt. 421, comma 2, c.p.p., 309, comma 8, c.p.p., 299, comma 3-ter, c.p.p. Per l’analisi della relativa disciplina vedi infra, par. IV, sub lett. b) e d) e par. V. (64) La dottrina sul punto è unanime: v., fra gli altri, M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, Torino, 1990, p. 164; R.E. KOSTORIS, sub art. 11, cit., p. 145. (65) I due provvedimenti legislativi si possono leggere sempre, rispettivamente, in Dir. pen. proc., cit., p.p. 552 ss. e 274 ss. (66) Cfr. G. DI CHIARA, Nota a Corte cost. n. 32/1999, in Foro it., 1999, I, c. 740. (67) Pare utile evidenziare che nel d.l. n. 29/1999 la competenza a svolgere l’interrogatorio di garanzia nella nuova fase era affidata al presidente del collegio giudicante o ad uno dei componenti da lui delegato. Si erano così create due possibilità: o si ammetteva che tale organo potesse chiedere di visionare il fascicolo degli atti di indagine, con il rischio di introdurre una nuova situazione di incompatibilità; o si ammetteva la sola possibilità per lo stesso giudice di fondare l’interrogatorio, con scarsa utilità pratica, sugli atti del fascicolo per il dibattimento.
— 1400 — Pervenuti gli atti al giudice del dibattimento, cessa la competenza funzionale del g.i.p. (68), che rimane in ogni caso organo deputato all’interrogatorio de quo quando si proceda per rogatoria ai sensi dell’art. 294, comma 5, c.p.p. Sono state così completate le modifiche, iniziate con la l. n. 332 del 1995, volte ad introdurre, innanzitutto, una garanzia contro forme di coartazione della volontà dell’indagato-imputato. In questa prospettiva, oltre alla previsione dell’obbligo per il giudice di interrogare la persona sottoposta a qualsiasi misura cautelare (69), si è fissata, nel caso di soggetto in stato di custodia cautelare in carcere, la priorità dell’atto che ne occupa rispetto all’interrogatorio del pubblico ministero, il quale può soltanto richiedere che venga espletato nel termine di quarantotto ore (70). Significative, poi, al fine di rendere effettivo il controllo sulla legalità della cautela adottata attraverso l’introduzione di un contraddittorio ‘‘informato’’, seppure ex post, tra le parti, appaiono le modifiche relative al procedimento applicativo dei provvedimenti restrittivi della libertà personale già nella fase preliminare. È stata, infatti, ampliata la piattaforma conoscitiva del giudice delle indagini preliminari (71). Il pubblico ministero, al momento di richiedere l’adozione della misura, ai sensi dell’art. 291, comma 1, c.p.p., deve trasmettere al g.i.p. tutti gli elementi posti a fondamento della stessa, sia quelli favorevoli che quelli contrari all’indagato, e le ‘‘eventuali deduzioni Entrambi questi rischi risultano superati nella versione definitiva. In questo senso G. SPANGHER, Convertito il decreto legge, cit., p. 552. (68) ‘‘Alla stregua del combinato disposto dell’art. 279 del codice di procedura penale e dell’art. 91 delle norme di attuazione, la competenza del giudice per le indagini preliminare nella materia de libertate non si consuma con l’emissione del decreto di cui all’art. 429 dello stesso codice, ma si protrae nella particolare fase processuale compresa tra la pronuncia del decreto che dispone il giudizio... e l’apertura della fase degli atti preliminari al dibattimento (artt. 465 ss. c.p.p.)’’. Così Corte cost., sent. n. 77/1997, cit., p. 63. V., in dottrina, A.A. DALIA- M. FERRAIOLI, Manuale di dir. proc. pen., 2a ed., Padova, 1999, pp. 287 e 288. (69) Realizzando in questo modo l’auspicio manifestato in tale senso dalla Corte costituzionale sull’originaria esclusione dell’interrogatorio con riferimento alle misure interdittive, pur dopo aver dichiarato la relativa questione infondata: Corte cost., sent. n. 5/1994 (in Cass. pen., 1994, p. 1178, con nota di V. PERCHINUNNO, Misure interdittive ed effettività del diritto di difesa, ivi, 1989). Cfr. in precedenza in dottrina F. PERONI, Le misure interdittive nel sistema delle cautele penali, Milano, 1992, p. 161. (70) L. BRESCIANI, sub art. 294 c.p.p., cit., p. 265 ss.; F. RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia, cit., p. 274. (71) Vedi, seppure in senso critico, G. GIOSTRA, Commento all’art. 8, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, cit., p. 121 ss. Un auspicio in tal senso era stato espresso con vigore dalla dottrina. V. in particolare E. ZAPPALÀ, Le garanzie giurisdizionali in tema di libertà personale e di ricerca della prova, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova, cit., p. 67 ss.
— 1401 — e memorie difensive già depositate’’ (72). La rafforzata ‘‘cognizione’’ del giudice, oltre che al momento della decisione, potrà produrre effetti positivi, ai fini che ne occupa, sotto il profilo della maggiore incisività ed efficacia del contenuto dell’interrogatorio. L’organo giurisdizionale, attraverso un’attenta conduzione dell’atto sulla base di quanto depositato, potrà e dovrà riconsiderare l’effettiva sussistenza o permanenza dei requisiti richiesti dagli artt. 273 e 274 c.p.p. In stretta correlazione, tutti gli atti che contengano gli elementi raccolti dal pubblico ministero, la richiesta e l’ordinanza applicativa della misura, ai sensi dell’art. 293, comma 3, c.p.p., sono depositati nella cancelleria del g.i.p. e messi a disposizione del difensore dell’indagato (73). Un’altra importante sentenza della Corte costituzionale (la n. 192/1997) (74), che ha dichiarato l’illegittimità di quest’ultima norma, nella parte in cui non prevede[va] la facoltà per il difensore di estrarre copia degli atti depositati in cancelleria, oltre alla facoltà di prenderne visione’’, impedendogli la materiale e diretta disponibilità degli stessi, svela le implicazioni essenziali, e spesso trascurate, di questo disposto. Solo anteriormente all’adozione, per la prima volta, di misure cautelari personali, e, in generale, solo nell’ipotesi di attuazione di provvedimenti ‘‘cautelari’’ a sorpresa (75), può giustificarsi la limitazione del diritto previsto dall’art. 24, comma 2, della Costituzione, che deriva dall’esclusione del contraddittorio anticipato. Al contrario, dopo l’esecuzione di tali provvedimenti, deve essere garantito il pieno esercizio di tale diritto, ‘‘assicurando al difensore la più (72) Per un commento alla norma v. G. SPANGHER, sub art. 291 c.p.p., in AA.VV., Codice di proc. pen. commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 1111 ss.; D. MANZIONE, sub art. 291 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., coord. da CHIAVARIO, 3o agg., cit., p. 229. (73) D. MANZIONE, sub art. 293 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, 3o agg., cit., p. 251; ID., sub art. 293 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., 4o agg., cit., p. 40 ss.; G. GIOSTRA, Commento all’art. 10, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., p. 141 ss.; M.R. MARCHETTI, sub art. 293 c.p.p., in AA.VV., Cod. proc. pen. commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 1138 ss.; V. GALBUSERA, Il procedimento applicativo, in AA.VV., Nuove norme, cit., p. 41 ss. (74) La si può leggere in questa Rivista, 1998, p. 1015 ss., con nota di A. GIARDA, Un’altra tessera di garantismo per la libertà personale dell’imputato. V. anche G. DI CHIARA, Deposito degli atti e ‘‘diritto alla copia’’: prodromi del contraddittorio e garanzie difensive in una recente declaratoria di incostituzionalità, e di G. RANALDI, ‘‘Discovery’’ completa ed effettività della difesa nei controlli ‘‘de libertate’’, in Giur. cost., 1997, p. 1883 ss.; F.M. MOLINARI, Sui rapporti tra deposito degli atti ex art. 293, comma 3, c.p.p. ed interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p., in Cass. pen., 1998 p. 3025 ss. (75) In precedenza vedi Corte cost., sent. 26 maggio-8 giugno 1994, n. 219, in Giur. cost., 1994, p. 1820 ss., con nota di A. GAITO, ‘‘Proroga’’ e ‘‘rinnovazione’’ delle misure cautelari: il problema dei modi e dei tempi del contraddittorio. In dottrina V. GREVI, Garanzie difensive e misure cautelari personali, in AA.VV., Il diritto di difesa delle indagini preliminari ai riti alternativi, cit., p. 93 ss.
— 1402 — ampia e agevole conoscenza degli elementi su cui si è fondata la richiesta del pubblico ministero, al fine di rendere attuabile un’adeguata e informata assistenza all’interrogatorio’’ della persona in vinculis, ‘‘nonché di valutare con piena cognizione di causa quali siano gli strumenti più idonei per tutelare la libertà personale del proprio assistito, dalla richiesta di riesame ovvero di revoca o sostituzione della misura alla proposizione dell’appello’’ (76). La conoscenza degli atti, fino a quel momento compiuti dall’organo dell’accusa, che deriva al difensore in virtù della previsione dell’art. 293, comma 3, c.p.p., rappresenta la sospirata realizzazione di una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una più adeguata difesa tecnica, e si ripercuote direttamente sul versante dell’autodifesa dell’indagato. Questi, attraverso l’immediato colloquio col proprio difensore, garantito, almeno formalmente, dall’art. 104 c.p.p., potrà usufruire anch’esso di una più ampia piattaforma conoscitiva, che si traduce in un incremento delle potenzialità, sotto il profilo della difesa personale, dell’istituto che ne occupa. Non bisogna, poi, dimenticare come ai sensi dell’art. 38, comma 2bis, disp. att. c.p.p. (77) ‘‘il difensore della persona sottoposta alle indagini può presentare direttamente al giudice’’ elementi rilevanti ai fini della decisione che quest’ultimo debba adottare, e dei quali potrà e dovrà tener conto soprattutto al momento di sentire il soggetto in stato di restrizione della libertà personale. Le novelle legislative del 1995 e del 1999 e le decisioni della Corte costituzionale hanno esaltato la funzione dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p. quale mezzo di difesa, garanzia e controllo. Ad un esame attento della disciplina i risultati a cui si perviene sono, però, tutt’altro che univoci, in particolare nella fase preliminare nella quale normalmente si pongono i problemi concernenti la limitazione della libertà personale. Guardando in primis alle profonde novità, per lo meno sotto un profilo sistematico, relative al procedimento applicativo delle misure cautelari, sorgono spontanee alcune riflessioni. Il g.i.p., al momento di esercitare i propri poteri de libertate, e in sede di interrogatorio della persona in vinculis, dipende in larga misura dagli elementi forniti dal p.m., cioè da una sola delle parti. Ed è sempre il pubblico ministero a stabilire quali siano gli elementi favorevoli all’imputato, da trasmettere allo stesso giudice, senza peraltro la previsione di alcuna sanzione processuale (78). Il che inevitabilmente condiziona, sulla base (76) Così sempre Corte cost., sent. 17 giugno-24 giugno 1997, n. 192, cit., p. 1882. (77) Per un commento in generale della norma v. per tutti P. TONINI, Commento all’art. 22, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., p. 296 ss. (78) Cfr. M. NOBILI, La difesa nel corso delle indagini preliminari. I rapporti con l’attività del pubblico ministero, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti
— 1403 — della ricostruzione effettuata dal solo organo dell’accusa, il contenuto dell’interrogatorio de quo; senza considerare che a condurre l’atto è lo stesso soggetto che ha disposto il provvedimento cautelare, il quale cercherà, anche solo per ragioni psicologiche, più conferme che smentite alla propria precedente decisione (79). Né, del resto, il g.i.p. dispone di poteri istruttori, per lo meno su richiesta di parte, per valutare meglio gli elementi addotti dall’interrogato (80). Al difensore, da parte sua, sono sì garantiti gli ampi poteri di cui al nuovo art. 38, comma 2-bis, delle norme di attuazione al codice di rito; il legislatore, d’altro canto, si è ‘‘dimenticato’’ di disciplinarne le modalità di esercizio e le forme, rendendo la norma una vera e propria ‘‘scatola vuota’’ (81). A causa poi, delle rigide cadenze temporali del procedimento cautelare, sarà comunque impossibile svolgere un’ ‘‘indagine difensiva parallela’’ in vista dell’interrogatorio e, data l’infelice formulazione degli artt. 335 c.p.p. (82) e 369 c.p.p. (83), l’indagato ben difficilmente viene a conoscenza in tempo utile del procedimento penale a suo carico. La stessa discovery degli atti operata dal pubblico ministero all’interessato rimane spesso un’affermazione di principio. alternativi, cit., p. 74 ss.; R.E. KOSTORIS, sub artt. 64 e 65 c.p.p., cit., p. 334; G. TRANCHINA, L’intervento dell’organo giurisdizionale, in AA.VV., Dir. proc. pen., vol. II, Milano, 1995, pp. 159 e 160. Valuta positivamente l’esclusione di qualsiasi invalidità nel caso di omessa trasmissione degli elementi favorevoli all’imputato V. GREVI, Più ombre che luci, cit., p. 15. Individua, in questa ipotesi, una nullità a regime intermedio ex artt. 178, sub lett c) e 180 c.p.p. dell’ordinanza applicativa della misura Cass., Sez. I, 13 marzo 1998 (c.c. 13 febbraio 1998), Migliaccio, in Cass. pen., 1999, p. 1521 ss., con nota di B. NACAR, Una felice — ma discutibile — ‘‘operazione garantista’’ della Cassazione. Sulla difficoltà di individuare una nozione di ‘‘elemento a favore dell’imputato’’ G. CASELLI-A. INGROIA, Procedimenti di criminalità organizzata, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa, a cura di V. GREVI, cit., p. 373. (79) Segnala il rischio G. FRIGO, La Corte costituzionale estende le garanzie, cit., p. 69. (80) M. NOBILI, La difesa nel corso delle indagini preliminari, cit., p. 74. (81) V., per tutti, F. PERONI, Le indagini difensive: tra problematiche attuali e istanze di riforma, in Cass. pen., 1998, p. 2224 ss.; E. AMODIO, Le indagini difensive tra nuovi poteri del g.i.p. e obblighi di lealtà del p.m., in Cass. pen., 1997, p. 2284 ss. Occorre evidenziare che è in corso di esame in Parlamento un disegno di legge per la radicale modifica della disciplina de qua, al fine di ovviare agli attuali limiti della normativa. Il disegno di legge può essere letto in Dir. pen. proc., 1999, p. 669 ss., con osservazioni di G. FRIGO, Indagini difensive: un punto di non ritorno » nella strada del riequilibrio tra accusa e difesa, ivi, p. 667. (82) V. dopo le modifiche del 1995 R. ORLANDI, Commento all’art. 18, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., p. 251 ss.; P.P. PAULESU, sub art. 335 c.p.p., in AA.VV., C.p.p. commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 1479 ss. (83) V. dopo le modifiche del 1995 F. PERONI, Commento all’art. 19, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., p. 269 ss.; P.V. REINOTTI, sub art. 369 c.p.p., in AA.VV., C.p.p. commentato, cit., p. 1563 ss.
— 1404 — Nell’ipotesi più importante di esecuzione della custodia cautelare l’art. 104 c.p.p. (84), dopo aver sancito il diritto dell’imputato a conferire con il proprio difensore fin dall’inizio, prevede la possibilità per il g.i.p., limitatamente sempre alla fase delle indagini preliminari, di dilazionarlo per un periodo non superiore a cinque giorni, per ‘‘specifiche ed eccezionali ragioni di cautela’’. Il giudice, però, il quale deve provvedere con decreto motivato su richiesta del p.m., data la ristrettezza dei tempi, difficilmente sarà in grado di esercitare un controllo effettivo sulla necessità o meno della dilazione; la formula utilizzata gli lascia, comunque, ampia discrezionalità (85). L’eccezione finisce per diventare la regola e consentire ampiamente al g.i.p. e al p.m., nel termine dei cinque giorni di cui all’art. 104 c.p.p., che è esattamente il termine stabilito dall’art. 294 c.p.p., di interrogare l’indagato in vinculis, senza che questi abbia avuto alcun contatto con il proprio difensore (86). La pressione fisica e psicologica che, in questo modo, l’isolamento carcerario determina è tale da far scemare grandemente, se non addirittura escludere, la libertà di autodeterminazione della persona, secondo gli schemi più collaudati del sistema inquisitorio; il contraddittorio, garantito dagli artt. 291 e 293 c.p.p., viene di fatto vanificato. Forti sono i dubbi di legittimità costituzionale della norma, tutti sistematicamente disattesi fino ad ora dalla giurisprudenza, per non ben precisate superiori esigenze di giustizia (87). In generale, poi, il deposito degli atti, ai sensi dell’art. 293, comma 3, c.p.p., risulta spesso inutile, in quanto ‘‘le operazioni di rilascio delle copie’’ non possono ‘‘interferire con i termini rapidi e vincolanti previsti per l’interrogatorio [dell’imputato in vinculis], essendo evidente che né il difensore potrà pretendere, né l’autorità giudiziaria potrà concedere dilazioni di tali termini, ove risulti materialmente impossibile procedere alla copia di tutti gli atti richiesti entro le rigide cadenze previste per l’interrogatorio’’ (88). Tale situazione si verificherà sistematicamente nell’ipotesi (84) Per un commento di tale norma dopo la riforma del 1995, R.E. KOSTORIS, sub art. 1, cit., p. 41 ss.; L. BRESCIANI, sub art. 104 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., a cura di M. CHIAVARIO, 3o agg., cit., p. 76 ss.; A. SCALFATI, sub art. 104 c.p.p., in AA.VV., C.p.p. commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 374 ss. (85) M. FERRAIOLI, II ruolo di ‘‘garante’’ del giudice per le indagini preliminari, cit., p. 122, nota 12. (86) Tutti i commentatori hanno evidenziato questo rischio. Vedi, fra gli altri, R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 1 della l. n. 332/1995, cit., p. 46 ss.; prima della riforma A. GIARDA, Riforma della procedura e riforme del processo penale, in questa Rivista, 1989, p. 1398. (87) Da ultimo Cass., Sez. I, 12 ottobre 1994, Agostino, in Giur. it., 1996, II, p. 97, con nota di IAFISCO. V. da ultimo in dottrina A.A. DALIA - D. CIMADOMO, voce Difensore (dir. proc. priv.), in Enc. dir., Agg., III, Milano, 1999, p. 508 e 509. (88) Così Corte cost., sent. 17 giugno-24 giugno 1997, n. 192, cit., p. 1883. Vedi su
— 1405 — in cui il pubblico ministero chieda che l’interrogatorio si svolga nelle quarantotto ore. Questi inconvenienti, in parte, vengono meno nell’ipotesi, statisticamente meno frequente, di applicazione della misura cautelare e di svolgimento del relativo interrogatorio dopo l’esercizio dell’azione penale. In questo caso il difensore e l’imputato avranno avuto già modo di prendere visione ed estrarre copia di tutto il fascicolo del pubblico ministero, secondo il combinato disposto degli artt. 416, comma 2, c.p.p., 419, commi 2 e 3, c.p.p. e 131 disp. att. c.p.p. Il colloquio tra lo stesso imputato e difensore, dopo la richiesta di rinvio a giudizio, non può più essere rinviato; le parti avranno avuto il tempo necessario per preparare adeguatamente le proprie strategie difensive. Restano, in ogni caso, alcuni limiti intrinseci alle modalità di svolgimento dell’interrogatorio de quo. In primo luogo il difensore ha solo un diritto di intervento, e non si ritiene sussistere neppure l’obbligo di nominare un difensore d’ufficio nell’ipotesi dell’art. 97, comma 4, c.p.p. L’art. 294 c.p.p. prevede infatti, a pena di nullità, la sola notifica dell’avviso di fissazione dell’interrogatorio al difensore e la possibilità di rinviarlo, unicamente, nel caso di assoluto impedimento dell’indagato-imputato (89). In secondo luogo il difensore è costretto ad un’assistenza passiva, in quanto gli è preclusa qualsiasi possibilità di rivolgere all’imputato domande dirette. Infine è vero che il g.i.p. sente la persona in vinculis prima del p.m.; ma questi potrà aggirare tale regola disponendo, quando possibile, l’arresto o, ancor più facilmente, il fermo (90). La Corte costituzionale, nella sentenza n. 384 del 1996, ha giustificato e legittimato tale disciplina (91). Al di là della validità complessiva della motivazione, un passaggio fondamentale della decisione, svela le ragioni di fondo, alquanto discutibili, che hanno ispirato la pronuncia. A detta dei Giudici della Consulta, la l. n. 332 del 1995, con l’introduzione del comma 1-ter nell’art. 294 c.p.p., ha previsto, per l’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare, un meccanismo accelequesto realismo un po’ crudo della Corte le considerazioni di A. GIARDA, Un’altra tessera di garantismo per la libertà personale dell’imputato, cit., p. 1022. (89) Cass., Sez. un., 11 gennaio 1994 (c.c. 12 ottobre 1993), Morteo, in CED, 195625; v. anche Cass., Sez. I, 16 marzo 1994 (c.c. 10 novembre 1993), Rucci, in CED, 196821. (90) M. NOBILI, La difesa nel corso delle indagini preliminari, cit., p. 75; R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 11, pp. 154 e 155; G. FRIGO, Ancora lontana una disciplina unitaria per arresto e custodia cautelare, in Guida al diritto, n. 46, 1996, p. 73. (91) La si può leggere in Giur. cost., 1996, cit., p. 3527 ss., con nota di P.P. RIVELLO, Non è costituzionalmente illegittimo che l’interrogatorio dell’arrestato da parte del p.m. possa precedere quello effettuato dal giudice.
— 1406 — ratorio, che, mancando nel caso di arresto o di fermo rende impossibile, in questa ipotesi, l’intervento prioritario del giudice. In caso contrario ‘‘risulterebbe frustrata l’esigenza del pubblico ministero di procedere in tempi brevi al compimento... [del proprio interrogatorio], laddove nel caso di arresto in flagranza le esigenze investigative [il corsivo è nostro] del pubblico ministero, normalmente, si presentano connotate proprio da particolare e pressante urgenza’’. È il riconoscimento, da parte della Corte costituzionale, della prevalenza di tali esigenze sulla funzione di controllo e di garanzia del g.i.p. b) L’interrogatorio in sede di procedimento modificativo od estintivo delle misure cautelari e di proroga della custodia cautelare: gli artt. 299, comma 3-ter, c.p.p. e 301, comma 2-ter, c.p.p. — L’interrogatorio del soggetto in vinculis ad opera di un organo giurisdizionale super partes, a seguito della l. n. 332/1995, non è momento essenziale del solo procedimento applicativo, ma anche di quello modificativo ed estintivo delle misure cautelari. L’art. 299, comma 3-ter, c.p.p. (92) attribuisce la facoltà al giudice di interrogare la « persona sottoposta alle indagini » ogni qualvolta debba provvedere in ordine all’istanza di revoca o di sostituzione di tali misure; il giudice ha l’obbligo di interrogare « l’imputato » qualora la stessa istanza si fondi su elementi nuovi o diversi, rispetto a quelli in precedenza valutati (93). Occorre evidenziare, valorizzando il dato letterale, come già prima delle ultime modifiche all’art. 294 c.p.p., il giudice dovesse sentire la persona in vinculis ben oltre l’esercizio dell’azione penale, per lo meno in presenza di ‘‘novità’’ addotte con l’istanza ex art. 299 c.p.p. (94) Attual(92) V.E. MARZADURI, Commento agli artt. 13 e 14, in AA.VV., Modifche al c.p.p., cit., p. 174 ss.; D. MANZIONE, sub art. 299 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, 3o agg., cit., p. 301 ss.; G. SPANGHER, sub art. 299 c.p.p., in AA.VV., C.p.p. commentato, a cura di G. SPANGHER-A. GIARDA, cit., p. 1185 ss. (93) Pare opportuno sottolineare che l’interrogatorio de quo non può essere assunto ex officio dal giudice in assenza di un’istanza di revoca o di sostituzione proposta dalla parte (v. sempre E. MARZADURI, Commento all’art. 13, cit., p. 183). È utile richiamare per un inquadramento sistematico dei poteri ex officio in materia di revoca dei provvedimenti cautelari la sentenza 25 marzo-1o aprile 1998, n. 89 della Corte costituzionale (in Giur. cost., 1998, p. 823 ss., con nota di R. BAROCCI, Un (prezioso) chiarimento sui poteri di controllo del g.i.p. in materia cautelare e D. LACCHI, Revoca ex officio delle misure cautelari personali). Con tale decisione la Consulta ha chiarito che l’art. 299, comma 3, c.p.p. va interpretato nel senso che il giudice è abilitato ad intervenire in bonam partem senza limiti derivanti dallo specifico petitum, quando sia comunque investito della competenza funzionale in materia cautelare da una richiesta dell’imputato. (94) In questo senso V. GREVI, Garanzie difensive e misure cautelari personali. Contra, prima dell’ultima modifica dell’art. 294 c.p.p., limitando l’applicabilità della previsione alla sola fase delle indagini preliminari, E. MARZADURI, Commento all’art. 13, cit., pp. 186 e 187.
— 1407 — mente, dopo la l. n. 109 del 1999, e alla luce della sentenza 28 febbraio 1997, n. 51 (95) della Consulta, l’interrogatorio de quo si può svolgere per lo meno fino alla fase delle questioni preliminari al dibattimento e può indurre il g.i.p. o il presidente del collegio (o il componente da lui delegato), nella fase di competenza del tribunale, ad una riconsiderazione, anche dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, non solo della sussistenza delle esigenze cautelari, ma anche dei gravi indizi di colpevolezza. Per tale interrogatorio, in tutto analogo a quello previsto dall’art. 294 c.p.p., deve ritenersi applicabile, pur nel silenzio del legislatore, la medesima disciplina: si svolge nelle forme degli artt. 64 e 65 c.p.p. ed è preceduto dall’avviso al difensore e al pubblico ministero che potranno o meno parteciparvi (96). A queste ultime conclusioni occorre pervenire anche con riferimento all’interrogatorio previsto dall’art. 301, comma 2-ter, c.p.p (97). Il legislatore del 1995, nello stabilire l’estinzione della custodia cautelare in carcere disposta per esigenze probatorie per il decorso del termine massimo di trenta giorni, obbliga il giudice a sentire l’indagato-imputato, prima di provvedere alla proroga (98) della misura richiesta dal pubblico ministero, possibile per non più di due volte ed entro il limite complessivo di novanta giorni. Si realizza così nell’ipotesi de qua una vera e propria forma di contraddittorio anticipato. Si deve, peraltro, rilevare, richiamando i princìpi di carattere sistematico espressi nella sentenza n. 434 del 1995 (99) della Corte costituzio(95) La si può leggere in Giur. cost., 1997, p. 459 ss. Con tale decisione la Consulta, richiamando la sentenza n. 71 del 1996, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 299 c.p.p., in quanto, anche in materia di revoca delle misure cautelari personali, l’emissione del decreto che dispone il giudizio non assorbe la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza. (96) V. E. MARZADURI, sub art. 13, cit., p. 187. (97) V. E. MARZADURI, sub art. 14, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., p. 197 ss.; M. BARGIS, sub art. 301 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, 3o agg., cit., p. 320 ss. (98) Si discute molto in dottrina sul significato di tale istituto e dei suoi rapporti con la ‘‘rinnovazione’’ della misura cautelare prevista dal comma 1. V. V. GREVI, Rinnovazione della misura e proroga del termine nel caso di custodia in carcere disposta per esigenze probatorie (a proposito del nuovo art. 301 c.p.p.), in Cass. pen., 1995, p. 2418 ss. Più di recente, anche per una prospettiva di sintesi, A. NAPPI, Guida al c.p.p., 6a ed., Milano, 1997, p. 571; E. RANDAZZO, Proroga della misura cautelare e interrogatorio dell’imputato in vinculis, in Giur. it., 1998, II, c. 1018 ss.; M. BARGIS, sub art. 301 c.p.p., cit., p. 314 ss.; G. GARUTI, I rapporti tra proroga e rinnovazione della custodia cautelare nell’ambito dell’art. 301 c.p.p., in Cass. pen., 1997, p. 2163 ss. (99) La si può leggere in Giur. cost., 1995, p. 3414. Con tale decisione è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 305, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non consentirebbe l’applicabilità dell’art. 127 in caso di richiesta del p.m. di proroga dei termini di custodia cautelare. La Corte
— 1408 — nale come, pur in assenza di regole espresse per l’effettiva realizzazione del contraddittorio nella fase preliminare, da un lato il pubblico ministero, in caso di istanza di revoca o di sostituzione ex art. 299 c.p.p., deve trasmettere tutti gli elementi, anche a favore del soggetto in vinculis, sopravvenuti al provvedimento applicativo della misura (100) e depositare gli atti che giustificano la richiesta di proroga della custodia cautelare; dall’altra il giudice deve concedere un congruo termine alla difesa per prenderne conoscenza. Si può non condividere la scelta del legislatore di ‘‘appesantire’’ il procedimento disciplinato dagli artt. 299 e 301 c.p.p. con l’introduzione, anche in questo caso, di un interrogatorio di ‘‘garanzia’’ (101). È da evidenziare, tuttavia, che tale interrogatorio potrà caratterizzarsi e risultare più efficace rispetto a quello precedentemente espletato ai sensi dell’art. 294 c.p.p. (102) La discovery operata in sede di applicazione dell’ordinanza restrittiva, a ben vedere, esplica maggiormente i suoi effetti nel momento in cui il giudice è chiamato a disporre l’eventuale revoca o sostituzione o proroga della misura cautelare non solo sulla base dei ‘‘fatti sopravvenuti’’, ma anche attraverso una riconsiderazione degli atti trasmessi dal p.m. e depositati (103). Il difensore, rispetto alle rigide cadenze imposte dall’art. 294 c.p.p., avrà avuto il tempo di consultare, estrarre copia e ‘‘studiare’’ gli atti; ci sarà stata la possibilità di ‘‘trasferire’’ le proprie conoscenze all’indagato-imputato in vinculis in sede di colloquio, essendo sicuramente decorsi i termini per un differimento dello stesso; avrà potuto, inoltre, svolgere, pur con tutti i limiti, le indagini consentite dall’art. 38-bis disp. att. c.p.p. Questi fattori concomitanti hanno il loro peso sul contenuto dell’interrogatorio disciplinato dagli artt. 299 e 301 c.p.p. ai quali, forse, non si attribuisce la giusta rilevanza. c) L’interrogatorio in sede di udienza di convalida dell’arresto o del fermo. — Un’essenziale finalità di difesa, di controllo e di garanzia, va riconosciuta all’interrogatorio dell’indagato, condotto dal g.i.p., in sede di udienza di convalida dell’arresto o del fermo ex art. 391, comma 3, c.p.p., al fine di verificare che tali misure siano state legittimamente eseguite e ha precisato che comunque deve essere garantito il contraddittorio sia pure in modo celere e semplificato. (100) Cfr. E. MARZADURI, op. ult. cit., pp. 18 e 181; F. RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia, cit., pp. 271 e 272, i quali sottolineano i problemi interpretativi creati sul punto dal silenzio del legislatore. (101) Segnala questo rischio V. GREVI, Garanzie difensive e misure cautelari personali, cit., p. 101. (102) Cfr. sempre V. GREVI, op. ult. cit., p. 106 ss. (103) Cfr. F. CORDERO, Proc. pen., 4a ed., 1998, p. 504.
— 1409 — siano stati osservati i termini previsti dagli artt. 386, comma 3, e 390, comma 1, c.p.p. Questa affermazione è confermata da alcune considerazioni di fondo. Tra l’interrogatorio disciplinato dall’art. 294 c.p.p. e quello di cui all’art. 391, comma 3, c.p.p. sussiste, oramai pacificamente (104), per espressa previsione legislativa una vera e propria fungibilità, dato che viene meno l’obbligo per il giudice di interrogare la persona sottoposta a misura cautelare personale, nel caso in cui vi abbia già provveduto in sede di convalida dell’arresto o del fermo. L’interrogatorio ex art. 391, comma 3, c.p.p. si svolge, inoltre, anch’esso nelle forme dettate dagli artt. 64 e 65 c.p.p., anche se non espressamente richiamate (105). Infine il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 121 disp. att. c.p.p., in sede di udienza di convalida, chiede l’applicazione di una misura coercitiva se vuole impedire l’immediata liberazione dell’arrestato o del fermato. Tra tale richiesta e quella di cui all’art. 291, comma 1, c.p.p. non sussiste alcuna differenza (106). Quindi, anche nel caso di arresto o di fermo, il p.m, quando si proceda alla convalida, ha un obbligo di discovery di ‘‘tutti gli elementi su cui la richiesta si fonda’’, nonché di ‘‘tutti gli elementi a favore dell’imputato e [delle] eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate’’ e il correlativo obbligo di mettere a disposizione del difensore tali atti, secondo il disposto dell’art. 293 c.p.p. (107). (104) Prima della modifica dell’art. 294, comma 1, c.p.p. operato dal d.lgs. n. 12/1991 si discuteva molto sulla ‘‘equipollenza’’ o meno tra ‘‘audizione’’ ex art. 391, comma 3, c.p.p. e interrogatorio di garanzia. Per un’efficace sintesi del dibattito dottrinale e giurisprudenziale vedi L. SCOMPARIN, Arresto e fermo, in AA.VV., Libertà e cautele nel processo penale, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. CHIAVARIO-E. MARZADURI, Torino, 1996, pp. 267 e 268. Sulla legittimità costituzionale di tale disciplina v., da ultimo, Corte cost. ord. 27 gennaio-5 febbraio 1999, n. 16, in Giur. cost., 1999, p. 143 ss. (105) Cfr. F. PERONI, Sulle dichiarazioni dell’indiziato in udienza di convalida come equipollente dell’interrogatorio ex art. 294 c.p.p., in Giust. pen., 1990, III, c. 605; FERRARO, Arresto e fermo, Milano, 1994, p. 112. In giurisprudenza: Cass., Sez. I, 13 novembre 1991, Martinelli, in Mass. Cass. pen., 1992, fasc. 1, n. 27; Cass., Sez. II, 7 maggio 1998 (c.c. 1o aprile 1998), Catacchio ed altro, in CED, 210489. (106) G. SPANGHER, Sui rapporti tra l’audizione dell’arrestato ai sensi dell’art. 391 comma 3 e l’interrogatorio della persona in custodia ai sensi dell’art. 294 c.p.p., in Cass. pen., 1990, II, p. 243. (107) Cfr. L. SCOMPARIN, Arresto e fermo, cit., p. 265. In giurisprudenza, prima della riforma, Cass., 1o giugno 1992, Cefariello, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 139; Cass., 16 maggio 1994, Scoesa, in Foro it., 1994, c. 576. Occorre, però, rilevare come la Consulta (ord. 27 gennaio-5 febbraio 1999, n. 16, cit., p. 146) ha affermato che l’esigenza della piena conoscibilità degli atti del p.m. da parte del difensore dopo l’esecuzione del provvedimento cautelare non è ‘‘avvertibile allorché la misura sia stata adottata all’esito del procedimento di convalida almeno nel senso che la conoscenza
— 1410 — Se è vero, allora, che i due interrogatori de quibus, per lo meno nell’ipotesi statisticamente più frequente in cui l’organo dell’accusa chiede la convalida dell’arresto e del fermo e contestualmente l’applicazione di una misura coercitiva, presentano le stesse modalità di svolgimento e le stesse garanzie di un contraddittorio che nel caso di specie è sì eventuale, ma è anche anticipato rispetto all’adozione della ‘‘cautela’’, è altrettanto vero che identiche ne sono le funzioni (108). Se una qualche differenziazione si vuole comunque individuare tra i due atti, riguarda esclusivamente l’ipotesi, di più rara verificazione pratica, in cui l’udienza ex art. 391 c.p.p. sia destinata esclusivamente alla convalida dell’arresto o del fermo. Solo in questo caso il giudice, in sede di interrogatorio, dovrà limitarsi a verificare la legittimità degli stessi provvedimenti, che, ‘‘pur implicando una valutazione sulla riferibilità del reato all’indagato, « non comporta(no) la formulazione di un giudizio di merito, neppure prognostico, sulla sua colpevolezza », a differenza dell’accertamento relativo alle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. (109). Sennonché, anche con riferimento all’audizione del fermato o dell’arrestato da parte del g.i.p., una corretta analisi della disciplina normativa crea molti dubbi sull’effettiva realizzazione delle finalità che l’atto riveste sotto il profilo sistematico. Le insufficienze già evidenziate in relazione all’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p. risultano amplificate. In primis il contraddittorio anticipato, oltre che eventuale, è solo formale. Gli atti che il pubblico ministero deve depositare in sede di udienza di convalida, determinando una formazione progressiva del relativo fascicolo (110), è di fatto inutile. Date le rigidissime cadenze temporali, da una parte il g.i.p., dall’altra il difensore si trovano nell’impossibilità materiale di valutarli. Il difensore, in aggiunta, ben difficilmente, in preceanticipata del contenuto della eventuale richiesta vale a qualificare tale deposito come preordinato esclusivamente all’esercizio del potere di gravame’’. (108) Per il distinguo tra l’ipotesi dell’udienza di convalida destinata anche all’applicazione delle misure coercitive e udienza di convalida destinata al solo controllo della legalità delle misure precautelari, v. L. BRESCIANI, voce Fermo, in Dig. disc. pen., vol. V, Torino, 1992, p. 52 ss. (109) Così Corte cost., sent. 14 ottobre-5 novembre 1996, n. 384, cit., p. 3532. Occorre sottolineare come i Giudici della Consulta in tale pronuncia hanno dichiarato la legittimità dell’esclusione dell’intervento prioritario del g.i.p. in caso di arresto o di fermo per l’appunto nella sola ipotesi, scarsamente significativa di udienza ex art. 391, destinata alla sola convalida della misura precautelare. Fortemente critico nei confronti di tale sentenza è G. FRIGO, Ancora lontana una disciplina unitaria per arresto e custodia cautelare, cit., p. 73 ss. (110) L. SCOMPARIN, Arresto e fermo, cit., p. 265.
— 1411 — denza, avrà potuto parlare con l’assistito a causa della disciplina inquisitoria dell’art. 104 c.p.p., che prevede proprio in caso di arresto o di fermo la possibilità per lo stesso pubblico ministero di differire il colloquio, ‘‘fino al momento [48 ore] in cui l’arrestato o il fermato è posto a disposizione del giudice’’, salvo poi l’intervento ulteriore di quest’ultimo ad impedirlo fino a cinque giorni. Gravi le conseguenze. Il giudice sente l’indagato al ‘‘buio’’, sulla base delle richieste illustrate dal p.m. in udienza o, addirittura, se l’organo dell’accusa non ritenga di dovervi partecipare, sulla base delle sole richieste scritte e degli elementi trasmessi ai sensi dell’art. 390, ultimo comma, c.p.p. (111). Da parte sua l’arrestato o il fermato si troverà nell’impossibilità di svolgere un’adeguata autodifesa. Infine il contenuto garantistico dell’audizione della persona sottoposta a misura precautelare è, di fatto, fortemente limitato dalla priorità del possibile intervento del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 388 c.p.p., venendosi a creare una situazione nella quale la libertà di autodeterminazione dell’indagato risulta ampiamente compromessa. d) L’interrogatorio disciplinato dall’art. 421, comma 2, c.p.p. e 422 comma 3, c.p.p. in sede di udienza preliminare. — La permanenza dell’imputato in stato di restrizione della libertà personale durante lo svolgimento dell’udienza preliminare fa sì che le alternative forme di interrogatori che questi può chiedere in tale sede, rispettivamente ai sensi degli artt. 421, comma 2, c.p.p. e 422, comma 3, c.p.p. (112), possano annoverarsi, seppure in via eventuale, tra gli interrogatori in vinculis condotti dal g.i.p. È indubbio che i due atti, che presuppongono una conoscenza dell’intero fascicolo degli atti di indagine precedentemente depositati, rivestano funzioni tipicamente autodifensive e si incentrino sul meritum causae (113). (111) La presenza facoltativa dell’organo dell’accusa ha comunque gravi conseguenze per la difesa. Infatti ‘‘ogniqualvolta si affievolisce o declina la figura del pubblico ministero, subito giganteggia quella del giudice in veste di accusatore... Assente il pubblico ministero, sarà inevitabilmente il giudice a fungere da contraddittore e dunque da antagonista dell’imputato’’. Così P. FERRUA, La revisione del codice 1988: correzioni e integrazioni nel quadro della legge delega, in Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, cit., 1992, p. 138. (112) È da condividere l’opinione di chi sostiene che gli interrogatori previsti da tali norme possano svolgersi anche in sede di giudizio abbreviato. Per una sintesi del dibattito dottrinale-giurisprudenziale v. A. SANNA, Giudizio abbreviato e interrogatorio dell’imputato, in Giur. it., 1994, II, c. 637; cfr. anche Corte cost., 29 giugno-8 luglio 1992, n. 318, in Giur. cost., 1992, p. 2635 ss., con nota di A. CASELLI LAPESCHI, Nuove acquisizioni probatorie ed epiloghi del giudizio abbreviato. (113) Così Corte cost., sent. n. 77/1997, cit., p. 66.
— 1412 — Il giudice, su richiesta di parte, dovrà sentire l’imputato essenzialmente ai fini delle determinazioni conclusive dell’udienza preliminare (114). Tale caratteristica è ancora più evidente con riferimento all’interrogatorio disciplinato dall’art. 422, comma 3, c.p.p., che si colloca, in modo espresso, in sede di acquisizione di ulteriori informazioni ai fini della decisione (115). Inoltre, in seguito alla modifica operata dalla l. 7 agosto 1997, n. 267, che ha interessato espressamente l’art. 421, comma 2, c.p.p., ma che può estendersi, in via analogica, all’art. 422, comma 3, c.p.p. (116), con la possibilità per il g.i.p. di svolgere, su richiesta, gli interrogatori de quibus nelle forme di un vero e proprio esame delle parti, se ne può tranquillamente affermare, in questo caso, la natura di vero e proprio mezzo di prova (117). Del tutto assorbita risulta, pertanto, la finalità di garanzia e controllo che l’atto dovrebbe comunque assolvere, sulla permanenza dei presupposti di applicazione della misura, se è vero che il giudice in sede di udienza preliminare e, in particolare, al termine dell’interrogatorio può provvedere, anche d’ufficio, alla revoca o alla sostituzione della misura, ai sensi dell’art. 299 c.p.p. V. L’« audizione » della persona in vinculis in sede di riesame delle misure coercitive e di appello delle misure cautelari. — Un’ultima importante figura di ‘‘audizione’’ della persona in vinculis ad opera di un organo giurisdizionale super partes può aversi nella fase incidentale del procedimento de libertate, instaurata con la richiesta di riesame di una misura coercitiva ai sensi dell’art. 309 c.p.p. o la proposizione dell’appello avverso una misura cautelare ai sensi dell’art. 310 c.p.p., che richiama sostanzialmente le stesse regole. Per individuare la disciplina di questa ulteriore occasione di autodifesa della persona sottoposta a restrizione della libertà personale, subordinata ad un atto di parte (appello o riesame), occorre ricordare come il comma 8 dell’art. 309 c.p.p. e l’art. 310, comma 3, c.p.p., stabiliscono che il riesame e l’appello si svolgono, salvo alcune varianti, nelle forme generali della camera di consiglio previste dall’art. 127 c.p.p. E, in modo specifico, l’art. 127, comma 3, c.p.p. disciplina il caso che interessa. (114) G. FRIGO, sub art. 421 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, vol. IV, Torino, 1990, p. 620. (115) S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, cit., pp. 95 e 96; G. FRIGO, sub art. 422, in AA.VV., Commento al nuovo c.p.p., cit., p. 637 ss. (116) F. PERONI, La nuova disciplina delle letture di dichiarazioni provenienti dall’imputato, in AA.VV., Le nuove leggi penali, cit., pp. 162 e 163. (117) P.P. RIVELLO, sub art. 421 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., 4o agg., cit., p. 95.
— 1413 — Il soggetto in vinculis, ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza, purché si trovi nel circondario del tribunale della libertà competente, ha diritto di partecipare alla stessa e, se compare (quindi in base ad una scelta ben precisa), deve essere sentito. Viceversa, ‘‘se l’interessato è detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice e ne fa richiesta, deve essere sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo’’ (118). Le difficoltà di ordine operativo e sul piano della sicurezza, che la traduzione da un luogo ad un altro del soggetto in stato di restrizione della libertà personale crea e ragioni di semplificazione del procedimento, hanno indotto il legislatore ad introdurre questa disciplina piuttosto singolare, che suscita forti dubbi di legittimità costituzionale. Pare difficile giustificare alla luce non solo del diritto di difesa, ma anche del principio di uguaglianza una regola la cui applicazione è subordinata ad un criterio del tutto casuale quale il locus detentionis (119). La Consulta ha dichiarato l’infondatezza di tali questioni con la sentenza n. 45 del 1991 (120), le cui argomentazioni, lungi dal soddisfare, hanno fornito, comunque, importanti chiarimenti. Se l’imputato, detenuto in luogo diverso dalla circoscrizione del tribunale della libertà, abbia richiesto di essere sentito, ne può in ogni caso essere disposta la traduzione; inoltre lo stesso tribunale, qualora lo ritenga necessario ed opportuno, può disporla ex officio. Per lo meno in sede di riesame appare difficile ipotizzare una valutazione ex ante di superfluità delle dichiarazioni della persona in vinculis in udienza, soprattutto per le peculiarità dell’ ‘‘audizione’’. Tenendo presente che i motivi inizialmente proposti possono essere integrati in udienza, anche sulla base degli elementi apportati nel corso della stessa dal pubblico ministero, la presenza fisica del ‘‘detenuto’’ appare in ogni caso indispensabile al fine di consentirgli di interloquire (121). Inoltre ben diversa capacità persuasiva sul giudice e completezza hanno le dichiarazioni orali, rispetto a quelle rese davanti al magistrato di sorveglianza, magari in assenza del difensore al quale deve inviarsi il solo avviso (art. 101 disp. att. c.p.p.) (122). (118) V., per un puntuale esame di tale disciplina, M. POLVANI, Le impugnazioni de libertate. Riesame, appello, ricorso, 2a ed., Padova, 1999, p. 314 ss. (119) G. DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 365 ss.; A. CONFALONIERI, I controlli sulle misure cautelari, in AA.VV., Le impugnazioni penali, trattato diretto da A. GAITO, Torino, 1998, p. 954. (120) La si può leggere in Giur. cost., 1991, p. 304 ss. (121) Cfr. A. CONFALONIERI, I controlli sulle misure cautelari, cit., p. 955. (122) Cfr. A. CONFALONIERI, op. ult. loc. cit. Con riferimento all’analoga disciplina contenuta nel codice Rocco in sede di incidenti di esecuzione V. GREVI, Incidenti di esecuzione e autodifesa dell’imputato, in Giur. cost., 1970, p. 49 ss. L’assoluta insufficienza della disciplina relativa all’audizione dell’imputato in sede di
— 1414 — Queste considerazioni vanno tenute ben presenti anche alla luce dell’affermazione, ancora una volta, della Corte costituzionale, secondo la quale ‘‘l’oggetto dell’audizione’’ è ‘‘strettamente circoscritto al contenuto delle doglianze fatte valere con il gravame’’ (123). Ma soprattutto l’udienza davanti al tribunale del riesame sconta le insufficienze circa la presenza e l’assistenza del difensore nei procedimenti in camera di consiglio. Questi, purché avvisato, ha solo una facoltà di intervento ed addirittura la regola, in virtù della quale il dibattimento è sospeso o rinviato in caso di legittimo impedimento del difensore, non si applica al ‘‘rito’’ camerale disciplinato dall’art. 127 c.p.p. (124). Il comma 4 di questa norma, richiamato dall’art. 101 disp. att., stabilisce solo che l’udienza davanti al ‘‘tribunale della libertà’’ è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato che abbia chiesto di essere sentito personalmente (125). Il richiamo ad una disciplina del tutto insoddisfacente, come quella dell’art. 127, comma 3, c.p.p. e 101, comma 2, disp. att. c.p.p., mal si concilia, almeno in apparenza, con le modifiche apportate dal legislatore del 1995 alla procedura di riesame, e che sembrerebbero avere indubbie ripercussioni sulla potenziale utilità dell’istituto che ne occupa. In primo luogo gli stessi atti posti a fondamento dell’ordinanza cautelare che si impugna ai sensi degli artt. 291 e 292 c.p.p., nonché tutti gli riesame ed appello può risultare più accentuata quando si proceda per reati di criminalità organizzata (art. 51, comma 3-bis, c.p.p.). La l. 7 gennaio 1998, n. 11 (cosiddetta legge sulle videoconferenze) ha introdotto un vero e proprio esame a distanza dei soggetti ivi indicati che appare difficile non trovare applicazione anche con riferimento all’ipotesi de qua. Per questa problematica si rinvia a G. SACCONE, La partecipazione a distanza al procedimento camerale, in AA.VV., Nuove strategie processuali per imputati pericolosi e imputati collaboranti, Milano, 1998, p. 115 ss.; G.P. VOENA, La legge nelle videoconferenze e nell’esame a distanza, in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo c.p.p., IV ed., II app. agg., Padova, 1998, p. 38 ss. Inoltre, ‘‘il potenziale ricorso all’audizione per rogatoria è suscettibile di essere attivato in un più ampio numero di procedimenti dopo l’istituzione dei c.d. tribunali distrettuali della libertà, a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 652 del 1996, che ha concentrato la competenza a decidere sulle impugnazioni cautelari di merito nel tribunale del capoluogo del distretto’’. Così M. POLVANI, Le impugnazioni, cit., p. 321. (123) Così Corte cost., sent. n. 77/1997, cit., p. 637. (124) Cass., Sez. un., 8 aprile-27 giugno 1998, Cerroni, in Gazz. giur. Giuffrè, 1998, n. 30, p. 50 ss. In senso critico verso questo indirizzo giurisprudenziale v. G. RANALDI, Nuove prospettive per l’effettività della difesa all’udienza camerale, in Giur. it., 1998, p. 1681. (125) La Corte costituzionale ha stabilito che, per legittimo impedimento, si deve intendere anche il differimento del colloquio tra imputato e difensore disposto con riferimento ad altro procedimento penale. Così Corte cost., sent. 14 giugno-25 giugno 1996, n. 216, in Giur. cost., 1996, p. 1895 ss., con nota di P. VENTURA, Divieto di colloquio e termine per la decisione del riesame.
— 1415 — elementi sopravvenuti (126), sono trasmessi al competente tribunale della libertà e ‘‘restano depositati in cancelleria con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarre copia’’. Il difensore potrà trasferire questo surplus di conoscenze all’imputato in vinculis, in quanto nei termini perentori per proporre riesame (a differenza che per l’appello) ‘‘non si computano i giorni per i quali è stato disposto il differimento del colloquio a norma dell’art. 104, comma 3, c.p.p.’’ (127). Sennonché, come già in sede di interrogatorio di garanzia, le rigide cadenze imposte dagli artt. 309 e 310 c.p.p. (128) impediscono, di fatto, la possibilità di visionare ed estrarre copia degli atti depositati, senza che ciò comporti alcuna possibilità di dilazione dei termini su richiesta dell’imputato o del difensore o da parte del giudice (129). VI. Gli interrogatori in vinculis condotti dal pubblico ministero. — Passando ad analizzare gli interrogatori condotti dal pubblico ministero nei confronti della persona in vinculis vengono in considerazione essenzialmente due modelli: l’interrogatorio disciplinato dall’art. 294, comma 6, c.p.p., reso dall’indagato-imputato sottoposto a misura cautelare, e quello di cui all’art. 388 c.p.p. eseguito nei confronti del fermato o dell’arrestato. Entrambi si caratterizzano in quanto atti facoltativi e, per ciò stesso, atti aventi natura e finalità investigativa, volti, cioè, principalmente a fornire elementi per le determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale (130). Se questo aspetto esaurisce la funzione dell’istituto disciplinato dall’art. 294, comma 6, c.p.p., espressione della figura generale di interrogatorio condotto dal p.m. ai sensi dell’art. 364, comma 1, c.p.p. (131), caratteristiche del tutto peculiari, almeno sotto il profilo formale, riveste l’atto disciplinato dall’art. 388 c.p.p. L’interrogatorio possiede, in questo caso, una concomitante finalità (126) Cfr. F. NUZZO, La ‘‘trasmissione degli atti’’ al tribunale del riesame nella giurisprudenza di legittimità, in Cass. pen., 1998, p. 1920 ss.; N. TRIGGIANI, Sulla necessità di trasmettere al tribunale del riesame tutti gli atti già presentati al g.i.p. con la richiesta di applicazione di una misura coercitiva, in Cass. pen., 1998, p. 2069 ss.; M. POLVANI, Le impugnazioni, cit., p. 107 ss. Sulla disciplina dettata dal testo originario dell’art. 309 c.p.p. v. M. CERESA GASTLADO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993, passim. (127) Per un commento generale di queste novità normative introdotte dalla riforma del 1995 v. G. SPANGHER, Commento all’art. 16, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., p. 226 ss. (128) In generale sul fattore ‘‘tempo’’ nella disciplina del riesame v. P. CORVI, I ‘‘tempi’’ del procedimento di riesame dei provvedimenti de libertate nella più recente giurisprudenza, in questa Rivista, 1998, p. 1201 ss. (129) Cfr. Corte cost., sent. n. 192/1997, cit., p. 1883. (130) Vedi per tutti S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato, cit., p. 90. (131) Rel. al prog. prel. c.p.p., in G.U. 24 ottobre 1988, suppl. ord. n. 2, p. 75.
— 1416 — di controllo e di garanzia (132). Se è vero, infatti, che, oltre ai poteri-doveri di cui all’art. 121 delle disp. att. c.p.p., il pubblico ministero, in base all’art. 389 c.p.p., è tenuto a verificare che l’arresto o il fermo non siano stati eseguiti per errore di persona o fuori dai casi previsti dalla legge, è altrettanto vero che tale verifica deve necessariamente avvenire in tale sede (133). Particolare significato assume, poi, in questa prospettiva, la modifica all’art. 386, comma 5, c.p.p., operata dalla l. n. 332/1995 (134), in base alla quale il pubblico ministero può disporre che l’arrestato o il fermato sia custodito in uno dei luoghi indicati nel comma 1 dell’art. 284 c.p.p., ovvero ‘‘la propria abitazione o altro luogo di privata dimora’’, oppure ‘‘un luogo pubblico di cura o di assistenza’’. Questa custodia ‘‘domestica’’, la cui concessione nel nuovo testo esula da qualsiasi presupposto di ‘‘infermità’’ della persona in vinculis, amplia ‘‘l’area della delibazione de libertate affidata, seppure in via interinale, all’organo dell’accusa’’ (135) e conseguentemente esalta la potenzialità di garanzia dell’interrogatorio de quo. Si potrebbe addirittura affermare che, a seguito della riforma del 1995, l’interrogatorio del fermato o dell’arrestato dovrebbe ‘‘essere rigidamente circoscritto ad un vaglio in ordine alla legalità o alla superfluità della misura... Ma si deve essere consapevoli che una prospettiva del genere difficilmente riuscirà ad attecchire nella prassi’’ (136). Fisiologica è la propensione del pubblico ministero a stimolare la condotta collaborativa dell’imputato (137) e particolarmente pressanti le esigenze investigative subito dopo l’arresto o il fermo. Anche tale atto, come l’interrogatorio di garanzia, presuppone la notifica del relativo avviso al difensore di fiducia o d’ufficio, ma non la necessaria presenza. È corretto, inoltre, rilevare, oltre al richiamo dell’art. 64 c.p.p. un più ampio contenuto informativo rispetto a quanto previsto dall’art. 65, comma 1, c.p.p. Significativo è, però, il mancato richiamo al comma 2 dello stesso articolo (l’invito all’imputato ‘‘ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa’’) (138), a conferma del naturale ruolo del pubblico ministero, che sarà condizionato in senso ancor più inquisitorio, se l’inda(132) In questo senso Corte cost., sent. 14 ottobre-5 novembre 1996, n. 384, cit., p. 3532. (133) R.E. KOSTORIS, sub art. 11, cit., p. 155. V. anche G. PECORELLA, Il difensore nel procedimento penale, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa, cit., pp. 320 e 321; A. NAPPI, Guida al c.p.p., cit., p. 278. (134) Sempre Corte cost., sent. 14 ottobre-5 novembre 1996, n. 386, cit., p. 3534. (135) Così F. PERONI, Commento all’art. 20, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., p. 283. (136) Così R.E. KOSTORIS, sub art. 11, cit., p. 155. (137) L. BRESCIANI, Commento all’art. 11, cit., p. 675. (138) V. A. DIDDI, Varie forme di dichiarazioni dell’indagato o dell’imputato e na-
— 1417 — gato in vinculis avrà reso dichiarazioni in sede di « sommarie informazioni » davanti alla polizia giudiziaria. Per completezza occorre segnalare, a sostegno in via ulteriore del carattere investigativo dell’interrogatorio del p.m., che quest’ultimo potrà eventualmente sentire l’indagato in stato di restrizione della libertà personale ai sensi dell’art. 453, comma 1, c.p.p. ‘‘sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova’’ (139). In questo caso l’atto diventa vera e propria condizione per l’esercizio dell’azione penale attraverso la richiesta di giudizio immediato. VII. Le sommarie informazioni della polizia giudiziaria. — Un esame non frettoloso dell’art. 350 c.p.p. (140) e la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale consentono di affermare come nel nuovo codice di rito si sia previsto un vero e proprio interrogatorio di polizia della persona sottoposta a misura precautelare, anche se formalmente non si è utilizzato tale termine, secondo la più consolidata tradizione inquisitoria. Subito dopo aver escluso la possibilità di raccogliere ‘‘sommarie informazioni’’ dal fermato o arrestato, si introducono due eccezioni che capovolgono la regola. ‘‘Sul luogo o [rectius: e] (141) nell’immediatezza del fatto’’ gli ufficiali di polizia giudiziaria possono raccogliere anche dal soggetto in vinculis, senza l’assistenza del difensore, notizie e indicazioni utili per l’immediata prosecuzione delle indagini, pur in presenza di un divieto assoluto di documentazione. Il comma 7 dell’art. 350 c.p.p. consente alla polizia giudiziaria di raccogliere ‘‘dichiarazioni spontanee’’ dall’indagato a prescindere dal suo ‘‘status libertatis’’ (142), e, con tutta evidenza, ancora una volta senza la presenza del difensore. A ciò bisogna aggiungere come da un lato la Corte costituzionale in ben tre decisioni (sentenza 22 dicembre 1992, n. 476 (143); ordinanza 15 tura giuridica dell’interrogatorio come atto di indagine preliminare, in Giust. pen., 1993, c. 20. (139) V., però, per l’assimilabilità dell’istituto cautelare all’invito a presentarsi e, comunque tra interrogatorio in vinculis dell’indagato ed interrogatorio previsto dall’art. 453 c.p.p., infra, nota 166. (140) Per un commento in generale G.C. CASELLI, sub art. 350 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo c.p.p., coordinato da M. CHIAVARIO, cit., vol. IV, Torino, 1990, p. 126 ss.; L. BRESCIANI, sub art. 350 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo c.p.p., cit., 2o agg., 1993, p. 140 ss.; P.P. PAULESU, sub art. 350 c.p.p., in AA.VV., C.p.p. commentato, cit., p. 1516 ss. Sotto il codice del 1930 v. V. GREVI, Le sommarie informazioni di polizia e la difesa dell’indiziato, Milano, 1980. (141) F. CORDERO, Proc. pen., 1998, cit., p. 745. (142) F. CORDERO, op. ult. cit., p. 746; G.C. CASELLI, sub art. 350, cit., p. 131; L. BRESCIANI, voce Fermo, cit., p. 63. (143) In Giur. cost., 1992, p. 4333 ss.
— 1418 — aprile 1993, n. 176 (144), sentenza 25 luglio 1995, n. 381) (145) ha sì affermato l’applicabilità nel caso de quo dell’art. 64 c.p.p. (146), ma ha escluso, sostenendo la natura spiccatamente investigativa dell’atto, la necessità di osservare in sede di sommarie informazioni le regole dell’art. 65 c.p.p. Dall’altro è inapplicabile in materia l’art. 141-bis c.p.p. (147). La spontaneità delle dichiarazioni potrà, pertanto, unicamente accertarsi sulla base del verbale redatto dalla polizia procedente (148). La libertà morale e di autodeterminazione della persona in vinculis finisce, così, per essere irrimediabilmente compromessa proprio nell’immediatezza del fatto, quando più evidente è la situazione di inferiorità psicologica dell’indagato e più forte la tensione funzionale della polizia giudiziaria a raccogliere elementi probatori (149). VIII. Le novita della l. 16 luglio 1997, n. 234. — La l. 16 luglio 1997, n. 234 ha arricchito un quadro normativo di per sé piuttosto complesso con l’introduzione di due nuovi interrogatori, condotti uno dal pubblico ministero e l’altro dal g.i.p., creando problemi interpretativi e di coordinamento proprio con quelli preesistenti (150) della persona in stato di restrizione della libertà personale. Il nuovo art. 289, comma 2 (parte finale), c.p.p., introdotto dall’art. 2 della l. n. 234/1997, stabilisce che ‘‘nel corso delle indagini preliminari, prima di decidere sulla richiesta del pubblico ministero di sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, il giudice procede all’interrogatorio dell’indagato, con le modalità indicate agli artt. 64 e 65 c.p.p’’ (151). (144) In Giur. cost., 1993, p. 1241 ss. (145) In Giur. cost., 1995, p. 2778 ss. (146) A questa conclusione la dottrina più attenta era già pervenuta sotto il codice del 1930. V. V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, cit., p. 234 ss. (147) Cass., Sez. un., 25 marzo-30 giugno 1998, Savino, cit., p. 51 ss. I giudici di legittimità hanno precisato che con il termine interrogatorio l’art. 141-bis farebbe riferimento al solo atto espletato dall’autorità giudiziaria. In dottrina M. BARGIS, La riproduzione fonografica o audiovisiva prescritta dall’art. 141-bis c.p.p., cit., p. 1664; A. SCALFATI, Estesa alle dichiarazioni spontanee al pubblico ministero l’operatività dell’art. 141-bis c.p.p., in Dir. pen. proc., 1998, p. 326 ss. (148) Prima dell’introduzione dell’art. 141-bis c.p.p., G.C. CASELLI, sub art. 350, cit., p. 131. (149) Questo rischio era già evidenziato sotto il codice del 1930. Fra gli altri A. GIARDA, Le novelle del 1974 relative al processo penale: perplessità ed osservazioni critiche, in Riv. pen., 1975, p. 839 ss.; S. BUZZELLI, Diritto al silenzio e dichiarazioni spontanee, in Riv. dir. proc., 1989, p. 809 ss. (150) Così M. MADDALENA, Profili processuali della l. 16 luglio 1997, n. 234, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1054 ss. (151) In generale su tale modifica v. M. FERRAIOLI, L’interrogatorio dell’indagato
— 1419 — Un aspetto colpisce subito l’attenzione dell’interprete. Ci si trova di fronte ad una richiesta di misura cautelare da parte del pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari, prima di decidere sull’applicazione della misura, è chiamato a sentire, con evidenti fini di difesa, controllo e garanzia, l’indagato (152). Come evidenziato, la situazione non rappresenta una novità assoluta all’interno del sistema processuale. La priorità cronologica dell’interrogatorio rispetto all’adozione della ‘‘cautela’’ sussiste con riferimento all’applicazione di qualsiasi misura coercitiva nei confronti dell’arrestato o del fermato ai sensi dell’art. 391, comma 2, c.p.p. e in sede di proroga della custodia cautelare ex art. 301, comma 2-ter, c.p.p. E come in questi due casi la tutela del periculum libertatis, che fonda l’adozione e la conseguente esecuzione della misura custodiale nei confronti di un soggetto già in vinculis, non è pregiudicata dalla realizzazione di un contraddittorio anticipato, una ratio analoga sembra sussistere con riferimento all’ipotesi introdotta dalla l. n. 234/1997. ‘‘Probabilmente il legislatore ha pensato che l’interrogatorio preventivo dell’imputato’’ non può ‘‘frustrare più che tanto le esigenze cautelari sottese alla misura della sospensione dal pubblico ufficio o dal pubblico servizio’’ (153). Ciò che sorprende è l’esclusione di un’analoga previsione in sede di applicazione delle altre misure interdittive. In caso di sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori (art. 288) e del divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (art. 290) rimane l’obbligo per il giudice, ai sensi dell’art. 294 c.p.p., di effettuare l’interrogatorio dopo dieci giorni dall’esecuzione della misura (154). In altri termini, solo nel caso previsto dall’art. 289 c.p.p., dato che l’interrogatorio de quo non è altro che l’interrogatorio di ‘‘garanzia’’ anticipato, il g.i.p. non dovrà nuovamente sentire l’indagato nei dieci giorni successivi alla sospensione dal pubblico ufficio o servizio, se vi abbia già provveduto (155). prima della sospensione dal pubblico ufficio o servizio, in AA.VV., La modifica dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, Milano, 1998, p. 217 ss.; G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme legislative del codice di procedura penale, in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo c.p.p., 4a ed., II app. agg., cit., p. 14; A. MITTONE, sub art. 289 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., 4o agg., cit., p. 33 ss. (152) E. MARZADURI, Commento all’art. 2 della l. 16 luglio 1997, n. 234, in La leg. pen., 1997, p. 752; M. MADDALENA, Profili processuali, cit., p. 1054. (153) M. MADDALENA, Profili processuali, cit., p. 1055. (154) R. BRICCHETTI, Sulla sospensione dal pubblico servizio norme a rischio di incostituzionalità, in Guida al diritto, n. 29, 1997, p. 26. (155) M. D’ORAZI, Profili processuali della legge di riforma dell’abuso d’ufficio, in AA.VV., Le nuove leggi penali, cit., pp. 73 e 74.
— 1420 — L’assenza di qualsiasi motivo che giustifichi la disparità di trattamento subita dall’indagato suscita forti dubbi di legittimità costituzionale della nuova norma, per violazione dell’art. 3 della Costituzione (156). Non risulta inoltre ben chiaro il perché il legislatore abbia circoscritto l’applicabilità dell’istituto che ne occupa alla sola fase delle indagini preliminari, disattendendo completamente le indicazioni di carattere sistematico espresse in precedenza dalla Corte costituzionale nella sentenza 24 marzo-3 aprile 1997, n. 77 (157). Questa distonia, ancora più evidente dopo la l. n. 109/1999, pone come indispensabile, pertanto, un coordinamento delle norme da parte del legislatore. La novella del 1997 risulta, poi, un po’ frettolosa anche sotto un altro importante profilo. Nulla si dice espressamente circa la necessità o meno per il pubblico ministero, sempre al momento di richiedere la sospensione dal pubblico ufficio o servizio, di depositare gli atti di indagine espletati. La valenza garantistica della riforma sembra imporre un’unica soluzione interpretativa. La richiesta dell’organo dell’accusa ai sensi dell’art. 289, comma 2, c.p.p. equivale alla richiesta di cui all’art. 291, comma 1, c.p.p. e deve, pertanto, anch’essa accompagnarsi al deposito degli ‘‘elementi su cui si fonda, nonché di tutti gli elementi a favore dell’imputato e delle eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate’’ ed alla facoltà per il difensore di prenderne visione ed estrarne copia ai sensi dell’art. 293, comma 3, c.p.p. (158). Problemi interpretativi ancora più gravi crea la seconda novità processuale introdotta sempre dall’art. 2 della l. n. 234/1997. Nell’art. 416 c.p.p. e nell’art. 555 c.p.p. è stato previsto, a pena di nullità rispettivamente della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto di citazione a giudizio, l’obbligo a carico del p.m. di emettere preventivamente l’ ‘‘invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio ai sensi dell’art. 375, comma 3’’. Particolare rilevanza, ai fini che ne occupa, assume la questione relativa all’assimilabilità dell’applicazione di misure lato sensu cautelari al suddetto invito a presentarsi, e correlativamente se l’interrogatorio dell’imputato in vinculis possa assimilarsi al nuovo interrogatorio condotto (156) E. MARZADURI, Commento all’art. 2, cit., p. 755; M. MADDALENA, Profili processuali, cit., p. 1054; R. BRICCHETTI, Sulla sospensione dal pubblico servizio, cit., p. 26. (157) E. MARZADURI, Commento all’art. 2, cit., p. 756; A. MITTONE, sub art. 289 c.p.p., cit., p. 37. (158) Profila questa interpretazione come possibile M. D’ORAZI, Profili processuali, cit., p. 72.
— 1421 — dal pubblico ministero e impedire, pertanto, nel caso in cui quest’ultimo non venga espletato, la nullità dell’atto di esercizio dell’azione penale. In sede di primo commento si è riconosciuta da più parti l’equipollenza tra invito a presentarsi e istituti cautelari, nel caso di un’identità (159) o, per lo meno, di una sostanziale correlazione (160) tra i fatti oggetto della misura, l’invito e la richiesta di rinvio a giudizio. Tale conclusione non pare del tutto condivisibile, in quanto fondata sulla premessa, non convincente, che ‘‘l’invito a comparire possa essere fatto in qualsiasi fase delle indagini preliminari e quindi anche quando non sono completate le acquisizioni probatorie’’, come dimostrato dallo stesso art. 375 c.p.p., che impone l’enunciazione all’imputato dei fatti contestati, quali risultano dalle ‘‘indagini fino a quel momento compiute’’ (161). Un’interpretazione fedele alla ratio della riforma e allo stesso dettato normativo deve portare ad una diversa conclusione. La novella legislativa ha voluto realizzare, prima dell’esercizio ordinario dell’azione penale, un contraddittorio imperfetto (162) tra pubblico ministero e indagato, nel senso, per lo meno nelle intenzioni del legislatore, di creare un’opportunità per la persona sottoposta alle indagini, di replicare a tutte le risultanze degli atti compiuti unilateralmente dal pubblico ministero, al fine di permettere a quest’ultimo, in modo più consapevole, di scegliere tra la richiesta di archiviazione e la richiesta di rinvio a giudizio. Ad orientare in tal senso è il fatto che l’invito a presentarsi è disciplinato esplicitamente, come condizione essenziale per la validità stessa dell’esercizio dell’azione penale. Tra i due atti si viene, così, a creare un nesso inscindibile; l’invito a comparire, diventato strumento imprescindibile per l’organo dell’accusa ai fini delle determinazioni conclusive delle indagini preliminari, deve fondarsi sullo stesso fatto di reato e sugli stessi elementi probatori dell’atto di esercizio dell’azione penale. L’invito dovrà perciò essere emesso in prossimità di tale atto e, comunque, quando l’attività di indagine sia già stata portata a compimento (163). Inoltre dovrà contenere gli elementi e le fonti di prova rac(159) A.A. DALIA, La contestazione dell’imputazione provvisoria, in AA.VV., Le modifiche dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, cit., p. 202 ss. (160) M. MADDALENA, Profili processuali, cit., p. 1057; R. BRICCHETTI, Sulla sospensione dal pubblico servizio, cit., p. 29. (161) Così M. MADDALENA, Profili processuali, cit., p. 1057. (162) Cfr. F. CORDERO, Proc. pen., 1998, op. cit., p. 809. (163) Vedi G. SPANGHER, Commento agli artt. 289, 416 e 555 c.p.p., in Corr. giur., 1997, p. 1017; ID., Nota introduttiva, in AA.VV., Le nuove leggi penali abuso d’ufficio, dichiarazioni del coimputato, videoconferenze giudiziarie, cit., p. XVIII. È chiaro che l’utilità difensiva della preventiva contestazione dell’addebito voluta dalla riforma risulta alquanto limitata. O è possibile una proroga delle indagini, e solo in questo caso il p.m. potrà tener conto delle indicazioni dell’indagato, o non è più possibile prolun-
— 1422 — colti dal p.m., regola minimale necessaria a consentire all’indagato una scelta consapevole sull’opportunità difensiva di presentarsi (164). Alla luce di queste considerazioni non si può, pertanto, affermare un’assimilabilità in astratto fra interrogatorio della persona in stato di restrizione della libertà personale e invito a comparire con eventuale interrogatorio ex artt. 416 e 555 c.p.p. Tale fungibilità può, al più, verificarsi in quelle ipotesi di adozione delle misure cautelari, quando oramai le acquisizioni probatorie siano già state perfezionate. È, forse, opportuno escludere del tutto la fungibilità tra interrogatorio dell’indagato in vinculis ad opera del g.i.p. ed interrogatorio ex artt. 416 e 555 c.p.p., se si considera che quest’ultimo è, senza alcun dubbio, incentrato sul meritum causae, finalità che non pare suscettibile di essere assolta in particolare dagli interrogatori di cui agli artt. 294 e 391 c.p.p. (165). Un conto è per l’autorità giurisdizionale interrogare l’indagato al fine di valutare la sussistenza dei presupposti di applicazione degli istituti cautelari; ben diverso per il pubblico ministero interrogare la persona sottoposta alle indagini per consentirgli di replicare ai fatti contestati e risolversi, così, in ordine alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, secondo le regole di valutazione di cui all’art. 125 disp. att. c.p.p. A ben vedere queste considerazioni valgono, a maggior ragione, dopo la sentenza n. 77/1997, che, come detto, ha evidenziato l’assoluta caratterizzazione dell’istituto di cui all’art. 294 c.p.p. (e quindi art. 391 c.p.p.) rispetto ad ogni altro interrogatorio. Occorre poi rilevare che il contenuto dell’interrogatorio di ‘‘garanzia’’ risulta inevitabilmente delimitato in considerazione della parzialità e incompletezza degli atti a conoscenza del g.i.p. ai sensi dell’art. 291, comma 1, c.p.p. sui quali lo stesso può fondare le domande. Per converso, l’organo dell’accusa potrà e dovrà sentire l’indagato sulla base di quanto emerge da tutti gli atti di indagine compiuti. A sostegno di questa interpretazione vi è, infine, un argomento letterale. L’invito a comparire è atto esclusivo del p.m. Il riferimento ad esso gare ulteriormente le indagini e, in questo caso, l’organo dell’accusa dovrà comunque decidere immediatamente sull’esercizio o meno dell’azione penale. V. A.A. DALIA, La contestazione dell’imputazione provvisoria, cit., p. 206 ss.; E. MARZADURI, Commento all’art. 2, cit., p. 761. (164) L’eadem ratio tra la disciplina del giudizio immediato e la disciplina di cui si discute impone l’eadem dispositio, in relazione al contenuto dell’invito a comparire di cui all’art. 375, comma 3, c.p.p. Contra M. D’ORAZI, Profli processuali, cit., pp. 98 e 99. In caso contrario l’imputato, per avvalersi delle stesse informazioni, ma ai sensi dell’art. 65 c.p.p., sarebbe comunque costretto a presentarsi. (165) Sempre G. SPANGHER, Nota introduttiva, cit., p. XVIII e ID., Commento agli artt. 289, 416 e 555 c.p.p., cit., p. 1017.
— 1423 — nella nuova disciplina sembra pertanto implicare l’espletamento, seppure eventuale, di un interrogatorio condotto dal pubblico ministero (166). IX. Le contraddizioni interne al sistema: ovvero sulla diversità, anche psicologica, della difesa dell’imputato in vinculis. — Il quadro che emerge dalla disciplina codicistica in materia di interrogatorio dell’imputato in vinculis risulta quanto mai variegato; conseguenza inevitabile dello scontro tra le istanze di difesa, controllo e garanzia che, in caso di restrizione della libertà personale, sono particolarmente pressanti e le esigenze investigative e di segretezza tipiche della fase delle indagini preliminari, nella quale, normalmente, il procedimento de libertate si inserisce. Il bilanciamento tra questi opposti interessi, la diversa modulazione nell’intensità delle garanzie del diritto di difesa a seconda della fase procedimentale in cui ci si trova, princìpi più volte affermati dalla Corte costituzionale (167), sono serviti a giustificare una disciplina che è espressione di un equilibrio estremamente instabile. In effetti l’interrogatorio dell’imputato in vinculis è, in modo inevitabile, condizionato da un lato dalle peculiarità, anche sotto il profilo psicologico, del contraddittorio nel procedimento lato sensu cautelare; dall’altro dal fatto che tipicamente lo stesso interrogatorio riveste la natura di atto di indagine, di cui ne condivide la funzione e la valenza probatoria (168). (166) Individua tale argomento letterale, superandolo, M. D’ORAZI, Profili processuali, cit., pp. 84 e 85. La questione dell’assimilabilità o meno dell’istituto cautelare all’invito a presentarsi e, comunque, dell’interrogatorio di un soggetto in stato di restrizione della libertà personale con l’interrogatorio previsto quale condizione di esercizio dell’azione penale si era già posta, in termini più o meno analoghi, in materia di giudizio immediato, dato che l’art. 453 c.p.p. disciplinava e disciplina quale presupposto dello stesso ‘‘procedimento’’ il previo interrogatorio dell’indagato o l’emissione dell’invito a comparire. Anche in questo caso una dottrina sensibile ai valori del processo, aveva sottolineato come l’atto fosse preordinato a mettere ‘‘a conoscenza [I’interrogato] del punto terminale delle indagini’’ e consentire, così, al pubblico ministero, ‘‘grazie anche alle eventuali difese addotte, una più oculata scelta del modo di esercizio dell’azione penale’’; così G. RICCIO, Procedimenti speciali, in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo c.p.p., cit., pp. 326 e 327. La dottrina e la giurisprudenza prevalente è, oramai, per l’assimilabilità tra gli interrogatori dell’indagato in vinculis, l’interrogatorio ex art. 453 c.p.p. Per un’efficace analisi della questione P.P. RIVELLO, Il giudizio immediato, Padova, 1993, p. 159 ss. (167) V. da ultimo Corte cost., sent. 27 giugno 1997, n. 205, in Giust. pen., 1998, I, c. 308 ss., con nota di A. GIARDA, I ‘‘parenti’’ delle parti nel giudizio civile: dal divieto al dovere di testimoniare. Con tale decisione la Corte ha dichiarato inammissibile in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost. e manifestamente infondata in riferimento all’art. 24, comma 2, Cost. la questione di legittimità costituzionale dell’art. 249 c.p.c., nella parte in cui non prevede la facoltà di astensione dal testimoniare dei prossimi congiunti delle parti nel processo civile. (168) V. A. DIDDI, Varie forme di dichiarazioni dell’indagato o dell’imputato, cit., c. 32.
— 1424 — Soffermandosi, innanzi tutto, sul primo aspetto e sulla disciplina in materia di misure cautelari occorre individuare alcuni punti fermi. Come più volte affermato dalla Corte costituzionale il diritto di difesa può subire limitazioni ‘‘solo in presenza della necessità di evitare l’assoluta compromissione di esigenze prioritarie nell’economia del processo, che per loro natura potrebbero risultare vanificate dal contraddittorio anticipato [...]. È questo il caso dei provvedimenti cosiddetti « a sorpresa », come l’adozione, per la prima volta, di misure cautelari personali, cui l’indagato potrebbe sottrarsi, qualora ne venisse preavvertito allo scopo di consentire l’esercizio del suo diritto di difesa prima ancora dell’adozione di detti provvedimenti’’ (169). L’instaurazione del contraddittorio sulla decisione dell’autorità giurisdizionale di limitare la libertà della persona è, quindi, un problema che si pone, di regola, ex post (170). La prima importante novità che emerge dalla riforma del 1995 e dalla giurisprudenza più recente della Consulta è quella di averne affidato, sostanzialmente, la realizzazione allo svolgimento dell’interrogatorio di « garanzia » ad opera di un organo giurisdizionale super partes e, in particolare, al giudice delle indagini preliminari, non solo nel momento applicativo, ma anche in quello modificativo ed estintivo delle misure cautelari. La Corte costituzionale ed ora il legislatore hanno indicato, poi, come indispensabile tale contraddittorio non più solo nella fase delle indagini preliminari, ma, per lo meno, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento. È innegabile che, in questo modo, si sono moltiplicate le occasioni per verificare la sussistenza e la permanenza delle esigenze di cui all’art. 274 c.p.p., oltre che dei gravi indizi di colpevolezza; allo stesso tempo, però, il contraddittorio successivo all’adozione della cautela è stato limitato al solo aspetto della difesa personale, senza valorizzare allo stesso tempo, come necessario, la difesa tecnica, essenziale per la realizzazione del principio della parità delle armi tra le parti contrapposte. In particolare nel momento in cui il legislatore, in tutti gli interrogatori della persona sottoposta a misura cautelare continua a richiedere, come obbligatoria, la sola nomina del difensore di fiducia o d’ufficio (171), ma facoltativa la presenza, si ha un’affermazione solo formale, (169) Così in particolare, Corte cost., sent. n. 219/1994, cit., p. 1824 ss. e Corte cost., sent. n. 292/1997, cit., p. 1015 ss. (170) Per tutti V. GREVI, Garanzie difensive e misure cautelari personali, cit., p. 93 ss.; ID., estratto da Garanzie costituzionali e diritti fondamentali, Roma, 1997, p. 270 ss. (171) Nell’ottica del rafforzamento del diritto alla nomina del difensore di fiducia da parte dell’imputato in vinculis v. Cass., Sez. un., 20 settembre 1997 (c.c. 26 marzo 1997), Procopio, in CED, 44418. Con tale decisione si è stabilito come la dichiarazione di nomina del difensore di fidu-
— 1425 — ma non sostanziale del diritto di difesa secondo un non condivisibile e risalente insegnamento della Corte costituzionale (172). Il diritto di intervento del difensore all’interrogatorio è sì un obbligo sotto il profilo deontologico, la cui inosservanza determina una responsabilità disciplinare (173). Ci si dimentica, però, di considerare la realtà drammatica delle difese d’ufficio e del patrocinio dei non abbienti (174), che rende più frequente di quanto si pensi lo svolgimento dell’interrogatorio della persona in vinculis senza neppure un simulacro di assistenza difensiva. Viceversa, occorre ritenere indefettibile la presenza del difensore, quale garanzia minima per la genuinità dello svolgimento dell’interrogatorio del soggetto in stato di restrizione della libertà personale. Sarebbe opportuno, inoltre, nella stessa prospettiva, fare in modo che il difensore non sia costretto ad una pura e semplice assistenza passiva all’atto, consentendogli di controesaminare l’interrogato, anche perché solo la dialettica nella formazione ne consente una vera efficacia euristica sia nella valutazione dei presupposti e delle esigenze di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p., sia, come è di fatto, ai fini della valenza probatoria. Significativa in tal senso appare l’introduzione del nuovo interrogatorio disciplinato dall’art. 421 c.p.p. L’assenza di questi due requisiti essenziali (175) nello svolgimento dell’istituto che ne occupa introduce il problema fondamentale della effettività (176) del contraddittorio sull’adozione delle misure cautelari; caratteristica che assume diversa connotazione e intensità nella ‘‘progressione’’ del procedimento incidentale de libertate e che si pone, con tutta evidenza, tipicamente nella fase preliminare in relazione alla quale è dettata la disciplina in materia. Necessario, sul punto, è il riferimento al combinato disposto degli artt. 291 e 293, comma 3, c.p.p., e 38 disp. att. c.p.p. cia effettuata dall’imputato detenuto, con atto ricevuto dal direttore dello stabilimento di custodia a norma dell’art. 123 c.p.p., ha efficacia immediata, come se fosse ricevuto direttamente dall’autorità giudiziaria. (172) V. Corte cost., sent. 24 marzo 1971, n. 62, in questa Rivista, 1972, p. 740 ss. con nota di E. AMODIO, La presenza del difensore all’interrogatorio istruttorio dell’imputato: epilogo di un conflitto e prospettive per l’ ‘‘effettività’’ della difesa tecnica. (173) In questo senso sempre Corte cost., sent. n. 62/1971, cit., pp. 754, 755 e 756. (174) Cfr. E. AMODIO, La presenza del difensore all’interrogatorio istruttorio dell’imputato, cit., p. 752 ss. (175) V. supra par. IV, sub lett. a). (176) Sul fatto che l’ ‘‘idea di contraddittorio’’ sottintende l’esigenza di un’effettiva difesa v. G. CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio nel processo penale italiano, in questa Rivista, 1966, p. 412 ss. In generale sul diritto al contraddittorio nel processo penale italiano v., fra gli altri, G. GIOSTRA, Contraddittorio (principio del), II: Dir. proc. pen., in Enc. giur., vol. VIII, Roma, 1989; P. FERRUA, voce Difesa (diritto di), in Dig. disc. pen., vol. III, p. 469 ss.
— 1426 — Pur con il pesante condizionamento della selezione che il pubblico ministero compie sugli atti depositati, imposta dalle esigenze di segretezza delle indagini, la discovery di tali atti, a ben vedere, ha un’efficacia minimale in sede di interrogatorio di garanzia ai sensi dell’art. 294 c.p.p. Il meccanismo perverso del differimento del colloquio difensivo previsto dall’art. 104 c.p.p. opera proprio in prossimità dell’applicazione della cautela, a sottolineare che la persona sottoposta a limitazione della libertà personale, nel suo momento di maggiore debolezza psicologica, è strumento per ottenere dichiarazioni; ad evidenziare, allo stesso tempo, come il riconoscimento immediato della difesa tecnica è considerato elemento inquinante della genuinità dell’atto (177) e non condizione indispensabile per consentire una più ampia autodifesa, anche sotto il profilo della garanzia del nemo tenetur se detegere. Se il mancato colloquio difensivo esclude, di fatto, qualsiasi forma di difesa tecnica (178), qualora ciò non avvenga, l’interrogatorio de quo sconta le difficoltà operative connesse alla perentorietà e all’esiguità dei tempi di svolgimento, pur necessitati alla luce della Costituzione e delle Carte internazionali. Solo decorso un certo lasso di tempo dalla limitazione della libertà personale, da un lato viene neutralizzato il meccanismo dell’art. 104 c.p.p., dall’altro si concretizza la conoscenza da parte del difensore degli atti depositati e quest’ultimo potrà eventualmente, pur con tutti i limiti evidenziati, attivare un’indagine difensiva parallela ai sensi dell’art. 38-bis disp. att. c.p.p. La possibilità o la maggiore possibilità di un’effettiva difesa tecnica pare sussistere, quindi, più facilmente in sede di istanza di revoca o di sostituzione della misura cautelare ex art. 299 c.p.p. e di proroga della custodia cautelare in carcere ex art. 301, comma 2-ter, c.p.p. È inevitabile riconoscere, in questi casi, un’assoluta caratterizzazione e maggiore efficacia dell’interrogatorio dell’indagato-imputato in vinculis rispetto a quelli eventualmente già espletati ed anche con riferimento all’« audizione » davanti al tribunale del riesame. (177) Cfr. G. SPANGHER, Relazione, in AA.VV., G.i.p. e libertà personale. Verso un contraddittorio anticipato, Napoli, 1997, p. 49; R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 1, cit., p. 51. (178) Cfr. V. BONINI, Effettività del diritto di difesa e disciplina dei rapporti tra difensore ed assistito in vinculis, in AA.VV., Il giusto processo, Milano, 1998, p. 183 ss. La Consulta ha bene evidenziato l’essenzialità del colloquio difensivo ai fini della realizzazione della difesa tecnica in particolare in due decisioni: sent. 14 giugno-25 giugno 1996, n. 216, cit., p. 1895 ss.; sent. 19 giugno-3 luglio 1997, n. 212, in Giur. cost., 1997, p. 2141 ss. Con quest’ultima pronuncia la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario (l. n. 354/75), nella parte in cui non prevedeva che il detenuto condannato in via definitiva ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena.
— 1427 — Questa sconta tutte le insufficienze derivanti dalla scarsa attenzione riservata alla difesa personale nella disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, che solo un legislatore distratto ritiene sede privilegiata di questioni di diritto e non di fatto (179). Né, tantomeno, pare valorizzata la difesa tecnica, dato che, anche in questa ipotesi, la presenza del difensore è solo facoltativa seppure nei termini precisati. Il progressivo acquisto di effettività del contraddittorio ex post sulle misure cautelari raggiunge il suo culmine nell’ipotesi di adozione dell’ordinanza restrittiva dopo l’esercizio dell’azione penale con il deposito di tutti gli atti di indagine e la possibilità incondizionata del colloquio difensivo. Ma si deve essere consapevoli che si tratta di una eventualità di non frequente verificazione pratica. La prevalenza di una garanzia solo formale del diritto di difesa è ancora più evidente nel caso di ricorso alle misure precautelari, preludio, almeno di regola, all’emissione di un’ordinanza avente ad oggetto una misura coercitiva, e che si collocano nel momento iniziale di commissione dell’ipotetico fatto di reato. In quest’ipotesi, il ricorso agli strumenti previsti dagli artt. 291, comma 1, 293, comma 3, c.p.p. e 38-bis disp. att. c.p.p. è solo teorico; le istanze di difesa e di garanzia dell’interrogatorio soccombono di fronte alle esigenze investigative che, in caso di arresto o fermo, sono di gran lunga prevalenti e di facile realizzazione in un momento di grave inferiorità psicologica della persona in vinculis, non bilanciata dalla presenza necessaria (l’unica in materia) di un difensore muto e pressoché all’oscuro di tutto. È interessante, allo stesso tempo, rilevare come l’interrogatorio, seppure eventuale, ad opera del g.i.p. del fermato e dell’arrestato è anteriore all’adozione della misura coercitiva, a conferma che, nel nostro ordinamento, ben prima della l. n. 332 del 1995 e l’introduzione del comma 2ter nell’art. 301 c.p.p. e soprattutto della l. n. 234 del 1997, la possibilità di un contraddittorio anticipato, per di più nel caso di eventuale emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere o di arresti domiciliari, fosse solo subordinata ad una preventiva sottoposizione in vinculis dell’imputato, che non vanificasse l’essenziale effetto sorpresa. È proprio questa la strada auspicata da attenta e sensibile dottrina (180), attraverso varie soluzioni tecniche, per la realizzazione in via generale di un contraddittorio anticipato, l’unico che garantirebbe un vero (179) Cfr. da ultimo A. CONFALONIERI, I controlli sulle misure cautelari, cit., p. 955. (180) E. ZAPPALÀ, Le garanzie giurisdizionali in tema di libertà personale e ricerca della prova, cit., p. 71 ss. Più di recente con varie soluzioni non tutte favorevoli AA.VV., G.i.p. e libertà personale. Verso un contraddittorio anticipato?, cit.
— 1428 — carattere di giurisdizionalità ad un provvedimento restrittivo della libertà personale. In questo modo, però, il rischio di un’affermazione solo formale e non sostanziale del diritto di difesa diviene più elevato. A tacer d’altro, i tempi, ancora più serrati, di svolgimento di questo contraddittorio (e il discorso inevitabilmente si allarga a qualsiasi forma di contraddittorio sugli istituti cautelari) si scontrano con le difficoltà organizzative dell’apparato giudiziario. Ancora di recente la Corte costituzionale ha stigmatizzato, come ineluttabile, tale situazione, affermando del resto che ‘‘in assenza di termini perentori’’ tali difficoltà ‘‘o le vischiosità delle prassi burocratiche possono portare facilmente, anche al di fuori di dimostrabili negligenze individuali, al protrarsi dei procedimenti nel tempo’’ (181). Ci troviamo di fronte ad una prospettiva ricorrente, negli ultimi tempi, nella giurisprudenza della Consulta e delle Sezioni unite dei rapporti tra efficienza e garanzia, del difficile bilanciamento tra le stesse, e della necessità che, in una certa misura, i diritti dell’imputato, soprattutto se in vinculis, non siano sacrificati in nome della prima (182). In un quadro, non del tutto tranquillizzante, si inseriscono i due modelli di interrogatorio condotti dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 294, comma 6. c.p.p. e 388 c.p.p. e le sommarie informazioni della polizia giudiziaria. Riguardo ai primi il legislatore con la modifica allo stesso art. 388 c.p.p. e, seppure sotto diverso profilo, agli artt. 416 e 555 c.p.p. e la Corte costituzionale (183) hanno attribuito anche all’organo dell’accusa una rilevante funzione di garanzia. In realtà si è perpetrato così l’equivoco di fondo circa la natura bifronte del pubblico ministero: ‘‘organo di giustizia’’ e parte allo stesso tempo. Al di là delle buone intenzioni, occorre sempre tener presente che la contrapposizione netta tra quest’ultimo e l’imputato, soprattutto nel caso di utilizzo di misure di restrizione della libertà personale, rende impossibile all’organo dell’accusa tale funzione che dovrebbe comunque essere affidata solo ad un organo super partes (184). (181) Corte cost., sent. 22 giugno 1998, n. 232, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1100 ss., con nota di G. SPANGHER, La ‘‘ragionevole’’ prevalenza dei diritti dell’imputato sulle difficoltà organizzative. (182) Cfr. G. SPANGHER, op. ult. cit., p. 1105 ss.; M. CHIAVARIO, Garanzie ed efficienza: un equilibrio difficile ma essenziale, in Garanzie ed efficienza della giustizia penale. Temi e problemi, Torino, 1998, p. 123 ss. (183) Da ultimo Corte cost., ord. 26 marzo-11 aprile 1997, n. 96, in Cass. pen., 1997, p. 2403, con nota di V. MELE, Una norma inutile l’art. 358 c.p.p. Cfr. C. TAORMINA, Dir. proc. pen., vol. I, cit., p. 145 ss. (184) Cfr. A. DIDDI, Varie forme di dichiarazioni dell’indagato o dell’imputato, cit., cc. 20 e 21.
— 1429 — Gli interrogatori del pubblico ministero, e discorso analogo vale a maggior ragione per le sommarie informazioni della polizia giudiziaria non possono che rappresentare strumenti di pressione per acquisire dichiarazioni dal soggetto in vinculis, a volte anche in assenza del difensore (185). X. L’incidenza dei vizi della volontà. — Si arriva, così, ad uno snodo nevralgico della materia. L’incidenza dei vizi della volontà (186) sull’interrogatorio dell’imputato in vinculis. Nel caso di assunzione di tale atto secondo modalità orientate ad estorcere confessioni, se da un lato se ne può affermare l’inesistenza ‘‘quando sia del tutto assente l’elemento volitivo (stato di piena incoscienza, violenza fisica)’’ (187) più difficile è arrivare ad una soluzione nel caso in cui le dichiarazioni siano da attribuire ad errore, dolo e violenza morale. Soccorrono in questo caso la regola fondamentale dell’art. 64, comma 2, c.p.p., richiamata in materia di princìpi generali di prove dall’art. 188 c.p.p., e l’art. 191 c.p.p. Il ricorso, in particolare alla custodia cautelare in carcere, al fine di esercitare pressioni che limitano, ma non escludono, la capacità di autodeterminazione dell’interrogato rappresenta un comportamento illecito (188) da ricondurre alla violazione del diritto alla libertà morale, quale diritto inviolabile garantito dall’art. 2 della Costituzione (189). Allo stesso tempo l’utilizzo distorto degli istituti cautelari integra la violazione del divieto stabilito dagli artt. 64, comma 2, e 188 c.p.p. circa (185) Sostiene l’incompatibilità assoluta tra carattere accusatorio del processo penale e la previsione di un interrogatorio dell’indagato da parte del p.m. C. TAORMINA, Dir. proc. pen., vol. I, Torino, 1995, p. 243 ss. (186) In generale sull’incidenza dei vizi della volontà nel processo penale v. G. CONSO, Considerazioni sul processo Egidi dopo l’intervento della Corte Suprema, in questa Rivista, 1958, p. 565 ss.; ID., I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955, pp. 57-58 e 78; G. RICCIO, La volontà delle parti nel processo penale, Napoli, 1968, p. 143 ss.; R.E. KOSTORIS, La rappresentanza dell’imputato, Milano, 1986, p. 385 ss. V. anche P. CORVI, sub art. 177 c.p.p., in AA.VV., C.p.p. commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, cit., p. 622 ss. (187) Così R.E. KOSTORIS, sub artt. 64 e 65, cit., pp. 332 e 333. (188) Sul distinguo tra prova illecita e prova illegittima v. F. CORDERO, Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, p. 148 ss. (189) Così Corte cost., sent. 1-19 giugno 1998, n. 229, cit., p. 73. Sulla problematica delle prove incostituzionali v. fra gli altri G. ALLENA, Riflessioni sul concetto di incostituzionalità della prova nel processo penale, in questa Rivista, 1989, p. 506 ss. Per l’inutilizzabilità delle prove incostituzionali v. Cass., Sez. un., 24 settembre 1998 (c.c. 13 luglio 1998), Gallieri, in Gazz. giur. Giuffré, n. 38, 1998, p. 54 ss.
— 1430 — le modalità di assunzione di una prova, sanzionato espressamente con l’inutilizzabilità dall’art. 191 c.p.p. (190). Vi è di più. Era stata proprio l’assenza di questa sanzione nel sistema previgente ad indurre autorevole dottrina ad affermare nel caso de quo l’inesistenza dell’interrogatorio, poiché questo mancherebbe del requisito essenziale della spontaneità (191). Sennonché questa affermazione, in un certo senso, è ancora attuale. L’art. 64, comma 2, c.p.p. riveste un’importanza straordinaria, dal punto di vista sistematico, nel momento in cui esplicita come le dichiarazioni di scienza (192) che compongono l’interrogatorio presentano, quale elemento costitutivo, una volontà libera, cosciente e spontanea. La limitazione della libertà personale e in particolare la custodia cautelare a prescindere dall’utilizzo corretto o meno che se ne faccia rappresenta, di per sé, l’attenuarsi di questi caratteri, comprimendo, di fatto, la capacità di autodeterminarsi dell’indagato o dell’imputato. Di ciò si deve tener conto al momento di valutare l’attendibilità dell’atto ai fini probatori (193). XI. Gli artt. 503, comma 5 e 6, e 513, comma 1, c.p.p. — Si arriva, così, all’aspetto più problematico dell’intera materia. Nel caso in cui la persona sottoposta alle indagini, e l’imputato dopo l’esercizio dell’azione penale, sottoposti a restrizione della libertà personale, interrogati dal pubblico ministero o dal giudice delle indagini preliminari, anziché avvalersi della facoltà di non rispondere, accettino di collaborare con l’autorità giudiziaria rendendo dichiarazioni, si innesca un meccanismo che porterà comunque ad un utilizzo probatorio delle stesse. Due le strade. L’imputato richiede o presta il proprio consenso ad essere sottoposto ad esame ai sensi degli artt. 208 ss. c.p.p. Le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio, laddove vi sia contrasto con quanto detto durante l’escussione dibattimentale, sono utilizzate ai fini delle contestazioni e valutate non solo per stabilire la credibilità o meno dell’imputato, ma anche ai fini della decisione, dal momento che (190) Sostiene l’illiceità e l’illegittimità allo stesso tempo della prova nel caso di utilizzo di metodi che integrino la violazione dell’art. 188 c.p.p. N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, cit., in particolare p. 205. V. anche E. MARZADURI, Quale rimedio è invocabile, cit., pp. 61 e 62. (191) Così F. CORDERO, op. ult. cit., p. 167 ss. (192) Rimane valida la considerazione di G. CONSO che distingue nettamente circa l’incidenza dei vizi della volontà tra dichiarazione di volontà, dichiarazioni di scienza, provvedimento del giudice, in Considerazioni sul processo Egidi, cit., p. 568. (193) Cfr. sub par XII.
— 1431 — confluiscono nel fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art. 503, commi 5 e 6, c.p.p. (194). L’imputato è contumace, assente, ovvero rifiuta di sottoporsi ad esame. In base all’art. 513, comma 1, c.p.p. (195) le dichiarazioni rese dallo stesso sul fatto proprio nella fase delle indagini preliminari o in sede di udienza preliminare, quando era in stato di arresto, fermo, o sottoposto a misura cautelare, vengono lette su richiesta di parte, e quindi acquisite anch’esse nel fascicolo del dibattimento. In presenza di queste norme è difficile non parlare di interrogatorio dell’imputato in vinculis come vero e proprio mezzo di prova, secondo gli schemi più collaudati del sistema processuale inquisitorio. La riforma dell’art. 513 c.p.p., operata prima con la l. n. 267/1997, poi con la recente sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998 (196), che ha sostanzialmente ripristinato lo status quo ante, non ha (194) Per un commento in generale di tale norma v. P.P. RIVELLO, sub art. 503 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, vol. V, Torino, 1991, p. 320; ID., sub art. 503 c.p.p., in AA.VV. Commento al c.p.p., cit., 2o agg., 1993, p. 255 ss.; S. CORBETTA, sub art. 503 C.p.p., in AA.VV., C.p.p. commentato, cit., p. 2222 ss. (195) Non è possibile analizzare in questa sede tale norma e le ripetute modifiche legislative intervenute. Si rimanda, pertanto, ai commenti specifici ed, in particolare, prima della riforma del 1997 v. M. NOBILI, sub art. 513 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, vol. V, 1991, p. 436 ss.; ID., sub art. 513 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo c.p.p., coord. da M. CHIAVARIO, 2o agg., 1993, Torino, 1993, p. 265 ss. Dopo la riforma del 1997 A. GIARDA, La ‘‘novelle’’ di una notte di mezza estate, cit., p. 137 ss.; O. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in questa Rivista, 1997, p. 736 ss.; G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme, cit., p. 1 ss.; F. PERONI, La nuova disciplina delle letture di dichiarazioni provenienti dall’imputato, cit, p. 149 ss.; S. CORBETTA, sub art. 513 c.p.p., in AA.VV., C.p.p. commentato, cit., p. 2288 ss.; G. GARUTI, sub art. 513 c.p.p., in AA.VV., Commento al c.p.p., 4o agg., cit., p. 108 ss. (196) Per il testo e per un primo commento a tale sentenza v. A. GIARDA, Commento a Corte cost. n. 361/1998, in A. GIARDA-G. SPANGHER, Appendice di aggiornamento al c.p.p., Milano, 1998. V., inoltre, R. BRICCHETTI, Il meccanismo individuato dalla Corte lascia l’accusato senza un’effettiva tutela, in Guida al dir., 1998, n. 44, p. 55 ss.; G. FRIGO, Un’involuzione dell’impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, ivi, p. 61 ss.; P.P. RIVELLO, La possibilità di procedere al controesame salva il principio del contraddittorio, ivi, p. 65 ss.; M. CHIAVARIO, Una nuova svolta nella tormentata vicenda del regime di utilizzabilità delle dichiarazioni di coimputati e di imputati in procedimenti connessi: impressioni, congetture e suggestioni ‘‘a prima lettura’’, Supplemento a La leg. pen., 1998, nn. 2 e 3; P. TONINI, Una sentenza additiva molto discussa a) il diritto a confrontarsi con l’accusatore, in Dir. pen. proc., 1998, p. 14 ss.; E. MARZADURI, Una sentenza additiva molto discussa b) il diritto al silenzio del coimputato, ivi, 1998, p. 20 ss.; S. CORBETTA, Art. 513 c.p.p.: intervento della Consulta e prospettive di riforma, in Corr. giur., 1998, p. 1420 ss.; G. DI CHIARA, Art. 513 c.p.p. e riprogettazione (manipolativa) dello statuto dell’imputato-teste: appunti sparsi a ‘‘prima lettura’’ su Corte cost. n. 361/1998, in Foro it., 1998, I, c. 3441; S. BUZZELLI, L’art. 513 c.p.p. tra esigenze di accertamento e garanzia del contraddittorio, in questa Rivista, 1999, p. 307 ss.; M. SCAPARONE, Diritto al silenzio e diritto al controesame del coimputato, in Giur. cost., 1998, p. 3148 ss.; G. GEMMA-R. PELLATI, Processo e verità:
— 1432 — certo portato novità significative ai fini che ne occupa. È servita a ripristinare un contraddittorio, seppure apparente, nella formazione della prova dibattimentale con riferimento alle dichiarazioni dell’imputato sulla responsabilità di terzi. Si può in questa sede solo accennare al risultato a cui si è pervenuti dopo la sentenza da ultimo citata della Consulta. Per le dichiarazioni sul fatto altrui il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 210 c.p.p. ‘‘nella parte in cui non ne è prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero’’. Le chiamate di reità e correità, rese nelle fasi anteriori dello stesso procedimento, alla luce del nuovo comma 2 dell’art. 513 c.p.p., saranno acquisite anch’esse mediante il meccanismo dell’art. 500, commi 2-bis e 4, c.p.p. Il ricorso a questa vera e propria fictio di contestazione determinerà il recupero probatorio automatico anche di queste dichiarazioni. È rimesso all’esperienza giudiziaria distinguere, all’interno di quanto detto dall’imputato le dichiarazioni strettamente confessorie, per le quali continuerà ad applicarsi l’art. 513, comma 1, c.p.p., dalle dichiarazioni sul fatto altrui soggette alle regole di utilizzazione fissate dalla decisione n. 361/1998 della Corte costituzionale. XII. La valenza probatoria della confessione e della ritrattazione. — Sia la formula espressa nell’art. 513, comma 1, c.p.p. che quella contenuta nell’art. 503, commi 5 e 6, c.p.p. consentono di affermare che le dichiarazioni dell’imputato in vinculis, confluite nel fascicolo dibattimentale, diventano materiale valutabile ai fini della decisione. Diviene così utile individuare i punti fermi che dovrebbero orientare il giudice in sede di libero convincimento. Se è da condividere la tesi tradizionale che attribuisce alla confessione valore indiziario (197), sono, però, necessarie alcune precisazioni. Il termine ‘‘indizio’’ non è utilizzato in senso tecnico, ad indicare ‘‘quel procedimento mediante il quale, partendo da un fatto provato (la circostanza indiziante) si ricava, attraverso massime di esperienza o leggi un’altra decisione sostanzialmente coerente della Corte, ivi, p. 3153 ss.; P. VENTURA, La Corte, il legislatore ordinario e quello di revisione, ovvero del diritto all’ ‘‘ultima parola’’ al cospetto delle decisioni d’incostituzionalità, ivi, p. 3169 ss.; V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato nel fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio, in questa Rivista 1999, p. 821 ss. (197) O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato, cit., p. 864; sotto il codice del 1930, G. MONTALBANO, La confessione nel diritto vigente, Napoli, 1958, pp. 44-48.
— 1433 — scientifiche, l’esistenza di un fatto storico da provare’’ (198), ma nel senso che il livello di probabilità logica che le dichiarazioni contra se dell’imputato permettono di raggiungere circa l’accertamento del thema probandum non è tale da consentire una condanna (199). Ad orientare l’interprete in tal senso vi sono alcune considerazioni di fondo: sull’imputato, a differenza del testimone, non grava certo l’obbligo di rispondere secondo verità; il principio nemo tenetur se detegere non gli attribuisce un diritto alla menzogna, ma dà la possibilità allo stesso imputato di mentire senza incorrere in fattispecie penalmente rilevanti al di fuori della calunnia e della simulazione di reato (200). L’imputato è un ‘‘locutore sospetto’’, le cui affermazioni non permettono da sole di fondare alcun giudizio di attendibilità e raggiungere un valido risultato probatorio. Tali dichiarazioni sono semplici elementi di prova, che per assumere valenza probatoria piena debbono sempre essere accompagnati da ‘‘riscontri obiettivi, che ne confermino la veridicità, oltre che la genuinità e la spontaneità’’ (201). È estremamente delicata poi la questione relativa alla ritrattazione della confessione, resa in sede di interrogatorio, davanti al giudice del dibattimento. Al riguardo questi deve prestare particolare attenzione a non preferire, come spesso accade, le prime dichiarazioni rese dall’imputato, per la semplice ragione che sono le più vicine alla commissione del fatto. Ciò svela l’equivoco di fondo di considerare in ogni caso la confessione iniziale veridica, spontanea e genuina. Piuttosto, in presenza di una ritrattazione, l’autorità giudicante deve controllare in modo ancor più incisivo quei caratteri e rendere conto nella motivazione in modo penetrante dei motivi che hanno indotto l’imputato a ritrattare e dei riscontri obiettivi che devono corroborare le iniziali dichiarazioni confessorie ai fini di un’eventuale sentenza di condanna (202). XIII. Considerazioni conclusive. — È emerso con chiarezza come se da un lato gli interrogatori dell’imputato in vinculis si connotano per un’essenziale valenza di difesa, controllo e garanzia, dall’altro è possibile ravvisare nel dettato normativo la tendenza inevitabile ad asservire questa (198) Così P. TONINI, La prova penale, 3a ed., Padova, 1999, p. 14. (199) F. CORDERO, La confessione nel quadro decisorio, in AA.VV., La giustizia penale e la fluidità del sapere, a cura di L. DE CATALDO NEUBURGER, Padova, 1988, p. 61 ss. (200) V., P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 1999, p. 99; cfr. anche G. DI CHIARA, In tema di qualificazione giuridica del mendacio dell’imputato. Aspetti processuali, in Cass. pen., 1988, p. 807 ss. (201) F. CORDERO, La confessione nel quadro decisorio, cit., p. 62; G.D. PISAPIA, Compendio di proc. pen., cit., p. 254. (202) V. ad es. Cass., Sez. I, 21 dicembre 1994, Croci, in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 8, 16 (m).
— 1434 — funzione a quella investigativa tipica della fase delle indagini preliminari ed addirittura a finalità probatorie. In altri termini l’atto, in particolare in prossimità dell’applicazione dell’istituto cautelare, è, in realtà, finalizzato a stimolare la condotta collaborativa dell’imputato. Un risultato inaccettabile, con riferimento ad un soggetto che si trova, di fatto, in una condizione di forte compressione della libertà morale e in una situazione in cui la difesa non riesce ad esprimersi in un effettivo contraddittorio. Il codice, nella sua configurazione originaria, già indicava la strada per tentare di superare l’impasse. Solo nel caso in cui l’imputato accetti di sottoporsi ad esame e di diventare così mezzo di prova le sue dichiarazioni dovrebbero diventare correttamente materiale decisorio. E riguardo all’utilizzo dell’ ‘‘esame’’ a fini contestativi ne dovrebbe derivare, quale unica conseguenza, il rischio per lo stesso imputato di non risultare attendibile. Occorre, quindi, ritornare ad una netta separazione delle fasi (203), attraverso un forte ridimensionamento degli artt. 513 c.p.p. e 503, comma 5 e 6, c.p.p., norme che snaturano il principio nemo tenetur se detegere e che risultano difficilmente conciliabili con la visione dell’imputato non come mezzo di prova, ma come organo di difesa, l’unica possibile alla luce della Costituzione e delle Carte internazionali dei diritti dell’uomo. Sotto altro profilo occorrerebbe incidere sull’effettività del diritto sancito dall’art. 24, comma 2, della Costituzione ponendo mano, in particolare, ad una riforma organica della disciplina in materia di difesa d’ufficio ed ammissione al gratuito patrocinio. Ancora di recente le continue modifiche legislative e le conseguenti declaratorie di illegittimità costituzionale dell’art. 513 c.p.p. dimostrano, però, come ‘‘al di là dei princìpi, sta una natura delle cose che impone in un modo o nell’altro che l’imputato sia chiamato a collaborare per la scoperta della verità’’ (204). Una prospettiva di fondo difficilmente superabile e della quale, in modo inevitabile, occorre prendere atto. GIANLUCA VARRASO Addetto alle Esercitazioni Cattedra di Procedura penale Univ. Cattolica del S. Cuore di Milano (203) V., fra gli altri, P. FERRUA, Processo penale, contraddittorio e indagini difensive, in Studi sul processo penale, III, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo, Torino, 1997, p. 94 ss. Pare inutile, viceversa, un intervento legislativo in tema di valutazione delle prove. Ne spiega in modo puntuale le ragioni alle quali si rimanda sempre P. FERRUA, Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, in Quest. Giustizia, 1998, p. 587 ss.; ID., Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, Torino, 1999, p. 233 ss. (204) Così A. GIARDA, Persistendo ‘l reo nella negativa, cit., p. 118.
NOTIZIE
PROGETTO COMUNE EUROPEO DI CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA PROGRAMMA FALCONE U.E. (I workshop, Palermo 5-6 febbraio 1999; II workshop, Freiburg i.Br., 2-4 settembre 1999)
Nell’ambito del « Progetto comune europeo di contrasto alla criminalità organizzata Programma Falcone U.E. » si sono tenuti due workshops: il primo, a Palermo, dal 4 al 6 febbraio 1999; il secondo a Freiburg i.Br., dal 2 al 4 settembre 1999. Prima di descrivere in sintesi l’andamento di questi due momenti di incontro è opportuno illustrare brevemente caratteri e scopi dell’iniziativa complessiva in cui si inseriscono. 1. Il Progetto comune europeo è stato presentato dalla città di Palermo nel quadro del « Programma Falcone », approvato nel 1998 dall’Unione Europea. Alla realizzazione del Progetto ha collaborato il Max-Planck-Institut per il diritto penale straniero e internazionale ed hanno partecipato altre istituzioni impegnate in vario modo nel contrasto alla criminalità organizzata: per l’Italia, anche l’Istituto di Diritto Penale dell’Università di Palermo, il Tribunale e la Procura Generale di Palermo; per la Germania, anche le Procure e le Procure generali di Frankfurt a.M. e di Stuttgart, oltre alla città di Freiburg i.Br.; per la Spagna, l’Università Pablo di Olavide di Sevilla, oltre a giudici del Tribunale Supremo. La composizione degli enti partecipanti al Progetto comune europeo esprime l’intento di creare un contesto adeguato a stimolare un confronto tra istituzioni giudiziarie, scientifiche ed amministrative dei tre diversi Paesi, i quali si sono tutti dotati, sia pure in tempi e modi diversi, di una legislazione specifica contro il crimine organizzato. L’integrazione dei saperi e la comparazione delle esperienze permettono di sviluppare conoscenze comuni utili all’elaborazione di strumenti efficaci, sul piano repressivo così come su quello preventivo, nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. In un contesto di crescente impegno di vari organismi internazionali per fronteggiare un fenomeno sempre meno ristretto a singoli ordinamenti statuali, anche l’intervento dell’Unione europea ha assunto un rilievo ormai significativo. Proprio a partire dai documenti elaborati nell’ambito del c.d. terzo pilastro dell’Unione Europea, e segnatamente del « Piano di azione contro la criminalità organizzata » adottato nel 1997 dal Consiglio dell’Unione Europea, le attività sviluppate dal Progetto Comune Europeo si sono concentrate su sette ambiti tematici: 1) l’associazione criminale; 2) le infiltrazioni criminali nella politica, nelle professioni e nella società; 3) i proventi illeciti ed il loro contrasto; 4) i collaboratori di giustizia e la connessa legislazione premiale; 5) gli strumenti processuali nel contrasto alla criminalità organizzata; 6) un’analisi socio-criminologica delle principali manifestazioni della criminalità organizzata nei tre Paesi considerati; 7) le reazioni della società civile e la prevenzione degli enti locali. Il confronto fra i vari soggetti partecipanti, già indicato come carattere strutturale del Progetto, è ancor più evidenziato dal metodo seguito nella realizzazione delle attività programmate: ognuno dei temi indicati è stato affidato ad una unità di ricerca composta da due ricercatori di differenti Paesi, i quali hanno in primo luogo predisposto sette brevi testi di base, con domande e sollecitazioni rivolte ai magistrati dei rispettivi ordinamenti; su tale griglia gli stessi magistrati hanno quindi svolto le relazioni tenutesi nel corso del I workshop.
— 1436 — Prendendo spunto dal dibattito che si è sviluppato in quella sede con gli esponenti del mondo accademico o di altre esperienze, le unità di ricerca hanno successivamente predisposto i rispettivi rapporti. Questi sono stati presentati pubblicamente nel corso del II workshop, dove i ruoli si sono invertiti: le relazioni predisposte dai ‘teorici’ sono state oggetto di verifica da parte dei ‘pratici’. Il metodo dialettico adottato ha così consentito di realizzare una comparazione di duplice livello, non solo cioè fra ordinamenti ma anche fra figure professionali diverse, al fine di valorizzare l’apporto di ciascun protagonista alla riflessione complessiva sul tema del contrasto alla criminalità organizzata. 2. Il I workshop si è aperto il 5 febbraio 1999 nella splendida cornice di Villa Niscemi con i saluti del Sindaco di Palermo, prof. L. Orlando, il quale già aveva sostenuto le iniziative dell’Unione in tale settore, in particolare quale relatore al Parlamento Europeo del Programma Falcone e di altre azioni comuni attuative del già menzionato ‘Piano di Azione contro la criminalità organizzata’. La relazione introduttiva del I workshop è stata curata dal responsabile scientifico del Progetto, prof. V. Militello, il quale, dopo avere ripercorso sinteticamente le iniziative adottate dagli organi dell’Unione Europea per la repressione della criminalità organizzata, ha indicato i vantaggi di un approccio al tema che ha definito « dialettico-critico », teso, cioè a bilanciare il rispetto dei principi di fondo del diritto penale liberale, così come cristallizzatisi nell’esperienza storica, con le innegabili esigenze repressive indotte da nuove o più gravi forme di criminalità. Il contrasto alla criminalità organizzata, insomma, come banco di prova per il diritto penale (sia sostanziale che processuale) moderno, chiamato ad un duplice gravoso impegno: assicurare la tutela di beni giuridici primari escogitando o affinando strumenti il più possibile rispettosi delle garanzie dei cittadini e degli imputati. In conclusione, il prof. V. Militello ha individuato nel Programma Falcone uno strumento di grande interesse, idoneo a gettare un ponte fra dimensioni diverse dell’esperienza giuridica e a superare le barriere dei singoli ordinamenti nazionali, così da rappresentare un contributo importante nella costruzione di un diritto penale europeo. Nel I forum, dedicato all’associazione per delinquere, il prof. E. Bacigalupo, del Tribunale Supremo di Spagna, ha illustrato l’esperienza spagnola, ed ha in particolare criticato l’interpretazione secondo la quale anche il consenso tacito del compartecipe potrebbe assurgere a contributo penalmente rilevante in ambito concorsuale; il dott. A. Ingroia, della Procura della Repubblica di Palermo, ha illustrato l’esperienza italiana, soffermandosi sul ruolo processuale, di agevolazione probatoria, storicamente rappresentato dalla fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso). Nel II forum, è emerso il differente grado di infiltrazione della criminalità organizzata nella politica, nell’economia e nella giustizia che caratterizza le esperienze italiana e tedesca. In relazione alla prima, il dott. P. Morosini, del Tribunale di Palermo, ha individuato nella tendenza a convivere con il potere legale e con la società civile, nella capacità di infiltrazione dell’economia e delle professioni tipiche espressioni della criminalità organizzata di tipo mafioso. Il dott. G. Paci, della Procura della Repubblica di Palermo, ha d’altro canto richiamato l’attenzione sulla ricerca dell’impunità come ulteriore elemento tipico della criminalità organizzata e ne ha illustrato le modalità caratteristiche, quali l’intimidazione di testimoni e giudici popolari o la corruzione di giudici togati tramite avvocati compiacenti. Il dott. P. Korneck, della Procura della Repubblica di Frankfurt a.M., ha viceversa sottolineato la minore pericolosità della criminalità organizzata tedesca, che, almeno finora, non sembra avere avuto significative capacità di inquinamento del potere politico e giudiziario, né capacità di infiltrazione nella pubblica amministrazione paragonabili a quelle della criminalità mafiosa. Si è quindi discusso, nel III forum, dei proventi illeciti e del loro contrasto. Sia da parte tedesca che da parte italiana è emersa la centralità dell’aggressione ai patrimoni e ai profitti illeciti nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata; al contempo, il dott. A. Thiel, della Procura di Frankfurt a.M. e i dott. A. Balsamo e F. Licata, del Tribunale di Palermo, hanno riscontrato la scarsa applicazione delle misure confiscatorie presenti nei rispettivi ordinamenti.
— 1437 — Nell’ambito del IV forum, il dott. F. Lo Voi, della Procura Generale di Palermo, ha rimarcato la storica importanza dei collaboratori di giustizia, sia ai fini della prevenzione che della repressione di reati in materia di criminalità organizzata, sottolineandone l’irrinunciabilità e negando che il loro corretto impiego pregiudichi talune garanzie processuali. Il dott. D. De Falco, della Procura Generale di Stuttgart, ha viceversa sottolineato la sostanziale non applicazione della normativa premiale introdotta nell’ordinamento tedesco dall’art. 5 della legge del 28 ottobre 1994, enunciandone i motivi pratici e tecnico-normativi. Nel V forum sono stati presi in considerazione gli strumenti processuali nella lotta alla criminalità organizzata. Il dott. V. Teresi, della Procura della Repubblica di Palermo, si è soffermato, in particolare, sull’istituzione della Direzione Investigativa Antimafia e delle Direzioni Distrettuali Antimafia, sulle peculiarità che caratterizzano, in materia di criminalità organizzata, i termini di durata e di proroga delle indagini preliminari cosiccome la disciplina delle intercettazione telefoniche ed ambientali, ed ha infine auspicato la creazione di un testo unico in tema di procedimenti relativi alla criminalità organizzata. Il dott. Agueci, della Procura Generale di Palermo, ha approfondito il tema della valutazione probatoria delle dichiarazioni del coimputato e dell’imputato in procedimento connesso. Dalla relazione svolta dal dott. H. Krombacher, Procuratore presso la Corte di Appello di Stoccarda, è emerso che, accanto a talune analogie rispetto allo strumentario processuale predisposto dal legislatore italiano in materia di criminalità organizzata (per es. rispetto alla possibilità di intercettazioni telefoniche), vi sono talune differenze (assenza, in Germania, di uffici del pubblico ministero specializzati nel perseguimento di reati di criminalità organizzata). Agli ultimi due temi oggetto di approfondimento sono state dedicate altrettante tavole rotonde, che hanno consentito una discussione allargata a soggetti diversi. Nella prima sono state analizzate le comunanze e differenze riscontrabili nella criminalità organizzata nei tre Paesi considerati. Il dott. P. Grasso, allora in forza alla Direzione Nazionale Antimafia, ha riportato una serie di interessanti esempi, tratti dalla propria esperienza investigativa, circa la capacità di penetrazione all’estero, ed anche in Germania ed in Spagna, dell’associazione criminale denominata Cosa Nostra. Il prof. Insolera, in rappresentanza dell’Unione Camere Penali, ha sottolineato le preoccupazioni dell’Avvocatura penale italiana per le garanzie dei cittadini e degli imputati, a fronte dell’estendersi e del prolungarsi nel tempo di norme processuali originariamente pensate per arginare situazioni di emergenza. Il dott. G. Natoli, del Consiglio superiore della Magistratura, ha richiamato gli elementi costitutivi dell’associazione criminale denominata Cosa Nostra, e ne ha enunciato i paradigmi e le funzioni. La dott.ssa L. Paoli, criminologa del MPI, ha sottolineato, in chiave di comparazione tra l’esperienza italiana e quella tedesca, il diverso significato attribuito all’espressione « criminalità organizzata » nei due Paesi; mentre in Italia l’espressione viene associata alle organizzazioni criminali denominate Cosa Nostra, N’drangheta, Camorra e Sacra Corona Unita, ed ha un preciso referente normativo nell’art. 416-bis del c.p. (associazione a delinquere di tipo mafioso), in Germania, viceversa, mancano referenti empirici e normativi precisi. La Relatrice ha inoltre sottolineato, in prospettiva sociologica e criminologica, che, in Italia, le associazioni criminali tendono a divenire una sorta di contropotere, con controllo capillare del territorio; in Germania, viceversa, le organizzazioni criminali si limitano a gestire i mercati illeciti, senza assumere il ruolo di contropotere all’interno dello Stato. Quindi M.J. Pifarrè de Moner, dottoranda dell’Università P. di Olavide di Sevilla, dopo aver premesso che solo di recente il concetto di criminalità organizzata ha assunto sufficiente autonomia concettuale, sia sotto il profilo criminologico che politico-criminale, ha illustrato gli strumenti normativi (sia sostanziali che processuali) elaborati dal legislatore spagnolo in materia, ed ha individuato nel terrorismo, nel traffico di stupefacenti, nel riciclaggio e nell’organizzazione di reti di immigrazione illegale e di prostituzione le forme di criminalità organizzata più gravi e diffuse in Spagna. Nell’ultima tavola rotonda, che ha unito esponenti dell’amministrazione comunale di Palermo, del mondo accademico, della scuola e della Chiesa locale, si è dibattuto delle reazioni della società civile e della prevenzione degli enti locali. Tutti gli intervenuti italiani
— 1438 — hanno sottolineato, dai loro rispettivi ‘osservatori’, il profondo mutamento verificatosi nella società civile palermitana, soprattutto dopo le stragi nelle quali morirono il giudice Falcone e il giudice Borsellino, e hanno illustrato le numerose iniziative di comitati e associazioni di cittadini a sostegno dei valori della legalità e della solidarietà. In particolare, il prof. A. La Spina, sociologo dell’Università di Palermo, ha enunciato i diversi possibili significati attribuibili al concetto di « società civile », e ha criticato la tesi secondo cui, ai suoi albori, la mafia si giovasse del consenso o perlomeno dell’acquiescenza della società civile siciliana. J. Obergfell-Fuchs, criminologo del MPI, ha d’altro canto sottolineato l’importante ruolo che la collaborazione tra cittadini, enti locali e organi di giustizia può assumere nella prevenzione (indiretta) della criminalità organizzata, soprattutto in relazione a reati quali il riciclaggio, la corruzione, il traffico di stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione. Un più forte controllo sociale, infatti, accresce la possibilità di scoperta di tali reati. 3. Il secondo workshop, tenutosi a Freiburg i. Br. dal 2 al 4 settembre del 1999 nella suggestiva sede dell’antico tribunale, si è aperto, dopo i saluti delle Autorità e il benvenuto dei direttori del MPI prof. A. Eser e prof. H.J. Albrecht, con un’ampia relazione del prof. W. Perron, dell’Università di Mainz, che ha sottolineato l’inadeguatezza degli attuali strumenti di indagine e di cooperazione internazionale nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata; il Relatore ha quindi auspicato l’armonizzazione di talune regole investigative e processuali, ed una maggiore collaborazione tra polizie giudiziarie e magistrature europee. È seguito un ampio dibattito con interventi, tra gli altri, del prof. Jescheck, il quale ha sottolineato talune specificità nazionali, che sconsiglierebbero, almeno in alcuni casi, l’elaborazione di regole processuali uniformi. Il prof. Militello, d’altro canto, ha specificato che la creazione di regole processuali comuni, o comunque la loro armonizzazione, presuppongono a loro volta principi costituzionali simili in materia di libertà personale, prefigurando così la necessità di collegare l’eventuale nucleo di norme processuali europee con l’idea di Costituzione europea. Nella successiva tavola rotonda, dedicata alle comunanze e alle differenze concernenti la criminalità organizzata nei tre Paesi considerati, la dott. ssa L. Paoli, del MPI di Freiburg i.Br, sviluppando l’intervento svolto nel precedente convegno di Palermo, ha sottolineato come in Germania non sia possibile individuare alcun equivalente delle organizzazioni criminali italiane, e di Cosa Nostra in particolare. M.J. Pifarré de Moner, dottoranda dell’Università P. di Olavide di Sevilla, approfondendo la relazione svolta nel I workshop, ha segnalato l’espandersi in Spagna del fenomeno del riciclaggio e l’avvento di organizzazioni dedite ad agevolare l’immigrazione illegale e la prostituzione e, in talune zone, l’insediarsi di esponenti della mafia cinese e di quella russa. Il Dott. P. Grasso, Procuratore della Repubblica di Palermo, pur ribadendo talune peculiarità proprie dell’organizzazione mafiosa denominata « Cosa Nostra » legate all’ambiente d’origine, ha sottolineato le capacità di adattamento di questa e di altre organizzazioni criminali in Paesi diversi; ha quindi sottolineato che, ancor prima di pensare a regole comuni europee, occorre chiedersi se, in ogni Paese, possa ritenersi culturalmente e politicamente opportuno avvalersi di mezzi di indagine straordinari, anche a rischio di intaccare talune garanzie. Il Dr. W. Schädler, esperto di vittimologia, ha affrontato il tema delle vittime della criminalità organizzata in Germania, le quali, spesso straniere, non sono facilmente avvicinabili dalla Polizia; ha pertanto auspicato la creazione di uffici di esperti composti anche da stranieri appartenenti a diverse etnie e l’impiego di strumenti quali le videoconferenze, programmi di protezione per i testimoni e norme premiali per i collaboratori di giustizia. Il Dr. L. Schuster, Primo Direttore dell’Ufficio della Polizia federale, ha messo in guardia tanto dalla sottovalutazione quanto, simmetricamente, dagli eccessivi scandalismi legati al fenomeno. Si è quindi passati al forum sull’associazione per delinquere. Il prof. S. Ardizzone, dell’Università di Palermo, dopo aver sinteticamente illustrato il quadro delle diverse fattispecie
— 1439 — associative presenti nell’ordinamento penale italiano, ne ha individuato taluni requisiti comuni. La dott. ssa B. Hüber, del MPI, ha quindi illustrato la relazione scritta dal prof. J. Arnold del MPI, dalla quale sono emerse le difficoltà di definizione del concetto di criminalità organizzata in Germania e, sul piano operativo, la scarsa applicazione del par. 129 c.p., il quale incrimina la partecipazione ad un’associazione criminale, dovuta a difficoltà probatorie che spingono le Procure a concentrarsi sui singoli reati-scopo. Nel forum successivo, dedicato alle infiltrazioni della criminalità organizzata nella politica, nell’economia e nella giustizia, il prof. G. Fiandaca, dell’Università di Palermo, ha sottolineato l’incidenza della pregiudiziale socio-criminologica nell’interpretazione di taluni presupposti applicativi della fattispecie di associazione di tipo mafioso; il relatore, a tal proposito, ha richiamato la giurisprudenza secondo la quale il rito iniziatico cui tradizionalmente si sottoponeva l’aspirante mafioso è di per sé sufficiente a integrare gli estremi della partecipazione penalmente rilevante al reato previsto dall’art. 416-bis c.p., e si è chiesto se sia metodologicamente corretto operare tale trasposizione di schemi socio-criminlogici nelle tradizionali categorie interpretative. Il dr. J. Kinzig, del MPI, dopo aver richiamato la definizione di criminalità organizzata elaborata dai Ministri dell’Interno e della Giustizia, ha illustrato i dati forniti dal Bundeskriminalamt per il periodo 1993-1997, dai quali emerge che, tra tutti i procedimenti penali instaurati annualmente in Germania in materia di criminalità organizzata, solo circa 80-100 (pari al 15-20% del totale) hanno ad oggetto influenze illecite su politica, media, pubblica amministrazione, giustizia o economia. Il dr. P. Korneck, della Procura di Frankfurt a.M., ha indicato nel sistema penale degli Stati Uniti un possibile esempio per un futuro modello europeo, nel quale, a fianco di regole diverse per singoli Stati, convivano regole comuni per reati commessi sul territorio di più Stati o per reati particolarmente gravi. Il forum sui proventi illeciti e sul loro contrasto si è aperto con la relazione di S. Hein, del MPI, che ha ricostruito la complessa normativa italiana in materia, distinguendo tra diverse forme di confisca di natura penale (generale, ex art. 240 c.p, e più specifiche, ex art. 416-bis co. 7 c.p. o ex art. 12-sexies l. 356/1992, relative, rispettivamente, alla condanna per il reato di associazione di tipo mafioso od anche per reati a questo connessi), da una parte, e le misure di prevenzione patrimoniale previste dalla l. 575/1965, dall’altra, le quali ultime vengono disposte nell’ambito di un procedimento di natura amministrativa. Il dr. M. Kilchling, del MPI, ha quindi illustrato la normativa tedesca in materia di criminalità orientata al guadagno, individuando nella fattispecie di riciclaggio e nelle varie misure confiscatorie (acquisizione pubblica ex par. 73 c.p., confisca ex par. 74 c.p.) una strategia legislativa doppia, rispettivamente mirante alla repressione degli autori e alla prevenzione dell’operazione economica illecita. Il relatore ha inoltre sottolineato la scarsa applicazione delle misure in esame: solo di recente, presso alcuni Länder ove sono state costituite unità speciali di esperti insediate presso gli Uffici di Polizia, si segnalano confische di rilievo. Nel forum concernente i collaboratori di giustizia, S. Mehrens, dottoranda di ricerca presso il MPI, dopo avere sottolineato la scarsa applicazione della norma premiale tedesca in materia di criminalità organizzata (solo tre casi dall’1 dicembre 1994 ad oggi), ne ha ravvisato la causa principale nel rinvio al par. 129 del c.p., a sua volta di rara applicazione, auspicando, in prospettiva di riforma, l’eliminazione di tale rinvio e la sua sostituzione con il criterio della commissione in banda e in forma professionale, ovvero con un determinato catalogo di reati. Quindi il dott. Carlo Ruga Riva, dell’Università dell’Insubria, dopo aver richiamato gli ultimi dati statistici relativi al numero di collaboratori di giustizia sottoposti a programma di protezione in Italia (1041 nel primo semestre del 1998), si è soffermato sul discusso problema della legittimità delle disposizioni premiali relative alla collaborazione processuale; secondo il relatore, tale legittimità, ancor prima che dall’analitica disamina dei singoli principi in gioco, dipende dal ruolo attribuito al concetto di emergenza investigativa e allo scopo attribuito al processo penale. Nel successivo forum, dedicato al tema degli strumenti processuali utilizzati nella lotta
— 1440 — alla criminalità organizzata, il prof. W. Gropp, dell’Università di Gießen, si è in particolare soffermato sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche e di dati elettronici, nonché sulla recente disciplina del c.d. « grande attacco alla sfera privata », rappresentato dall’ascolto e registrazione della parola non pronunciata pubblicamente all’interno del domicilio; secondo il relatore, occorre da una parte verificare l’effettività di queste ed altre misure di contrasto, dall’altra tenere ferme le garanzie dei cittadini e degli imputati. Il prof. R. Orlandi, dell’Università di Ferrara, ha illustrato talune peculiarità della legislazione processuale italiana di contrasto alla criminalità organizzata, modellata sulla criminalità ‘mafiosa’: istituzione di un’apposita organizzazione centralizzata di polizia (Direzione investigativa antimafia) e di un apposito ufficio centralizzato del pubblico ministero (Procura nazionale antimafia), che coordina 26 procure distrettuali, cui la legge attribuisce il potere di indagine nel settore della criminalità organizzata; intrecciarsi tra azione di repressione e misure di prevenzione; predisposizione di disposizioni volte ad associare a taluni provvedimenti del giudice (rinvio a giudizio, sentenze di condanna non definitive) effetti di tipo cautelare collaterali al processo penale, quali la sospensione dall’esercizio di funzioni pubbliche, il divieto di svolgere attività imprenditoriali ecc.; l’uso massiccio di collaboratori di giustizia; una disciplina particolarmente severa in materia di custodia cautelare. Il dott. H. Krombacher, Procuratore Capo presso la Corte di Appello di Stoccarda, ha infine lamentato le inadeguatezze degli strumenti di contrasto al riciclaggio. Nell’ultima tavola rotonda, incentrata sulle reazioni della società civile e sulla prevenzione degli enti locali, il prof. A. La Spina, sociologo dell’Università di Palermo, dopo avere richiamato le diverse iniziative prese dalla c.d. società civile in Sicilia (associazioni, comunità e Chiese locali, istituzioni scientifiche, culturali ecc.) già descritte nel I workshop, ha illustrato, in particolare, la filosofia della c.d. legge antiracket, che destina fondi a favore degli imprenditori che denuncino le estorsioni subite. J. Obergfell-Fuchs, criminologo del MPI, ha approfondito il tema della prevenzione dei crimini (ed anche della criminalità organizzata) su base comunale, da tempo perseguita negli Stati Uniti, ma solo di recente affacciatasi nella realtà tedesca, sotto forma di prevenzione della violenza tramite iniziative pedagogico-sociali o lavorative (iniziative per il tempo libero, gruppi di discussione, aiuti nella ricerca di un posto di lavoro). I lavori sono quindi proseguiti con la relazione di sintesi svolta dal prof. V. Militello, e con le conclusioni del prof. H.J. Albrecht. La positiva esperienza del primo anno del Progetto Comune Europeo ha indotto i vari partecipanti a manifestare interesse per una prosecuzione dell’iniziativa. In particolare potrà utilmente svilupparsi l’idea, emersa dai lavori e sottolineata nella relazione di sintesi del II workshop, di verificare la possibilità di predisporre in ambito europeo un nucleo comune di norme per un più efficace contrasto alla criminalità organizzata. In tale prospettiva, la Commissione europea — tramite il suo rappresentante J.J. Nuss, presente al Convegno di Freiburg i. Br. — ha assicurato il proprio sostegno per un ulteriore anno di attività nel quadro del Programma Falcone. CARLO RUGA RIVA Dottore di ricerca in diritto penale italiano e comparato, Università dell’Insubria
« PROSPETTIVE DI RIFORMA DEL SISTEMA PENALE E NUOVE TIPOLOGIE SANZIONATORIE »: IL CONVEGNO DI ERICE E PALERMO DAL 18 AL 21 NOVEMBRE 1999
1. Nei giorni dal 18 al 20 novembre si è svolto ad Erice (Trapani) il convegno sul tema ‘‘Prospettive di riforma del sistema penale e nuove tipologie sanzionatorie’’, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo insieme con il Centro studi giuridici e sociali Cesare Terranova ed il Centro di cultura scientifica Ettore Maiorana. In chiusura si è tenuta una Tavola Rotonda a Palermo nella mattinata del 21 novembre. Il convegno aveva per oggetto la discussione sulla Relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con decreto ministeriale 1 ottobre 1998 e presieduta dal Prof. Carlo Federico Grosso (pubblicata in questa Rivista 1999, p. 600 s.). I lavori sono stati suddivisi in cinque sezioni, dedicate rispettivamente a: principio di colpevolezza; tentativo, attentato e concorso di persone; problemi metodologici della riforma della parte speciale; tipologie sanzionatorie; responsabilità delle persone giuridiche; ogni sezione veniva aperta dalla relazione di uno dei membri della Commissione alla quale seguiva il dibattito fra i partecipanti al convegno. 2. Nel corso della prima giornata, il prof. Pisa ha sottolineato l’impegno della Commissione nella eliminazione, dalla parte generale del codice, di disposizioni che legittimassero l’imputazione dell’illecito ‘‘altrimenti’’ che per dolo o colpa; al fine di dare piena attuazione al principio di colpevolezza, è stata prevista la soppressione della figura generale della preterintenzione e delle singole ipotesi di delitto preterintenzionale e di delitto aggravato dall’evento, nonché la soppressione dell’aberratio delicti e della disciplina contenuta negli artt. 116 e 117 c.p. Si è preferito rinunciare cioè a clausole generali di estensione della responsabilità secondo modelli anormali, rinviando, semmai, il problema alla parte speciale. Il prof. Pagliaro, a cui è stato affidato il compito di aprire la discussione su questo tema, ha affermato di non condividere alcune scelte della Commissione Grosso, che si discostano ampiamente da quelle contenute nel precedente Progetto di riforma (1992): per esempio, la scelta di eliminare l’art. 116 c.p., la cui disciplina andrebbe invece ricondotta alla responsabilità da rischio illecito. Il prof. Pagliaro ha rilevato, infine, che riflessioni su un progetto di riforma non ancora redatto in articoli appaiono ‘limitate’, perché, secondo la sua esperienza, sarà proprio nella predisposizione del testo articolato che la Commissione Grosso, così eterogeneamente composta, troverà maggiori difficoltà. È poi intervenuto il prof. Donini, auspicando maggiore chiarezza nella definizione delle condizioni obiettive di punibilità, nella distinzione fra elementi costitutivi del reato e circostanze aggravanti e, inoltre, nell’ambito della causalità omissiva. 3. La relazione di apertura della seconda giornata dei lavori è stata svolta dal prof. Seminara sui temi del concorso di persone nel reato, del tentativo e dell’attentato. Quanto al concorso, la Commissione propone la seguente formula: ‘‘concorre nel reato chiunque abbia partecipato o istigato alla sua esecuzione ovvero rafforzato il proposito di altro concorrente o agevolato l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza’’. Si è cercata, in questo modo, una maggior precisione rispetto all’art. 110 c.p., così da contenere, almeno in parte, l’attività creativa della giurisprudenza. La Commissione ha, poi, previsto un sistema di attenuanti
— 1442 — (una attenuante per le condotte di rilevanza modesta — da valutarsi attraverso un parametro assoluto, e non relativo al fatto concreto — e una attenuante facoltativa per il concorrente nel reato commissivo altrui) e ha optato per l’abrogazione dell’art. 113, nonché degli artt. 116 e 117 c.p.. In particolare, secondo il prof. Seminara, l’adesione al principio della responsabilità per rischio non sarebbe possibile in questi ultimi casi, perché in chi vuole un reato diverso o nell’extraneus mancherebbe un dominio finalistico sull’azione: si sfugge, quindi, dai parametri della colpevolezza e della stessa responsabilità per rischio. Anche in tema di tentativo, la Commissione si è orientata verso la ricerca di una disciplina più garantista, in grado di porre una barriera ad un’anticipazione indiscriminata degli atti penalmente rilevanti. Si prevede, quindi, il ritorno alla formula dell’inizio dell’esecuzione della condotta tipica, accompagnata, peraltro, da correttivi finalizzati ad evitare rigidezze eccessive e soprattutto un’eccessiva restrizione dell’area di punibilità con riferimento ai reati causalmente orientati (a questo fine, si propone il criterio sussidiario dell’immediatezza). La Commissione stabilisce, poi, l’esclusione del dolo eventuale nel tentativo e l’equiparazione fra desistenza volontaria e recesso attivo, prevedendo la non punibilità anche in caso di recesso attivo, in conformità alle indicazioni che giungono dal panorama europeo. Il tema dei delitti di attentato, invece, dovrebbe essere affrontato non tanto nella parte generale, facendo ricorso cioè a criteri generali, ma caso per caso o per gruppi di casi, nella parte speciale. Il prof. Contento ha suggerito di tenere distinte le ipotesi di concorso con previo accordo — nelle quali non ha importanza il valore del contributo — dalle ipotesi senza previo accordo — nelle quali, invece, i requisiti della partecipazione devono essere specificamente indicati. Quanto al tentativo, è apprezzabile, secondo il prof. Contento la scelta di equiparare il recesso attivo alla desistenza e il riferimento al principio di esecuzione, anche se andrebbero meglio chiariti i rapporti tra inizio di esecuzione e univocità degli atti. Il prof. Contento, infine, si dichiara favorevole all’adozione nel codice penale — così come già avviene nel codice civile — di regole di interpretazione che consentano una maggiore conformità al principio di stretta legalità e un più incisivo controllo sull’operato degli interpreti. Anche il prof. Fornari, intervenuto sul tema della parificazione fra desistenza e recesso, ha apprezzato la scelta della Commissione. Il prof. De Vero ha auspicato, tra l’altro, una presa di posizione precisa nella configurabilità della partecipazione mediante omissione al reato commissivo, denunciando la doppia valenza eversiva, nell’attuale codice penale, del combinato disposto degli artt. 110 e 40 cpv. Il prof. Insolera ha, poi, manifestato la necessità che la Commissione affronti con maggiore determinazione il tema della causalità nel concorso di persone, auspicando così un contenimento del ruolo della giurisprudenza. In tema di reati associativi, il dott. Visconti esprime la necessità che la condotta associativa sia agganciata alla struttura organizzativa, denunciando il rischio, altrimenti, che si crei una zona grigia fra partecipazione e contributo rilevante, per evitare la quale suggerisce di applicare la disciplina dei reati associativi sia in caso di adesione formale all’associazione, sia in caso di perdurante volontà di prestare la propria opera in favore dell’associazione medesima. Il dott. Izzo, sostituto procuratore presso la Corte di Cassazione, rilevando nell’attuale disciplina un deficit di tipizzazione, ha auspicato un intervento della Commissione che riduca gli spazi di discrezionalità. Il prof. Fiandaca, d’altra parte, ha rilevato la crescente sfiducia sulla possibile funzione di formule e definizioni legislative. La dott.ssa Risicato ha manifestato qualche perplessità sulla eliminazione pura e semplice dell’art. 113 c.p., suggerendo alla Commissione un’ulteriore riflessione sulla effettiva inutilità della relativa disciplina. Il prof. Giovannangelo De Francesco preferirebbe veder adottata nel tentativo la formulazione dell’idoneità in negativo cioè come non impossibilità, così da ridurre il livello della probabilità richiesto, ma ampliare nel contempo il giudizio con una prognosi a base totale, cioè con riferimento a tutte le circostanze presenti nel momento della commissione del fatto. Il dott. Giacona auspica, invece, il ritorno al criterio della idoneità degli atti, fondato in ogni caso sul giudizio di prognosi postuma a base totale.
— 1443 — Il prof. Parodi Giusino rileva che, secondo la commissione Grosso, non sarebbe possibile (come si era fatto, invece, nel progetto Pagliaro) ricondurre le fattispecie di attentato sulla falsariga del tentativo, per ragioni di tipo contenutistico e strutturali: è necessaria, quindi, una riformulazione in chiave garantistica. In particolare, le fattispecie di attentato a tutela dell’incolumità pubblica costituiscono ipotesi di pericolo indiretto e pongono problemi di legittimità costituzionale; occorrono, perciò, alcuni accorgimenti: a) una rigorosa e consapevole graduazione scalare delle sanzioni (come nel tentativo); b) la predisposizione di limiti ad una eccessiva anticipazione della tutela, tale da dar vita, sostanzialmente, a reati di mera disobbedienza. 4. Il tema del pomeriggio riguardava ‘‘i problemi metodologici della riforma della parte speciale’’. Il relatore, il prof. Palazzo, ha rilevato preliminarmente che nella riforma assume un ruolo centrale la parte speciale, per la funzione di orientamento sociale che essa svolge. I rischi connessi ad una riforma unitaria, d’altro canto, hanno indotto la Commissione a concentrarsi sulla sola rielaborazione della parte generale, confinando la parte speciale al ruolo di ‘‘isola dei sogni o isola che non c’è’’. Con questo non si è inteso minimamente abbandonare il problema: al fine di costituire un ponte fra la parte generale e la parte speciale si è ritenuto, al contrario, utile individuare delle cerniere (a carattere specifico/contenutistico — le ipotesi di responsabilità anomala, la causalità nei reati omissivi, i reati contro lo Stato, i delitti contro l’amministrazione della giustizia, ecc. — o a carattere generale — i delitti di attentato, i reati di pericolo astratto, ecc.). Un altro ponte fra parte generale e parte speciale potrebbe consistere nella scelta legislativa di escludere la centralità del codice, prevedendo, per esempio, di accorpare la disciplina che riguarda determinati destinatari (produttori, commercianti) al di fuori di questo. Per procedere poi ad uno sfoltimento delle leggi speciali potrebbero soccorrere due strumenti: l’attuale art. 16 c.p. (efficacia espansiva dei principi del diritto penale a tutto il diritto penale) e l’art. 1 l. 4/1929 (fissità della parte generale del codice, prevedendo, quindi, l’onere di derogarvi espressamente). È intervenuto, poi, il prof. Moccia, che ha preso decisamente le distanze dalle scelte effettuate dalla Commissione Grosso. La previsione di statuti differenziati in materia penale contrasta, a suo parere, con il principio di uguaglianza: deve, invece, essere affermata la necessità di una riserva di codice, che riproponga il codice al centro del diritto penale. Il prof. Moccia ha inoltre rilevato che talune scelte prospettate sulla parte speciale tradiscono i principi espressi nella parte generale e che alcune affermazioni di principio sono ulteriormente smentite dalle soluzioni proposte in relazione a specifici problemi (come nel caso delle associazioni totalmente segrete e in materia di attentato). Nell’elaborazione di un nuovo codice non si può assumere, secondo il prof. Moccia, un ruolo neutrale: sono necessarie precise scelte politiche, né si possono consentire eccezioni ai principi fondamentali per ragioni di mera opportunità. A questi rilievi ha risposto il prof. Grosso, che ha sottolineato come il progetto elaborato dalla Commissione costituisca un documento volutamente aperto a nuove proposte e correttivi. Si tratta di un progetto che è necessariamente condizionato dalla politica: il mandato che la commissione ha ricevuto si riferiva, infatti, solo all’elaborazione delle soluzioni tecniche, con la raccomandazione di lasciare le scelte politiche al Governo. La Commissione, quindi, si è trovata ad operare con un mandato che, sebbene ampio nei contenuti, consentiva spazi ristretti di scelta in alcuni ambiti pur scottanti (reati di pericolo, responsabilità delle persone giuridiche, sistema sanzionatorio); si è reso necessario trovare un compromesso nella ricerca di risultati che, per quanto minimi, fossero positivi e rispondessero alle esigenze più urgenti del nostro ordinamento. Sono intervenuti, poi, il prof. Placido Siracusano, il prof. Massimo Donini ed il prof. Bartolomeo Romano. In particolare, il prof. Siracusano ha affermato di condividere la necessità di una stretta comunicazione fra la parte generale e la parte speciale del codice penale ed ha manifestato qualche perplessità sulle tecniche di tutela adottate dalla Commissione; il prof. Donini ha rilevato, invece, la necessità di una quantificazione e di una successiva classificazione della complessa legislazione speciale.
— 1444 — Il dott. Aldo Rizzo, magistrato di Cassazione, ha rilevato, infine, che la Commissione deve impegnarsi in un coraggioso sfoltimento della legislazione speciale. 5. I lavori della terza giornata riguardavano il dibattuto tema delle tipologie sanzionatorie. Il prof. Corbi ha illustrato le scelte della Commissione: il maggior impegno è stato profuso nell’elaborazione di un sistema in cui la pena fosse, almeno in parte, effettivamente eseguita; in secondo luogo, si è inteso provvedere ad un ridimensionamento dei massimi e dei minimi edittali in conformità al principio di proporzione. La Commissione si propone, inoltre, di modificare l’attuale meccanismo applicativo delle pene alternative, che, di fatto, le trasforma in pene principali: l’applicazione di queste pene dovrà essere consentita facoltativamente (anche se vincolata a parametri legali) solo nei casi in cui almeno una parte della pena detentiva sia stata già scontata. Il prof. Pisa ha nuovamente sottolineato l’impegno della Commissione nell’evitare che la sanzione stabilita dal giudice non si esaurisca in un nulla di fatto; a questo scopo, si è ritenuto utile proporre l’introduzione fra le pene principali della detenzione domiciliare. Non deve essere trascurata, peraltro, l’elaborazione di una dettagliata disciplina extrapenale (relativa al funzionamento degli enti locali e al loro coordinamento con gli operatori giudiziari, allo statuto del soggetto sottoposto a misura, all’organizzazione delle attività socialmente utili, alla concreta attuazione della tutela della collettività); devono essere inoltre predisposti effettivi controlli sull’esecuzione delle misure e individute le conseguenze più opportune in caso di inosservanza delle disposizioni. La Commissione si è occupata poi, diffusamente, del tema del risarcimento del danno, che deve assumere una vera e propria dimensione pubblicistica: al risarcimento deve essere tenuto chiunque chieda l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale, anche nei casi in cui il risarcimento non sia possibile (per esempio, per contraria volontà della persona offesa), si dovrà effettuare un versamento di denaro in una cassa per il risarcimento delle vittime di reati con autori ignoti. Il dott. Margara, magistrato di sorveglianza a Firenze, ha sottolineato la necessità di restare fedeli al principio di rieducazione, così come rielaborato in questi anni soprattutto dalla Corte costituzionale. Deve poi considerarsi un rischio prevedere l’applicazione delle misure alternative nella sentenza di condanna, dal momento che il giudice, in quella sede, non conosce quasi nulla del ‘privato’ dell’imputato. Il dott. Mazzamuto, magistrato di sorveglianza a Palermo, ha rilevato che la riforma deve avere come obiettivo primario quello di assicurare l’effettività della pena. Le statistiche dimostrano infatti come, nel nostro paese, la grande maggioranza dei reati resti impunita; fra i condannati, poi, prevalgono decisamente coloro per i quali la pena è sospesa o è applicata la pena pecuniaria; solo per un numero esiguo di soggetti si aprono le porte del carcere e costoro sono per lo più extracomunitari o tossicodipendenti. Il prof. Eusebi auspica, tra l’altro, che il legislatore superi definitivamente l’equivoco retributivo, operando scelte chiare circa i fini della pena; propone inoltre di attribuire uno spazio più ampio alle pene-prestazione ed in particolare alla mediazione e ai percorsi riabilitativi. Sui temi della riforma del sistema sanzionatorio, sono intervenuti, infine, il prof. Stile, il prof. Papa, il dott. Mannino, il prof. Ronco, il prof. Contento ed il prof. Bernardi. 6. Nel pomeriggio di sabato, la relazione del prof. Pulitanò ha affrontato il tema della responsabilità delle persone giuridiche. Il relatore ha, in primo luogo, rilevato che, di fatto, esiste già una ‘giustizia penale delle persone giuridiche’, per effetto non solo di alcune convenzioni internazionali, ma anche di una certa ambiguità del nostro stesso legislatore, che, soprattutto in materia di sicurezza e di ambiente, ha in varia forma coinvolto gli enti collettivi nella responsabilità penale: si pensi, per esempio, all’obbligazione civile per il pagamento delle pene pecuniarie, o ad alcune ammende previste dal legislatore con ammontare molto alto, o, ancora, ai casi in cui è stabilito l’obbligo di realizzare la bonifica ambientale. La configurazione delle persone giuridiche fra i soggetti del sistema sanzionatorio consentirebbe, quindi, di sanare lo squilibrio oggi esistente: salvo verificare la complessiva tenuta del si-
— 1445 — stema. A favore della responsabilità delle persone giuridiche parlano esigenze generalpreventive; il problema è quello di accordarsi sul tipo di responsabilità: penale o amministrativa. Il prof. Pulitanò ha manifestato una decisa preferenza a favore della responsabilità penale, ma ha anche giudicato plausibile la soluzione della responsabilità amministrativa. Quello che conta, del resto, non è applicare una sanzione, ma garantire l’osservanza dei precetti. Circa la questione se la responsabilità delle persone giuridiche, congiunta a quella delle persone fisiche che ricoprono una posizione di garanzia, costituisca una duplicazione di responsabilità, il relatore ritiene che non vi sia alcuna contraddizione nell’addebitare un comportamento personalmente sia alla persona fisica che a quella giuridica. Ciò che importa è promuovere una presa di coscienza da parte della persona giuridica e l’adozione di provvedimenti volti all’eliminazione delle conseguenze del reato. Una volta maturata la scelta di attribuire una autonoma responsabilità alla persona giuridica, il sistema delle sanzioni potrebbe comprendere: sanzioni pecuniarie (con livelli sanzionatori più elevati), la confisca (qualificabile come sanzione sui generis) e altre misure di tipo interdittivo. Il dott. Lattanzi, direttore generale degli Affari penali presso il Ministero della Giustizia, ha rilevato che il problema della qualificazione della responsabilità non è solo un problema di etichette: si richiede alla Commissione, quindi, una precisa presa di posizione sulla natura e sulla disciplina della responsabilità delle persone giuridiche. Non si può, a suo parere, condividere la posizione del prof. Padovani, che nega la configurabilità della responsabilità penale degli enti già in base alla considerazione che la pena detentiva non è applicabile alle persone giuridiche; condivide invece la posizione del prof. Dolcini, che non esclude tale configurabilità in relazione ai principi costituzionali. Il prof. Paliero sostiene che nel nostro paese si sta realizzando una sorta di nullification delle pene, sia detentive che non detentive: il nostro sistema ha infatti una forte capacità di immunizzazione, dal momento che le pene detentive vengono eseguite solo eccezionalmente, mentre per i reati puniti con pena non detentiva, addirittura, di regola non si instaura il procedimento. La soluzione prospettata dalla Commissione in tema di responsabilità delle persone giuridiche non è chiara fino in fondo: vi è un evidente imbarazzo politico nella scelta fra responsabilità penale, amministrativa e un terzo genere di responsabilità. Questa qualificazione costituisce però una scelta fondamentale e, se si vuole ammettere che si tratta di una responsabilità penale, il vero banco di prova sarà la disciplina della struttura di tale responsabilità. È necessario, infatti, individuare un modello di responsabilità colpevole della persona giuridica; a questo proposito può essere utile lo studio comparatistico, che suggerisce diversi modelli di responsabilità: responsabilità autonoma (individuando ipotesi tassative e fattispecie ad hoc) o accessoria (prevista per qualunque fattispecie, con l’esclusione di alcuni reati), cui corrisponderà una responsabilità diretta; responsabilità orientata sulle fattispecie o orientata sull’autore, cui corrisponderà, invece, una responsabilità meramente sussidiaria. Il sistema angloamericano, in particolare, propone alcuni interessanti spunti in relazione alla colpevolezza dell’ente: il modello dell’identificazione, il modello dell’aggregazione e il modello di ‘colpevolezza dell’impresa’. Su questo tema vanno segnalati anche gli interventi del prof. Picotti, del prof. Belfiore, del dott. Iacoviello, del dott. Piergallini e del dott. Cavalieri. Il prof. Sgubbi, infine, ha riproposto alcuni spunti di riflessione sul tema della colpevolezza. 7. Il convegno si è poi concluso a Palermo nella mattinata del 21 novembre, con una Tavola Rotonda presieduta dal Prof. Capotosti. Dopo l’introduzione del Prof. Fiandaca, hanno preso la parola l’on. Pecorella e l’on. Carotti. Entrambi i rappresentanti delle contrapposte forze politiche hanno manifestato apprezzamenti sulla Relazione della Commissione e l’auspicio che i lavori possano continuare fino alla predisposizione di un nuovo codice penale. MELISSA MIEDICO Dottoranda di ricerca in diritto penale italiano e comparato Università degli Studi di Milano
GIURISPRUDENZA
a) Giurisprudenza costituzionale
CORTE COSTITUZIONALE (ord.) — 14-20 luglio 1999, n. 338 Pres. Granata — Rel. Neppi Modona Ordinanza Pretore Enna 31 luglio 1998 Processo penale — Istruzione dibattimentale — Assunzione di nuovi mezzi di prova — Possibilità che il giudice del dibattimento possa disporla anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero — Omessa previsione — Asserito contrasto con i principi di legalità, di non dispersione della prova e di indefettibilità della giurisdizione — Manifesta infondatezza della questione (Cost., artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101, comma 2, 102 e 112; c.p.p., art. 507; disp. att., c.p.p., art. 151). Processo penale — Istruzione dibattimentale — Esame dei testimoni e delle parti private — Possibilità che il giudice del dibattimento possa effettuare anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero — Omessa previsione — Prospettazione della questione in termini ipotetici — Difetto di rilevanza — Manifesta inammissibilità (Cost., artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101, comma 2, 102 e 112; c.p.p., art. 506, commi 1 e 2. Sono manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 507 del codice di procedura penale e 151 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101, comma 2, 102 e 112 della Costituzione (1). Sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 506, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101, comma 2, 102 e 112 della Costituzione (2). (Omissis). — Ritenuto che il pretore di Enna ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101, comma 2, 102 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 506 e 507 del codice di procedura penale, nonché dell’art. 151 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale; che, in particolare, il rimettente censura: l’art. 507 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche sulla base dell’esame degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero;
— 1447 — l’art. 506, comma 1, c.p.p., nella parte in cui prevede che il giudice possa indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi solo in base ai risultati delle prove assunte nel dibattimento a iniziativa delle stesse o a seguito delle letture disposte a norma degli artt. 511, 512 e 513 c.p.p., e non anche in base agli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero; l’art. 506, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice possa rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici e alle parti private già esaminati anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, e possa procedere, sulla base di detti atti, alle contestazioni ai sensi dell’art. 500, comma 1, c.p.p., con eventuale acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni a norma del comma 4 di detto articolo; l’art. 151 disp. att. c.p.p., « nella parte in cui non richiama l’art. 135 norme di attuazione che dispone che nel giudizio il giudice può ordinare l’esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero (da restituire terminata l’istruzione dibattimentale) e l’inserimento nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni se sussiste difformità rispetto al contenuto della deposizione »; che il rimettente premette in fatto che, al termine dell’istruttoria dibattimentale di un procedimento penale per lesioni colpose aggravate ex art. 590, commi 2 e 3, c.p., il difensore della parte civile aveva chiesto la citazione quale testimone, a norma dell’art. 507 c.p.p., di un soggetto che dal verbale dell’Ispettorato del lavoro, contenuto nel fascicolo del pubblico ministero, risultava presente sul luogo dell’incidente, e rileva che tale verbale non fa parte del fascicolo del dibattimento; che, ad avviso del rimettente — non risultando dall’istruzione dibattimentale alcun elemento da cui desumere la « assoluta necessità » dell’assunzione di tale mezzo di prova, e non potendo il giudice prendere conoscenza degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, da cui potrebbe risultare l’assoluta necessità della prova — la richiesta della parte civile non può essere accolta; che, sulla base di tale presupposto interpretativo, il rimettente ritiene che le norme sopra menzionate, anche tenendo conto dell’interpretazione estensiva dell’art. 507 c.p.p. adottata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111 del 1993, contrastano con il principio di legalità (artt. 25 e 112 Cost.), nonché con gli artt. 101, comma 2, e 102 Cost., in quanto il giudice, a causa della mancata conoscenza di tutti gli atti del fascicolo del pubblico ministero, rimarrebbe privo della possibilità di esercitare il necessario controllo di legalità e di pervenire ad una giusta decisione; controllo che il giudice può effettivamente svolgere, mediante la conoscenza di tutti gli atti compiuti nel corso delle indagini preliminari, solo quando il pubblico ministero formula richiesta di archiviazione, e non anche dopo la citazione a giudizio dell’imputato; che la disciplina censurata verrebbe quindi a contrastare con i principi di non dispersione della prova, della ricerca della verità e della indefettibilità della giurisdizione, quali delineati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale; che, con particolare riferimento all’art. 506, comma 2, c.p.p., il rimettente, motivando in tema di rilevanza della relativa questione, pare far riferimento ad una situazione in cui l’esigenza di rivolgere nuove domande ai testimoni già esaminati per eventualmente contestare il contenuto delle precedenti deposizioni potrebbe emergere solo dopo avere ammesso la nuova prova ex art. 507 c.p.p.;
— 1448 — che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, cbe ha concluso per la manifesta infondatezza della questione, in quanto la conoscenza da parte del giudice del fascicolo del pubblico ministero verrebbe ad alterare la struttura del processo prefigurato dal legislatore e determinerebbe una grave confusione tra i ruoli che il codice di rito rispettivamente riserva al pubblico ministero e al giudice; Considerato che le questioni sollevate dal giudice rimettente, pur articolate sotto diversi profili, concernono sostanzialmente la mancata attribuzione al giudice del dibattimento, nell’esercizio dei poteri suppletivi previsti dagli artt. 506 e 507 c.p.p., della possibilità di conoscere tutti gli atti del fascicolo del pubblico ministero; che, con particolare riferimento all’art. 507 c.p.p., risulta palesemente erroneo l’assunto del rimettente secondo cui l’impossibilità di prendere conoscenza del verbale dell’Ispettorato del lavoro contenuto nel fascicolo del pubblico ministero gli avrebbe impedito di accertare l’assoluta necessità di assumere d’ufficio la nuova prova richiesta al termine dell’istruzione dibattimentale dalla parte civile; che al fine di esercitare il potere previsto dall’art. 507 c.p.p. il sistema delineato dal codice non presume che il giudice conosca gli atti delle indagini preliminari, bensì che sia chiamato ad operare, eventualmente sollecitato dalle parti, una valutazione che tenga conto delle emergenze risultanti dall’istruttoria dibattimentale; che nel caso di specie, a prescindere dal contenuto del verbale dell’Ispettorato del lavoro, la richiesta della parte civile, innestata nel contesto di quanto era sino ad allora emerso nel corso del dibattimento, appariva pienamente idonea, unitamente all’eventuale esibizione ad iniziativa della stessa parte civile dell’atto dal quale la richiesta traeva spunto, a fornire al giudice gli elementi di valutazione necessari al fine di disporre la nuova prova; che, più in generale, la disciplina in base alla quale il patrimonio di conoscenze del giudice è vincolato, salve le eccezioni espressamente previste dalla legge, agli elementi acquisiti nel corso del dibattimento, corrisponde ad una delle scelte più significative e qualificanti del nuovo codice di procedura penale, che si è appunto realizzata mediante il sistema del « doppio fascicolo », al fine di evitare che gli atti raccolti durante le indagini preliminari senza il rispetto delle regole del contraddittorio ed in violazione del principio dell’immediatezza, rifluiscano nel dibattimento (v. ordinanza n. 248 del 1998 e sentenza n. 91 del 1992); che la soluzione auspicata dal giudice rimettente comporterebbe la vanificazione della separazione, tipica di un modello processuale che si ispira al sistema accusatorio, tra la fase delle indagini preliminari e quella del giudizio, facendo venire meno il carattere selettivo del patrimonio di conoscenza su cui si basa l’intervento giurisdizionale, e determinerebbe un sostanziale ritorno al sistema misto delineato dal codice di procedura penale del 1930; che, inoltre, l’assunto del rimettente relativo alla supposta irragionevolezza della disciplina impugnata, perché precluderebbe al giudice del dibattimento di esercitare un effettivo controllo di legalità, attuabile invece in sede di verifica della richiesta di archiviazione mediante la conoscenza di tutti gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, è privo di fondamento, in quanto le due situazioni poste a confronto non sono utilmente comparabili: altro infatti è il controllo attribuito al giudice per le indagini preliminari in sede di richiesta di archiviazione, ove
— 1449 — occorre assicurare l’effettiva attuazione del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, con la conseguente valutazione se dare o meno ingresso alla fase del giudizio, in un contesto quindi in cui il controllo di legalità attribuito al giudice non può che riguardare tutta l’attività di indagine svolta nel corso della fase; altro è la competenza del giudice del dibattimento proiettata non già e non più a verificare la legittimità dell’inazione del pubblico ministero — che ha invero ormai esercitato l’azione penale — ma ad acquisire, attraverso l’istruttoria dibattimentale, gli elementi utili per la decisione (v. anche sentenza n. 91 del 1992); che l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti dell’art. 151 disp. att. c.p.p., mediante il richiamo all’art. 135 delle stesse norme, che facoltizza il giudice a prendere visione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, è palesemente priva di pertinenza, in quanto la disciplina richiamata si riferisce alla diversa situazione in cui il giudice è chiamato a decidere prima dell’apertura del dibattimento sulla richiesta di applicazione della pena e, quindi, ad emettere una decisione che, in caso di accoglimento, preclude la successiva celebrazione del dibattimento; che le questioni sollevate nei confronti degli artt. 507 c.p.p. e 151 disp. att. c.p.p. devono pertanto essere dichiarate manifestamente infondate; che, infine, le questioni sollevate nei confronti dell’art. 506, commi 1 e 2, c.p.p. appaiono manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto prospettate in termini ipotetici e, comunque, risultano intempestive: il rimettente rileva, infatti — peraltro motivando solo in riferimento all’art. 506, comma 2, c.p.p. — che l’esigenza di citare nuovamente testimoni già esaminati è meramente eventuale, e potrebbe porsi solo al termine dell’istruzione dibattimentale, così come integrata — par di comprendere — dopo la citazione del nuovo testimone ex art. 507 c.p.p. — (Omissis).
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I Giudici della Consulta recuperano qualche carattere del sistema accusatorio.
1. La spinta inquisitoria che si era andata consolidando negli ultimi anni, in controtendenza rispetto alle scelte di fondo del legislatore del 1988 si sarebbe potuta espandere in ogni parte se non fosse intervenuta qualche voce dissenziente diversa da quella della dottrina sempre meno ascoltata e negli ammonimenti e negli auspici. Sembrava di assistere ad un’inarrestabile sequela scandita al ritmo dell’Apprendista stregone, incessante nei tempi ed ossessivo nelle ripetizioni: sia ben salutata una nota che segna un deciso alt alle tendenze sempre più ispirate all’autorità che sfocia nell’autoritarismo, al rispetto solo formale del contraddittorio garantito da un paternalismo giudiziario che, come tutti i paternalismi, sconta nella sostanza una forma di reale disinteresse per gli altri, nel caso nostro dei cittadini coinvolti a vario titolo in un processo penale. La ordinanza n. 338 del 14-20 luglio 1999 della Corte costituzionale (in Gazz. Uff., 28 luglio 1999, 1a serie speciale, n. 30) va segnalata come una delle decisioni più ragguardevoli nello sforzo di dare corpo ad un modello processuale davvero ispirato alle regole del sistema accusatorio; e dunque vale la pena che an-
— 1450 — che l’operatore un po’ frettoloso, più sensibile alle declaratorie di incostituzionalità che a quelle di rigetto, fermi la propria attenzione anche su una pronuncia che si limita ad affrontare e ad affermare ‘‘princìpi del sistema’’, soprattutto perché è sui princìpi che si fonda il ‘‘diritto vivente’’, vera spina dorsale dell’ordinamento. 2. La fattispecie giudiziale di partenza è tra le più usuali. Nel corso di un processo penale per lesioni colpose aggravate ex art. 590, commi 2 e 3, c.p. ‘‘il difensore della parte civile aveva chiesto la citazione quale testimone, a norma dell’art. 507 c.p.p., di un soggetto che dal verbale dell’Ispettorato del lavoro, contenuto nel fascicolo del pubblico ministero, risultava presente sul luogo dell’incidente, e rileva (sic) che tale verbale non fa parte del fascicolo del dibattimento’’, essendo inserito in quello degli atti di indagine preliminare a disposizione e, quindi, consultabile solo dalle ‘‘parti’’, e non del giudice dibattimentale, sia pure nella prospettiva di attivare il suo potere-dovere di integrazione probatoria ex art. 507 c.p.p. così come ‘‘riletto’’ nella sua portata dalla sentenza n. 111 del 1993 della Corte costituzionale. Da qui la supposta illegittimità costituzionale: — in primo luogo dell’art. 506, comma 1, c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice dibattimentale possa indicare alle parti ‘‘temi di prova nuovi o più ampi’’ sulla sola base delle risultanze dibattimentali e non anche in forza degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero; — in secondo luogo dell’art. 507 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice dibattimentale possa avere accesso a tutti gli atti di indagine preliminare contenuti nel fascicolo del pubblico ministero al fine di attivare i suoi poteri di integrazione probatoria; — in terzo luogo dell’art. 506, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non consente al presidente del collegio (per autonoma iniziativa, o anche su richiesta di ‘‘altro componente del collegio) di rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici e alle parti private già esaminate’’ sulla base degli ‘‘atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero’’, eventualmente procedendo alle contestazioni ai sensi dell’art. 500, comma 1, c.p.p. con l’acquisizione dei relativi atti utilizzati; — infine dell’art. 151 delle disposizioni di attuazione del codice nella parte in cui non richiama ‘‘l’art. 135 norme di attuazione’’, in forza del quale il giudice dibattimentale ‘‘può ordinare l’esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero’’ per le contestazioni, tutte le volte in cui vi sia difformità rispetto alle deposizioni rese all’udienza. Le doglianze di incostituzionalità si incentravano soprattutto su un profilo comune, la ritenuta inesistenza di un potere per il giudice dibattimentale di accedere al contenuto del fascicolo del pubblico ministero, ed erano formalmente basate sugli artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101 comma 2, 102 e 112 della Costituzione; in realtà erano fondate sostanzialmente sul ritenuto contrasto della esclusione di cui sopra con il principio di legalità sostanziale e con il principio di legalità processuale, essendo sottratto al giudice del dibattimento un potere considerato idoneo per pervenire ad una ‘‘giusta decisione’’; venivano inoltre invocati i principi ‘‘di non dispersione della prova, della ricerca della verità e della indefettibilità della giurisdizione’’. 3. Il giudice rimettente forse non si era accorto che se fosse stata accolta l’eccezione di incostituzionalità, così come era stata formulata, si sarebbe, con un atto giurisdizionale, puramente e semplicemente cancellato il vigente codice di procedura penale nella parte più significativa, che è stata ed è quella di tenere nettamente distinti ruoli e funzioni della fase di acquisizione delle fonti di prova dai ruoli e dalle funzioni della fase di formazione della prova nella pienezza del con-
— 1451 — traddittorio. Consentire al giudice dibattimentale di esperire i suoi poteri integrativi di indagine avvalendosi degli atti raccolti dal pubblico ministero in sede di indagini preliminari avrebbe significato in concreto reintrodurre un sistema caratterizzato dalla istruzione sommaria del codice Rocco coniugata ad una fase dibattimentale contraddistinta dalla totale preminenza del potere inquisitorio dell’organo decidente: esattamente cioè il contrario della ideologia che, magari non sempre in modo adeguato, ha sorretto le scelte di fondo del riformatore del 1988; si sarebbe determinato, come ha scritto la Corte, ‘‘un sostanziale ritorno al sistema misto delineato dal codice... del 1930’’. Il pericolo era tutt’altro che peregrino, soprattutto perché molti erano stati i possibili segni premonitori della Corte costituzionale indicativi di orientamenti istituzionali volti a consolidare sempre di più componenti non del tutto in linea con le ‘‘ideologie’’ di un processo accusatorio di parte. In tante decisioni, si ricorderà, la Corte costituzionale aveva richiamato più volte il principio di non dispersione della prova, nonché evidenziato che lo scopo del processo penale è la ricerca della verità storica dei fatti rispetto alla quale le regole di esclusione della prova dovevano essere ridotte al minimo essenziale, cioè ai soli casi imposti da ‘‘inviolabili diritti’’ costituzionali; inoltre il concetto di indefettibilità della giurisdizione è stato spesso il tramite per recuperare quelle esigenze di efficienza dietro le quali si annidano non di rado le scorie di un autoritarismo che disconosce il vero ed autentico contenuto delle garanzie difensive. La Corte costituzionale, con la pronuncia annotata, fissa alcuni punti che si possono considerare veri e propri moniti volti a riaffermare canoni fondamentali di un modello processuale accusatorio. Anzitutto i Giudici della Consulta hanno chiarito molto opportunamente che, anche in forza della sentenza n. 111 del 1993 (sulla quale ci permettiamo rinviare al nostro Astratte modellistiche e principi costituzionali del processo penale, in questa Rivista, 1993, p. 889 ss.), il giudice dibattimentale è chiamato a svolgere una funzione di integrazione probatoria solo in relazione alle risultanze emerse e consacrate nello svolgimento della istruttoria dibattimentale, vale a dire di un segmento funzionale segnato e gestito in principalità dalla iniziativa dialettica delle ‘‘parti’’ (pubblico ministero, imputato, parti private). Il potere integrativo di cui si parla deve collocarsi solo a conclusione di una fase destinata alla formazione della prova dovuta alla iniziativa delle parti e condotta sotto il costante controllo e l’indispensabile contraddittorio delle medesime davanti ad un ‘‘giudice’’. Si tratta di una presa di posizione estremamente importante, che, in qualche misura, ridefinisce la funzione del processo penale e riqualifica il ruolo del giudice dibattimentale in termini più precisi, eliminando il rischio che gradualmente ed irreversibilmente questi potesse diventare il vecchio giudice inquirente-decidente, una figura che ci veniva dalla tradizione francese e che si è voluta proprio cancellare con il nuovo codice. La Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire anche i corollari e le implicazioni del principio testè illustrato sottolineando in più passaggi l’importanza della regola affermata. Anzitutto si è chiarito che se la parte che aveva interesse ad assumere una certa testimonianza avesse voluto realmente coltivare un’aspettativa siffatta avrebbe potuto ‘‘fornire al giudice gli elementi di valutazione necessari al fine di disporre la nuova prova’’, così riconducendo ancora una volta all’attività di parte lo stimolo per l’accertamento dei fatti. In secondo luogo, la Corte ha chiarito come l’impossibilità per il giudice del dibattimento di conoscere gli atti rimasti nel fascicolo del pubblico ministero ‘‘corrisponda ad una delle scelte più significative e qualificate’’ del nuovo codice
— 1452 — di procedura penale, una scelta mirata a circoscrivere ad un momento funzionale ben preciso la formazione delle prove utili ai fini del decidere ‘‘nel rispetto delle regole del contraddittorio’’ e del principio dell’immediatezza processuale, che, come si sa, dall’ammonimento di Chiovenda (ormai un secolo fa) costituisce una delle caratterizzazioni più specifiche del principio di oralità. 4. L’ordinanza della Corte merita pieno ed incondizionato accoglimento e, soprattutto, un’adeguata pubblicità perché rappresenta un argine oltre il quale non devono più essere consentite esondazioni inquisitorie o tentazioni riformiste all’insegna dell’autorità. Con il riconoscimento al giudice dibattimentale di un potere di iniziativa probatoria meramente integrativo rispetto alle predominanti iniziative delle parti, la Corte ha di fatto precisato che: — il diritto alla prova rappresenta pur sempre un prius nell’accertamento dei fatti secondo le regole fissate dall’art. 190 c.p.p.; — il giudice dibattimentale ha poteri che non possono essere confusi né rapportati a quelli che aveva il giudice della stessa fase vigente il codice di procedura penale del 1930; — la regola o il principio di non dispersione dei mezzi di prova va inteso nella sua giusta portata, nel senso che le fonti di prova raccolte in sede di indagini preliminari restano tali potendo diventare mezzi di prova solo nei limiti in cui le parti, esercitando i relativi poteri in vista del dibattimento o eccezionalmente nel corso del dibattimento, chiedono al giudice di escuterle al fine di ottenere risultati di prova idonei per il decidere; — l’intervento del giudice dibattimentale ex art. 507 c.p.p. si presenta come un potere di supplenza a qualche mancata iniziativa della parte o di complemento per concludere un accertamento che è pur sempre la parte ad avere attivato; in altre parole, non vi può essere un accertamento che prescinda dall’iniziativa delle parti proprio perché il modello del processo accusatorio riconduce il potere decisorio del giudice a quelli tipici dei procedimenti contrappuntati dal potere dispositivo delle parti in materia probatoria e non da poteri officiosi senza limiti; — ciò vuole anche dire che se lo scopo del processo penale è ‘‘la verità dei fatti’’, dopo l’ordinanza della Corte costituzionale, questa verità non può essere intesa secondo i moduli ossessivi delle arcaiche strutture processuali, ma secondo moduli operativi effettivamente rispettosi del ruolo e del potere delle parti; in altri termini, la ‘‘verità’’ dovrebbe essere la risultante almeno di un dialogo dialettico condotto e preparato nel rispetto effettivo della par condicio e non il solitario canto di un monologo che molto spesso persegue traguardi personali o affermazioni istituzionali dietro alle quali non di rado sta l’errore giudiziario. Queste brevi note di presentazione dell’ordinanza della Corte costituzionale vogliono anche essere una sollecitazione al legislatore assai di frequente macerato da contrapposizioni politiche, a volte inaccettabili, a far presto nel dare corpo effettivo alle regole del ‘‘giusto processo legale’’, dentro le quali l’ampliamento dei poteri di indagine privata del difensore delle parti si segnala come un passo assolutamente indefettibile. La Corte non poteva fare diversamente e si spera che la voce che proviene da Piazza del Quirinale sia sentita nei Palazzi del Parlamento che distano poche centinaia di metri. ANGELO GIARDA
— 1453 — b) Giudizi di cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. V — 23 gennaio 1997 (dep. 21 giugno 1997) Pres. Foscarini — Rel. Calabrese P.M. Galati (conf. parz. diff.) — Ric. Montanelli e altri Decreto di citazione a giudizio — Contestazione alternativa — Necessità di un approfondimento dell’attività dibattimentale per la definitiva qualificazione dei fatti contestati — Nullità — Esclusione (C.p.p. art. 521). Non è nullo il decreto di citazione a giudizio che contiene una contestazione alternativa in presenza di una condotta dell’imputato che sia tale da richiedere un approfondimento dell’attività dibattimentale per la definitiva qualificazione dei fatti contestati (1). (Omissis). — Per una serie di articoli apparsi sul quotidiano ‘‘Il Giornale’’ e relativi a diverse vicende che nel biennio tra il 1989 e il 1991 avevano interessato l’opinione pubblica, vennero perseguiti penalmente — con contestazione di plurimi reati di diffamazione a mezzo stampa in danno dei magistrati Libero Mancuso e Claudio Nunziata, all’epoca in servizio presso la Procura della Repubblica di Bologna — il direttore del nominato quotidiano, Indro Montanelli, e i giornalisti Federico Guiglia, Antonio Tajani e Andrea Pucci, instaurandosi a loro carico un unico procedimento conclusosi in secondo grado con la sentenza indicata in epigrafe che, in parziale riforma di quella resa dal Tribunale di Brescia il 28 novembre 1994, si è espressa nei termini che, per la parte che ancora interessa, possono in estrema sintesi così riassumersi: — Articoli sulla loggia massonica Zambroni De Rolandis e sull’esposto di Roversi Monaco, rettore dell’Università di Bologna (capi C e A della rubrica). Sono state confermate le decisloni del primo giudice, che aveva ritenuto diffamatorio, nei canfronti del Mancuso, lo scritto 1o ottobre 1989, dal titolo ‘‘Massoni sì, cospiratori no’’ (capo C), ma non lesivo della reputazione del Nunziata quello 15 maggio 1990, intitolato ‘‘Il rettore di Bologna: così il P.C.I. mi ha perseguitato’’ (capo A). Quanto al primo, la Corte ha condiviso che le espressioni utilizzate per descrivere i contenuti e le finalità dell’inchiesta giudiziaria sulle logge massoniche bolognesi affidata per un certo periodo al Mancuso (un bluf durato quattro anni — una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in ogni momento) intendevano attribuire al magistrato inquirente, da una parte, la precisa ed originaria volontà di procedere nonostante la riconosciuta infondatezza dell’accusa, e, dall’altra, la maligna intenzione di strumentalizzare l’inchiesta per sfruttare, a scopi diversi da quelli di giustizia, le ripercussioni che dalla pubblicità della vicenda sarebbe derivata alle persone coinvolte nel procedimento, tra cui il rettore dell’ateneo bolognese. Quanto al secondo articolo, pubblicato due mesi dopo che il Roversi Monaco
— 1454 — aveva denunciato al Capo dello Stato ed all’organo di autogoverno della magistratura le pretese manovre compiute in suo danno, come esponente della massoneria, ad opera dell’autorità giudiziaria bolognese, la Corte ha ribadito che non erano stati superati i limiti dell’esercizio del diritto di cronaca, poiché lo scritto conteneva l’esposizione risssuntiva, ma fedele, del memoriale del rettore dell’ateneo e le accuse ivi riportate erano state presentate non come fatti assodati ma quali ipotesi sottoposte all’esame degli organi costituzionali. — Scritti riguardanti il c.d. ‘‘Caso Montorzi’’ e la struttura ‘‘Giustizia e corpi dello Stato’’ (capi E, F, N, in parte, della rubrica). Gli articoli del 31 luglio 1989 (‘‘Ed è già nato il caso Bologna’’), apparso senza firma e perciò attribuito al Montanelli (capo F), del 1o agosto 1989 (‘‘Il P.C.I. cavalca la strage di Bologna (capo E n. 1), e del 6 ottobre 1989 (capo N, in parte), sono stati ritenuti lesivi della reputazione del Mancuso dalla Corte bresciana, la quale ha considerato, diversamente dai giudici di primo grado, che le pubblicazioni non si limitavano a riportare il contenuto delle dichiarazioni, datate 20 luglio 1989, dell’avv. Montorzi (afferenti i motivi della sua dissociazione dal collegio di difesa delle parti civili nel procedimento penale relativo alla strage di Bologna) e della conseguente interrogazione parlamentare dell’on. Franco Piro (che ne riprendeva i temi, vale a dire l’individuazione dei giudici coinvolti dalle affermazioni del Montorzi, la sussistenza di irrituali collaborazioni tra giudici e il difensore delle parti civili, tali da far pensare a ‘‘binari paralleli’’ non previsti dall’ordinamento giudiziario), ma ne costituivano una distorsione macroscopica e grottesca, volta — tra l’altro — ad indicare il magistrato quale partecipe alle iniziative di una ‘‘struttura investigativa parallela’’ di origine non statuale e con carattere di illegalità. Ha poi la Corte confermato il giudizio di responsabilità in ordine agli articoli del 4 e 5 agosto 1989 (di cui al capo E, nn. 2 e 5), disattendendo il motivo di gravame con il quale si tendeva ad attribuire all’on. Piro uno scritto di tre fogli che fungeva da accompagnatoria ad una lettera dallo stesso inviata ad un deputato amico, e nel quale scritto — ritenuto invece anonimo dai giudici di merito — si dava notizia della esistenza della menzionata ‘‘struttura investigativa’’ con il compito di vigilare sull’ordine pubblico e sventare le trame rosse e nere che minacciavano il partito comunista. — Articoli sulle esernazioni del ‘‘pentito’’ di mafia Giuseppe Pellegriti (capi B, D, I, parte, L, N, parte, ed O). La Corte ha considerato che appariva perfettamente legittimo ed anzi doveroso per un quotidiano di impronta conservatrice, quale ‘‘Il Giornale’’, proporre ai lettori il quesito del ‘‘cui prodest’’ in relazione alle mendaci affermazioni del Pellegriti, il quale aveva falsamente indicato al G.I. presso il Tribunale di Palermo l’on. Salvo Lima come implicato nell’omicidio Mattarella, e riferito allo stesso giudice che, interrogato giorni prima su altre vicende dal Mancuso, questi gli aveva chiesto — al suo rifiuto di fare il nome dell’esponente D.C. cui l’on. Mattarella dava fastidio — ‘‘se per caso il politico in questione non fosse l’on. Salvo Lima’’. Ma era pur necessario riconoscere che nell’offrire una risposta alla domanda, non ci si poteva lasciare andare ad illazioni intentate ed a insinuazioni prive di ogni aggancio con la realtà. Così invece era stato, dal momento che gli scritti in questione avevano chiamato in causa, quale strumento consapevole e compiacente di una manovra parti-
— 1455 — giana e faziosa, il magistrato (Mancuso) che per primo aveva avuto la ventura di raccogliere le dichiarazioni del pentito, presentandolo come un tassello di un disegno ordito dal partito comunista. Per contro nessun elemento vi era che potesse far sospettare, sia pure lontanamente, una strumentalizzazione del magistrato, e su cui poggiare la convinzione che questi potesse essersi prestato a ‘‘pilotare’’ il pentito verso dichiarazioni gradite ad una certa fazione politica: e tale era l’assunto di fondo che collegava tutti gli articoli incriminati. — L’articolo sulla estradizione di Francesco Pazienza (capo I, parte, della rubrica). È stata dichiarata l’inammissibilità dell’appello per mancata presentazione dei motivi, sul rilievo che le doglianze mosse in ordine al capo I concernavano esclusivamente le affermazioni relative alla vicenda del pentito Pellegriti, di cui innanzi. —Pubblicazioni relative all’indagine del Consiglio Superiore della Magistratura sul ‘‘caso Montorzi’’ (capi M ed H) e al procedimento disciplinare nei confronti di Claudio Nunziata (capo T). Il giudice d’appello ha accolto il gravame del Mancuso avverso le pronunce assolutorie del Tribunale, osservando, quanto allo scritto 26 settembre 1989 (capo M), che il solo adombrare il sospetto di una inchiesta disciplinare sul conto di un pubblico ufficiale è fatto idoneo a minarne il buon nome e che, peraltro, l’autore dell’articolo aveva chiosato velenosamente la notizia, non vera, dell’apertura di una inchiesta disciplinare a carico del Mancuso affermando che l’esame del caso Bologna da parte del C.S.M. sottolineava l’esistenza di un ‘‘male oscuro’’ della giustizia in cui si muovono ‘‘giudici politicizzati che non avrebbero rispettato le più elementari regole del loro mestiere’’; e, in relazione all’articolo dell’8 novembre 1989 (capo H), che le frasi incriminate si riferivano con certezza al Mancuso, dal momento che la notizia, anch’essa non vera, secondo la quale ‘‘i giudici di Firenze avrebbero stralciato la posizione del p.m.. che avrebbe indebitamente trattenuto alcuni atti dell’inchiesta sulle ammissioni alla scuola di odontoiatria’’ è collocata immediatamente dopo un altro periodo in cui si annuncia che ‘‘anche per Mancuso si profilano guai giudiziari e disciplinari’’. Con riguardo alla imputazione sub T — afferente un breve trafiletto non firmato apparso nella edizione del 29 settembre 1991, così concepito: ‘‘Claudio Nunziata è stato definitivamente riconosciuto colpevole... di calunnia nei confronti... di Giorgio Floridia. Bollato ormai a tutti gli effetti come un ‘‘calunniatore’’, Nunziata rischia adesso di venire espulso dai ranghi della magistratura...’’ — la Corte ha ribadito che le espressioni usate non travalicano i limiti della pertinenza e della continenza, ritenendo che la definizione di ‘‘calunniatore’’, siccome riferita esclusivamente all’esito della vicenda penale, vale ‘‘per condannato per calunnia’’ e non già per ‘‘soggetto abitudinariamente dedito alla calunnia’’, ciò evindendosi anche dall’uso del ‘‘virgolettato’’, sintomatico del fatto che con esso il giornalista avverte il lettore che il termine di calunniatore utilizzato va riferito esclusivamente alla condotta attuata in occasione della sentenza per cui è intervenuta condanna. Alle notazioni che precedono occorre aggiungere che la Corte di merito ha ritenuto di non ravvisare ipotesi di nullità nell’essere stato al Montanelli, col decreto di citazione, contestato alternativamente di avere concorso nella diffamazione con l’autore degli articoli ovvero di avere omesso il controllo sul contenuto della pubblicazione; sussistere l’aggravante di cui all’art. 61, n. 10, c.p.; immediatamente
— 1456 — determinabile, sia pure in via equitativa, l’ammontare del risarcimento del danno spettante al Mancuso. Ricorrono ora per cassazione tutti gli imputati, nonché le parti civili Mancuso e Nunziata, deducendo, con vari motivi, la nullità della sentenza. I ricorsi vanno disattesi. Non ha fondamento l’eccezione sollevata preliminarmente dalla difesa del Montanelli. La possibilità di formulare ‘‘contestazioni alternative’’ anche col decreto di citazione a giudizio, è ammessa pacificamente dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha ben chiarito che, in presenza di una condotta dell’imputato che sia tale da richiedere un approfondimento dell’attività dibattimentale per la definitiva qualificazione dei fatti contestati, tale metodo non solo è legittimo ma risponde anche ad un’esigenza della difesa, atteso che l’incolpato, da un lato, è messo in condizione di conoscere esattamente le linee direttrici sulle quali si svilupperà il dibattito e, dall’altro, non si vede costretto — come sarebbe possibile — a rispondere della sola ipotesi criminosa più grave, rinviandosi poi all’esito del dibattimento la risoluzione della questione attraverso la successiva riduzione dell’imputazione originaria, secondo lo schema previsto nell’art. 521 c.p.p. (sez. VI, 12 ottobre 1993, Izzo; sez. I, 22 luglio 1988, Pitrola). Egualmente infondati sono i motivi che attengono al giudizio espresso sulle singole imputazioni dalla Corte territoriale. Questa, infatti, non ha minimamente deviato dal principio, ormai costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’esimente ex art. 51 del diritto di cronaca è fondata sulla esistenza di tre requisiti: pertinenza, continenza e verità dei fatti. a) Requisiti tutti riscontrati nell’articolo 15 maggio 1990 (capo A), dato l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (trattandosi di un memoriale — quello del rettore dell’ateneo bolognese — trasmesso ai supremi organi costituzionali per segnalare le presunte manovre compiute in suo danno dall’autorità giudiziaria bolognese), la sua continenza e la sua verità (avendo il giudice di merito verificato, con adeguato ed esauriente apprezzamento dei fatti, come tale insindacabile in questa sede, la riproduzione fedele del contenuto del memoriale). Nei diffusi motivi di ricorso il Nunziata fa leva sul carattere offensivo e diffamatorio delle accuse esposte nel suddetto documento, ma è evidente che del contenuto di tali accuse non può essere mosso addebito al giornalista, bensì — eventualmente — all’autore del memoriale. Il giornalista, infatti, a fronte dell’autorevolezza della fonte e dell’interesse pubblico alla conoscenza del documento, aveva il diritto-dovere, quale cronista, di portare a conoscenza dei lettori anche il tenore degli addebiti in esso contenuti. Tanto precisato in ordine al memoriale, va chiarito che le successive argomentazioni dell’articolista ne costituiscono il logico e legittimo (quale esercizio del diritto di critica) corollario, in quanto rappresentative — secondo l’insindacabile valutazione fattane dai giudici di merito — di fatti riferiti non come assodati ma quali ipotesi da verificare. Insindacabile, perché congruamente argomentato, è, poi, anche il motivato della Corte sulla ritenuta non estensibilità della querela del Nunziata al Roversi Monaco. Conseguentemente non ha pregio l’ulteriore doglianza del ricorrente, relativa
— 1457 — alla deposizione resa dal Roversi Monaco in primo grado, che sarebbe stata assunta in violazione dell’art. 63 c.p.p., deposizione, peraltro, come sembra potersi evincere dal testo dell’impugnato provvedimento, non utilizzata dalla Corte territoriale ai fini del decidere. Per le stesse ragioni dianzi esposte (rispetto dei limiti della continenza, pertinenza e verità dei fatti), va respinto il ricorso del Nunziata nella parte concernente l’articolo di cui al capo T, una volta precisato che l’interpretazione che della locuzione ‘‘a tutti gli effetti’’ viene offerta dal suo difensore (essa aggiungerebbe proprio il concetto che il ricorrente non era solo una persona condannata per calunnia, ma un calunniatore anche ad altri effetti e cioè a prescindere dall’esito di quel giudizio penale) costituisce un diverso parere non ammissibile in questa sede, risolvendosi in una censura di fatto. b) Il requisito della continenza non si ravvisa nell’articolo di cui al capo C della rubrica, nel quale, diversamente da quanto si sostiene nei motivi di ricorso, l’articolista non si è limitato ‘‘a rappresentare la sostanza delle censure che erano state mosse dall’avvocato bolognese e dal rettore dell’ateneo della stessa città’’, ma è andato ben oltre, abbandonandosi ad una serie di considerazioni del tutto personali che, come correttamente ritenuto dai giudici di merito, palesavano il tentativo di presentare il magistrato come un personaggio pronto ad utilizzare i processi come armi nei confronti di supposti avversari politici, pur nella consapevolezza della inconsistenza delle accuse, così travalicando i limiti obiettivi di cronaca e di critica. Ed in questo contesto, appare chiaro che la Corte di merito ha giustamente disatteso l’applicabilità dell’esimente, anche sotto il profilo della putatività. c) A non diversa conclusione deve pervenirsi per ciò che attiene agli articoli oggetto dei capi di imputazione E, F ed N della rubrica. Anzi, per questa parte, le censure sono addirittura inammissibili perché, sotto il profilo della carenza ed illogicità manifesta della motivazione, e di omesso esame di tutti gli elementi probatori acquisiti al processo, esse prospettano invece una diversa interpretazione e valutazione degli elementi sui quali la decisione è fondata. E solo per completezza d’indagine va, perciò, osservato che adeguatamente e validamente la Corte di merito ha indicato le ragioni della ritenuta anonimia dei tre fogli allegati dall’on. Piro allo scritto inviato al collega (contenenti le gravi e indimostrate accuse nei riguardi del Mancuso, di poi riprese dal giornalista e attribuite al Piro), nonché della ravvisata esorbitanza delle definizioni negli altri tre articoli riferite al Mancuso, rispetto alle dichiarazioni del Montorzi e del nominato Piro: individuando le prime in considerazioni di carattere logico e letterale (costui si era tra l’altro così espresso: ‘‘non ti garantisco né l’autenticita né la veridicità della lettera’’ — ‘‘dallo stile mi appare ben informata’’) e le altre nel fatto che nelle dichiarazioni del Montorzi come in quelle del Piro non v’era menzione alcuna del Mancuso quale interlocutore dell’avv. Montorzi né l’accenno alle ‘‘irrituali collaborazioni’’ era operato in modo del tutto vago e generico. d) Anche le censure che coinvolgono le imputazioni di cui ai capi M ed H si esauriscono nella disamina di circostanze di fatto e nella proposta di relative valutazioni che tendono a sovrapporsi a quelle della Corte di merito. Ovviamente di esse non si terrà conto neppure ai fini di una sommaria menzione, una volta precisato, quanto all’articolo di cui al capo M, che, anche a voler conferire all’intervento del C.S.M. il carattere di una vera e propria inchiesta disciplinare già aperta
— 1458 — a carico del Mancuso, resta il dato che le modalità della pubblicazione, come opportunamente rilevato dal giudice d’appello, hanno avuto un autonomo rilievo lesivo; e, quanto all’articolo contemplato dal capo H, che neppure si contesta dai ricorrenti la non veridicità della notizia riportata nello scritto, secondo cui la posizione del magistrato sarebbe stata stralciata per avere costui indebitamente trattenuto alcuni atti d’una inchiesta (risultata mai affidata al Mancuso). e) Il requisito della verità dei fatti difetta negli articoli di cui ai capi B, D, I, L, N ed O della rubrica. E non giova di certo agli imputati il discorso argomentativo in cui si articolano i motivi di ricorsi prospettati in parte qua, tutto incentrato nelle allegazioni che non si può pretendere che i giornalisti, allo scopo di accertare la fondatezza delle notizie, istruiscano vere e proprie inchieste, e che, nella fattispecie, le notizie sul ‘‘caso Pellegriti’’ circolavano da tempo ed altre testate le avevano riportate, onde, anche in vista delle indubbie ‘‘stranezze’’ e dei ‘‘lati oscuri’’ che detto caso presentavano, l’aver interpretato la vicenda negli stessi termini riportati in precedenza da altre fonti avvalora la tesi dell’errore involontario e giustificato sulla verità delle notizie. È appena il caso di ricordare, infatti, che ai fini dell’esimente del diritto di cronaca, anche sotto l’aspetto putativo o dell’eccesso colposo, al reato di diffamazione a mezzo stampa, la necessaria correlazione tra l’oggettivamente narrato e il realmente accaduto importa l’inderogabile necessità di un ‘‘assoluto’’ rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto riferito, risultando inaccettabili i valori sostitutivi di esso, quali quello della veridicità o della verosimiglianza dei fatti narrati, nonché lo stretto obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono. Né il giornalista può appagarsi di notizie rese pubbliche da altre fonti informative (altri giornali, agenzie ecc.) senza esplicare alcun controllo, altrimenti le fonti propagatrici delle notizie — attribuendosi reciproca credibilità — finirebbero per rinvenire in se stesse attendibilità. Sul punto la decisione impugnata si sottrae dal pari alle censure di ricorrenti, ed anche per quella parte dell’imputazione di cui al capo L, rispetto alla quale sarebbe stato omesso l’esame di uno specifico motivo d’appello, atteso che detto esame nulla avrebbe tolto o aggiunto in modo significativo al giudizio espresso sul contenuto chiaramente diffamatorio desunto dal complessivo contesto della pubblicazione. f) Si contesta la legittimità della dichiarazione di inammissibilità dell’appello riguardante l’imputazione di cui al capo I, nella parte relativa alla estradizione di Francesco Pazienza, e alla vicenda Ferracuti. Si deduce che il non avere dedicato alla vicenda Ferracuti e Pazienza un capitolo apposito non significa per ciò che non si sia motivata la richiesta di assoluzione. In realtà, poiché essa è trattata in un articolo che si occupa sempre della vicenda Pellegriti, le doglianze verso la decisione di primo grado sono state assemblate in un unico capitolo relativo al caso Pellegriti. E si aggiunge che i motivi d’appello contenevano nella premessa l’illustrazione dei principi dai quali avrebbe dovuto discendere l’assoluzione degli imputati ‘‘anche per i restanti articoli’’, sicché la richiesta assolutoria doveva ritenersi compendere anche la parte del capo I in esame. La censura non può essere condivisa.
— 1459 — Trattasi d’un sottile ragionare, che però sconta l’errore di fondo di non considerare che, in concreto, nei motivi di gravame non è stata indicata alcuna delle ragioni sulla base delle quali il giudice di primo grado avrebbe dovuto ritenere non diffamatorio il passo dell’articolo 12 novembre 1989 riguardante la vicenda Ferracuti e Pazienza. Nel passare all’esame degli altri motivi di ricorso, rileva la Corte che deve essere disatteso quello che attiene alla ravvisata sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 10, c.p. Si sostiene che, ai fini dell’aggravante in questione, è necessario un rapporto di contestualità o di contemporaneità, perché la circostanza presuppone la presenza di due requisiti: uno di carattere temporale, caratterizzato dalla contestualità rispetto all’adempimento della funzione o del servizio, l’altro di carattere eziologico, legato all’esercizio delle funzioni come causa dell’offesa. E tali requisiti mancherebbero entrambi nella fattispecie. Va in contrario osservato che il rapporto di contestualità o di contemporaneità afferisce alla prima ipotesi contemplata dall’art. 61, n. 10 citato (che ricorre quando il fatto sia stato commesso ‘‘nell’atto’’ in cui il pubblico ufficiale eserciti la funzione): e in questo caso esso basta per la sussistenza dell’aggravante, non rilevando affatto che il reato sia determinato a motivi estranei alle mansioni del soggetto (Cass., sez. V, ?? agosto 1986, Cappone). L’altra ipotesi contemplata dalla disposizione (reato commesso ‘‘a causa’’ dell’adempimento delle funzioni o del servizio) si verifica allorché il soggetto passivo non si trovi nell’atto di adempiere le sue funzioni o il suo servizio, quindi al di fuori di un rapporto di contestualità o di contemporaneità. Ma in tale ipotesi, per la sussistenza dell’aggravante, si richiede un nesso causale tra la attività funzionale e il motivo del reato. Nella fattispecie l’aggravante è stata contestata per essere stati i reati di diffamazione commessi ‘‘a causa’’ dell’adempimento delle funzioni del pubblico ufficiale. Il riferimento al rapporto di contestualità o di concomitanza è perciò fuor di luogo. Mentre non appare in alcun modo smentibile la Corte di merito allorché afferma di avere ravvisato la sussistenza del collegamento funzionale tra offesa ed esercizio della pubblica funzione nell’elemento costituito dal fatto che gli attacchi giornalistici avevano preso tutti lo spunto dallo svolgimento delle funzioni giudiziarie da parte del querelante Mancuso. Non appaiono meritevoli di accoglimento neppure i motivi, che possono essere globalmente esaminati, degli imputati da una parte e del Mancuso dall’altra, attinenti alle statuizioni di natura civile. Occorre chiarire che la Corte territoriale, sul rilievo della natura esclusivamente morale del nocumento sofferto dalla parte lesa, ha ritenuto — diversamente dai giudici di primo grado — immediatamente determinabile, sia pure con riferimento ai criteri equitativi, l’ammontare del risarcimento da liquidarsi in favore della parte civile e, richiamati alcuni parametri, ha fissato il danno in lire 15.000.000 oltre a lire 2.500.000 ex art. 12 legge stampa per ciascuno dei reati considerati, eccetto che per quello di cui al capo H, per il quale ha liquidato lire 500.000 oltre a lire 1.000.000 ex art. 12 cit. Ha ritenuto dette somme comprensive delle provvisionali assegnate dalla im-
— 1460 — pugnata decisione e della svalutazione mometaria, con decorrenza degli interessi dalla sentenza al saldo, ed ha infine ordinato, pure a titolo di risarcimento del danno, la pubblicazione per estratto della sentenza sui quotidiani ‘‘Il Giornale’’ e ‘‘Il Resto del Carlino’’. A tali determinazioni la Corte è pervenuta considerando ‘‘il peso’’ specifico dei singoli addebiti formulati contro il Mancuso, che erano tali da elidere, ove fondati, ogni credibilità dell’azione del magistrato, e la stessa generale notorietà raggiunta dal querelante in virtù dell’estenuante istruttoria sulla strage alla stazione di Bologna, ritenuta circostanza capace di rendere più profonda la ferita all’onore. Ciò posto, va anzitutto disattesa la censura con la quale la difesa degli imputati addebita alla impugnata decisione di avere proceduto alla liquidazione del danno senza nulla aver detto in ordine alla sussistenza di un effettivo pregiudizio sofferto dalla parte lesa. È sin troppo agevole replicare che gli elementi come innanzi richiamati e considerati dal giudice d’appello appaiono invece sicuri indici di un danno effettivo e certo nella sua esistenza ontologica, e suscettibile, come tale, pur non essendo provato nel suo preciso ammontare, di una liquidazione equitativa. Nel procedere alla quale, la Corte ha spiegato di avere tenuto conto sia del fatto che le offese alla reputazione sono avvenute nella trattazione di temi di larghissimo interesse, tali da suscitare l’attenzione della generalità dei lettori, sia del fatto che il quotidiano ‘‘Il Giornale’’ godeva già all’epoca dei fatti di una discreta diffusione nazionale. Ed anche per questa parte l’impugnata sentenza si sottrae alle censure dei ricorrenti, comprese quelle formulate dalla parte civile, la quale, in particolare si duole dell’omessa valutazione del parametro ancorato ai vantaggi ‘‘politici’’ ed ‘‘economici’’ prodotti dalle notizie diffamatorie, dell’erronea attribuzione alla testata giornalistica di una diffusione soltanto ‘‘discreta’’, del contrasto tra i parametri utilizzati, sintomatici di un danno di notevole entità, e la modestia delle cifre liquidate. Tali doglianze omettono di considerare che, in tema di risarcimento del danno per fatto illecito, la liquidazione del danno non patrimoniale, sfuggendo ad una precisa valutazione analitica, resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito che sono incensurabili in sede di legittimità quando contengano la indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico adottato (Cass. civ., sez. III, 1 marzo 1993, n. 2491). E nella specie tali ragioni risultano esposte in maniera più che congrua, specie ove si tenga presente ciò che neppure la difesa del Mancuso fa — l’ulteriore voce risarcitoria presa in considerazione dalla Corte di merito, vale a dire la pubblicazione della sentenza di condanna che, com’è noto, costituisce forma di risarcimento in forma specifica con altissima efficacia riparatoria dell’onore e della reputazione dell’offeso (Cass. civ. n. 9491/93 cit.). V’è censura, da parte del Mancuso, anche in ordine alla decorrenza degli interessi, che a suo avviso andava fissata dal giorno in cui il danno ebbe a prodursi. Anch’essa deve, però, essere disattesa. Non ignora questo Collegio che si è affermata dalla giurisprudenza, in subiecta materia, che gli interessi vanno corrisposti sulla somma rivalutata a titolo di danno con decorrenza dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (Cass., sez. III, 13 novembre 1989, n. 4791).
— 1461 — Di recente, tuttavia, dalla stessa giurisprudenza si è precisato che, nelle obbligazioni pecuniarie, gli interessi moratori accordati al creditore dal comma 1 dell’art. 1124 c.c. hanno funzione risarcitoria rappresentando il ristoro, in misura forfettariamente predeterminata, della mancata disponibilità, a causa della mora, della somma dovuta. Pertanto, qualora si provveda all’integrale rivalutazione del credito all’attualità, tale rivalutazione si sostituisce al danno presunto costituito dagli interessi legali ed è idonea, quale espressione del totale danno in concreto, a coprire l’intera area dei danni subiti dal creditore stesso fino alla data della liquidazione. Segue che solo da tale data spettano, sulla somma rivalutata, gli interessi, verificandosi altrimenti l’effetto che il creditore conseguirebbe di più di quanto avrebbe ottenuto se l’obbligazione fosse stata tempestivamente adempiuta (Cass. civ., sez. III, 7 maggio 1991, n. 5044). Il nuovo principio, elaborato per l’ipotesi del debito di valuta, va affermato anche per l’ipotesi del debito di valore, come quella in esame, in quanto anche per essa il cumulo sortirebbe lo stesso, effetto di far conseguire al creditore una duplice liquidazione dello stesso danno (Cass. civ., sez. II, 29 settembre 1994, n. 7943). Nella specie, avendo il giudice di merito provveduto all’integrale rivalutazione del credito all’attualità, la decorrenza degli interessi è stata esattamente fissata dalla data della sentenza. In conclusione, vanno respinti tutti i ricorsi. (Omissis).
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La contestazione alternativa tra vecchia giurisprudenza e nuovo codice.
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione ha rigettato l’eccezione volta a far dichiarare la nullità della sentenza di condanna, ‘‘derivata’’ dalla nullità del decreto che dispone il giudizio, in quanto contenente una contestazione alternativa. La Suprema Corte ha richiamato la propria giurisprudenza in materia, elaborata sotto il codice Rocco (1), per la quale il metodo alternativo, ‘‘in presenza di una condotta dell’imputato che sia tale da richiedere un approfondimento dell’attività dibattimentale per la definitiva qualificazione dei fatti contestati, (...) non solo è legittimo ma risponde anche ad un’esigenza della difesa, atteso che l’incolpato, da un lato, è messo in condizione di conoscere esattamente le linee direttrici sulle quali si svilupperà il dibattito, e, dall’altro, non si vede costretto — come sarebbe possibile — a rispondere della sola ipotesi criminosa più grave, rinviandosi poi all’esito del dibattimento la risoluzione della questione attraverso la successiva riduzione dell’imputazione originaria, secondo lo schema (oggi) previsto dall’art. 521 c.p.p.’’. La supposta legittimità della contestazione alternativa contenuta nel decreto di citazione a giudizio troverebbe, quindi, il proprio fondamento nel principio della ‘‘correlazione tra imputazione contestata e sentenza’’ previsto dall’art. 521, (1) V. Cass., sez. VI, 12 ottobre 1993, Izzo, in Giust. pen., 1994, III, p. 486; Id., sez. I, 22 luglio 1988, Pitrola, in Riv. pen., 1989, p. 142. Successivamente l’orientamento è stato ribadito da Cass., sez. III, 22 maggio-luglio 1998, Regis, in Guida al dir., 1998, n. 31 p. 74; Id., sez. I, 4 maggio-3 giugno 1998, Parisi, ivi, 1998, n. 27, p. 124.
— 1462 — comma 1, c.p.p. il quale, ribadendo quanto già stabilito dall’art. 477 c.p.p. abr., ‘‘autorizza’’ il giudice a dare, nella sentenza, una ‘‘definizione giuridica’’ al fatto ‘‘diversa da quella enunciata nella imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza’’. Cioè a dire che, se per la ‘‘definitiva qualificazione giuridica dei fatti’’, vi è tempo sino alla pronuncia della sentenza qualora la condotta dell’imputato non sia inquadrabile tout court in una sola fattispecie giuridica, ma richieda un approfondimento in sede dibattimentale, a fortiori, dovrebbe ritenersi legittima ‘‘un’incertezza di definizione giuridica dei fatti’’ in una fase iniziale del processo quale quella in cui avviene la contestazione con il decreto di citazione a giudizio. Il ricorso all’art. 521 c.p.p. non ci sembra appropriato. Nel caso di specie, posto che si parli di ‘‘approfondimenti dell’attività dibattimentale’’ necessari per la ‘‘definitiva qualificazione dei fatti’’, l’attività integrativa dell’imputazione dovrebbe essere inquadrata, a nostro parere, nello schema dell’art. 516 c.p.p. che ‘‘autorizza’’ il pubblico ministero a modificare l’imputazione e procedere alla relativa contestazione, se nel corso dell’istruzione dibattimentale ‘‘il fatto risulta diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio e non appartiene alla competenza di un giudice superiore’’, non già, invece, nell’ambito dell’art. 521, comma 1, c.p.p. che, nella sede ulteriore della decisione, legittima, questa volta, il giudice, a ‘‘dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione’’ (sempre che, ovviamente, il reato non ecceda la sua competenza). La decisione conferma, a nostro parere, la vecchia confusione della giurisprudenza che, già vigente il codice Rocco, sovrapponeva l’istituto della integrazione dibattimentale dell’accusa, su richiesta del pubblico ministero, (art. 445 c.p.p. abr.) ed i poteri del giudice, in sentenza, di qualificare il fatto in modo diverso rispetto alla contestazione iniziale (art. 477 c.p.p. abr.). La Cassazione, nel motivare la legittimità della contestazione alternativa — come si è detto — ne evidenzia la conformità al diritto di difesa dell’imputato: potendosi così, in un momento anteriore rispetto alla decisione, ovverosia già nel corso del dibattimento pervenire alla corretta qualificazione giuridica del fatto, invece di attendere che maturino le condizioni per l’operatività dell’art. 521, comma 2, c.p.p. La norma (art. 516 c.p.p.), che costituisce una novità dell’attuale codice è esemplificativa della tendenza ad una ‘‘maggior elasticità’’ dell’accusa, pronta ad adeguarsi agli sviluppi del dibattimento. Cosicché, se non soltanto il giudice può, in sede di formulazione della sentenza, ‘‘dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione’’, ma lo stesso pubblico ministero può, nel corso dell’istruzione dibattimentale, procedere ad ‘‘aggiustamenti’’ dell’accusa, allora, l’imputazione alternativa contenuta nel decreto di citazione a giudizio non sarebbe, per così dire, ‘‘un caso isolato’’ di imputazione ‘‘provvisoria’’. Se è vero, infatti, che principio cardine del sistema processuale oggi vigente è quello della ‘‘formazione della prova in dibattimento’’, ne conseguirebbe la ‘‘plasmabilità’’ dell’addebito in funzione delle risultanze dibattimentali. Queste sono, a nostro parere, le argomentazioni che si nascondono dietro la scarna motivazione con cui la Cassazione ha escluso la nullità del decreto di citazione a giudizio contenente imputazioni alternative. 2. Riteniamo, però, che la vera ragione per cui la Suprema Corte, nella sentenza qui in commento, ha ammesso la contestazione alternativa debba ravvisarsi nella circostanza che la questione è stata, per l’appunto, ricondotta ad un semplice problema di ‘‘definitiva qualificazione dei fatti contestati’’. Come è noto, il nuovo codice, in misura più ampia rispetto al precedente, consente l’integrazione e la correzione dell’accusa nel corso dell’istruzione dibatti-
— 1463 — mentale, se emerge che il fatto storico, pur rimanendo sostanzialmente il medesimo, deve essere diversamente qualificato, purché la contestazione sia, comunque, ‘‘inerente ai fatti oggetto di giudizio’’, come prescrive una specifica direttiva della legge delega (art. 2, n. 78), ed a parte, naturalmente, le modifiche di cui all’art. 517 c.p.p. Laddove, invece, risulta dal dibattimento un fatto totalmente diverso — cioè nuovo rispetto a quello contestato — per il quale sarebbe possibile instaurare un procedimento separato, di regola, il pubblico ministero deve procedere per le vie ordinarie: salvo che l’imputato acconsenta alla contestazione suppletiva e questa sia autorizzata dal presidente, non essendovi pregiudizio per la speditezza (art. 518 c.p.p.). La possibilità di procedere per il fatto nuovo unitamente a quello originariamente contestato è ritenuta, tuttavia, applicabile esclusivamente laddove il nuovo si aggiunga semplicemente al primo; al contrario, qualora lo sostituisca integralmente, è necessario procedere autonomamente, posto che, altrimenti, si avrebbe una ritrattazione dell’azione penale, non consentita nel nostro ordinamento. Le problematiche legate all’emergere di un fatto nuovo, nel corso dell’istruzione dibattimentale, sono molteplici e complesse, soprattutto con riguardo alle ipotesi che sono al limite tra fatto diverso e fatto nuovo e non è questa la sede per un loro approfondimento, mentre è opportuno verificare se le fattispecie dell’omesso controllo sul contenuto della pubblicazione ex art. 57 c.p.p. e quella del concorso nella diffamazione a mezzo stampa ex artt. 110 e 595, comma 2, c.p., contestati alternativamente al direttore pro tempore de ‘‘Il Giornale’’, possano considerarsi come due diversi modi di qualificare giuridicamente un medesimo fatto, oppure se abbiano elementi costitutivi tanto difformi da non poter essere, per così dire, ‘‘fungibili’’. Nel primo caso, le motivazioni della Cassazione troverebbero sostegno in una consolidata giurisprudenza che, vigente il codice Rocco, negava la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando il mutamento del fatto contestato non ledeva il diritto di difesa dell’imputato (2), in caso contrario, risulterebbe problematica la asserita legittimità della contestazione alternativa contenuta nel decreto di citazione a giudizio, posto che, trattandosi di fatto totalmente diverso, presupporrebbe un procedimento autonomo. Procederemo a sciogliere la riserva attraverso una rapida analisi del concetto di identità del fatto nella giurisprudenza inaugurata sotto la vigenza del ‘‘vecchio’’ codice, a cui, come si è detto, si richiama la nostra sentenza. Ci limiteremo ad una sommaria indicazione delle decisioni più significative elaborate nell’interpretazione degli artt. 477, 444 e 445 c.p.p. abr., relativi, appunto, al principio della correlazione tra accusa e sentenza ed alle modifiche dell’imputazione nel corso del dibattimento (con la precisazione che, queste ultime ipotesi, sono state spesso ‘‘assorbite’’ nell’ambito dell’art. 477 c.p.p. abr.). Appare immediatamente, dall’esame di questa giurisprudenza, che il diritto di difesa veniva assunto quale parametro per valutare la eventuale lesione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. Vi era ‘‘mutamento del fatto’’ in sentenza, rispetto a quello contestato quando si verificava un ‘‘reale pregiudizio dei diritti di difesa dell’imputato’’ (3). Ciò accadeva, senz’altro, quando questi non avesse avuto piena facoltà di contraddittorio in merito ai fatti oggetto dell’imputazione, ovverosia, quando il fatto contenuto nella sentenza non corrispondeva nel suo ‘‘nucleo essenziale’’ (azione, omissione, evento e nesso causale) al fatto contestato. (2) Cfr. per tutte Cass., sez. I, 8 ottobre 1980, Sogno, in Riv. pen., 1981, p. 285. (3) V. Cass., sez. I, 23 giugno 1987, Prigitano, in Cass. pen., 1988, p. 1505; Id., sez. I, 31 ottobre 1986, Franzese, ivi, 1988, p. 668; Id., sez. V, 11 marzo 1987, Tucci, ivi, 1988, p. 1506; Id., sez. I, 10 aprile 1986, Esposito, ivi, 1987, p. 1990; Id., sez. I, 10 marzo 1986, Senatore, ivi, 1987, p. 1991; Id., sez. I, 22 marzo 1982, Iannucci, ivi, 1982, p. 1834.
— 1464 — La certezza sull’oggetto dell’imputazione assicurava, infatti, il rispetto del diritto di difesa dell’imputato, nonostante la non totale coincidenza tra il fatto ritenuto in sentenza e quello contestato. Nessuna violazione al suddetto diritto costituzionalmente garantito sussisteva se il mutamento riguardava elementi secondari del fatto (4), o se il fatto ritenuto in sentenza si trovava in rapporto di minus ad maius rispetto a quello contestato (5), ovvero se l’imputato aveva avuto in qualche modo conoscenza del diverso fatto ritenuto in sentenza attraverso qualsiasi altro atto processuale o se comunque era stato da lui ammesso o prospettato (6). Ciò premesso, occorre ora prendere in esame, con riferimento al caso concreto, le due fattispecie, diffamazione a mezzo stampa ed omesso controllo sul contenuto della pubblicazione, onde verificare se effettivamente abbiano per oggetto il medesimo fatto diversamente qualificato, ovvero se si tratti di due ipotesi non sovrapponibili. 3. Tanto l’art. 595 quanto l’art. 57 c.p. tutelano la reputazione dell’individuo, ovverosia il ‘‘riflesso oggettivo dell’onore inteso in senso ampio, e cioè la valutazione che il pubblico fa del pregio dell’individuo e, quindi, la stima che questi gode tra i consociati’’ (7). Ciò che caratterizza la diffamazione è l’offesa ad una persona non presente realizzata comunicando con altre persone, mentre non è necessario che il colpevole abbia agito con l’animus diffamandi, cioè con l’intenzione di ledere la reputazione di un’altra persona, essendo sufficiente che abbia voluto comunicare il fatto offensivo a più persone e che si sia reso conto del carattere diffamatorio delle affermazioni pronunciate. La diffamazione arrecata col mezzo della stampa costituisce un’ipotesi aggravata, in considerazione del maggior danno derivante dalla amplificazione dell’addebito disonorante. Come è noto, nei delitti contro l’onore, soprattutto commessi attraverso i media, è costantemente invocata la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, quale estrinsecazione della fondamentale libertà di stampa (art. 21 Cost.), ed è, ormai, consolidato il punto di equilibrio tra libertà di manifestazione del pensiero e diritto di cronaca (8). (4) Così Cass., sez. V, 11 novembre 1988, Mantelli, in Riv. pen., 1989, p. 1244; Id., sez. IV, 16 novembre 1987, Ravaioli, ivi, 1988, p. 1184; Id., sez. I, 26 gennaio 1985, Sateriano, ivi, 1986, p. 347; Id., sez. I, 22 gennaio 1985, Valentino, ivi, 1986, p. 347; Id., sez. I, 26 novembre 1987, Scotti, ivi, 1982, p. 749; Id., sez. I, 27 novembre 1981, Colapinto, ivi, 1982, p. 674; Id., sez. I, 21 dicembre 1977, Trotta, in Gius. pen., 1978, III, p. 514. (5) V. Cass., sez. V, 23 marzo 1988, Sestili, in Giur. it., 1989, II, p. 283; Id., sez. II, 13 ottobre 1986, Raia, in Riv. pen., 1987, p. 1132; Id., sez. I, 20 maggio 1986, Razzi, ivi, p. 606; Id., sez. I, 31 gennaio 1986, Sessa, in Giust. pen., 1986, III, p. 727; Id., sez. VI, 14 aprile 1980, Neri, in Giur. it., 1981, II, p. 512. In dottrina sostengono il rispetto del principio di identità del fatto e di conseguenza non turbato il diritto di difesa dell’imputato, nel caso di condanna per un fatto meno grave rispetto a quello inizialmente contestato G. BELLAVISTA, Lezioni di dir. proc. pen., 2a ed., Milano, 1960, p. 393; nonché L. SANSÒ, La correlazione tra imputazione contestata e sentenza, Milano, 1953, p. 441; contra v. E. SOMMA, Circostanze attenuanti, rinuncia all’amnistia e diritti di difesa, in questa Rivista, 1963, p. 1302, il quale evidenzia che l’indagine ‘‘caso per caso’’ volta ad accertare il rispetto del diritto di difesa nell’ipotesi di modificazione dell’imputazione non può essere omessa neanche in occasione di semplice riduzione, posto che neppure in tal caso può escludersi, a priori, la lesione del diritto di difesa dell’imputato. (6) Cfr. Cass., sez. II, 23 giugno 1986, Torazzina, in Riv. pen., 1987, p. 1015; Id., sez. V, 7 novembre 1980, Phol, ivi, 1981, p. 510. (7) La definizione (non più ripresa nelle edizioni successive) è di F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. I, 9a ed. aggiornata e ampliata da L. Conte, Milano, 1986, p. 160. (8) Affinché si resti nell’ambito del diritto di cronaca occorre che lo scritto rispetti i seguenti li-
— 1465 — Il vero discrimen tra la fattispecie della diffamazione e quella dell’omesso controllo sul contenuto della pubblicazione è segnato dall’elemento soggettivo. Come si è detto è richiesto il dolo generico per la diffamazione, mentre, a seguito della riforma introdotta con la legge 4 marzo 1958, n. 127, il direttore o il vicedirettore del periodico risponde ‘‘a titolo di colpa’’ del reato commesso a mezzo stampa dall’autore della pubblicazione, qualora abbia omesso di esercitare su di essa un adeguato controllo. Senza prendere posizione sull’ancora attuale dibattito legato all’infelice formula (‘‘a titolo di colpa’’, al posto della più limpida ‘‘per colpa’’) utilizzata dal legislatore (9), ci preme maggiormente sottolineare la sottile linea di demarcazione che separa i due reati, seppur l’applicazione dell’una o dell’altra fattispecie non sia priva di conseguenze. Duplice, infatti, può essere il ventaglio di responsabilità in cui può incorrere il direttore del periodico: posto che l’art. 57 c.p. prevede l’applicazione della suddetta disciplina ‘‘fuori dei casi di concorso’’, egli risponderà di concorso doloso nel reato commesso dall’autore della pubblicazione qualora abbia omesso il dovuto controllo, animato dall’intenzione di non impedire ovvero di agevolare la pubblicazione dello scritto, o comunque accettandone il rischio. Diversamente, qualora il direttore abbia omesso di esercitare il doveroso controllo sulla pubblicazione senza alcuna intenzione agevolatrice (neppure accettando il rischio dell’evento, che pur era prevedibile ed evitabile), allora risponderà del reato colposo previsto dall’art. 57 c.p. e la pena prevista per il reato commesso sarà diminuita sino ad un terzo. Infine, nessun dubbio che, laddove alcun rimprovero possa essere mosso al direttore, egli non risponderà di nulla, posto che la ratio della riforma del 1958 dev’essere ravvisata nell’esigenza di eliminare ogni residuo di responsabilità oggettiva (10). Delineati sommariamente i principali caratteri delle due fattispecie, occorre miti: l’interesse pubblico-sociale alla conoscenza dei fatti narrati o criticati; la verità dei fatti; la correttezza del linguaggio; la continenza delle modalità espressive. Così si esprimono in dottrina: F. MANTOVANI, I limiti della libertà di manifestazione del pensiero in materia di fatti criminosi, in Riv. it., 1966, p. 627; G. BETTIOL, Sui limiti penalistici alla libertà del pensiero, AA.VV., Legge penale e libertà del pensiero, (III Convegno di Diritto penale, Bressanone 1965), Padova, 1966, p. 1. In giurisprudenza cfr. ad esempio: Cass., sez. I, 12 gennaio 1996, Bocca, in Riv. pen., 1996, p. 984; Trib. Milano 17 dicembre 1995, Cavallaro, ivi, 1996, p. 350; Cass., sez. I, 14 dicembre 1993, Festa, in Cass. pen., 1995, p. 558; Id., sez. V., 24 novembre 1993, Paesini, in Giust. pen., 1994, II, p. 496; Id., sez. V, 10 febbraio 1989, Mulser, ivi, 1990, II, p. 164; Id., sez. V, 23 ottobre 1987, Buti, ivi, 1988, II, p. 596. (9) Non è mancato chi ha sostenuto che, nonostante la ‘‘nuova formula’’, l’art. 57 c.p. contempla tutt’oggi, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto che, parlando di mera punibilità ‘‘a titolo di colpa’’, stabilirebbe soltanto che il reato dev’essere trattato, agli effetti penali, come se fosse colposo. In tal senso v. A. PAGLIARO, La responsabilità per i reati commessi col mezzo della stampa secondo il nuovo testo dell’art. 57 c.p., in Scritti in onore di De Marsico, vol. II, Milano, 1960, p. 244, e R. PANNAIN, La responsabilità penale per i reati commessi col mezzo della stampa, in Arch. pen., 1958, I, p. 210; contra v. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, vol. I, 14a ed., Milano, 1997, p. 395; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale (Parte generale), 3a ed., 1995, p. 582; C. FIORE, Il sistema giuridico italiano, vol. I, 1993, Torino, p. 380; F. MANTOVANI, Diritto penale (parte generale), 3a ed., Padova, 1992, p. 394; T. PADOVANI, Diritto penale, 4a ed., Milano, 1988, p. 276; C.F. GROSSO, Responsabilità penale per i reati commessi col mezzo della stampa, Milano, 1960, p. 88. (10) V. però P. PISA, Il rigorismo tradizionale nei confronti del direttore responsabile, in Dir. pen. proc., n. 3/1998, p. 335, il quale, commentando una decisione della Suprema Corte (sez. V, 20 novembre 1997, Scalfari), sottolinea che, ‘‘pur prendendo atto, sul piano formale che l’art. 57 c.p. delinea una fattispecie di responsabilità per omissione colposa di controllo, la giurisprudenza finisce per utilizzare schemi concettuali o per operare valutazioni in concreto tali da riproporre di fatto il modello dell’imputazione obiettiva del fatto al direttore responsabile, tipico della formulazione originaria dell’art. 57 c.p.’’.
— 1466 — verificare se definire il fatto come diffamazione a mezzo stampa ovvero omesso controllo sul contenuto della pubblicazione sia un mero problema di qualificazione giuridica oppure se si tratti di una questione più complessa. A tal fine soccorre la giurisprudenza che autorizza il giudice a dare al fatto una diversa qualificazione giuridica, solo a condizione che il fatto storico addebitato rimanga identico, in riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico dell’autore (11). Quanto alla condotta, la fattispecie delittuosa prevista dall’art. 57 c.p. è qualificabile come reato proprio (potendo esserne autori solo il direttore o il vicedirettore responsabile del periodico), omissivo improprio (dato che la condotta consiste nel non impedire, omettendo il necessario controllo, la commissione del reato per mezzo della pubblicazione); nulla esclude, d’altro canto, che la condotta con la quale il direttore di un giornale può concorrere nella diffamazione a mezzo stampa possa consistere in una omissione. Sotto il profilo della condotta, le due ipotesi di reato paiono abbastanza sovrapponibili, tenuto presente, inoltre, che, in linea con la scelta del legislatore del 1930 di ‘‘adottare un modello unitario di tipicizzazione della fattispecie concorsuale’’, mancano ‘‘parametri normativi che fissino precisamente i contorni delle condotte di partecipazione, quanto meno determinando la soglia minima di rilevanza penale’’ (12). Posto che a soluzioni non difformi porterebbe un’analisi incentrata sull’evento (lesione dell’onore della persona cui si riferiscono le notizie infamanti), il vero ‘‘punto di rottura’’ tra le due fattispecie è dato dall’elemento soggettivo: considerato il diverso tenore della prova del dolo, rispetto alla dimostrazione della colpa, nonché le diverse conseguenze sul piano sanzionatorio. Cioè a dire che, laddove il ‘‘garante della stampa’’ ometta il controllo necessario ad impedire la commissione del reato proprio allo scopo di consentirlo, o comunque presti consapevolmente cooperazione, risponderà di concorso nella diffamazione a norma degli artt. 110 ss. c.p., qualora, invece, abbia violato per colpa i doveri di controllo, sempre che si trattasse di un controllo esigibile in relazione alla struttura organizzativa dell’azienda ed alla natura dello scritto, risponderà della fattispecie colposa di cui all’art. 57 c.p. Tutto ciò premesso, riteniamo che contestare una fattispecie piuttosto che l’altra non sia privo di rilievo rispetto al diritto di difesa dell’imputato (come vedremo meglio appresso, n. 6), cosicché non si può parlare semplicemente di ‘‘diversa qualificazione giuridica di un medesimo fatto’’, bensì di reati distinti applicabili a fatti diversi, per i quali occorre procedere separatamente. Se tutto ciò è vero, la tesi della Suprema Corte pare vacillare. Vi è, tuttavia, un altro risvolto della decisione che esige subito un ulteriore esame: ci riferiamo, cioè, alle cause di nullità del decreto che dispone il giudizio. Provvederemo, perciò, a verificare se vi sia omogeneità — come pare ritenere la Cassazione — tra le cause di nullità del decreto di citazione a giudizio ex art. 412 codice Rocco e le cause di nullità dell’attuale decreto che dispone il giudizio ex art. 429 c.p.p. (11) Cfr. Cass., sez. I, 12 marzo 1996, Danzi, in Cass. pen., 1997, p. 2201; Id., sez. un., 22 ottobre 1996, Di Francesco, in Giust. pen., 1997, III, p. 257. (12) Sono parole di G. INSOLERA, Profili di tipicità del concorso: causalità, colpevolezza e qualifiche soggettive nella condotta di partecipazione, in questa Rivista, 1998, n. 2, p. 440.
— 1467 — Dall’esame di entrambe le norme emerge, una duplice nullità oggettiva, attinente al fatto di reato, ed una soggettiva, attinente, cioè, alla persona dell’imputato. 4. Prima di procedere al confronto tra la nullità del decreto che dispone il giudizio come regolata rispettivamente dal codice 1930 e dal codice 1988 è opportuno precisare che quest’ultimo prevede un unico atto di rinvio a giudizio (per l’appunto il decreto che dispone il giudizio di competenza del giudice dell’udienza preliminare), mentre il precedente codice stabiliva una pluralità di atti. La ragione è da ricercare nella diversa struttura del vecchio processo, in cui, come è noto, era possibile procedere tramite istruzione formale (per i delitti di competenza della Corte d’assise e del Tribunale, salvo che la legge disponesse altrimenti — art. 295 c.p.p. abr. —) e tramite istruzione sommaria (quando, per i delitti di competenza dei suddetti organi, si verificavano situazioni in cui emergeva una qualche ‘‘evidenza di colpevolezza’’ che consentiva il ricorso ad una procedura più snella, nonché per i delitti di competenza del pretore). Quando al termine dell’istruzione formale il giudice istruttore riconosceva che sussistevano sufficienti prove a carico dell’imputato (art. 374 c.p.p. abr.) emetteva ordinanza di rinvio a giudizio (prima della legge n. 773/1972 sentenza). Se si procedeva, invece, con istruzione sommaria laddove il procuratore generale o il procuratore della Repubblica ritenesse di procedere a giudizio contro l’imputato, presentavano al presidente della Corte o del Tribunale competente richiesta di citazione a giudizio (art. 396 c.p.p. abr.). In entrambi i casi la citazione a giudizio era disposta dal presidente con decreto di citazione (artt. 405, comma 2 e 406, comma 1, c.p.p. abr.). Soltanto il pretore emetteva d’ufficio l’atto di citazione (art. 406, comma 2, c.p.p. abr.). È evidente, pertanto, che, quanto ai procedimenti del Tribunale e della Corte d’assise, il rinvio a giudizio era realizzato attraverso una preventiva ordinanza del giudice istruttore cui seguiva un decreto presidenziale. Oggi, la distinzione tra i due provvedimenti è superata, posto che in un unico atto (decreto che dispone il giudizio emesso dal giudice dell’udienza preliminare) confluiscono le funzioni prima distribuite tra i due atti (13). La richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 c.p.p.) presentata al giudice dal pubblico ministero è oggi soltanto atto di esercizio dell’azione penale, mentre il rinvio a giudizio è disposto dal giudice tramite apposito decreto (art. 429 c.p.p.). Minori differenze emergono nei rapporti tra l’attuale disciplina ed i procedimenti che seguivano il rito sommario, dato che anche in tal caso — come oggi — il pubblico ministero presentava una richiesta di citazione a giudizio. Un confronto puntuale tra le discipline non può prescindere da un’analisi, comparativa tra l’attuale decreto che dispone il giudizio, da una parte, e l’ordinanza di rinvio a giudizio e il decreto di citazione, dall’altra. Posto che le generalità e le altre indicazioni atte a identificare l’imputato erano contenute nell’ordinanza di rinvio a giudizio, l’indagine della nullità soggettiva dovrà concentrarsi esclusivamente sul decreto di citazione a giudizio. Vigente il codice Rocco, ex art. 412, e sotto il profilo soggettivo, soltanto la (13) In tal senso v. R. DOTTA, Commento agli artt. 428 ss. c.p.p., coordinato da M. Chiavario, vol. IV, 1990, Torino, p. 691.
— 1468 — ‘‘incertezza assoluta sulla persona dell’imputato’’ era causa di nullità del decreto di citazione a giudizio. Identificare l’imputato significa ‘‘far sì che esso, che è un presente, sia anche il suo passato e sia anche il suo futuro’’ (14). Come, infatti, ha rilevato Carnelutti (15) la funzione del processo penale è proprio quella di collegare il passato al futuro ed a tal fine è indispensabile individuare sine dubio il soggetto cui il passato dev’essere attribuito. È evidente, pertanto, come l’incertezza assoluta sulla persona dell’imputato desse luogo, secondo la dottrina, a nullità assoluta del decreto di citazione a giudizio (16). La giurisprudenza, d’altro canto, ha spesso interpretato in modo ‘‘rigido’’ la formula, ritenendo sussistere l’invalidità solo laddove non vi fosse alcun elemento idoneo a consentire di identificare con sicurezza l’imputato, cosicché, non v’era nullità se, nonostante la sola indicazione del cognome dell’imputato, non vi fossero dubbi sulla sua identità in virtù di ulteriori elementi contenuti nel decreto, quali il luogo e la data di nascita e l’attuale domicilio (17). Infatti, poiché solo la ‘‘incertezza assoluta’’, e, quindi, totale, rendeva invalido l’atto di citazione a giudizio, era sufficiente che l’imputato fosse identificabile in base a qualsivoglia elemento, per escludere il vizio dell’atto (18). Occorre tenere presente però che, oltre all’individuazione positiva ed a quella negativa esiste la ‘‘individuazione incerta’’, che si ha quando il reato è attribuibile ad una persona entro un gruppo determinato di due o più persone’’ (19). In uno dei casi più noti, commentato negativamente dalla dottrina (20) il giudice istruttore rinviò a giudizio, per rispondere di omicidio colposo, due imputati che si trovavano sull’auto investitrice sul presupposto che, pur essendo incerto quale dei due dovesse essere giudicato come autore del reato, era certo che uno dei due lo fosse. L’ipotesi è pressoché analoga ad uno dei due precedenti richiamati presso la decisione qui in commento (21), nel quale, in un contesto complesso caratterizzato da un omicidio e molteplici favoreggiamenti, gli imputati lamentavano la violazione dell’art. 477 c.p.p. abr., per essere stati tutti quanti accomunati in concorso nell’unica imputazione di omicidio, mentre si trattava di due ipotesi alternative che riguardavano due gruppi ben precisi di imputati. Nelle ipotesi di ‘‘alternatività soggettiva’’, pertanto, la Cassazione era solita (14)
Così G. FOSCHINI, L’imputato come situazione giuridica materiale, in questa Rivista, 1949, p.
130. (15) V. F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, Roma, 1946, I, nn. 80-1, pp. 134-7. (16) Così E. AMODIO, O. DOMINIONI, G. GALLI, Nuove norme sul processo penale e sull’ordine pubblico, Milano, 1978, p. 73, in cui si afferma che le prescrizioni concernenti l’individuazione dell’imputato, in quanto funzionali a consentire la presenza di questi al dibattimento sono conservate nell’area di vigenza della nullità assoluta. È evidente che la qualificazione quale nullità assoluta dell’inosservanza delle prescrizioni contenute nell’art. 185 c.p.p. abr. presuppone la riforma operata dalla legge 1955, n. 157 che ha reso assolute, e quindi, insanabili e rilevabili d’ufficio, tutte le nullità previste in via generale da tale norma. (17) Cfr. Cass. sez., II, 21 aprile 1980, Scacco, in Cass. pen., 1981, p. 2056. (18) V. Cass., sez. V, 13 ottobre 1971, Russo, in Cass. pen., 1973, p. 129, in cui si afferma che, non necessariamente l’erronea indicazione della data di nascita dell’imputato è causa di nullità del decreto di citazione a giudizio, ma soltanto laddove vi sia incertezza in ordine all’identità dell’imputato. (19) Così G. FOSCHINI, L’imputato come situazione giuridica materiale, cit., p. 129. (20) Ci riferiamo a P. SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, Padova, 1940, p. 293 e la sentenza in questione è Cass., sez. II, 13 dicembre 1937, Pinna, in Riv. it. dir. pen., 1938, p. 376. (21) Cfr. Cass., sez. I, 22 luglio 1988, Pitrola, cit.
— 1469 — escludere l’invalidità del decreto di citazione a giudizio, poiché mancava l’incertezza assoluta sulla persona dell’imputato, che, seppur in via alternativa, era, comunque, individuato. Esaminando, invece, la formula attuale, ‘‘il decreto è nullo se l’imputato non è identificato in modo certo’’ (art. 429, comma 2, c.p.p.), emergono ictu oculi un maggior rigore ed un più spiccato garantismo nei confronti dell’imputato, data la previsione di nullità dell’atto qualora l’identificazione non sia puntuale: e tale non è quando si ammette in partenza che pecca per eccesso. Pertanto, la legittimità di un’imputazione alternativa di tipo soggettivo lascia oggi alquanto perplessi. 5. In tema di nullità oggettiva, l’indagine dev’essere estesa anche all’ordinanza di rinvio a giudizio, dato che a norma dell’art. 374 c.p.p. abr. il provvedimento era nullo se non conteneva l’enunciazione del fatto, del titolo del reato, delle circostanze aggravanti e di quelle che potevano comportare l’applicazione di misure di sicurezza. Senza differenze prima facie rilevanti, l’art. 412 c.p.p. abr. prevedeva che il decreto di citazione a giudizio era nullo nel caso di ‘‘incertezza assoluta sul titolo del reato, sui fatti che determinano l’imputazione, o sull’autorità da cui emanano gli atti, o davanti alla quale si deve compiere’’. Non può negarsi, d’altro canto la maggior severità — in linea con la funzione di atto di citazione a giudizio — della normativa circa il decreto: configurandosi una nullità non soltanto laddove mancasse l’indicazione del titolo del reato e del fatto ma (sembra sostenibile), anche quando permanesse, comunque, incertezza assoluta al riguardo. Il fatto che l’art. 412 c.p.p. abr. sanzionasse con la nullità l’incertezza assoluta sul titolo del reato non necessita di spiegazione alcuna se si considera che proprio attraverso l’indicazione del titolo del reato l’imputato è posto in condizione di conoscere con precisione l’addebito e di approntare un’adeguata linea difensiva. Ciò spiega perché il titolo del reato era ritenuto assolutamente incerto quando non era possibile individuarne il nomen iuris ed il fatto corrispondente all’ipotesi legale, mentre era del tutto irrilevante la semplice omissione dell’articolo di legge contemplante il reato (22). Passando, ora, all’esame dell’altra causa di nullità del decreto di citazione a giudizio, era opinione comune che ‘‘l’incertezza sui fatti che determinano l’imputazione’’ sussistesse qualora l’imputato non fosse stato posto in grado di conoscere l’oggetto dell’addebito, nei suoi profili storici essenziali, in ordine al quale veniva chiamato a rispondere, posto che, in tal modo, risultava preclusa ogni attività difensiva. Cosicché, non dava luogo a nullità la mera indeterminatezza o imprecisione in ordine a circostanze agevolmente desumibili dagli atti processuali, in quanto carenze non idonee a pregiudicare il diritto di difesa dell’imputato (23). Dato, quindi, che soltanto un’incertezza tale da togliere all’imputato la possibilità di conoscere i fatti addebitatigli, lesiva, pertanto, del suo diritto di di(22) V. Cass., sez. IV, 19 giugno 1979, Brugnetti, in Cass. pen., 1981, p. 821: Id., sez. I, 9 maggio 1957, Caiazza, in questa Rivista, 1957, p. 1075. (23) V. Cass., sez. V, 7 ottobre 1981, Finna, in Cass. pen., 1982, p. 1798; Id., sez. VI, 23 aprile, 1981, De Feo, ivi, 1982, p. 990; Id., sez. V, 26 giugno 1981, Dinuzzi, in Riv. pen., 1982, p. 292.
— 1470 — fesa (24) rendeva nullo l’atto di citazione, la contestazione alternativa del reato nel capo di imputazione non dava luogo ad alcuna invalidità quando l’imputato fosse, comunque, posto nella condizione di potersi difendere da ogni ipotesi delittuosa essendo in grado di ‘‘conoscere pienamente nell’interrogatorio o, piuttosto, nella fase istruttoria i fatti addebitatigli’’ (25) e di preparare, di conseguenza, un’adeguata linea difensiva (26). Talvolta, confondendo il diritto dell’imputato di conoscere da subito chiaramente l’addebito con i poteri riconosciuti al giudice di sciogliere, in sede di decisione, i dubbi, nell’ipotesi di contrasto fra le varie imputazioni, tipico dell’alternatività oggettiva, la giurisprudenza non riteneva versarsi nella situazione di incertezza assoluta prevista dall’art. 412 c.p.p. abr., poiché, accertata un’imputazione le altre dovevano ritenersi escluse (27). Passando, ora, all’analisi delle nullità oggettive come regolate dal ‘‘nuovo’’ codice, emerge dall’art. 429, comma 2, c.p.p. che il decreto che dispone il giudizio è nullo ‘‘se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dal comma 1, lett. c) e f)’’, cioè a dire: ‘‘l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge’’ nonché ‘‘l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione, con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia’’. Concentrandoci sulla prima ipotesi, va notato che non si parla più di ‘‘titolo del reato’’, bensì di ‘‘articoli di legge’’, formula che, proprio perché ha un ‘‘sapore più notarile’’ (28) è maggiormente collegata al fatto ed alle circostanze ai quali, per l’appunto, si riferisce. Tuttavia, posto che l’indicazione degli articoli di legge ha la funzione di specificare il fatto, ove quest’ultimo sia precisato in modo estremamente puntuale e dettagliato, la mancata individuazione degli articoli di legge non determina nullità, sempre che non sorga alcun equivoco rispetto all’espletamento di una completa difesa (29). Vero è, comunque, che, data la maggior difficoltà nel nuovo rito di integrare l’imputazione con le ‘‘risultanze’’ degli atti processuali, per il ridotto numero di verbali contenuti nel fascicolo per il dibattimento, non è più sufficiente la mera ripetizione della norma incriminatrice, senza alcun riferimento alla condotta concretamente ascrivibile all’imputato, perché ciò sarebbe fonte di genericità ed indeterminatezza dell’imputazione, lesive del diritto di difesa (30). Proprio la modesta consistenza del fascicolo per il dibattimento, (nel quale, come è noto, sono contenuti solo gli atti compiuti nel corso delle indagini preliminari conoscibili dal giudice del dibattimento), nonché la scarsa possibilità di chia(24) Così Cass., sez. V, 26 settembre 1984, Filidei, in Riv. pen., 1985, p. 724; Id., sez. I, 22 aprile 1963, Tanzarelli, in Cass. pen. Mass. ann., 1963, p. 905; Id., sez. I, 4 maggio 1962, Simonazzi, ivi, 1962, p. 1121. (25) V. Cass., sez. VI, 12 ottobre 1993, Izzo, cit. (26) Cfr. Cass., sez. I, 13 marzo 1981, Scambia, in Giust. pen., 1982, III, p. 203; Id., sez. II, 31 marzo 1976, Galdin, in Cass. pen., 1978, p. 1370. (27) V. Cass., sez. V, 20 febbraio 1967, Miraglia, in Giust. pen., 1967, III, p. 599; Id., sez. I, 29 gennaio 1964, Giulioni, in Cass. pen. Mass. ann., 1965, p. 525. (28) Sono parole di R. DOTTA, Commento agli artt. 428 ss. c.p.p., cit., p. 692. (29) V. Cass., sez. III, 20 giugno 1991, Converti, in Cass. pen., 1992, p. 2179. (30) V. Cass., sez. III, 9 gennaio 1992, Giorgetta, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 618.
— 1471 — rire nel corso del processo l’imputazione iniziale (che viene soltanto illustrata dal pubblico ministero nel corso dell’esposizione introduttiva dei fatti a norma dell’art. 493 c.p.p.) impongono un decreto che dispone il giudizio in grado, fin dall’inizio, di illustrare puntualmente all’imputato l’addebito che gli viene contestato e, giustificano la sanzione della nullità anche nel caso di semplice indeterminatezza degli elementi qualificanti la fattispecie di reato. D’altro canto, non può ritenersi in contrasto con tali conclusioni la soluzione cui perviene la giurisprudenza la quale sostiene che, ai fini della completa enunciazione del fatto, l’indicazione della data del commesso reato costituisce solo un elemento accessorio dello stesso e, come tale, non può dar luogo a nullità del decreto che dispone il giudizio (31). Da tutte le considerazioni sopra svolte emerge che gli elementi che distinguono il ‘‘nuovo’’ dal ‘‘vecchio’’ decreto, sotto il profilo della esposizione del fatto, sono di scarso rilievo. Infatti, se si considera — come detto poc’anzi — che la citazione in giudizio dell’imputato era realizzata nel codice Rocco anche tramite l’ordinanza di rinvio a giudizio del pubblico ministero non può considerarsi elemento di differenza rispetto al codice Vassalli la mancata indicazione nel decreto delle circostanze aggravanti e di quelle comportanti l’applicazione di misure di sicurezza. La differenza più sostanziale dev’essere, infatti, ravvisata nella circostanza che la formula attuale sanzionando con la nullità anche la mancanza o l’insufficiente indicazione degli elementi che identificano il fatto si dimostra decisamente più ‘‘severa’’ rispetto alla corrispondente incertezza assoluta del codice precedente, bastando un quid minus per determinare l’invalidità del decreto. Per meglio chiarire, se prima soltanto la totale oscurità del fatto e della fattispecie delittuosa era causa di nullità del decreto di citazione a giudizio (cosicché era esclusa laddove l’incertezza fosse solo parziale), oggi, più correttamente, ed in maniera più rigorosa, la nullità è considerata un’equa sanzione non solo per la mancata indicazione degli elementi che identificano il reato, ma anche per l’insufficiente indicazione degli stessi, quando sussistano, cioè, dati idonei ad inquadrare il fatto in un’ipotesi di reato specifica, ma permanga, comunque, una qualche indeterminatezza (32). Alla luce del seppur breve confronto tra due normative emerge, ad ogni buon conto, un quadro di maggior armonia tra la nullità oggettiva come regolata dal codice Rocco e l’attuale normativa, senza che sostanziali differenze spezzino la continuità della disciplina, come accade, invece, per la nullità soggettiva. Tuttavia, proprio l’odierno maggior rigore (per cui è sufficiente una mera indeterminatezza dei contenuti essenziali dell’imputazione, per rendere nullo il decreto che dispone il giudizio) vale, a nostro parere, ad escludere la sovrapponibi(31) V. Cass., sez. I, 15 aprile 1996, Bedin, in Cass. pen., 1997, p. 2816; Id., sez. I, 19 ottobre 1993, Iacopino, ivi, 1995, p. 1338. (32) Non si vede come possa negarsi che l’imputazione formulata in modo alternativo realizzi una ‘‘insufficiente indicazione’’ del fatto, ed in tal senso ci sembra corretta la conclusione cui è pervenuta la Cassazione (v. Cass., sez. IV, 12 settembre 1996, Dinacci, in Cass. pen., 1997, p. 2466), la quale, dopo aver escluso l’abnormità del decreto che dispone il giudizio con imputazione alternativa (in quanto tale sanzione ricorre soltanto per vizi che pongono l’atto al di fuori del sistema processuale), precisa che ‘‘la questione riguardante la configurazione incerta o alternativa del fatto contestato rifluisce in un problema di nullità del decreto che dispone il giudizio ex art. 429, comma 2, c.p.p. che se riconosciuta rimette le parti nella posizione anteriore’’.
— 1472 — lità tra la ‘‘vecchia’’ e la ‘‘nuova’’ nullità, privando di valore probante il richiamo alla giurisprudenza elaborata sotto la vigenza del codice Rocco. Occorre a questo punto approfondire la problematica, fino ad ora appena accennata (relativa al rapporto tra la contestazione alternativa ed il diritto di difesa) e provvedere a sciogliere la riserva formulata (v. n. 3 in fine). Posto, infatti, che la Cassazione fonda la legittimità della contestazione alternativa sul mancato vulnus, anzi, sul rispetto del diritto di difesa dell’imputato, al riguardo è opportuno provvedere a verifiche. Procederemo ad una valutazione della conformità in concreto della contestazione alternativa al diritto di difesa dell’imputato, quindi ad una valutazione della conformità in astratto. 6. Sotto il primo profilo, un argomento contro l’ammissibilità della contestazione alternativa si ricava dalla disciplina dei riti alternativi. Come è noto, il legislatore del 1988 ha inteso riservare al giudizio ordinario uno spazio residuale dando la ‘‘precedenza’’ ai riti alternativi e la Corte costituzionale ha spesso provveduto a dichiarare illegittime disposizioni del codice di rito in contrasto con tale filosofia (33). In questa luce ci chiediamo se l’imputato al quale siano state contestate alternativamente due ipotesi di reato sia posto davvero in grado esercitare il suo diritto ad ottenere (tra l’altro) un abbattimento della pena richiedendo, laddove ne sussistano i presupposti, il giudizio abbreviato o il patteggiamento (34). La questione rileva, soprattutto, se si considerano i ristretti limiti temporali entro i quali devono essere presentate le rispettive richieste. È di tutta evidenza, infatti, che, soltanto dopo aver avuto puntuale conoscenza dell’ipotesi di reato che gli viene attribuita, l’imputato è in grado di valutare l’effettiva convenienza dei suddetti riti. Nulla può escludere, infatti, che, laddove l’imputato avesse conosciuto, — come è suo diritto — con chiarezza e tempestività la fattispecie di reato oggetto del processo a suo carico, avrebbe potuto ritenere vantaggioso rinunciare alle garanzie proprie del dibattimento optando per il giudizio abbreviato, oppure per il patteggiamento. (33) Tra le principali pronunce volte a garantire all’imputato i vantaggi derivanti dal ricorso ai riti premiali v. Corte cost., sent., 15 febbraio 1991, n. 81, in Giur. cost., 1991, I, p. 559 che ha dichiarato illegittimo il combinato disposto degli artt. 438, 439, 442, commi 1 e 2 e 464, comma 1, c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, in caso di dissenso, sia tenuto ad enunciarne le ragioni e nella parte in cui non prevede che il giudice, quando, a dibattimento concluso, ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, possa applicare all’imputato la riduzione di pena contemplata dall’art. 442, comma 2, c.p.p.’’, nonché Corte cost., sent., 31 gennaio 1992, n. 23, in Giur. cost., 1992, I, p. 109, che ha dichiarato illegittime le suddette norme ‘‘nella parte in cui non prevedono che il giudice, all’esito del dibattimento, ritenendo che il processo poteva — su richiesta dell’imputato e consenso del pubblico ministero — essere definito allo stato degli atti dal giudice per le indagini preliminari, possa applicare la riduzione prevista dall’art. 442, comma 2, c.p.p.’’; ancora Corte cost., sent., 12 aprile 1990, n. 183, in Giur. cost., 1990, II, p. 1073, che ha dichiarato illegittimo l’art. 452, comma 2 ‘‘nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, quando non consente alla richiesta di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, debba enunciare le ragioni del suo dissenso e nella parte in cui non prevede che il giudice, quando, a giudizio direttissimo concluso, ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, possa applicare all’imputato la riduzione della pena contemplata dall’art. 442, comma 2, c.p.p.’’. (34) Riteniamo che a maggior ragione fosse importante per l’imputato, nel caso di specie, conoscere con certezza l’accusa a suo carico, proprio in vista della possibilità di richiedere il patteggiamento, posto che, nell’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, punita anche con la reclusione da sei mesi a tre anni, poteva facilmente essere sforato il tetto massimo di due anni di reclusione per l’applicazione del patteggiamento, mentre la diminuzione della suddetta pena in misura non eccedente un terzo, prevista nell’ipotesi dell’art. 57 c.p., avrebbe consentito, con buona probabilità, il patteggiamento.
— 1473 — La Corte costituzionale, del resto, ha affermato che ‘‘rientra nelle valutazioni che lo stesso imputato deve compiere ai fini della determinazione della scelta del rito la evenienza della modificazione dell’imputazione’’ (35), pertanto, ‘‘il relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che da addebitare a se medesimo le conseguenze della propria scelta’’ (36). Pertanto, laddove nessun rimprovero possa essere mosso all’imputato circa la mancata instaurazione del rito differenziato, ‘‘sarebbe molto difficile negare che la impossibilità di ottenere i relativi benefici concreti una ingiustificata compressione del diritto di difesa’’ (37). Ora, come ha precisato la stessa Corte costituzionale, ‘‘le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero’’, ditalché, quando — a causa di un suo errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato — l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali (38), posto che, nessuna mancanza può essergli addebitata. Per queste ragioni la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi gli artt. 516 e 517 c.p.p., in quanto contrastanti con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, laddove non consentono all’imputato di chiedere il patteggiamento in ordine al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, ovvero quando l’imputato abbia tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta in ordine alla originaria imputazione (39). Non diverso ci sembra il quadro, qualora il pubblico ministero contesti due ipotesi di reato tra loro alternative. Infatti, non essendo definito con certezza l’addebito, l’imputato non è in grado di apprezzare la convenienza o meno del rito speciale, per non dire, poi, delle incoerenze che deriverebbero nel caso in cui soltanto per una fattispecie e non per l’altra fosse possibile il rito premiale. Quando l’alternativa contenuta nella contestazione può essere sciolta solo attraverso l’approfondimento dell’attività dibattimentale (allorché non è più possibile chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento) non può negarsi un’ingiusta compressione del diritto di difesa dell’imputato, privato dei vantaggi derivanti dai riti premiali senza che possa essergli mosso alcun rimprovero, ma esclusivamente per l’incapacità del pubblico ministero di determinare con precisione, al termine delle indagini preliminari, per quale reato debba essere perseguito l’imputato. Un ulteriore argomento contro l’ammissibilità della contestazione alternativa emerge anche da un’altra sentenza interpretativa della Corte costituzionale (40) la quale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 424, comma 1, c.p.p., (35) V. Corte cost., ord. 11 maggio 1992, in Giur. cost., 1992, II, p. 174. (36) Cfr. Corte cost., sent., 8 luglio 1992, n. 316, in Giur. cost., 1992, II, p. 2623; v. ord. 19 marzo 1993, n. 107, ivi, 1993, I, p. 870; cfr. anche sent. 1o aprile 1993, n. 129, ivi, p. 1043. (37) V. Corte cost., sent., 19 marzo 1993, n. 101, in Giur. cost., 1993, I, p. 821. (38) Cfr. Corte cost., sent., 11 marzo 1993, n. 76, in Giur. cost., 1993, I, p. 687; Id., sent., 11 marzo 1993, n. 214, ivi, II, p. 1603. (39) V. Corte cost., sent., 30 giugno 1994, n. 265, in Giur. cost., 1994, II, p. 2153. (40) V. Corte cost., sent., 15 marzo 1994, n. 88, in Cass. pen., 1994, p. 1797.
— 1474 — nella parte in cui non consentirebbe al giudice dell’udienza preliminare di trasmettere gli atti al pubblico ministero per la modifica dell’imputazione, ha rilevato che impedire all’imputato di conoscere quanto prima il capo di imputazione (quale presumibilmente poi emergerà dal dibattimento) significa negargli la possibilità di organizzare pienamente la propria linea difensiva, impedendogli, altresì, la facoltà di avvalersi dei riti alternativi, ed in particolare del giudizio abbreviato. Stando così le cose pare difficile, anche sotto tale profilo, ‘‘salvare’’ la contestazione alternativa a meno di non consentire all’imputato (quando i tempi per richiedere patteggiamento e giudizio abbreviato sono già scaduti e l’alternativa non è ancora stata sciolta) di essere rimesso in termini per esercitare il suo ‘‘diritto’’ ai riti alternativi, ovvero, di non riconoscergli la possibilità di approntare, sin dall’inizio, una ‘‘difesa alternativa’’, per tale intendendosi una difesa che comprenda una richiesta di procedimento speciale sottoposta alla condizione sospensiva che l’imputazione definitiva si riveli vantaggiosamente definibile con rito alternativo. Le suddette conclusioni potrebbero essere estese tout court ai provvedimenti di clemenza (il condizionale è giustificato dall’astrattezza del suddetto profilo, non essendo intervenuto nessun provvedimento di tal sorta nei confronti delle fattispecie in esame), ci riferiamo, in particolare, all’amnistia ex art. 151 c.p. Come è noto, infatti, i reati compresi nell’amnistia possono essere indicati o con il loro nomen iuris o con riferimento all’entità della pena. Tale ipotesi ricorre proprio con riguardo all’ultima amnistia concessa con d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, in cui l’art. 1, comma 1, alla lett. b) inserisce tra i reati amnistiati la fattispecie prevista dall’art. 57 c.p., mentre l’art. 3, comma 1, n. 24 esclude espressamente il reato previsto dall’art. 595 c.p. Anche la possibilità di rinunciare all’amnistia, dopo la sentenza della Corte cost. 14 luglio 1971, n. 175 (41) che consente all’imputato di optare per il giudizio, a seguito del quale potrà essere assolto con tutte le formule previste dal codice di rito, ma anche eventualmente condannato, è un argomento che fa propendere per l’illegittimità della contestazione alternativa, posto che presuppone la puntuale conoscenza in capo all’imputato delle accuse a suo carico. Riteniamo che i rilievi suesposti possano, quantomeno, svelare le ombre di una pronuncia che, ancorandosi al principio della fluidità dell’accusa, ritiene coerente con l’attuale sistema processuale penale l’accusa alternativa. Infatti, l’elasticità dell’imputazione dev’essere considerata una proprietà finalizzata a garantire la correttezza e completezza dell’addebito (oltre che l’economia processuale), in base alle risultanze emerse dall’istruzione dibattimentale svolta nel contraddittorio delle parti (42). Al contrario, nel caso di contestazione alternativa è lasciata alla discrezionalità dell’organo dell’accusa la scelta del momento in cui sciogliere l’alternativa, senza che in questa strategia del pubblico ministero l’imputato possa interloquire. VANESSA CECCARONI Dottoranda in Procedura penale presso l’Università di Genova (41) In Giur. cost., 1971, p. 2109. (42) In tal senso v. T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, Milano, 1996, pp. 25-31; M. CAIANIELLO, Alcune considerazioni in tema di imputazione formulata in modo alternativo, in Cass. pen., 1997, p. 2475.
— 1475 — CORTE DI CASSAZIONE — Sez. V pen. — 19 dicembre 1997-9 aprile 1998, n. 4307 Pres. PALMISANO — Rel. AMATO — P.M. VIGLIETTA, parz. diff. — Ric. MAGNELLI e altri Reati contro l’ordine pubblico — Associazione di tipo mafioso — Configurabilità del reato — Esplicazione di una concreta attività intimidatoria — Necessità — Semplice ‘‘avviamento mafioso’’ — Sufficienza — Esclusione (Art. 416-bis c.p.). Dopo la data di entrata in vigore della legge n. 646/1982 che ha introdotto il reato di associazione mafiosa, ai fini della configurabilità della figura criminosa di cui all’art. 416-bis del codice penale è necessaria l’esplicazione di una concreta attività intimidatoria, non essendo sostenibile la tesi del cosiddetto ‘‘avviamento mafioso’’ ossia del patrimonio di relazioni con personaggi mafiosi che, contrassegnando l’associazione renderebbe superflua la commissione di specifici episodi criminosi di violenza o minaccia da parte degli accoliti (1). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — (Omissis). — Si tratta di una vicenda risalente all’anno 1983 e riguardante persone che gestivano il casinò di Campione o gravitavano intorno a quello di S. Vincente che, come gruppi contrapposti, si contendevano la concessione dell’appalto del casinò di Sanremo. Secondo i giudici di merito, si trattava di due associazioni criminose, già operanti nel settore delle case da gioco: la prima esercitava il controllo del casinò di Campione e intendeva estenderlo su quello della città ligure mediante la s.p.a. SitSanrerno; la seconda era stata costituita allo stesso scopo, perseguito mediante la Flower’s Paradise s.p.a. Agli imputati di entrambe erano stati contestati i due distinti reati di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p., nel quale ultimo il primo era stato dichiarato assorbito. Addivenuti alla privatizzazione del casinò, gli amministratori nominarono l’Andreaggi presidente della commissione incaricata della redazione del capitolato di appalto; Borga, Cavalli, Covini, Ballestra membri della stessa. Una trama corruttiva fu sviluppata da entrambe le parti. L’appalto fu aggiudicato, con lo sconcerto degli stessi amminstratori, alla Flower’s, e in proposito si sono formate ipotesi su tale esito (‘‘tradimento’’ degli impegni presi dall’Accinelli, che aveva svolto un ruolo di raccordo determinante tra la Sit e il partito della DC, e nella ideazione stessa del piano, ovvero un suo mutamento per l’intimidazione patita da parte di personaggi del gruppo rivale). Con successiva delibera (4 marzo 1983) la Giunta ritenendo che la Società non possedesse alcuni requisiti, proponeva al Ministero l’annullamento dell’ammissione alla licitazione privata dell’aggiudicataria; l’8 agosto 1983 la Giunta conferiva l’appalto alla Sit-Sanremo, ribadito con delibera 23 agosto 1983, approvata dal consiglio comunale nell’ottobre successivo. Ma il Ministero dell’Interno non approvava la delibera dell’agosto ed autorizzava il Comune a gestire la Casa da gioco per sei mesi, a causa delle irregolarità riscontrate. Non veniva stipulato alcun contratto ed alla delibera di assegnazione della gestione alla Sit si pervenne in seguito ad una transazione tra le due società concorrenti conclusa davanti al tribunale della cittadina. Avverso la decisione della Corte d’appello di Milano ricorrevano gli imputati.
— 1476 — La S.C., con sentenza 8 luglio 1995, annullava limitatamente ai capi A e L1, specificando ripetutamente in motivazione che la statuizione ineriva il solo requisito specializzante del carattere mafioso dell’associazione, non già l’esistenza di questa e la partecipazione ad essa del singolo imputato. La Corte chiariva che irrilevanti sono i contatti di membri con personaggi di cui sia già stata acclarata la appartenenza ai sodalizi mafiosi (è il caso di Santapaola) o che dell’associazione facciano parte (è il caso della imputazione L1) soggetti di forte e riconosciuta levatura criminale (come l’Epaminonda); osservava che non erano state evidenziate condotte rivelatrici del metodo che qualifica l’associazione ex art. 416-bis c.p. successivamente alla data del 29 settembre 1982; che era insufficiente che l’associazione avesse programmato di avvalersi dell’intimidazione, essendo necessario che se ne sia avvalsa in concreto e dopo la data anzidetta. (Omissis). Quanto al reato associativo, la Corte territoriale conviene col decisum della S.C. nel senso che non sia stata raggiunta la prova che l’intimidazione abbia operato per ciò che concerne la prima parte della ‘‘scalata al casinò’’ di Sanremo. Muta, peraltro, la sua visione prospettica delle vicende criminali implicate e della contestazione. Ed infatti rileva che oggetto dell’imputazione sono anche le condotte poste in essere dal sodalizio in occasione dell’attività di prestiti usurari ai giocatori del casinò di Campione. Ed a questo proposito, non potrebbe pretendersi l’esecuzione, dopo il 29 settembre 1982, di uno specifico atto di violenza o intimidazione, poiché la riscossione dei crediti per i prestiti ai giocatori si fonda sulla perpetuazione di un clima di intimidazione e sopraffazione già da tempo instaurato. Ne farebbero fede i contatti degli associati con personaggi di riconosciuta valenza criminale, le dichiarazioni degli stessi interessati alla vicenda e di numerosi testi. Quanto all’imputazione L1, pur non potendosi desumere, come affermato dalla S.C., argomenti a sostegno dell’intimidazione dai rapporti interni al sodalizio, non v’è dubbio che la minaccia nei confronti del Borletti è comunque significativa quale estrinsecazione del metodo che connota l’associazione (v. p. 62 sentenza S.C., il coinvolgimento del Borletti era strumentale all’obiettivo di « copertura del sistema di esazione dei crediti ed è sintomatico della diffusività dell’intimidazione »). Proponevano ricorso il p.g. nei confronti di Andreaggi, Giuliano, Ballestra, Borga, Carella, Crivelli, Covini, Poletti, Borletti e Bono nonché gli imputati Accinelli, Ligato, Tommasini, Vento, Poletti, Bossi, Brighina, Cappelli, Carcano, Corallo, Enea, Frontone, Giampalmo, L. Legnaro e V. Legnaro, Liguori, Merlo, Tiziani, Traversa e Magnelli, il cui procedimento è stato riunito all’altro all’odierna udienza. (Omissis). In ordine al reato associativo, alcuni imputati hanno dedotto la mancanza dello stesso giudicato parziale circa l’esistenza del sodalizio e la partecipazione ad esso del singolo imputato, sostenendo che nella specie il dispositivo della sentenza della S.C. è di tenore inequivocabile, nel senso che l’annullamento travolge in toto la motivazione circa i capi A e L1 (non già unicamente in ordine all’attuazione del metodo mafioso dopo il 29 settembre 1982). Il diverso significato non meno trasparente, offerto dalla motivazione, contrassegna dunque, un contrasto fra le due parti che compongono la decisione, che
— 1477 — deve risolversi mediante la prevalenza del dispositivo, legittima essendo l’integrazione fra esse parti solo quando la formulazione del secondo sia poco chiara. In tal modo si prospetta l’omessa motivazione da parte del giudice di rinvio circa l’esistenza dell’associazione e la partecipazione ad essa del singolo imputato ricorrente. Altri e numerosi imputati, pur non contestando la formazione del giudicato parziale, denunciano la violazione degli artt. 544 ss. c.p.p. a causa dell’elusione dei limiti istituzionali stabiliti dalla normativa per il giudice di rinvio, che ne vincola e limita la potestà cognitiva e decisionale, e riguarda ogni principio interpretativo di diritto processuale e sostanziale. Il giudice di rinvio può dare differente soluzione alle questioni di diritto solo ove pervenga ad una ricostruzione del fatto diversa da quella ritenuta in precedenza, a seguito di assunzione di ulteriori mezzi di prova o di una diversa valutazione di esse. Ma ciò non è possibile, ove si tratti di questioni di fatto costituenti il presupposto della questione di diritto, sicché ogni valutazione o rivalutazione è preclusa, per essere già stata esaminata e risolta dalla S.C. [...]. La decisione della Corte d’appello di Milano, si pone in contrasto con la statuizione di legittimità, dal momento che riutilizza alcuni elementi probatori acquisiti, li valuta sotto una prospettiva in parte diversa, con una tecnica combinatoria, omettendo di rispettare il vincolo derivante dalla pronuncia 8 luglio 1995 che esigeva risposta inequivoca circa l’attuazione del metodo mafioso [...]. Di qui anche il vizio di illogicità della motivazione laddove si sostiene che la persistenza della esazione dei crediti vantati nei confronti dei giocatori del casinò di Campione dimostrerebbe di per sé l’attualità dell’intimidazione (in via congetturale) e che l’associazione per delinquere può definirsi mafiosa anche se già riscontrata la mera intenzione di avvalersi della forza intimidatrice dimostrata in altro contesto. La prova della sussistenza del reato-fine non vale a fornire, di per sé, quella del reato associativo. Ché anzi, quando violenza e minaccia siano elementi tipici dei reati-fine contestati, esse non bastano a provare che l’associazione si è avvalsa della forza intimidatrice. Si è sottolineato che la riscossione dei crediti, attività certamente secondaria nel programma criminoso, non poteva conseguire lo scopo primario del controllo del casinò, bensì, poteva, se mai, esserne la conseguenza. Sempre nell’ambito del reato di cui all’art. 416-bis c.p. (capo di imputazione L1) si sostiene essere stato travisato il significato della transazione del Borletti, erroneamente considerato vittima. Non si comprende come egli abbia potuto essere ad un tempo membro dell’associazione (peraltro semplice) e vittima di quella qualificata. Si tratta di una forzatura logica utilizzata per sorreggere il c.d. elemento specializzante della intimidazione mafiosa, che si pretende esercitata nei suoi confronti. D’altra parte, la diffusività della condotta, elemento qualificante della fattispecie, non può rinvenirsi all’interno della compagine, dovendo necessariamente proiettarsi all’esterno di questa. In ogni caso, così motivando in ordine alle imputazioni A e L1 il secondo giudice di appello avrebbe violato l’art. 477 c.p.p., ossia il principio di correlazione fra l’accusa e la sentenza. Le conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito per affermare la sussistenza
— 1478 — del c.d. elemento specializzante comportano lo stravolgimento delle imputazioni, nel momento in cui si fa assurgere ad elemento focale del sodalizio la gestione del prestito ai giocatori, anziché la gestione e il controllo della casa da gioco sanremese e si traspone, per giunta tale attività esercitata dagli imputati indicati, nel primo capo ed interessati al casinò di Campione, a quelli dell’altra ipotesi associativa. (Omissis). MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — Passando al merito dei ricorsi, taluni imputati in riferimento al reato associativo, sul presupposto di un preteso contrasto tra il dispositivo e la motivazione della sentenza 8 luglio 1995 della S.C., affermano che l’annullamento del giudice di legittimità travolge in toto i capi A e L1, per inferirne l’insussistenza del giudicato parziale ed il conseguente difetto di motivazione riscontrabile nella sentenza 25 giugno 1996 della Corte milanese in ordine all’associazione per delinquere ed alla partecipazione del singolo imputato alla stessa. Il rilevo è fallace, poiché basato su presupposto inesistente. Non esiste alcun contrasto fra dispositivo e motivazione della pronuncia suindicata, potendosi solo riscontrare nel primo una mancanza di perspicuità, agevolmente ovviabile mediante l’integrazione con la seconda [...]. Doveroso, dunque, è il ricorso alla consolidata regola della integrazione fra le due parti di cui consta la sentenza, poiché il dispositivo va chiarito in correlazione con la motivazione, che ne costituisce la premessa [...]. Nella specie l’ambito di estensione dell’annullamento è agevolmente definibile sulla scorta delle argomentazioni svolte nella parte motiva della S.C. e ribadite più volte in riferimento alla posizione di ciascuno dei ricorrenti gravati dall’imputazione di associazione per delinquere. Orbene, la S.C. ha significato espressamente e senza ombra di equivoci che l’annullamento va limitato al requisito dell’elemento specializzante del carattere mafioso dell’associazione e non si estende all’esistenza di questa e alla partecipazione ad essa del singolo imputato. Sicché la corretta integrazione fra dispositivo e motivazione impone di affermare che l’annullamento non travolge i capi A e L1, ma unicamente il punto relativo all’attuazione del metodo dal quale l’associazione mutua il suo carattere. Per contro, coglie nel segno la censura, sempre in tema di reato associativo, formulata dai ricorrenti in relazione alla violazione degli artt. 544, 5o comma e 546, 1o comma, c.p.p., che definiscono il c.d. vincolo decisorio per il giudice di rinvio [...]. Orbene, nella specie la violazione del vincolo decisorio da parte del giudice di rinvio non discende tanto dalla ‘‘rivisitazione’’ del fatto sulla scorta degli elementi probatori già acquisiti, per effetto di quello che potrebbe definirsi un mutamento prospettico dell’imputazione, in ragione dei principi suesposti nonché del fatto che anche l’attività di coartazione al fine di esigere i crediti usurari nei confronti dei giocatori del casinò costituisce oggetto, pur se non primario, della contestazione. La violazione deriva, piuttosto, dalla sostanziale elusione del principio di diritto enucleabile dalla sentenza di annullamento, operante in maniera speculare su due versanti. Essendo la consumazione del reato associativo iniziata in data anteriore all’entrata in vigore dell’art. 416-bis c.p., la S.C. ha stabilito che ai fini dell’operati-
— 1479 — vità di tale norma occorre che gli elementi costitutivi del reato siano stati posti in essere dopo il 29 settembre 1982. È, dunque, implicato il principio di irretroattività della norma penale (art. 25, 2o comma, Cost., n. 2, 1o comma, c.p.) punto nodale del moderno Stato di diritto, che costituisce il logico corollario del principio della riserva di legge e di quello di tassatività. Nello stesso momento, la S.C. ha statuito che ai fini della configurabilità della figura criminosa di cui all’art. 416-bis c.p. è necessaria l’esplicazione, dopo la data anzidetta, di una concreta attività intimidatoria. Con il che si offre un’indeclinabile opzione esegetica, come quella che rifiuta la prospettazione dell’aura di timore ed assoggetamento promanante dal vincolo associativo come di un elemento virtuale inerente al programma, ma non necessariamente estrinsecato in concrete determinazioni fattuali. Contravvenendo al dictum della S.C., il giudice di rinvio ha sostenuto la tesi del c.d. avviamento mafioso, ossia del patrimonio di relazioni con personaggi mafiosi che, contrassegnando l’associazione sub A), avrebbe reso superflua la commissione di specifici episodi di violenza o minaccia da parte degli accoliti. Nel solco di tale impostazione è stato altresì affermato che non occorre che le manifestazioni di violenza e minaccia siano coeve allo stato di soggezione diffusa, imposta dal sodalizio, né che esse siano perpetrate dagli affiliati. Sarebbe, invece, sufficiente che costoro si siano assicurati l’avviamento determinato da pregressi comportamenti, perché possa dirsi che essi si sono avvalsi della forza di intimidazione propria del vincolo associativo. In tal modo è stato infranto il vincolo decisorio posto dalla sentenza rescindente, che in termini ineludibili esige la prova che l’associazione si è avvalsa di quella forza dopo l’entrata in vigore dell’art. 416-bis c.p. Onde non è qui dato discettare, com’è avvenuto nei primi tempi dell’applicazione di quella norma, se la locuzione ‘‘si avvalgono’’ riferita ai sodali abbia privilegiato nella descrizione normativa il momento dinamico dell’esteriorizzazione [...], senza peraltro richiedere l’attuazione della forza intimidatrice. La questione è stata risolta in altra sede dalla S.C. con la pronuncia 8 luglio 1995, alla ottemperanza della quale al giudice di rinvio non è dato sottrarsi. Sicché, pur se non occorre che tutti i membri del sodalizio operino in concreto atti di intimidazione, è necessario e sufficiente che la violenza o la minaccia di uno o di alcuni di essi si riconduca alla compagine come emanazione e prova della sua esistenza ovvero che emerga e sia dimostrato un clima di diffusa intimidazione del quale gli associati si avvantaggino per pereguire i loro fini. Senza trascurare la collocazione temporale di quegli atti, più volte ribadita dalla S.C. Non meno evidente è il vizio in cui incorre il giudice di rinvio a proposito dell’imputazione associativa sub L1. Qui, infatti, la Corte di merito, ponendosi in contrasto con il consolidato orientamento elaborato in tema di reato di cui all’art. 416-bis c.p., desume dalla intimidazione fatta al Borletti (ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 416 c.p.) quel carattere di diffusività che connota la forza di intimidatrice, asserendo nel contempo che tale requisito deve caratterizzare il programma dell’associazione e non essersi in concreto materializzato. L’assunto è doppiamente fallace. In primo luogo, va sottolineato che l’intimi-
— 1480 — dazione interna al sodalizio, pur se rilevante sotto il profilo dell’estrinsecazione del metodo mafioso, può coniugarsi con l’intimidazione esterna, ma non può prescinderne, poiché il proprium dell’associazione è, per l’appunto, il riverbero, la proiezione esterna, il radicamento nel territorio in cui essa vive. È stato — è vero — talvolta sostenuto che l’assoggettamento e l’omertà possono collocarsi anche all’interno di un contesto mafioso derivando l’uno dalla forza di intimidazione all’interno del gruppo o dalla consapevole accettazione dei valori e delle gerarchie criminali, l’altra dalla inderogabile disciplina, in forza della quale l’associato ‘‘appartiene’’ al gruppo cui ha aderito, operando un’irrevocabile scelta di vita. È preferibile, però, ritenere che assoggettamento e omertà sono effetti psicologici che si producono esclusivamente all’esterno della realtà associativa di mafia o di camorra, riverberati e proiettati nell’ambiente circostante, mentre la succubanza e l’omertà degli accoliti, dovute ad intimidazione o ad una specifica subcultura, sono solo eventuali ed attengono al profilo criminologico e sociologico del fenomeno, più che a quello strettamente giuridico. Né è condivisibile la designazione della diffusività della forza di intimidazione come elemento inerente al programma, e dunque virtuale, anziché effettuale, siccome manifestazione della condotta. La tesi della Corte milanese, funzionale a quella dell’avviamento dell’impresa mafiosa, è precisamente smentita dai consolidati indirizzi interpretativi espressi da questa Corte. Quest’ultima, infatti, ha ripetutamente, anche di recente, stabilito che per qualificare un’associazione per delinquere ai sensi dell’art. 416-bis, non è sufficiente che essa abbia programmato di avvalersi della forza di intimidazione e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà, ma è necessario che se ne sia avvalsa in concreto (vale a dire in modo effettivo) nell’ambiente circostante, essendo la diffusività un carattere essenziale della forza intimidatrice (v. e pluribus, Cass., sez. I, 18 ottobre 1995, n. 10371, Costioli; sez. VI, 27 marzo 1995, n. 2164, Imerti). È stato deciso in tal senso che assoggettamento ed omertà devono riferirsi non ai componenti interni — essendo siffatti caratteri presenti in ogni consorteria — ma ai soggetti nei cui confronti si dirige l’azione delittuosa, essendo i terzi a trovarsi, per effetto della diffusa convinzione della loro esposizione ad un concreto ed ineludibile pericolo, di fronte alla forza dei ‘‘prevaricanti’’, in uno stato di soggezione (Cass., sez. I, 7 aprile 1992, n. 4153, Barbieri). La sentenza impugnata, dunque, va annullata limitatamente ai capi A e L1, in ordine alla sussistenza dell’elemento specializzante che qualifica l’associazione per delinquere di stampo mafioso, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano. (Omissis). P.Q.M. — (Omissis). — In accoglimento dei ricorsi di Bossi, Brighina, Cappelli, Carcano, Corallo, Frontone, Legnaro Ilario, Legnaro Virgilo, Merlo, Tiziani, Traversa, Enea, Giampalmo e Liguori, annulla la sentenza impugnata limitatamente ai capi A e L1 in ordine alla sussistenza dell’elemento specializzante che qualifica l’associazione per delinquere di stampo mafioso, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, per nuovo esame [...]. Rigetta i ricorsi di Magnelli, Accinelli, Tommasini, Ligato, Vento e Poletti, nonché quello dell’Enea quanto alla preclusione di cui all’art. 90 c.p.p. (Omissis).
— 1481 — (1)
Art. 416-bis c.p. e ‘‘metodo mafioso’’, tra interpretazione e riformulazione del dettato normativo.
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Ragioni ed attese di una specifica fattispecie di associazione per delinquere di stampo mafioso. — 3. Opposizioni ermeneutiche intorno al 3o comma dell’art. 416-bis: i limiti dell’indirizzo accolto dalla Suprema Corte. — 4. (Segue): dettato normativo e suoi riflessi pratici: prospettive de iure condendo. — 5. L’ultimo comma dell’art. 416-bis: un inutile (e pericoloso) orpello?
1. La vicenda in esame, già sottoposta in passato all’attenzione della Corte di Cassazione (1), risale al 1983 e concerne le manovre finalizzate ad acquisire l’appalto di gestione del casinò di Sanremo, condotte da due bande criminali concorrenzialmente interessate al controllo del gioco d’azzardo. Data per scontata la qualifica di sodalizio illecito di entrambi i gruppi, si è trattato di stabilire se limitarsi a configurarli come associazioni per delinquere comuni o piuttosto punirli quali associazioni di stampo mafioso secondo i canoni indicati dall’art. 416-bis del codice penale (2). Ciò che maggiormente preme valutare nella presente sentenza, risiede nell’indagine sulle argomentazioni svolte dalla Corte di legittimità, e sui criteri da essa utilizzati, sia per giustificare o meno l’applicabilità dell’art. 416-bis c.p. in luogo dell’art. 416 c.p., a cominciare dalla necessità « che gli elementi costitutivi del reato siano stati posti in essere dopo il 29 settembre 1982 » (3), sia pcr ritenere la sussistenza di quegli elementi che distinguono la prima fattispecie menzionata. (1) Effettivamente la Suprema Corte si era già pronunciata sugli stessi fatti con sentenza di annullamento e rinvio ad altro giudice, emessa dalla I Sezione penale il 18 ottobre 1995, n. 10371, in Il Sole 24 Ore. Guida al Diritto, n. 49 del 23 dicembre 1995, p. 73 ss., cui si rimanda per una migliore comprensione della vicenda. (2) Al riguardo la Corte dà notizia di un’imputazione concernente « i due distinti reati di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p., nel quale ultimo il primo era stato dichiarato assorbito ». (3) Per quanto riguarda la questione relativa al trattamento penale di quei sodalizi i cui membri abbiano dato mostra di tenere una condotta mafiosa, nel senso indicato dall’art. 416-bis c.p., non solo per il periodo successivo alla sua entrata in vigore, ma anche per quello precedente; esclusa per ovvie ragioni di coerenza con una scelta legislativa ben precisa l’ipotesi di applicare ad essi unicamente l’art. 416 c.p., rimangono due indirizzi alternativi a guidare l’interprete. (Ved. E. GIRONI, L’evoluzione giurisprudenziale in materia di reati associativi, da I delitti di criminalità organizzata, vol. I, in Quaderni del C.S.M., 1998, n. 99, p. 329). Secondo il primo, minoritario, onde rispettare nella forma e nella sostanza il principio di irretroattività della legge penale, dovrebbe essere applicato l’art. 416 c.p. alla condotta tenuta fino al 1982 e l’art. 416-bis c.p. per il periodo successivo. (Si veda al riguardo la sentenza del Tribunale di Agrigento del 23 luglio 1987, in Foro it., 1987, parte II, col. 54 con nota di A. INGROIA). Non può sfuggire tuttavia la macchinosità di tale soluzione che avrebbe l’effetto di spezzare la condotta rilevante in due reati autonomi, tuttalpiù uniti dal vincolo della continuazione. Più razionale appare l’altra soluzione, suggerita da G.M. FLICK, L’associazione a delinquere di tipo mofioso. Interrogativi e riflessioni su problemi proposti dall’art. 416-bis c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, p. 859; R. LI VECCHI, L’associazione di tipo mafioso attraverso il pensiero della dottrina e le decisioni della Suprema Corte, in Riv. pen., 1988, p. 1031; A. INGROIA, Osservazioni su alcuni punti controversi dell’art. 416-bis c.p., in Foro it., 1989, parte II, col. 59; F. ALBEGGIANI-G. FIANDACA, nota a sentenza in Foro it., 1989, parte II, col. 86; secondo la quale si dovrebbe applicare per l’intera condotta, anche quella anteriore al 1982, solo l’art. 416-bis c.p., non già sulla base di una relazione di specialità tra gli artt. 416 e 416-bis c.p., relazione che poi non è neanche tanto pacifica (ved. A. ANTONINI, Le associazioni per delinquere nella legge penale italiana, in Giust. pen., 1985, parte II, col. 289, e da ultimo G. DE ROBERTO, L’evoluzione giurisprudenziale in materia di reati associativi, da I delitti di criminalità organizzata, vol. I, in Quaderni del C.S.M., 1998, n. 99, p. 356), quanto in virtù del fatto che quello di associazione mafiosa è un delitto di natura permanente, punito regolarmente secondo la legge in vigore al momento in cui si consuma. Poiché il momento di consumazione nei reati permanenti corrisponde a quello in cui cessa la permanenza e con essa la condotta punita, ecco che quand’anche il sodalizio mafioso sia stato costituito prima del 1982, sarebbe giustificata la sua riconducibilità al solo art. 416-bis c.p., senza alcuna violazione del principio di irretroattività della legge penale. La sentenza in commento può collocarsi all’interno di quest’ultimo indirizzo, a condizione che si intenda che essa adotti quale unico criterio per l’applicazione dell’art. 416-bis c.p., quello consistente nella
— 1482 — 2. Lo studio intorno alla delinquenza mafiosa ha costantemente sofferto, fin dai suoi primi passi, di un lungo travaglio, consumatosi tra dottrina e giurisprudenza, nello sforzo di ricondurne le relative aggregazioni illecite sotto l’ambito delle fattispecie di associazione di malfattori, prima, e di associazione per delinquere, poi (4). Già all’alba del secondo dopoguerra, tuttavia, l’entità della perturbazione dell’ordine sociale in taluni aggregati urbani e rurali, poteva dirsi spiegata con l’accertamento della preminenza dell’elemento organizzativo all’interno degli schieramenti mafiosi. Travolte le posizioni di coloro che tendevano a confondere, esaltandone a dismisura il connotato etnico, il fenomeno criminale siciliano con i valori morali e la mentalità caratteristici dell’isola, cioè con un dato insuscettibile di essere ricondotto nell’ambito di una norma penale, l’indagine si è spostata, dalla preliminare questione circa la natura associativa o meno delle relative condotte, a quella successiva e più complessa concernente l’idoneità e l’efficacia dell’art. 416 c.p. a reprimere le associazioni mafiose. Lo studio di tali sodalizi è così andato di pari passo con l’approfondimento dell’interpretazione degli elementi costitutivi della fattispecie di associazione per delinquere comune. Taluni fattori principali hanno alla fine inciso sulla soluzione adottata dal nostro legislatore con l’introduzione dell’art. 416-bis nel codice penale. Fermo il mantenimento (e anzi un’intensificazione del loro sfruttamento) dei tradizionali settori di malaffare, tra cui soprattutto quelli dell’estorsione e del contrabbando, la diffusione, a partire dalla metà degli anni ’50, di un’economia di tipo industriale e l’occasione offerta dalla proliferazione di relazioni affaristiche ad ampio raggio, hanno consentito alla mafia di allargare la sfera dei suoi interessi: dall’assunzione di appalti pubblici al commercio di armi; dal traffico di droga ad attività di finanziamento ed intermediazione ai più svariati livelli (5). Per assecondare tali esigenze, essa a poco a poco ha sviluppato al suo interno un’organizzazione gerarchicamente meglio ordinata, compatta ed efficiente secondo un modello di tipo imprenditoriale, capace di sostenere, oltre alla tradizionale attività di accumulazione di ricchezza, quella, oggi non più secondaria, di reinvestimento dei verifica che gli elementi costitutivi di tale fattispecie siano stati posti in essere comunque dopo la data della sua entrata in vigore. (4) È noto che la prima vera occasione di dibattito intorno a certe peculiari tendenze delinquenziali siciliane (le caratteristiche della camorra napoletana erano invece già conosciute in maniera abbastanza approfondita) è stata offerta da una discussione parlamentare, tenutasi nel giugno 1875 in concomitanza all’approvazione di provvedimenti di Pubblica Sicurezza, cui ha fatto seguito, negli anni immediatamente successivi, una stagione di processi avviati contro alcune ‘‘Fratellanze’’, vere e proprie associazioni con tanto di statuti e riti di iniziazione. Le difficoltà che immediatamente si sono presentate agli operatori di diritto e che impedivano di qualificare come associative le condotte dei mafiosi consistevano precisamente nella necessità di conciliare il dettato normativo con comportamenti, peculiari dell’ambiente siciliano, velatamente intimidatori quasi mai ricollegabili nella misura richiesta dal principio di offensività ad un vincolo associativo stabile ed organizzato. Proprio queste difficoltà, d’altra parte, almeno fino a quando è rimasto superficiale il livello di conoscenza della mafia o questa è stata ritenuta legata ad un suo prototipo tradizionale, non sono mai state completamente superate. Tuttalpiù esse sono state aggirate mediante il ricorso ad interpretazioni della fattispecie di associazione a delinquere meno rigorose quanto alla pregnanza degli elementi costitutivi richiesti (ved. ad es. Trib. Sciacca 30 maggio 1893, in Riv. pen., 1893, vol. XXXVIII. p. 333). Ma nel momento in cui non si è condivisa e si è abbandonata tale scelta di campo, per riportarsi piuttosto sui binari della tradizionale interpretazione dell’associazione di malfattori risalente alla fattispecie francese del 1810, non si è mancato di rilevare l’incompatibilità quasi ontologica tra la figura del mafioso e quella dell’associato per delinquere (al riguardo ved. G.M. PUGLIA, Il mafioso non è un associato per delinquere, in Scuola pos., 1930, vol. I, p. 456). L’approfondimento delle conoscenze sulla mafia, e forse anche una certa evoluzione nel modo di essere del fenomeno criminale siciliano, fattori che hanno permesso di distinguere un livello di ‘‘mafia alta’’ più articolato, complesso e raffinato, rispetto all’altro di ‘‘bassa mafia’’ legato invece ai tradizionali stereotipi sociologici, hanno a mano a mano rafforzato la convinzione circa l’esistenza di valide strutture organizzative che assistono i mafiosi nella preparazione ed esecuzione delle attività delittuose. (5) G. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, p. 2 ss., nota 1.
— 1483 — capitali ricavati dalle operazioni delittuose. La mafia, peraltro, non si è accontentata più di riuscire ad incidere dall’interno sull’assetto dei rapporti sociali del nostro Paese, ma è entrata in diretta competizione con soggetti economici operanti a livello internazionale (6). Il nuovo volto organizzativo assunto dalla mafia ha prodotto, tuttavia, l’ulteriore conseguenza, in linea con una ben nota propensione, variamente assecondata nel tempo, a mimetizzare le proprie reali dimensioni tra le pieghe di espressioni sociali consentite dall’ordinamento, di rendere ancora una volta difficilmente percepibile, grazie al velo di apparente liceità derivante dal perseguimento di obiettivi connessi al piano della competizione economica, il sottostante carattere ‘‘delittuoso’’ del relativo programma, indispensabile per la composizione del modello associativo comune di cui all’art. 416 del codice penale. Oltre a ciò, la difficoltà di ricomprendere de plano nella ‘‘tradizionale’’ nozione di associazione, mai del tutto affrancata da dubbi circa la sua reale ‘‘consistenza’’ (7), fenomenologie criminologiche di diversa provenienza, rivelate da caratteristiche strutturali talora sensibilmente eterogenee, ha condotto a rendere labili ed incerte le direttrici applicative della suindicata fattispecie, incentivando con ciò l’affermarsi di indirizzi ermeneutici tra loro contrastanti e non di rado viziati da pregiudiziali ‘‘sociologiche’’ irriducibili ad una verifica in termini di rigorosa ‘‘legalità’’. Poiché, a ben vedere, le ragioni (8) alla base della ritenuta inidoneità dell’art. 416 c.p. a ricomprendere il fenomeno mafioso si intrecciano strettamente con le valutazioni che sottostanno alla ratio giustificativa del nuovo art. 416-bis c.p. (9), sarà quantomai utile verificare in quale misura i problemi di genericità e imprecisione del dettato normativo a descrivere l’agire mafioso, sollevati in relazione al(6) Le conseguenze di questo processo interessano diversi aspetti: dalla diffusione del metodo mafioso in tutto il mondo, donde la necessità di farvi fronte in campi di applicazione più vasti, all’inquinamento dei principali mercati economici, nessuno dei quali in grado di evitarne l’urto distorsivo; dal reclutamento nelle file mafiose di personale dalle qualità professionali e culturali elevate, a relazioni sociali di copertura sempre disponibili e dalla valenza non più localistica. Per una sintetica rassegna dei principali spunti problematici si veda G.M. FLICK, Le regole di funzionamento delle imprese e dei mercati: l’incompatibilità con il metodo mafioso: profili problematici, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, p. 906 ss. (7) Si veda ad es. F. PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 1985, p. 359. (8) Questi fattori hanno determinato una certa varietà di opinioni circa l’idoneità dell’art. 416 c.p. a reprimere anche i sodalizi mafiosi: in senso favorevole si esprimono G. FIANDACA, Commento alla legge 13 settembre 1982, n. 646, art. 1, in Legisl. pen., 1983, p. 265; L. DE LIGUORI, Associazione mafiosa: pregiudiziali sociologiche e problemi interpretativi, in Cass. pen., 1987, p. 54; nonché, pur con meno convinzione, La struttura normativa dell’associazione di tipo mafioso, in Cass. pen., 1988, p. 1614; infine recentemente A. ARCERI, Sull’art. 416-bis ed in particolare sull’uso della forza intimidatrice, in Giur. di merito, 1995, parte II, p. 320, i quali circoscrivono tale eventualità al solo caso in cui si riesca a dare la prova degli elementi costitutivi dell’associazione per delinquere comune e in particolare del programma criminoso. Constatano invece l’inadeguatezza dell’art. 416 c.p. R. CHINNICI, Magistratura e mafia, in Democrazia e dir., 1982, n. 4, p. 87 G. NEPPI MODONA, Il reato di associazione mafiosa, in Democrazia e dir., 1983, p. 41; G. DI LELLO FINUOLI, Associazione di tipo mafioso e problema probatorio, in Foro it., 1984, parte V, col. 245; A. ANTONINI, op. cit., col. 287, in considerazione del fatto che, mentre la suddetta fattispecie non può prescindere da un programma criminoso, la mafia, come si è detto, è stata capace nel tempo di porsi per obiettivo anche attività lecite. Moderata, ancorché tendenzialmente scettica circa la reale idoneità dell’art. 416 a reprimere il fenomeno mafioso, è la posizione di R. CERAMI, Problemi probatori in tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, da BORRÈ LEPINO (a cura di), Mafia, ’ndrangheta, camorra, Milano, 1983, p. 227. Infine R. LI VECCHI, op. cit., p. 1028, riduce la portata dei vari orientamenti a mere « divergenze » più formali che sostanziali di un unico indirizzo. (9) Al riguardo è più che sufficiente tenere presente la Relazione introduttiva al Progetto di legge La Torre 31 marzo 1980, n. 1581 in cui si spiega che la nuova fattispecie è diretta a « colmare una lacuna legislativa [...] non essendo sufficiente la previsione dell’art. 416 c.p. (associazione per delinquere) a comprendere tutte le realtà associative di mafia che talvolta prescindono da un programma criminoso secondo la valenza data a questo elemento tipico dall’art. 416 c.p., affidando il raggiungimento degli obiettivi alla forza intimidatrice del vincolo associativo in quanto tale: forza intimidatrice che in Sicilia e in Calabria raggiunge i suoi effetti anche senza concretarsi in una minaccia o in una violenza negli elementi tipici prefigurati nel codice penale ».
— 1484 — l’art. 416 c.p., siano stati risolti dall’introduzione di una fattispecie ad hoc, sì da consentire di percorrere (anche) una linea interpretativa come quella tracciata nella pronuncia in commento. 3. Concepito in un periodo di accentuata recrudescenza del fenomeno criminale siciliano, il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso si fa notare, rispetto alla tralatizia fisionomia dell’associazione per delinquere comune, per l’adozione, all’interno del modello tipico, di referenti descrittivi fortemente connotati in chiave socio-criminologica (10). Accanto all’arco delle finalità, non coincidenti con quelle previste dall’art. 416 c.p., l’elemento che caratterizza la condotta punita nell’art. 416-bis è infatti il ‘‘metodo mafioso’’, ossia l’insieme delle modalità (11) con cui gli affiliati intendono raggiungere, o di fatto perseguono, gli scopi tipici. Pur facendo appello a parametri descrittivi di matrice sociale, riconducibili, per taluni aspetti, alle scelte di politica normativa compiute dai legislatori preunitari per l’‘‘associazione di malfattori’’ (12) e poi smentite dalla previsione, in occasione della redazione del codice Zanardelli, del più ‘‘asettico’’ modello di ‘‘associazione per delinquere’’ (13), la costruzione complessiva del 3o comma dell’art. 416-bis c.p., tuttavia, evidenzia preoccupanti carenze di determinatezza concettuale (14), puntualmente confermate, del resto, dalle ‘‘oscillazioni’’ della prassi applicativa. Particolarmente pressante appare il rilievo teso a sottolineare, onde far meglio quadrare la fisionomia del delitto in esame, la necessità di un chiarimento circa la corretta collocazione dei concetti di ‘‘intimidazione’’, ‘‘assoggettamento’’ ed ‘‘omertà’’ tra i suoi elementi costitutivi (15) ed ancor più a proposito (10) « L’associazione è di tipo mafioso », recita il 3o comma dell’art. 416-bis, « quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali ». Sull’origine metagiuridica dei parametri sociologici c’è assoluta unanimità in dottrina. Non solo per quanto concerne la paternità del termine ‘‘omertà’’, risalente all’opera di sociologi e studiosi della fine del secolo scorso. Ma anche sulla loro provenienza dall’esperienza giurisprudenziale in tema di applicazione delle misure di prevenzione agli ‘‘indiziati di appartenere alle associazioni mafiose’’ previste dalla legge n. 575/1965: in tali frangenti è stato qualificato mafioso il comportamento di chi si proponesse « di assumere o mantenere il controllo di attività economicamente rilevanti, attraverso una intimidazione sistematica tale da creare una situazione di assoggettamento e di omertà... ». Si vedano Cass., sez. I, 8 giugno 1976, Nocera, in Giust. pen., 1977, II, col. 268; e Cass., sez. I, 7 marzo 1977, Ortoleva, ivi 1977, III, col. 679. (11) G. INSOLERA, Considerazioni sulla nuova legge antimafia, in Politica del dir., 1982, p. 689; G. FIANDACA, op. cit., p. 260. (12) Si vedano gli artt. 265 ss. del codice penale napoleonico del 1810, da cui sono poi stati tratti pedissequamente gli artt. 441 ss. del codice sardo del 1839; gli artt. 426 ss. del codice sardo del 1859; l’art. 264 del codice parmense del 1820. Per un diverso modello, tuttavia ugualmente legato a referenti descrittivi, si veda l’art. 154 del codice penale napoletano del 1819. (13) Si veda l’art. 248 del codice penale italiano del 1889. (14) L. DE LIGUORI, La struttura normativa dell’associazione di tipo mafioso, cit., p. 1610, individua autentici vizi d’origine nell’art. 416-bis dei codice. (15) I numerosi problemi sollevati a proposito della disposizione in esame hanno raramente coinvolto nelle discussioni il significato dei termini di intimidazione, assoggettamento, omertà. Il primo coincide con la « capacità di incutere timore », tale da ingenerare negli altri « un vero e proprio stato di dipendenza [e inferiorità] psicologica »: L. DE LIGUORI, Art. 416-bis c.p.: brevi note in margine al dettato normativo, in Cass. pen., 1986, p. 1523. L’assoggettamento, G. SPAGNOLO, op. cit., a p. 36, descrive invece una « soggezione particolarmente intensa », indice di « vera e propria ‘‘succubanza’’ ». Infine con omertà si intende « il rifiuto generalizzato a collaborare con organi dello Stato aventi funzioni inquirenti e giudicanti: deve trattarsi però di un rifiuto generalizzato, assoluto ed incondizionato, nel senso che non sia dettato da motivi contingenti, non abbia un carattere episodico e occasionale (altrimenti sarebbe omertà qualsiasi comportamento reticente), non trovi una sua spiegazione esauriente sul piano processuale (altri-
— 1485 — del significato tecnico da attribuire alla locuzione « si avvalgono », adoperata probabilmente in maniera non del tutto consapevole e criticamente vagliata (16). Le medesime questioni, peraltro, sono state affrontate anche nella sentenza in commento, sebbene dalla particolare prospettiva di coloro i quali, estranei al sodalizio, ne subiscono la carica intimidatrice, venendo « a trovarsi, per effetto della diffusa convinzione della loro esposizione ad un concreto ed ineludibile pericolo [...], in uno stato di soggezione ». Per capire in quale misura possa ottenersi un più soddisfacente inquadramento della fattispecie, è comunque necessario spostare l’attenzione sulla configurazione dell’associazione mafiosa elaborata dalla più accreditata dottrina. È ormai un dato pressoché acquisito quello secondo il quale un sodalizio già perfettamente formato possa meritare la qualifica di ‘‘mafioso’’ solo nel momento in cui sia in grado di sprigionare autonomamente, e per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con gli affiliati all’organismo criminale. Il primo passo che l’interprete deve muovere per verificare l’esistenza o meno degli elementi costitutivi postulati dal 3o comma dell’art. 416-bis deve essere diretto appunto alla ricerca del contenuto della suddetta carica intimidatrice. In linea di principio, questa viene ricondotta alla progressiva capitalizzazione di un patrimonio di esperienza criminale di cui servirsi in futuro, conseguente ad un periodo di ‘‘rodaggio’’ (17) in cui il sodalizio, non essendo ancora di stampo menti sarebbe omertoso qualsiasi imputato che mentisse per difendersi), e non possa quindi che ricollegarsi all’essenza stessa del vincolo associativo mafioso, alla naturale potenzialità intimidatrice che da esso promana, ed all’accettazione del rapporto di assoggettamento al potere mafioso come unico potere riconosciuto »: G. TURONE, L’associazione mafiosa. Dimensione nazionale del problema, in BORRÈ-LEPINO (a cura di), Mafia, ’Ndrangheta, Camorra, Milano, 1983, p. 118. Con riguardo a quest’ultima, tuttavia, non sono mancate sensibili fluttuazioni nel modo di intendere il suo significato. In occasione del noto caso Teardo, in particolare, mentre la Corte d’appello di Genova, con sentenza del 22 gennaio 1988, si è mantenuta sostanzialmente nelle linee della definizione appena indicata, la Corte di Cassazione, invece, con sentenza del 10 giugno 1989, vi ha apportato dei temperamenti atti a rendere più elastica la fisionomia del requisito costitutivo della fattispecie e più frequente la sua constatazione da parte degli organi giudiziari. Secondo la Suprema Corte, infatti, la condizione di omertà « non può ridursi alla semplice reticenza, ma non deve essere così assoluta ed invincibile da non consentire smagliature, né deve protrarsi nel tempo anche quando è venuta meno la stessa forza di intimidazione dell’associazione a seguito dello sfaldamento di quest’ultima per l’intervento dell’autorità giudiziaria. Non potendo essere enfatizzato lo schema dell’art. 416-bis fino al punto di postulare condizioni di sostanziale ‘‘plagio’’ sociale generalizzato, affinché sussista omertà basta che il rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato sia sufficientemente diffuso anche se non generale ». « In questo quadro l’omertà che dal potere intimidatore dell’associazione deriva non implica né una generalizzata e sostanziale adesione alla subcultura mafiosa — secondo la vecchia eccezione di omertà — [...], né una situazione di così generalizzato terrore da impedire qualsiasi atto di ribellione e qualsiasi reazione morale alla succubanza ». « Perché sussista omertà basta invece che il rifiuto a collaborare con gli organi dello stato [...] sia dovuto alla paura non tanto di danni all’integrità della propria persona ma anche solo all’attuazione di minacce che possano comunque realizzare danni rilevanti; che sussista la diffusa convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria [...] non impedirà che si abbiano ritorsioni dannose per la ramificazione dell’associazione, la sua efficienza, la sussistenza di altri soggetti non identificabili e peraltro forniti di un potere sufficiente per danneggiare chi ha osato contrapporsi al potere dell’associazione di tipo mafioso », non esclusa l’eventualità « che la scelta di ribellarsi all’imposizione [...] possa mettere a rischio la pratica possibilità di continuare a lavorare ». Per i riferimenti alle due sentenze testé citate, si veda Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, pp. 1177, 1181-1182, con nota di A. MADEO a p. 1197 ss. (16) G. FIANDACA, L’associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, in Foro it., 1985, parte V, coll. 303-304, riesaminando i lavori preparatori sulle modifiche apportate al verbo ‘‘avvalersi’’ ritiene probabile che « neppure gli artefici dell’art. 416-bis [avessero] ben chiare in mente le implicazioni tecniche, sul piano della struttura della fattispecie criminosa, della definizione legislativa infine prevalsa dell’associazione di tipo mafioso. L’interprete che volesse trarre argomenti decisivi dalla sostituzione del gerundio ‘‘valendosi’’ con l’indicazione ‘‘si avvalgono’’, finirebbe dunque col concedere al legislatore storico una consapevolezza che in realtà gli faceva difetto ». (17) F. PALAZZO, op. cit., pp. 226-227; più ampiamente G.A. DE FRANCESCO, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Digesto disc. pen., vol. I, Torino, 1987, p. 309 ss.; nonché Gli
— 1486 — mafioso, abbia avuto bisogno di manifestarsi attraverso una serie di reiterati atti di violenza, minaccia e delitti in genere. L’accertamento di tale requisito, tuttavia, è complicato non solo dal fatto di dover identificare un fenomeno di per sé relativo, tale da poter essere constatato principalmente grazie all’impatto ed alla reazione che la carica del sodalizio suscita nei destinatari; ma anche dalla consapevolezza che il compimento di atti di intimidazione riferibili al gruppo delinquenziale potrebbe non essere sempre la spia di un sodalizio mafioso ancora ‘‘acerbo’’ ed embrionale, risultando invece ricollegabile all’esigenza, avvertita dalle associazioni mafiose già costituite, di conservare, e magari potenziare, la propria capacità intimidatrice (18). Almeno per quanto riguarda il primo dei due profili appena segnalati — e cioè quello relativo al ruolo da attribuire, nell’economia della fattispecie, all’incidenza ‘‘esterna’’ delle condotte punite dall’art. 416-bis — l’indicazione trova una significativa conferma nel dettato normativo del 3o comma della medesima disposizione, in cui, secondo la dottrina recente, l’assoggettamento e l’omertà, più che requisiti qualificanti l’entità dell’intimidazione idonea (19), appaiono come conseguenze, rintracciabili nel substrato civile della società, della carica maturata dal sodalizio (20). Proprio su questo aspetto della fattispecie, del resto, insiste anche la sentenza commentata (21). Tale ultimo rilievo richiede, peraltro, alcune precisazioni. La considerazione dell’ambiente circostante ai membri delle associazioni mafiose porta con sé il rischio di introdurre un elemento di appannamento dei confini della fattispecie. Esiste infatti il problema, destinato ad acuirsi in sede probatoria, di distinguere ciò che è stato definito (22) « subcultura », ossia condivisione di un sentimento di opposizione alle regole dell’ordinamento statale, da ciò che invece costituisce mera « soggezione ambientale », ovvero conseguenza anche indiretta della forza di intimidazione. Simile distinzione, peraltro, presuppone che si riesca a stabilire in via preliminare quali siano stati, e quale continuino ad essere oggi, artt. 416, 416-bis, 416-ter, 417, 418 c.p., in P. CORSO-G. INSOLERA-L. STORTONI (a cura di), Mafia e criminalità organizzata, in Giur. sist. dir. pen., diretta da F. BRICOLA-V. ZAGREBELSKY, p. 47 ss. (18) G. SPAGNOLO, op. cit., p. 35; G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995, pp. 104 e 116. (19) G.A. DE FRANCESCO, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, cit., p. 309; nonché Gli artt. 416, 416-bis, 416-ter, 417, 418 c.p., cit., p. 48. (20) G. SPAGNOLO, op. cit., p. 36; A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, p. 73; G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., pp. 130 e 137. (21) Pungolata dalla necessità di escludere dalla rilevanza penale la succubanza cosiddetta ‘‘interna’’, cui sarebbero soggetti gli affiliati verso i loro stessi capi, la Corte coglie infatti l’occasione per ribadire che « il proprium dell’associazione è, per l’appunto, il riverbero, la proiezione esterna, il radicamento nel territorio in cui essa vive ». G. FIANDACA, Commento, cit., p. 260, per primo aveva distinto la coazione interna da quella esterna, sottolineando come « il cemento che lega tra loro gli associati più che dal timore e dalla soggezione, è costituito dalla comune adesione ad una specifica subcultura ». Ved. anche dello stesso Autore, L’associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, cit., col. 305. La decisione della Corte di attribuire rilevanza unicamente all’assoggettamento esterno al sodalizio è in linea con l’orientamento prevalente ed è sostanzialmente condivisibile. Non è escluso, infatti, che più di un’associazione mafiosa si regga anche sopra una ferrea disciplina interna, la cui osservanza sia garantita per mezzo di un clima di terrore nei soci. Tuttavia, a parte il fatto che la soluzione contraria finirebbe con l’offrire ai membri del gruppo fin troppo facili scappatoie di comodo per evitare l’imputazione dell’art. 416-bis, deve essere considerato che la condotta associativa si fonda anzitutto, per definizione, su di una volontaria e consapevole adesione dell’agente. G. DI LELLO FINUOLI, op. cit., col. 248; R. LI VECCHI, op cit., p. 1030; A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, cit., p. 76; G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 413. Contra L. DE LIGUORI, Art. 416-bis c.p.: brevi note in margine al dettato normativo, cit., p. 1523; nonché La struttura normativa dell’associazione di tipo mafioso, cit., p. 1612. (22) G. DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, p. 286 ss.
— 1487 — il ruolo e il grado dell’influenza della mentalità regionale sul fenomeno criminale siciliano. In realtà la variabile culturale è molto incerta, perché inevitabilmente tende a generalizzare situazioni che possono essere alquanto difformi tra loro: si pensi alla diversa sensibilità ai condizionamenti ambientali presente in persone dalla provenienza eterogenea per grado di istruzione, opportunità di esperienze ed interscambi con altri contesti sociali. D’altra parte, anche ammesso l’accertamento di culture etnico-regionali, così come non si può certo escludere un deleterio effetto di compiacenza dei propugnatori di determinati valori in Sicilia verso l’attività delle associazioni mafiose, allo stesso modo non si può negare l’eventualità che sia proprio la palese diffusione di queste ultime, cui è complementare una deplorevole assenza dello Stato nel garantire il necessario ordine sociale, a dare alimento a presunte ‘‘sottoculture’’. Per questo insieme di ragioni, l’indubbia necessità di fare affidamento su un riscontro esterno e tangibile del livello di capacità intimidatrice raggiunto dalle associazioni punibili ai sensi del 3o comma dell’art. 416-bis c.p., non deve poi essere vanificata dal rilievo attribuito, sul piano penale, al dato ambientale, a causa del quale le condizioni di assoggettamento ed omertà perderebbero gran parte della loro dipendenza eziologica rispetto all’elemento della forza di intimidazione. Peraltro, secondo la dottrina più recente (e sempre con riguardo al profilo segnalato), la constatazione dell’esistenza di una carica intimidatrice diffusa, di per sé stessa capace di suscitare nell’ambiente circostante, quale sua « proiezione esterna », un’altrettanto diffusa aura di soggezione e di paura, non basta a completare nei suoi elementi costitutivi (almeno quelli afferenti al metodo mafioso) la fisionomia della figura delittuosa in questione. Limitata a questi sviluppi (23), infatti, l’indagine si arresterebbe al solo profilo statico, inerziale dell’associazione mafiosa. In realtà il 3o comma dell’art. 416-bis esige che gli associati ‘‘si avvalgano’’ « della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva ». La locuzione « si avvalgono », che ha impegnato a lungo gli sforzi ermeneutici dei commentatori, non può essere ignorata ed evoca giocoforza nei sodalizi il riscontro di un’attitudine dinamica. Le modalità secondo le quali dovrebbe trovare esplicazione la dimensione dinamica dell’associazione punita nell’art. 416-bis, costituiscono a dire il vero, un problema persistente, tuttora oggetto di valutazioni discordanti. La posizione della Cassazione, al riguardo, è netta. Confermando « consolidati indirizzi interpretativi » (24), la Suprema Corte osserva, infatti, che non basta « aver programmato di avvalersi della forza di intimidazione e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà, ma è necessario che [l’associazione] se ne sia avvalsa in concreto (vale a dire in modo effettivo) nell’ambiente circostante », non essendo accettabile il richiamo alla « prospettazione dell’aura di timore ed assoggettamento promanante dal vincolo associativo come di un elemento virtuale inerente al programma, non necessariamente estrinsecato in concrete determinazioni fattuali ». L’opinione dei giudici di legittimità, dunque, si ag(23) A. INGROIA, op. ult. cit., p. 68; G. TURONE, op. ult. cit., p. 121 ss. (24) Circa il significato della locuzione ‘‘si avvalgono’’ la Corte, volendo evitare di ripetere concetti già espressi, rinvia a quanto statuito nella sentenza 1995, n. 10371.
— 1488 — giunge a quella di coloro che ritengono l’art. 416-bis, a differenza delle fattispecie plurisoggettive tradizionali, un esempio di reato associativo a struttura ‘‘mista’’, in cui il fatto punito richiederebbe, oltre all’accertamento dell’esistenza del vincolo tra i soci, anche il compimento di almeno un inizio di attività esecutiva. Questo indirizzo, tuttavia, si è imposto solo negli ultimi anni. Inizialmente, infatti, era opinione diffusa (25) quella secondo la quale il 3o comma dell’art. 416bis ammetterebbe anche la sola eventualità « che gli associati si propongano di conseguire i loro obiettivi mediante il ricorso alla forza intimidatrice », senza bisogno « che producano l’effetto intimidativo, né che abbiano dato concreta esecuzione ad atti diretti ad intimidire » (26). Pur non essendo ignoti i rischi (27) di una simile ricostruzione, su di essa hanno pesato (28), evidentementente, sia la preoccupazione di non tradurre l’applicazione della nuova fattispecie in un meccanismo di costante probatio diabolica che costringa a dimostrare « di volta in volta non soltanto tutti gli elementi tipici del reato associativo [...], ma in più l’esercizio effettivo o attuale della intimidazione », sia, d’altro canto, la convinzione di uniformarsi in tal modo alle intenzioni del legislatore, in quanto rivolte a « formulare una nuova incriminazione ritagliata sulle caratteristiche assunte dal fenomeno mafioso, senza tuttavia rinunciare alle chances di tutela ‘‘anticipata’’... » derivanti dalla natura stessa del reato associativo in sé e per sé considerato. Tuttavia, è sul punto dell’interpretazione letterale della locuzione « si avvalgono », secondo il significato ‘‘avere intenzione’’ o ‘‘proporsi di’’, che il surriferito orientamento ha incontrato un elemento di crisi (29), attraverso cui è riuscita a guadagnare consensi una diversa soluzione ermeneutica. In particolare si è soste(25) G. FIANDACA, Commento, cit.; R. BERTONI, op. cit.; G. DI LELLO FINUOLI, op. cit. In giurisprudenza ved. Cass., sez. I, 30 gennaio 1985, Scarabaggio, in Riv. pen., 1985, p. 1113; Cass., sez. I, 30 settembre 1986, Amerato, ivi, 1987 p. 871; Cass., sez. I, 6 aprile 1987, Aruta, ivi, 1988: p. 1006, infine Cass., sez. VI, 10 giugno 1989, Teardo e altri, in Riv. it. dir. e proc. pen., p. 1182, secondo cui, perché si abbia « un’associazione a delinquere di stampo mafioso, è sufficiente il mostrare di volersi avvalere, il tentare di avvalersi di tale metodologia ». Minoritaria, non solo rispetto alla specifica questione, appariva la posizione di G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 44. (26) G. FIANDACA, Commento, cit., pp. 261-262. (27) Ancora G. FIANDACA, Commento, cit., p. 262, stigmatizza l’eventualità di un ricorso all’art. 416-bis « come ad una sorta di clausola di stile, richiamata sulla base di aprioristiche e lontane presunzioni ». Sottolinea una carenza di tassatività nel 3o comma dell’art. 416-bis G. INSOLERA, op. cit., pp. 691692. (28) G. FIANDACA, Commento, cit., p. 261. (29) Lo stesso G. FIANDACA, Commento, cit., p. 262, peraltro, insinua con notevole arguzia come la scelta del verbo in questione da parte del legislatore non produca influenze vincolanti sulla fisionomia della fattispecie, assumendo piuttosto la funzione di rendere « una immagine ‘‘dinamica’’ » della mafia, punibile già per il solo vincolo associativo. Ne sarebbe un’esplicita conferma l’originaria formulazione della disposizione nella proposta di legge La Torre, secondo la quale si sarebbero dovuti punire gli associati « che hanno lo scopo » di conseguire certi risultati « valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo ». Si dà il caso, tuttavia, che proprio dall’andamento dei lavori preparatori sia stato tratto alimento per obiezioni al riguardo, giacché l’emendamento letterale apportato nella redazione definitiva sarebbe espressione di un’opera di precisazione della formulazione, e con essa della fisionomia, della fattispecie. Ved. G. SPAGNOLO, op. cit., p. 49 ss. e 55. A parziale ridimensionamento dell’indirizzo critico vorremmo tuttavia far notare che tuttora l’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p. mantiene nell’uso dei verbi una fomulazione corrispondente a quella originaria del 3o comma. Se è vero che per ragioni di compatibilità costituzionale il comma di chiusura dell’art. 416-bis non può essere inteso se non come una mera ripetizione superflua che nulla aggiunge al 3o comma dello stesso articolo, è certo che il differente tenore letterale delle due disposizioni priva di credibilità assoluta e di portata vincolante la scelta del tempo e modo del verbo inserito nel 3o comma dell’art. 416-bis. Altra dottrina, R. BERTONI, op. cit., p. 1018, infine riconduce la scelta dell’indicativo « si avvalgono » operata dal legislatore, a ragioni di fedeltà alla prassi giurisprudenziale in materia di applicazione delle misure di prevenzione.
— 1489 — nuto che la formulazione letterale della disposizione consentirebbe di punire un’associazione in quanto mafiosa soltanto allorché essa utilizzi in maniera effettiva, oltre che abituale, metodi intimidatori per raggiungere gli scopi tipici. Anche quest’ultimo, e più recente, indirizzo interpretativo (30), cui aderisce, come detto, pure la sentenza in commento, presta tuttavia il fianco a rilievi critici non trascurabili. Una prima osservazione al riguardo è rivolta a sottolineare il tenore in certo qual modo ‘‘riduttivo’’ che l’interpretazione dell’art. 416-bis in chiave di reato a struttura mista finisce con l’imprimere all’assetto delle condotte associative. Limitare l’ambito delle azioni punibili ai soli casi di sfruttamento in concreto del metodo mafioso mal si concilia, in effetti, con il trattamento penale di taluni comportamenti gravitanti nell’orbita dei sodalizi mafiosi. Si pensi invero a quell’insieme di contributi che, pur non traducendosi in un’esteriorizzazione della carica intimidatrice, recano comunque un apporto alla stessa struttura organizzativa (31) e, di conseguenza, anche all’efficienza criminale dell’associazione (32). È evidente, allora, come, sotto l’assillo di conferire alla condotta incriminata un più elevato tasso di consistenza strutturale, si rischi di arrivare a ridurre in maniera incongrua l’ambito di applicazione della fattispecie, escludendone quei fenomeni — e potrebbero non essere pochi né di scarsa rilevanza — in cui, pur essendovi comportamenti causalmente efficienti al conseguimento di obiettivi mafiosi, non si riesca tuttavia ad enucleare o a far emergere concreti atti di intimidazione che si dimostrino idonei a ‘‘materializzare’’ il metodo mafioso. L’attuale punctum dolens nell’interpretazione prospettata risiede proprio nella difficoltà di raggiungere un accettabile e pratico bilanciamento tra l’esigenza di non rinunciare a connotare in termini di sufficiente offensività la condotta punita e la necessità di non ridimensionare in misura eccessiva le aspirazioni che hanno accompagnato l’ingresso dell’art. 416-bis nel nostro sistema in guisa di fattispecie idonea a fronteggiare in maniera penetrante ed incisiva i diversi contributi gravitanti nell’orbita dell’universo mafioso. Senza bisogno di richiamare taluni rilievi radicalmente critici nei confronti dell’adozione del modello misto (33), è dato constatare, inoltre, come la configurazione dell’associazione di stampo mafioso quale « associazione che delin(30) L. DE LIGUORI, , opp. citt.; G. SPAGNOLO, op. cit.; dello stesso Autore, Ai confini tra associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, p. 1731; R. LI VECCHI, op. cit.; A. ARCERI, op. cit.; S. SEMINARA, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416-bis c.p.,
da I delitti di criminalità organizzata, vol. I, in Quaderni del C.S.M., 1998, n. 99. Per quanto riguarda la giurisprudenza, si vedano Cass., sez. I, 19 marzo 1992, D’Alessandro, in Giust. pen., 1992, II, 535, Cass., sez. I, 20 novembre 1992, De Feo, ivi, 1994, II, col. 11; Cass., sez. I, 23 marzo 1994, Pulito, ivi, 1994, III, col. 358. (31) Circa la varietà dei possibili ‘‘contributi’’ afferenti alle modalità dell’agire mafioso, specie con riguardo al problema del concorso esterno nell’associazione, si veda G.A. DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 1285 ss. (32) Si potrebbe affermare (come del resto fa anche la sentenza in commento) essere sufficiente, per imputare l’art. 416-bis a tutti i membri del gruppo, che solo alcuni di essi compiano atti di sfruttamento della carica intimidatrice. Resta comunque l’eventualità, almeno in linea teorica, di un sodalizio, già dotato di una carica intimidatrice idonea a raggiungere gli scopi prefissi, in cui nessun affiliato compia atti riconducibili ad uno sfruttamento effettivo della stessa. (33) G.A. DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 85 ss., evidenzia come in generale tale modello si presti a produrre effetti distorsivi sulla determinazione delle responsabilità individuali dei membri dell’associazione. In particolare nell’ipotesi in cui taluno dei soci ponga in essere attività, preparatorie o esecutive, afferenti alla
— 1490 — que » (34), almeno nelle sue prime teorizzazioni, abbia avuto bisogno di proporre un significato del termine ‘‘avvalersi’’ forse più aderente al dato letterale, ma probabilmente anche troppo ristretto per esaurire la gamma degli atteggiamenti e delle modalità attraverso cui l’organismo criminale si impone all’esterno sui consociati (35). Si pensi ai casi in cui l’attesa di un gruppo mafioso circa l’esito di una gara d’appalto o di qualsivoglia procedimento amministrativo, per il risultato di una consultazione elettorale o per il verdetto di una giuria popolare sia nota ai terzi, la libertà di autodeterminazione dei quali, tanto più nei contesti sociali maggiormente turbati, risulta compressa già dalla consapevolezza che in quel territorio lo Stato non è in grado di far rispettare la legalità e viceversa l’organizzazione criminale dispone degli strumenti adatti per imporre comunque il proprio interesse a pregiudizio di terzi. La costrizione della libertà morale degli estranei al sodalizio mafioso non è, nei casi suindicati, né il risultato di specifici atti intimidatori, né il portato di una più o meno convinta adesione ai valori mafiosi, ma deriva da un timore che, lungi dal presentarsi come metus ab intrinseco, scaturisce piuttosto dalla capacità criminale dell’associazione altrimenti dimostrata. È sulla base di queste riflessioni che l’accettazione incondizionata del modello misto ha ultimamente subito un riflusso, sollecitato dalla dottrina, verso posizioni più moderate. Non è tanto il caso di coloro i quali (36), già favorevoli ad una configurazione ‘‘pura’’, hanno in seguito individuato nell’associazione mafiosa una fisionomia solo per certi versi mista; quanto piuttosto quello di chi (37), tra coloro che ritengono indispensabile un’effettiva estrinsecazione della forza intimidatrice, commissione dei reati programmati, il trattamento verrà a risultare identico a quello di chi, pur ricoprendo una funzione analoga, non prenda parte in alcun modo alla perpetrazione del reato scopo. (34) G. DE VERO, op. cit., p. 286 ss.; inoltre dello stesso Autore, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, p. 115. (35) G. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, cit., p. 28, afferma che ‘‘avvalersi’’ dovrebbere essere inteso nel senso di « sfruttare o utilizzare una situazione di superiorità, di privilegio, di vantaggio rispetto agli altri, per realizzare o per cercare di realizzare uno scopo ». È stato tuttavia fatto notare, da G.A. DE FRANCESCO, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, cit., p. 312, e Artt. 416, 416-bis, -416-ter, 417, 418, cit., p. 53 ss., che questa interpretazione pone due inconvenienti tra loro connessi. Ancorare il significato del verbo al concetto di vantaggio, riduce la possibilità di accertare lo sfruttamento effettivo della carica intimidatrice alla constatazione di un risultato che attesti tale utilizzazione, con la conseguenza di poter incriminare il sodalizio solo quando sia molto vicino al raggiungimento degli obiettivi finali. Tale limitazione, oltretutto, opera con maggiore incidenza proprio nei confronti delle associazioni che, più temibili perché più efficienti, sono in grado più delle altre di raggiungere lo scopo senza bisogno di ricorrere a comportamenti esteriormente percepibili. Come esempio, viene spesso indicato quello della gara di appalto da cui una o più imprese concorrenti si ritirino alla notizia, comunque appresa, della partecipazione alla stessa di un’impresa facente capo ad un mafioso notoriamente spregiudicato e interessato ad ottenere quell’appalto ad ogni costo. È stato per contro sostenuto da G. DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, cit., p. 286 ss., che i casi di intimidazione senza apparente minaccia, pur essendo « un fenomeno certamente osservabile sul terreno dell’esperienza sociale », rappresentano comunque episodi privi di alcuna attualità di condotta delinquenziale che possa valere a giustificarne l’incriminazione. Perciò bisognerebbe « escludere dall’economia della fattispecie quelle situazioni, specie di omertà, che non sono conseguenza diretta della forza di intimidazione del gruppo, ma costituiscono espressione di una più o meno ‘‘spontanea’’ sottocultura che considera comunque un valore il rifiuto di collaborazione sopra detto ». Tuttavia, a tacere della pericolosità che reca con sé il coinvolgimento di riflessioni su culture ‘‘ambientali’’ per il rischio di scivolare in ragionamenti presuntivi e generalizzanti, non può comunque sfuggire l’illiceità di una situazione, come quella poc’anzi indicata, in cui la partecipazione dell’impresa mafiosa ad una gara d’appalto è certamente idonea a turbare la serenità e quindi la regolarità del suo svolgimento. (36) G. FIANDACA, Criminalità organizzata e controllo penale, in Indice pen., 1991. p. 22. (37) A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, cit.; G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit. Concorda pienamente con quest’ultimo A. MADEO, Riscossione organizzata di tangenti da parte di pubblici ufficiali, intimidazione dei concussi e configurabilità dell’associazione di tipo mafioso, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 1203.
— 1491 — ha ritenuto di dover apportare temperamenti atti ad ovviare agli inconvenienti segnalati. Emerge allora una prospettazione in certo qual modo ‘‘sincretistica’’, in cui gli opposti orientamenti contribuiscono a ‘‘comporre’’ una figura di reato che per taluni aspetti supera quella postulata dalla sentenza in commento. Ferma la necessità che il sodalizio punibile abbia maturato quella carica intimidatrice (cui si è testé accennato) capace di ingenerare nell’ambiente circostante un alone di assoggettamento ed omertà (38), risulta invece parzialmente innovativa la concezione del profilo dinamico mediante il quale può esplicarsi quella stessa carica. Da un lato, infatti, appare necessario e sufficiente ad integrare il modello tipico l’accertamento della più volte ricordata carica intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile, idonea a suscitare nei terzi un alone di sudditanza altrettanto diffuso ed attuale (39). Dall’altro lato, l’« avvalersi » della forza di coazione del vincolo associativo e delle conseguenti condizioni di assoggettamento ed omertà non viene più ricondotto alla necessità che gli affiliati pongano in essere concreti atti di violenza o minaccia (40). Sollevato l’interprete, grazie al ruolo stabilizzante assegnato alla carica intimidatrice, dall’onere di concedere soddisfazione teorica alle esigenze di materialità del fatto tipico, diviene possibile riconoscere adeguata rilevanza all’elemento soggettivo del delitto, ammettendo che lo sfruttamento della stessa carica intimidatrice, peraltro non vincolato a specifiche modalità, rappresenti pur sempre una componente del ‘‘programma sociale’’: dunque un elemento indefettibile della fattispecie, ancorché destinato a trovare concreta attuazione soltanto in via residuale qualora se ne prospetti il bisogno per il conseguimento degli scopi. I membri del sodalizio punibile ai sensi dell’art. 416-bis, pertanto, dovranno rappresentarsi, (38) La giusta valutazione della forza di intimidazione nell’economia della fattispecie consente allora di ridimensionare la portata di quel presunto processo di ‘‘oggettivazione’’ della condotta tipica, da L. DE LIGUORI rinvenuto nella struttura costitutiva dei sodalizi mafiosi a confronto con quella tradizionale dei reati associativi: si vedano dello stesso Autore, Artt. 416-bis c.p.: brevi note in margine al dettato normativo, cit., p. 1524; L’associazione mafiosa: pregiudiziali sociologiche e problemi interpretativi, cit., p. 55; La struttura normativa dell’associazione di tipo mafioso, cit., p. 1616. (39) Entro questi limiti si può allora convenire con l’affermazione contenuta nella sentenza in commento, secondo la quale non è « condivisibile la designazione della diffusività della forza di intimidazione come elemento inerente al programma, e dunque virtuale, anziché effettuale... ». Tale requisito è precisamente elemento costitutivo patrimonio e strumento, utilizzabile ma non necessariamente utilizzato, del sodalizio mafioso. Esistono piuttosto delle differenze nel modo di intendere il funzionamento della relazione tra la forza di intimidazione e le conseguenti condizioni di assoggettamento ed omertà. Secondo A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, cit., p. 69, requisito minimo per poter imputare l’art. 416-bis è l’esistenza della carica di intimidazione, cui fanno seguito assoggettamento ed omertà solo qualora la prima sia sfruttata: la capacità di intimidire deve cioè essere « idonea a determinare, se utilizzata, una condizione di assoggettamento e omertà ». Per G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 121 ss., invece, la carica di intimidazione, benché non sfruttata attivamente, già di per sé determina in via inerziale nei terzi condizioni di assoggettamento e di omertà « primordiali » e generiche, diverse da quelle individuali prodotte in chi è soggetto passivo dell’esercizio della forza di intimidazione. (40) Anzi, l’eventuale accertamento di concreti atti di intimidazione non è di per sé indicativo dell’esistenza di un’associazione mafiosa, ma lo è nella misura in cui essi appaiono ricollegabili ad una effettiva capacità criminale del sodalizio, di cui gli affiliati siano consapevolmente in grado di poter disporre. In proposito è bene ricordare che: o l’organismo criminale non avrà ancora maturato una propria carica intimidatrice e allora, lungi dall’essere considerato mafioso per il solo fatto della ripetizione di uno o più atti di violenza o minaccia, danneggiamento, ecc., potrà meritare semmai la qualifica di associazione per delinquere comune; oppure si tratta proprio di un sodalizio perfetto ai sensi dell’art. 416-bis c.p., in cui il ricorso a nuovi atti intimidativi appare tuttalpiù funzionale al rafforzamento della carica derivante dal vincolo associativo.
— 1492 — da una parte, il funzionamento del meccanismo di condizionamento ‘‘inerziale’’ sui terzi, conseguente alla stessa maturazione di una capacità criminale all’interno del gruppo e, dall’altra, potranno ben riservarsi, per l’eventualità che il suddetto meccanismo non funzioni, di sfruttare in via concreta ed attuale, attraverso il compimento di atti intimidativi, l’intera potenzialità criminale dell’organizzazione. L’individuazione dei requisiti minimi e sufficienti ad integrare il delitto di associazione mafiosa nel momento in cui il sodalizio appare dotato di una carica intimidatrice autonoma (41), tale da sprigionare condizioni di assoggettamento ed omertà, pur richiamando alla mente il modello associativo ‘‘puro’’, lo arricchisce, invero, di note meglio rispondenti alla reale tensione programmatica insita nelle associazioni. In altre parole, il senso delle ultime elaborazioni dottrinali non esclude una riproposizione del delitto in esame quale reato (meramente) associativo, a condizione, beninteso, che la stessa risulti corroborata dalle precisazioni ermeneutiche e concettuali finora delineate, in quanto suscettibili di riequilibrare il piano oggettivo e soggettivo della fattispecie in una dimensione compatibile con il testo normativo (42). Rispetto al panorama appena tracciato (43), le affermazioni contenute nella sentenza in commento, concentrando tout court il discrimine tra sodalizio mafioso punibile e organismo mafioso non punibile (se non a titolo di associazione per delinquere comune) nell’avvalersi in maniera concreta o meno della carica intimidatrice, finiscono indubbiamente con l’appiattire il processo di evoluzione e costituzione delle associazioni mafiose nella morsa di un’alternativa troppo rigida e radicale e, perciò stesso, con l’offrire un’immagine solo parziale delle relative condotte suscettibili di integrare la fattispecie. Viceversa, deve potersi ammettere la riconducibilità all’art. 416-bis anche di quei sodalizi che, dotati di capacità criminale riconosciuta, siano comunque disponibili a farvi ricorso, laddove necessario, per raggiungere i propri fini. Resta da vedere quali possano essere le ragioni alla base di una almeno momentanea difficoltà dei giudici di legittimità a recepire modelli più elastici per l’imputazione del delitto di associazione mafiosa. 4.
È stato giustamente posto in evidenza come lo studio intorno alla fatti-
(41) G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 131. (42) G. TURONE, op. ult. cit., pp. 120 e 124 riconduce questa stessa configurazione della fattispecie nell’ambito del modello ‘‘misto’’ « solo nella parte in cui essa presuppone ‘‘un’attività strumentale, esterna ed ulteriore rispetto al mero fenomeno associativo’’, ma non nella parte in cui essa presuppone che tale attività debba proiettarsi direttamente verso la ‘‘realizzazione delle finalità del sodalizio criminoso’’ o addirittura risolversi in ‘‘un inizio di realizzazione del programma criminoso’’ ». A noi sembra che tale affermazione tuttavia non muti nella sostanza i termini della questione. Qualunque sodalizio, infatti, concepito quale ente che si regge sopra una propria struttura organizzativa, non può essere disgiunto dalla verificazione di attività esterne che non siano proiettate direttamente verso le finalità associative. Si vuol dire che il fatto che tali ultime attività vengano o meno poste in essere è da considerarsi penalmente irrilevante. (43) Assai lontano da questa ricostruzione appare G. DE VERO. Se, per un verso, l’Autore, in La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: con fili sostanziali e processuali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, p. 48, accetta « la tesi secondo cui una determinata estrinsecazione dell’attività mafiosa può consistere anche nel semplice sfruttamento di esiti intimidativi pregressi, al di fuori di un sia pure implicito atteggiamento intimidativo... », in seguito, in I reati associativi nell’odierno sistema penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, p. 405, ribadisce tuttavia la propria preferenza per un modello di associazione mafiosa che delinque, al punto che « se si valorizza in questi termini il metodo mafioso, passa chiaramente in secondo piano, se addirittura non fuoriesce dall’orizzonte della fattispecie, la circostanza che l’associazione sia dotata o meno di un patrimonio di ‘‘fama’’ intimidatrice acquisita attraverso comportamenti pregressi ».
— 1493 — specie di cui all’art. 416-bis, prima ancora che di questioni teoriche, abbia dovuto farsi carico di problemi pratici onde risolvere soprattutto difficoltà di ordine probatorio a rinvenire elementi sicuri (e non meramente indizianti) su cui fondare l’imputazione e la condanna per il delitto in esame (44). I principali ostacoli al riguardo derivano dalla misteriosa e inquietante segretezza, assistita da omertà interna ed esterna e dal riferimento a peculiari valori culturali, compreso un linguaggio spesso imperscrutabile, di cui si ammantano i gruppi di natura mafiosa. C’è da supporre che queste difficoltà, nella loro drammatica entità, abbiano suggestionato soprattutto i magistrati, certo non estranei alle questioni speculative, ma altresì assillati dalla necessità di poter disporre dell’art. 416-bis come di uno strumento pratico che non sia continuamente paralizzato da certi suoi ventilati vizi strutturali. A ciò, forse, si deve, sul piano sostanziale, la preferenza, manifestata dai giudici in questi ultimi anni, per il modello associativo ‘‘misto’’ come quello che poteva escludere dalla fattispecie le ipotesi in cui, per la mancanza di una più immediata constatazione di atti di violenza o minaccia, riusciva assai difficile la prova degli elementi costitutivi tipici (45). Sul piano strettamente processuale, invece, il principale rimedio escogitato dal legislatore è stato il massiccio ricorso ai c.d. ‘‘collaboratori di giustizia’’ o ‘‘pentiti’’, preceduti dal ricordo di analoghe misure disposte in materia di terrorismo, sul presupposto che « nei processi relativi alle attività di organizzazioni criminose operanti fisiologicamente in regime di segretezza e di rigorosa compartimentazione interna nel vigore di una spietata legge di omertà [...] le fonti di prova di più risolutiva determinatezza probatoria non possono non essere [...] provenienti dal loro stesso interno... » (46). La sempre maggiore incidenza di questi soggetti nel processo penale non è stata, e non è tuttora, priva di problemi, a cominciare da quelli relativi all’attendibilità delle dichiarazioni rese da partecipi già totalmente immedesimati in organizzazioni cementate da una ferrea disciplina. Ciò nonostante, interessa considerare in questa sede soprattutto il contributo di conoscenza che i collaboratori di giustizia hanno recato all’indagine sul fenomeno mafioso. In particolare viene da domandarsi se non vi sia spazio sufficiente per utilizzare tali nuove acquisizioni, oltre che come prezioso strumento di indagine, anche come testimonianza, da un lato, di un processo evolutivo che ha portato la mafia a sviluppare al suo interno più articolate e variegate compartimentazioni e, dall’altro, di una certa lontananza della stessa da quegli stereotipi cui il legislatore si è ispirato, asseverandoli, nel 1982. (44) Si considerino al riguardo G. DI LELLO FINUOLI, op. cit., coll. 249 ss.; R. CERAMI, op. cit., p. 25 ss.; G. FIANDACA, L’associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, cit., col. 306, § 4.1; nonché La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma in Foro it., 1995, parte V, col. 28, § 8.2; A. MADEO, Associazione di tipo mafioso e pubblici ufficiali concussori: un binomio incompatibile?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 345 ss.; R. MINNA, La mafia in Cassazione, Firenze, 1993, p. 84 ss.; G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 126 ss.; E. GIRONI, op. cit., p. 337 ss. (45) Si noti l’influenza dei risvolti probatori nel processo di ricostruzione teorica della fattispecie. Mentre i primi sostenitori del modello ‘‘puro’’, preoccupati soprattutto di poter disporre di uno strumento in grado di opporsi validamente alla delinquenza mafiosa, indicavano, tra i motivi alla base delle conclusioni formulate, proprio l’estrema difficoltà di provare in taluni casi l’esercizio effettivo dell’intimidazione da parte dei membri del sodalizio, analogamente i seguaci del modello ‘‘misto’’, prefiggendosi in primo luogo il rispetto del principio di materialità, sono stati spinti da preoccupazioni di tipo (pur sempre) probatorio a restringere l’ambito di rilevanza del delitto in esame a quei soli casi in cui appaia palese ed immediato il ricorso ad atti intimidativi. (46) Cass., sez. I, 4 febbraio 1988, Barbella, cit. da R. Minna, op. cit., p. 98.
— 1494 — Ecco allora ritornare di attualità quelle critiche, in verità mai sopite (47), rivolte ad evidenziare nel 3o comma dell’art. 416-bis una formulazione che, nonostante la matrice sociologica (ed anzi proprio a causa di questa), pecca di indeterminatezza e per certi versi addirittura di tautologia. Insomma, dopo molti sforzi, resta il problema di fondo additato fin dall’ingresso della nuova fattispecie: un problema derivante da un’acritica e precipitosa recezione da parte del legislatore di concetti, come quelli di ‘‘intimidazione’’, ‘‘assoggettamento’’ ed ‘‘omertà’’, che sono stati enucleati in sede di applicazione delle misure di prevenzione (48) e che, per ciò stesso, sono propri di un livello « meramente descrittivo qual è necessariamente quello di una pronuncia giudiziale » (49). Sarebbe invece di maggior aiuto poter contare su di una fattispecie, il cui tenore letterale esaltasse più esplicitamente il ruolo dell’apparato organizzativo, sia personale che strumentale, da cui i sodalizi mafiosi dipendono ancor più delle comuni associazioni per delinquere. Il versante materiale del fatto tipico, d’altronde, dovrebbe essere corroborato dall’esplicito riferimento all’efficienza criminale del sodalizio come ad un elemento di distinzione rispetto ad altre aggregazioni criminose, consistente nella relativa facilità a conseguire risultati vantaggiosi senza doversi esporre alla repressione statuale manifestandosi all’esterno (50). Per tale via si raggiungerebbe forse quel punto di equilibrio tra esigenze di repressione, da una parte, e garanzie di tassatività e materialità del precetto penale, dall’altra, la cui mancanza è stata ripetutamente lamentata nel delitto di associazione mafiosa (51). (47) G. INSOLERA, op. cit., pp. 691-692; L. DE LIGUORI, L’associazione mafiosa: pregiudiziali sociologiche e problemi interpretativi, cit., p. 54; nonché La struttura normativa dell’associazione di tipo mafioso, cit., pp. 1610-1611, § 2; R. LI VECCHI, op. cit., p. 1031, § 8; G. FIANDACA-F. ALBEGGIANI, op. cit., col. 83; A. ARCERI, op. cit., p. 320. (48) G. FIANDACA, Commento, cit., p. 259. (49) L. DE LIGUORI, Art. 416-bis c.p.: brevi note in margine al dettato normativo, cit., p. 1527, il quale sottolinea altresì, in La struttura normativa dell’associazione di tipo mafioso, cit., p. 1614, come al suo ingresso la nuova fattispecie apparisse già superata dagli sviluppi fenomenologici, prevalentemente di tipo imprenditoriale, manifestati dalla criminalità mafiosa nel secondo dopoguerra. Può domandarsi se non sia allora il caso di rinunciare all’apporto di una fattispecie specificamente destinata alla repressione del fenomeno mafioso, per rimettersi alla previsione del delitto di associazione per delinquere. Tuttavia, almeno in assenza di un’adeguata riforma di quest’ultimo, quanto è già stato detto a proposito delle ragioni che hanno motivato l’introduzione dell’art. 416-bis è sufficiente ad escludere un rimedio che sarebbe anacronistico e retrogrado. La direzione di un intervento di riforma legislativa deve essere quella di precisare, e non già sfumare, i contorni delle modalità mafiose tipicamente rilevanti. Appare invece disposto a fare a meno di un’autonoma previsione incriminatrice per le associazioni mafiose G.A. DE FRANCESCO, Societas sceleris, cit., p. 119, pur prospettando la necessità di una riforma che conduca a modificare sensibilmente la struttura della fattispecie di associazione per delinquere. Diversamente G. DE VERO propone l’introduzione nel codice penale, accanto all’art. 416-bis opportunamente rivisto, di una specifica fattispecie di associazione mafiosa ‘‘politica’’, ritagliata sulle linee tracciate dal legislatore per il delitto di associazione segreta di cui all’art. 1 della legge n. 17/1982. (50) In tal modo potrebbe forse rinunciarsi definitivamente a connotare il delitto come reato a dolo specifico, evitando una prolissa rassegna delle finalità tipiche, essendo oramai acclarato che i sodalizi mafiosi sono capaci di intraprendere qualsiasi attività, illecita e non, che garantisca loro un ritorno vantaggioso e lucrativo. Onde smorzare sul nascere possibili rilievi di incompatibilità con il dettato di cui al 1o comma dell’art. 18 Cost., appare tuttavia indispensabile accentuare le attitudini necessariamente criminose dell’organizzazione, predisposta ad un programma quantomeno strumentale agli obiettivi ultimi del sodalizio. In sostanza l’associazione punita dovrebbe concentrare la propria valenza antigiuridica sulla sua stessa ragione di esistenza, in quanto ontologicamente rivolta a suscitare situazioni delittuose ancorché per scopi ‘‘finali’’ non illeciti. Una versione plausibile della disposizione potrebbe allora essere la seguente: « L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte dispongono di un’organizzazione dotata di un’obiettiva e rilevabile efficienza criminale, idonea e diretta a suscitare nei terzi, anche attraverso il compimento di atti delittuosi, condizioni di assoggettamento e di omertà, per conseguire ovvero assicurarsi profitti o vantaggi ingiusti ». (51) Si pone decisamente in controtendenza G.M. FLICK, L’associazione a delinquere, cit., p. 851,
— 1495 — 5. L’esame della presente sentenza ci impone di prendere rapidamente in considerazione l’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p. Si può osservare, infatti, come i giudici di legittimità si siano pronunciati sull’imputazione del reato associativo nei confronti di un sodalizio operante in territori diversi da quelli tradizionalmente affetti dalla delinquenza mafiosa e in relazione ad interessi illeciti derivanti da attività collegate al gioco d’azzardo. Si tratta, in buona sostanza, di alcune di quelle « altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo, perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso ». La necessità di rendere l’ultimo comma dell’art. 416-bis costituzionalmente compatibile con i principi di legalità e tassatività del precetto penale, costringe l’interprete, com’è noto (52), ad intendere codesta disposizione come una ripetizione superflua (53) di quanto già espresso dal precedente 3o comma. Ciò non impedisce, peraltro, di ravvisare nella disposizione finale dell’art. 416-bis un’esplicita conferma del bisogno di riconoscere, nella figura delittuosa in discorso, un maggiore livello di ‘‘astrazione’’: del fatto, cioè, che la stessa è rivolta a punire non già soltanto le associazioni mafiose tradizionali, bensì tutti quei sodalizi che, a prescindere dalle denominazioni e dal contesto territoriale in cui operano, adottino determinate modalità di comportamento tipico (54). Si impone, tuttavia, da parte dell’interprete, un’ulteriore assunzione di responsabilità nella direzione di evitare, attraverso il facile ricorso a tale ultima disposizione, di dilatare eccessivamente l’ambito di incidenza pratica della fattispecie in esame. È chiara a tutti, infatti, la provenienza da un ben preciso contesto socio-criminale dei parametri inseriti nel 3o comma dell’art. 416-bis. Nel momento in cui questo delitto venga finalizzato a punire condotte esplicatesi in qualsiasi zona del territorio nazionale, sorgerà necessariamente il problema di rintracciare l’intimidazione, l’assoggettamento e l’omertà in tessuti sociali diversi da quello in relazione al quale esse sono state enucleate. Appare, quindi, in tutta la sua evidenza il rischio che la trasposizione della fattispecie in aree e in settori della vita sociale in cui manchi quel substrato quasi ‘‘naturale’’ per la produzione delle condizioni che consentono alla tradizionale metodologia mafiosa di manifestarsi in maniera immediatamente efficace, conduca a ritenere mafiose forme criminali che ne rimangono invece ai margini. È il caso, più di tutti del confronto degli elementi costitutivi richiesti dall’art. 416-bis con le dinamiche di gestione del potere pubblico o propriamente ‘‘politico’’ (55): ma è secondo cui l’art. 416-bis descrive esaurientemente la fenomenologia criminale mafiosa nella sua poliedricità, senza porre nemmeno probleml di tassatività. (52) Ved. per tutti G. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, cit. p. 19 ss. (53) Nonostante l’omessa indicazione, la dottrina non dubita del fatto che anche per le ‘‘altre associazioni’’ di stampo mafioso siano richiesti quali requisiti costitutivi l’assoggettamento e l’omertà. L. DE LIGUORI, La struttura normativa dell’associazione di tipo mafioso, cit., p. 1612, G. SPAGNOLO, op. ult. cit., p. 95 ss.; A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, cit., p. 104 ss., G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 153 ss. (54) Oltre alla dottrina già citata si veda D. ASCHERO, Criminalità di tipo mafioso nell’Italia settentrionale: i primi processi, in Quest. giust., 1988, p. 295. (55) Si ricordi il celebre caso Teardo, in occasione del quale è stata precisata la differenza tra mero metus publicae potestatis e vera e propria intimidazione rilevante ai sensi dell’art. 416-bis. Si veda, per un dettagliato resoconto di questa vicenda nei vari gradi di giudizio, l’ordinanza di rinvio del giudice istruttore di Savona del 24 agosto 1984, in Difesa pen., 1984, n. 6 e la conseguente sentenza di esclusione del delitto di associazione mafiosa, emessa dal Tribunale di Savona l’8 agosto 1985, in Quest. giust.,
— 1496 — anche il caso, come si evince dalla sentenza in commento, di gruppi criminali aventi interessi limitati a settori ben precisi nell’ambito delle attività economicoimprenditoriali. In definitiva, l’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p. si presta ad assumere, suo malgrado, un ruolo di detonatore, la funzione, cioè, di evidenziare i vizi strutturali di indeterminatezza e carenza di tassatività che affliggono la fattispecie, ponendosi quale ulteriore pungolo affinché il legislatore intervenga a riformare la disciplina delle organizzazioni mafiose mediante formule più rigorose o, quanto meno, attraverso un’opera di revisione della configurazione delle fattispecie comuni, in linea con l’evolversi della loro dimensione criminologica. DOMENICO NOTARO Dipartimento di diritto pubblico dell’Università di Pisa, Sezione di diritto penale
1987, p. 416 ss. Si vedano, inoltre, la pronuncia della Corte d’appello di Genova del 22 gennaio 1988 e quella di annullamento e rinvio emessa dalla VI sezione penale della Corte di Cassazione il 10 giugno 1989, entrambe in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 1177 ss., con relativa nota di A. MADEO a p. 1197 ss. Infine è possibile rintracciare la sentenza della Corte d’appello di Genova (giudice di rinvio), emessa il 17 dicembre 1990, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 324 ss. e relativa nota di A. MADEO, p. 339 ss.
— 1497 — CASSAZIONE PENALE — Sez. III — 6 novembre 1998 (dep. 10 febbraio 1999) Pres. Tridico — Rel. Rizzo P.M. Di Zenzo (concl. diff.) — Ric. Cristiano Reati contro la moralità pubblica e il buon costume — Delitti contro la libertà sessuale — Violenza carnale — Valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in assenza di riscontri oggettivi della condotta costrittiva — Inattendibilità di esse. Ai fini della responsabilità per il reato di violenza carnale le dichiarazioni accusatorie della vittima del reato vanno sottoposte a una rigorosa analisi in ordine alla loro attendibilità, soprattutto quando ben si conciliano con la versione dei fatti rappresentata dall’imputato le circostanze di fatto, costituite ad esempio dall’assenza di segni di una colluttazione o comunque di una vigorosa resistenza della vittima al suo aggressore ovvero il fatto che i jeans che la vittima indossava fossero, anche se in parte, sfilati, operazione questa che richiede la fattiva collaborazione della persona che li porta (1).
—————— (1)
Ancora in tema di sindacato sulla logicità della motivazione (a proposito del caso dei ‘‘blue-jeans’’ di fronte alla Corte di cassazione).
1. Prima che nelle riviste specializzate (1), la sentenza, che qui si annota, ha trovato spazio ed attenzione sui grandi mezzi di comunicazione di massa, nazionali ed internazionali. Di qui la sua eco è giunta sin dentro le aule del Parlamento (2). Tale imprevista notorietà non è, però, dipesa dal principio di diritto affermato nella circostanza dai supremi giudici, bensì da alcune ‘‘improvvide’’ affermazioni in fatto contenute nella motivazione della decisione. In particolare ha suscitato scalpore la pronuncia nella parte in cui è sembrata escludere che si possa commettere violenza sessuale nei confronti di una donna che indossi pantoloni di tipo jeans dal momento che, si legge, ‘‘ è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di un’operazione che è già difficoltosa per chi li indossa’’. (1) Molte di queste considerazioni sono già state svolte dallo scrivente in I jeans... stanno stretti alla Cassazione (a proposito di una recente sentenza), pubblicato nella Gazz. giur., 1999, n. 42, p. 7 s. (2) Cfr., tra gli altri, GIUS. AMATO, Il giudizio sull’attendibilità della vittima deve tener conto delle condizioni psicologiche, in Guida al diritto, 1999, n. 8, p. 89 s.; M. BERTOLINO, Libertà sessuale e bluejeans, in questa Rivista, 1999, p. 694 s.; G. CAMPANATO, Cassazione, violenza sessuale, jeans, in Quest. giust., 1999, p. 341 s.; V. CARBONE, Alla ricerca dell’arte di giudicare: perché i giudici credono ancora alla vis grata puellae, in Corr. giur., 1999, p. 371 s.; N. CIARAVOLO, La Corte di cassazione non può ricercare alternative alle risultanze processuali, in Guida al diritto, 1999, n. 8, p. 87 s.; G. DI CHIARA, Nota a Cass., Sez. III, 6 novembre 1998, Cristiano, in Foro it., 1999, II, c. 163 s.; G. FIANDACA, Violenza su donna ‘‘in jeans’’ e pregiudizi nell’accertamento giudiziario, ivi, 1999, II, c. 165 s.; F.M. IACOVIELLO, Toghe e jeans. Per una difesa (improbabile) di una sentenza indifendibile, in Cass. pen., 1999, p. 2204 s., e A. NAPPI, I jeans e la logica: il vizio di motivazione tra legittimità e merito, in Gazz. giur., 1999, n. 42, p. 1 s.
— 1498 — Sedimentatesi le prime reazioni, è forse opportuno, riportando la sentenza nella sede di un commento tecnico-giuridico, tentare una lettura della vicenda processuale ad essa connessa. Questa aveva avuto inizio nel luglio 1992 quando R.P., allora diciottenne, aveva denunciato alla Questura di Potenza di aver subito violenza sessuale da parte del proprio istruttore di guida, C.C. Iniziatosi a carico di quest’ultimo procedimento penale per i reati di violenza sessuale, violenza privata, atti di libidine, lesioni personali e atti osceni in luogo pubblico, il Tribunale di Potenza, con sentenza del 29 febbraio 1996, condannava, però, l’imputato per il solo reato di atti osceni in luogo pubblico, mentre lo proscioglieva dalle rimanenti accuse per insussitenza del fatto. La decisione di primo grado veniva, però, totalmente ribaltata dal giudice di seconda istanza. A seguito di gravame sia del pubblico ministero sia dell’imputato, infatti, la Corte d’appello di Potenza, con sentenza del 19 marzo 1998, dichiarava C.C. responsabile di tutti i reati a lui contestati e gli irrogava una pena di due anni e dieci mesi di reclusione. Contro tale sentenza l’imputato proponeva atto di impugnazione di fronte alla Suprema Corte di Cassazione per difetto di motivazione sostenendo che la Corte territoriale aveva affermato la sua responsabilità con argomenti non coerenti con le risultanze processuali. La Cassazione accoglie, dunque, con la pronuncia in esame, il ricorso presentato ritenendo che la sentenza impugnata meriti l’annullamento in quanto ‘‘carente di adeguato e convincente apparato argomentativo’’. Per la migliore comprensione di tale ultimo passaggio, conviene, a questo punto, cercare di chiarire quali siano, in generale, i limiti della deducibilità in Cassazione dei vizi del ragionamento probatorio che il giudice esprime nella motivazione in fatto della decisione di merito (3). 2. Non sarà superfluo preliminarmente richiamare alcuni dati di comune conoscenza. In particolare è noto come la tematica della rilevabilità del vizio di motivazione nel giudizio di legittimità risulti strettamente connessa alla più ampia questione relativa al ruolo dalla Cassazione. Se, vigente il codice di procedura penale del 1930, al ruolo tradizionale della Corte, custode della esatta osservanza e della uniforme interpretazione della legge nonché dell’unità del diritto oggettivo nazionale (così recita l’attuale art. 65 ord. giud.) — cui corrisponde un giudizio limitato alle questioni di diritto — si era venuto sovrapponendo per prassi un diverso modello di Corte Suprema, più attenta alla giustizia del caso concreto e portata ad estendere il proprio controllo sino ad una rivalutazione del fatto, il nuovo codice di rito penale ha invece inteso caratterizzare il giudizio di cassazione come un momento di controllo di legittimità (4). (3) Con ciò si denuncia anche il particolare punto di vista da cui si intende condurre la presente analisi: il difficile tema del sindacato della Corte di cassazione sulla logicità della motivazione. Per un approfondimento degli aspetti di diritto sostanziale toccati dalla pronuncia in esame, si rinvia alle considerazioni già espresse da M. BERTOLINO, Libertà sessuale e blue-jeans, cit., passim. (4) Sulla struttura del giudizio di Cassazione nel nuovo c.p.p., si legga, per tutti, G. SPANGHER, voce Suprema Corte di cassazione (ricorso per), in Dig. disc. pen., vol. XIV, Torino, 1999, p. 124 s. Sarà bene affrontare in limine al discorso, una questione ‘‘di nomenclatura’’, connessa all’utilizzo della coppia ‘‘legittimità-merito’’, attesa la pluralità di significati attribuiti al termine ‘‘merito’’. Senza la pretesa di risolvere qui la questione, si vuole semplicemente chiarire con quel significato ci si intende avvalere di questi termini, in modo tale che eventuali dissensi alle tesi che intendiamo sostenere in questo lavoro siano dovute a ragioni sostanziali e non a fraintendimenti terminologici. Autorevole dottrina ritiene che con ‘‘decisione nel merito’’ si debba intendere quella con la quale il giudice sentenzia sulla fondatezza della domanda, con cui, in altre parole, si afferma o si nega l’esistenza della situazione giuridica, in cui risiede l’oggetto del processo. In questo senso essa si distingue dalla decisione avente un contenuto meramente processuale, nella quale il verdetto si riduce all’affermazione che non esistono i presupposti per guidicare. Partendo da tali premesse, non si può non convenire sul fatto
— 1499 — L’intervento di maggior rilievo in questa direzione è stato operato proprio con riguardo ai limiti della deducibilità del difetto di motivazione, consapevole il legislatore delegato che proprio nell’esercizio del potere di verifica delle patologie della parte motiva della sentenza, i giudici della Cassazione avessero finito, in passato, per occuparsi indirettamente anche del fatto (5). Sul piano normativo la risposta è stata quindi quella ‘‘non già [di] escludere qualsiasi sindacato sulla motivazione, ma pittosto [di] contenerlo, in modo da evitare che il controllo della Cassazione, anziché sui requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità della motivazione, si eserciti, muovendo dagli atti del processo, sul contenuto della decisione’’ (6). A tal fine il nuovo codice ha previsto, come è noto, tra i casi di ricorso in cassazione uno specifico motivo relativo ad eventuali patologie della struttura argomentativa delle sentenze (art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p). Accanto alla tradizionale figura della ‘‘mancanza’’ del discorso giustificativo (da intendersi, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza, non solo come totale carenza della parte espositiva ma anche come assenza di specifici momenti esplicativi, sempre che, però, questi siano ineliminabili nel rapporto tra i temi sui quali si deve esercitare il giudizio e il contenuto di questo) è stata prevista come causa di annullamento di una sentenza la ‘‘illogicità’’ della sua motivazione, a patto che tale illogicità appaia ‘‘manifesta’’ e ‘‘risulti dal testo del provvedimento impugnato’’. Non a caso è su quest’ultima tipologia del vizio di motivazione che si concentrano le maggiori tensioni interpretative ed applicative così come dimostra anche la sentenza in esame. Infatti, se puramente trasposto in ambito giuridico, il concetto di illogicità appare ancora un contenitore non sufficientemente definito in maniera specifica: la vaghezza dei suoi limiti rinvia al problema relativo al procedimento conoscitivo che il giudice pone in essere allo scopo di formulare il cosiddetto giudizio di fatto. Gli approcci della scienza giuridica alla natura del giudizio di fatto sono stati nel tempo diversi. Posto che nel processo il giudice è chiamato a ricostruire un evento del passato — del quale non ha avuto conoscenza per percezione diretta — movendo dalle tracce che di quell’evento permangono nel presente, si possono individuare grosso modo (dovendo schematizzare per contenere in poche righe un problema così complesso) due modelli descrittivi contrapposti (7). Un orientamento più tradizionale, per lungo tempo prevalente, si basa su una concezione formalistico-deduttiva dell’attività di valutazione del giudice. La deciche ‘‘nulla impedisce d’immaginare una sentenza di merito pronunciata in sede di cassazione, ogniqualvolta la Corte, pur astenendosi dall’apprezzamento delle prove, che non le è consentito, accerti l’inesistenza della situazione giuridica su cui si contende’’, come quando ritenga che il reato è estinto o che il fatto non è previsto dalla legge come reato (i riferimenti sono a F. CORDERO, voce Merito (diritto processuale), in Noviss. Dig. it., vol. X, Torino, 1968, p. 578 s.). Invero, il vocabolo ‘‘ merito’’ è sovente usato (specialmente nella prassi) anche con un diverso significato per indicare la quaestio facti dibattuta nel processo. La decisone di merito implica, in questa differente accezione, necessariamente un giudizio storico in ordine al fatto o ai fatti costitutivi dell’imputazione, al quale si perviene tramite una valutazione delle prove. In questo senso essa si distingue dal controllo di legittimità che è circoscritto al profilo legale di una pronuncia giurisdizionale, inteso a verificiare se sia stata commessa una violazione di legge (così, tra gli altri, A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 2a ed., 1999, p. 39-42). La difficoltà di prendere posizione è aggravata dal fatto che nello stesso codice di rito il termine ‘‘merito’’ appare utilizzato in ambedue i significati: esempio di uso nella prima accezione si ha nell’art. 527 comma 1 c..p.p., mentre nel secondo significato esso è utilizzato negli artt. 45, 305, 316, 319 c.p.p. Ed con quest’ultimo valore semantico, per comodità, esso verrà impiegato nel presente lavoro. (5) Sul modo in cui il controllo sul vizio di motivazione veniva esercitato sotto il vigore del codice del 1930, vedasi E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 234 s. (6) Cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Suppl. ord. alla Gazz. Uff. n. 250 del 24 ottobre 1988, p. 132. (7) Per questa bipartizione, M. VOGLIOTTI, La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, in E. MARZADURI (coordinato da), Atti del procedimento penale. Forme e struttura, Torino, 1996, p. 39 s.
— 1500 — sione, così, sembrerebbe sul piano logico, potersi ridurre ad un sillogismo ovvero ad una concatenazione di sillogismi. Tale raffigurazione del ragionamento probatorio supporta l’ulteriore idea che il processo sia in grado di produrre, da premesse certe e attraverso un meccanismo sostanzialmnete meccanico e avalutativo, conclusioni necessarie, dotate cioè del carattere dell’irrefutabilità logica. Una più recente dottrina (8) ha però sostenuto che la logica di cui si avvale il giudice non sarebbe di tipo formale-sillogistico, bensì di tipo argomentativo. La decisione del giudice non si situerebbe nel campo del certo e del logicamente inconfutabile, bensì in quello del probabile e del ragionevole. Nella valutazione delle prove e nella interpretazione dei fatti il giudice procederebbe per inferenze successive. Il passaggio dal dato indiziante al risultato probatorio verrebbe garantito da regole-ponte, leggi generali di connessione tra eventi, desunte induttivamente da esperienze particolari. Ora non tutti i criteri inferenziali utilizzati dal giudice, però, avrebbero lo stesso valore. Solo le leggi naturali o scientifiche offrirebbero un livello di affidabilità vicino alla certezza; e quindi il loro impiego nell’inferenza sarebbe in grado di garantire carattere di certezza o di irrefutabilità logica al risultato. Nelle altre ipotesi, di impiego di regole ipocodificate (è il caso delle generalizzazioni empiriche), per il resto molto diffuse nella prassi (9), il risultato avrebbe invece carattere di probabilità (10). Conseguenza di ciò sarebbe che in relazione al medesimo fatto si possano applicare diverse regole di giudizio opposte o confliggenti tra loro, così come, a livello più generale, dal complesso del materiale probatorio si prospettino, alla fine, molteplici ipotesi ricostruttive dei fatti, tra le quali il giudice debba scegliere. Il risultato del ragionamento probatorio del giudice, non ponendosi, come nella logica dimostrativa, quale unica soluzione logicamente ammissibile, date certe premesse, non escluderebbe, ma anzi ammetterebbe, alternative. Il processo sarebbe dunque addirittura il luogo naturale di confronto tra ipotesi diverse. La scelta del giudice dovrebbe privilegiare il maggior grado di probabilità logica di una regola rispetto all’altra, la maggiore capacità di spiegare i fatti propria di una ipotesi a preferenza delle altre (11). L’accettabilità razionale della decisione del giudice non sarebbe qui garantita dalla inconfutabilità logica del risultato, bensì dalla plausibilità delle premesse, dalla ragionevolezza del discorso argomentativo e dall’alto grado di verosimiglianza della ricostruzione storica prospettata (12). Nella motivazione spetterebbe pertanto al giudice non solo e non tanto dimostrare la correttezza formale del proprio ragionamento, ma giustificare ragionevolmente la scelta delle regole di giudizio adottate, in quanto più aderenti al caso concreto e dotate del maggior grado di (8) Per il passaggio dal modello deduttivo-sillogicistico verso forme più articolate di descrizione del ragionamento probatorio, tra gli altri, E. FASSONE, Dalla ‘‘certezza’’ all’‘‘ipotesi preferibile’’: un metodo per la valutazione, in questa Rivista, 1995, p. 1104 s.; F.M. IACOVIELLO, I controlli della Cassazione sulla motivazione non persuasiva: la disagevole prova della partecipazione ad associazione per delinquere di candidati alle elezioni sostenuti dal voto mafioso, in Cass. pen., 1993, p. 853 s., e R.E. KOSTORIS, voce Giudizio (dir. proc. pen.), in Enc. giur., vol. XV, Roma-Torino, 1997, p. 6 s. (9) Recentemente la Cassazione ha ammesso l’utilizzo, quali utili strumenti di interpretazione dei dati probatori, per la ricostruzione di episodi connessi ai fenomenti di criminalità organizzata, dei risultati di serie ed accreditate indagini di ordine socio-criminale, dopo che ne sia stato vagliata, caso per caso, l’effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime d’esperienza (Cass., Sez. I, 5 gennaio 1999, p.m. in c. Cabib, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 439, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici). (10) Per lo sviluppo del rapporto tra livello di affidabilità dei criteri inferenziali e ragionevolezza del ragionamento probatorio, cfr., in particolare, E. FASSONE, op. ult. cit., p. 1112-1118. (11) Indica nella congruenza narrativa il criterio di scelta tra diverse ipotesi ricostruttive N. MACCORMICK, La congruenza nella giustificazione giuridica, in P. COMANDUCCI-R. GUASTINI (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico, Torino, 1987, p. 255 s. (12) Così F.M. IACOVIELLO, I controlli, cit., p. 854.
— 1501 — probabilità logica (13). Anche la giurisprudenza della Cassazione, nonostante alcuni, non rari, richiami alla costruzione sillogistica (14), sembra aderire a questo secondo modello. Ciò appare particolarmente evidente in alcune sentenze: quando, ad esempio, si ritiene adeguatamente motivata la decisione in quanto, sulla base delle prove ottenute, si possa ricavare una ragionevole presunzione in ordine alla commissione del fatto e alla responsabilità dell’imputato (15), ovvero quando si afferma che non possa costituire valido motivo di ricorso la prospettazione ad opera della difesa di una ricostruzione dei fatti diversa da quella accolta nella sentenza impugnata e magari altrettanto logica (16). È chiaro che l’area di sindacabilità della Cassazione sul ragionamento probatorio muti a seconda del modello di logicità di riferimento. Nel modello sillogistico-deduttivo il dato variabile, soggettivo, è rappresentato dal contenuto empirico originario (vale a dire gli elementi di prova emersi nel dibattimento); il ragionamento è invece scandito da passaggi obbligati, la cui sequenza risulta costante e rigida, tale per cui ogni persona dotata di capacità logica possa ripercorrerla e giungere alle medesime conclusioni. La prospettiva non può non cambiare ove si entri nella dimensione della logica argomentativa, nella quale la logicità coincide con la ragionevolezza. Di qui un’alternativa: limitare il controllo sulla logicità alla verifica della assenza di vizi logico-formali, il che vuol dire rimanere in superficie rispetto ai problemi posti dai criteri di ragionevolezza della decisione; ovvero ammettere un controllo anche sul fondamento razionale delle regole di giudizio utilizzate, con il rischio, però, che la Corte di cassazione sovrapponga il proprio convincimento a quello del giudice di merito (17). Al riguardo, parte della dottrina individua nell’aggettivo ‘‘manifesto’’, che all’interno dell’art. 606 comma 1 lettera e) c.p.p. qualifica l’illogicità quale vizio deducibile in cassazione, un prezioso indice normativo volto a delimitare il sindacato della Corte. Tale aggettivo non va inteso nel significato di ‘‘non occulto’’ (una simile interpretazione porterebbe a premiare la sagacia con cui il giudice di merito ha saputo nascondere i propri errori, piuttosto che la razionalità del discorso giustificativo) (18) ma come indice di una particolare gravità, percepibile icto oculi. In particolare da ciò discenderebbe il divieto per la Cassazione, nella fase di controllo sulle premesse del ragionamento probatorio, di andare oltre il limite dell’errore macroscopico, ossia all’argomentazione contraria al senso comune ovvero ad una plausibile opinabilità di apprezzamento (19). (13) Sulla distinzione tra giustificazione interna e giustificazione esterna, per tutti, A. NAPPI, Le ragioni del giudice: osservazioni in tema di struttura logica della motivazione e di valutazione della prova, in Cass. pen., 1987, p. 1796 s. (14) Così Cass., Sez. I, 6 giugno 1996, Lombardi, in Cass. pen., 1998, p. 1203. (15) Cfr. Cass., Sez. un., 18 febbraio 1988, Greco ed altri, in Giust. pen., 1989, III, c. 155. (16) È quanto è stato affermato da Cass., Sez. un., 19 giugno 1996, Di Francesco, in Cass. pen., 1996, p. 360. Nello stesso senso, da ultimo, Cass. Sez. VI, 7 maggio 1999, Emmanuello e altri, in Guida al diritto, 1999, n. 49, p. 89. Per ulteriori riferimenti cfr. M. VOGLIOTTI, op. ult. cit., p. 45 s. (17) Per la possibilità di distinguere, comunque, il controllo di logicità dal riesame nel merito, A. BARGI, Il ricorso per cassazione, in A. GAITO (diretto da) Le impugnazioni penali, vol. II, Torino, 1998, p. 510 s., e M. TARUFFO, Il controllo sulla motivazione della sentenza civile, in Il vertice ambiguo, Bologna, 1991, p. 135-138. (18) Interpretando l’aggettivo nel senso di ‘‘non occulto’’, criticano la formulazione della disposizione F. CORDERO, Procedura penale, 4a ed., Milano, 1995, p. 1033-1034, e P. FERRUA, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione dei provvedimenti penali, in S. MANNUZZU-R. SESTINI (a cura di), Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni (suppl. a Democrazia e diritto, 1992, n. 1), p. 88. (19) Per questa interpretazione, si rinvia a F. ZUCCONI GALLI FONSECA, Le nuove norme sul giudizio penale di cassazione e la crisi della Corte Suprema, in Cass. pen., 1990, I, p. 525. Nello stesso senso F.M. IACOVIELLO, I controlli, cit., p. 855. Va detto che in un più recente contributo l’Autore da ultimo citato pare avere assunto sul punto una diversa opinione (cfr. F.M. IACOVIELLO, Un dogma del processo penale: la distinzione tra legittimità e merito nel controllo della Cassazione sul vizio di motivazione, in Gazz. giur., 1999, n. 42 p. 3 s.). Re melius perpensa, tale Autore ritiene che il limite posto dal legislatore,
— 1502 — Questa tesi pare convalidata dalla stessa giurisprudenza di legittimità: essa ha chiarito come il proprio sindacato sulla logicità della motivazione comprenda, sul piano della giustificazione interna, la verifica della correttezza logico-giuridica delle singole argomentazioni; e su quello della giustificazione esterna il controllo sui criteri di giudizio adottati, ma come ciò non possa spingersi sino alla formulazione di una ipotesi ricostruttiva del fatto alternativa a quella raggiunta dal giudice di merito ovvero alla sostituzione dei criteri di valutazione adottati nella sentenza impugnata con altri ritenuti più attendibili (20). 3. È possibile ora raffrontare i risultati a cui siamo approdati con il tessuto argomentativo della sentenza in esame. Il primo rilievo attiene allo stesso linguaggio utilizzato dalla Suprema Corte. Sin dall’inizio la Cassazione sottolinea come la sentenza impugnata risulti ‘‘carente di un adeguato e convincente apparato argomentativo’’; più oltre afferma che le considerazioni fatte dal giudice di merito ‘‘non possano condividersi’’. Sicché i giudici di legittimità sembrano muoversi su un terreno specifico: quello della non persuasività della sentenza e non quello della sua manifesta illogicità. Solo nelle conclusioni tali censure si risolvono, con un disinvolto cambio di etichette, in illogicità, tali da giustificare l’annullamento con rinvio della decisione della Corte d’appello. Ciò non basta, però, da solo per giungere ad un giudizio negativo sul modus procedendi della Corte circa la vicenda in esame. La stessa Cassazione in altre circostanze ha fatto uso di una terminologia giuridicamente più corretta, sostenendo quando parla di illogicità ‘‘manifesta’’ risulti, in realtà, per un verso inapplicabile, per l’altro paradossale. Sotto il primo profilo, esso non consentirebbe di individuare una tipologia di vizi rilevabili: ciò sarebbe possibile ‘‘se ci fosse una linea concettualmente chiara tra ciò che è manifestamente illogico e ciò che è illogico ma non manifesto. Ma questa linea non c’è’’. Dunque: ‘‘la funzione dell’aggettivo (...) non è quella di circoscrivere l’area dell’errore rilevante, ma di circoscrivere l’area del controllo legittimo, richiamando il senso di autolimite del giudice di legittimità’’. A questo punto — sottolinea Iacoviello — si cade nel paradosso ‘‘di una norma che impone al giudice un limite oggettivamente indiscernibile, ma che nel contempo affida allo stesso giudice il potere di fissare il contenuto di tale limite’’. In mancanza di altre indicazioni — prosegue lo stesso Autore — la Cassazione deve poter valutare la ragionevolezza della sentenza impugnata, senza che il suo controllo sia circoscritto all’errore macroscopico. In questa analisi essa deve applicare il metodo della probabilità logica. In particolare deve verificare se il criterio di inferenza adoperato dal giudice di merito sia l’unico plausibile ovvero se ad esso possa opporsi un criterio antagonista ugualmente valido. In questo secondo caso deve annullare la sentenza impugnata. Allo stesso modo la Suprema Corte, secondo Iacoviello, deve accertare se l’ipotesi ricostruttiva del fatto accolta dal giudice di merito, sia l’unica plausibile ovvero se sia plausibile contrapporre ad essa un’altra ugualmente ragionevole (anche non equiprobabile, purché razionalmente giustificabile). Ove ciò avvenga la sentenza impugnata deve essere annullata. L’unica condizione posta al sindacato della Corte è rappresentata dal fatto che esso può esercitarsi solo sui dati emergenti dal testo del provvedimento impugnato. Tale articolata prospettazione merita alcune osservazioni. Il giudizio di cassazione come ricostruito dall’Autore citato risulta in realtà del tutto simile ad un giudizio di merito, un terzo grado di merito all’interno del sistema. Una siffatta interpretazione del dettato codicistico non può, di per sè, non suscitare qualche perplessità, a fronte della chiara scelta del legislatore delegato, in tema di ricorso in cassazione, in senso diametralmente opposto. Ferma restando la possibilità che tramite un intervento legislativo la scelta a favore di un sindacato nel merito venga codificata, la disciplina attualmente vigente non consente interpretazioni così ardite. Quanto alla difficoltà di distinguere il vizio logico rilevabile in casssazione dall’errore innocuo, si è detto che entro una logica argomentativa tracciare una linea di confine può risultare più difficile. Illogicità e non persuasività sono in quel contesto non due entità ontologicamente autonome, ma diverse grandezze poste sulla medesima scala di valori. La differenza sta nella misura. L’illogicità si pone all’estremo della scala, ove neanche la relatività congenita al giudizio storico possa giustificare l’adozione di certi criteri inferenziali ovvero l’accoglimento di determinate ipotesi. Fuori da questo ambito, la Cassazione non ha oggi titolo per intervenire (salva, si intende, la verifica sulla corretteza dei singoli passaggi e sul rispetto delle altre regole della logica formale). (20) Così Cass., Sez. un., 30 aprile 1997, Dessimone, in Cass pen., 1997, p. 3338, e Cass., Sez. un., 19 giugno 1996, Di Francesco, cit., p. 360. Per un’indicazione in questo senso cfr. anche Relazione al progetto preliminare, cit., p. 133.
— 1503 — la ‘‘palese illogicità’’ delle decisioni sottoposte al suo esame, senza che questo le abbia impedito, nel contempo, di procedere alla rivalutazione del materiale probatorio. Occorre, dunque, verificare nella sostanza quali siano i rilievi mossi dai giudici di legittimità. Scrive la Corte: i giudici di merito hanno ‘‘affermato la colpevolezza dell’imputato valorizzando circostanze di fatto che ben si conciliano con la versione dei fatti rappresentata (...) [dall’imputato] e minimizzando o omettendo di valutare altre circostanze che mal si conciliano con la denunciata violenza carnale’’. In altri termini, afferma la Corte, l’ipotesi accusatoria non è logicamente accettabile in quanto non possiede un grado di evidenza probatoria tale da escludere margini di fondatezza alla controipotesi prospettata dalla difesa. A riguardo converrà fare alcune precisazioni. Non è contro natura che nel processo si fronteggino ipotesi antagoniste fondate su diversi elementi probatori. Può anche accadere, come sembra suggerire la Cassazione nella sentenza annotata, che uno stesso elemento di prova possa essere letto a favore di una ipotesi o di un’altra a seconda del diverso criterio di valutazione attraverso il quale viene filtrato. Non siamo pertanto nella patologia ma nella fisiologia del processo penale. Ciò non toglie che nel nostro sistema, fondato sulla presunzione di non colpevolezza dell’imputato, l’ipotesi d’accusa possa essere accolta solo nel caso in cui essa appaia ‘‘ l’unica coerente in sè e congruente rispetto ai fatti, in altri termini l’unica in grado di rispecchiare i fatti fondamentali e di spiegarli secondo razionalità e buon senso’’ (21). Spetta al contraddittorio dibattimentale fare emergere la forza o la debolezza delle diverse ipotesi, in modo da consentire al giudice di pervenire ad una soluzione. A tal fine è opportuno che l’istruzione dibattimentale sia la più ampia e scrupolosa possibile in modo da fornire al giudice il più alto bagaglio di conoscenza, dal momento che l’affidabilità del risultato dipende dal numero e dalla qualità delle informazioni raccolte. È compito — a volte non certo facile —, infine, del giudice di fronte al quale la prova si è formata, analizzare, in sede di deliberazione, tutto il materiale probatorio selezionato ed interpretarlo, con un esercizio sistematico del dubbio, sino a giungere ad un convincimento (22). Rispetto a tale esigenza di razionalità delle decisioni giudiziarie, il compito della Cassazione, si è detto, — per quanto non sia sempre facile distinguere un’attività dall’altra — non è quello di aggiungere il proprio convincimento a quello dei giudici di merito che l’hanno preceduta, ma di impedire che passino in giudicato sentenze fondate su ricostruzioni del fatto viziate da palesi contravvenzioni al buon senso ovvero ad un ragionevole limite di opinabilità. Resta da chiedersi se in una situazione di questo tipo si trovasse la Cassazione nella vicenda in esame. La risposta, nonostante lo sforzo della Corte di dimostrare il contrario, rimane negativa (23). Non convince il ragionamento condotto dai giudici di legittimità, per una duplice ragione: per un verso, come meglio si vedrà in seguito, la Corte scambia per manifeste illogicità argomentazioni tutt’al più non completa(21) L’affermazione è di F.M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Milano, 1997, p. 222. (22) Si è correttamente osservato come proprio dalla consapevolezza della natura non più che probabilistica della verità processuale, pur raggiunta nel massimo rispetto delle garanzie, dovrebbe sorgere per il giudice il dovere di rispettare una serie di regole deontologiche, tali da fondare una vera e propria etica dell’accertamento probatorio, e come tra queste regole di comportamento vi siano, in particolare, il ‘‘ rifiuto di ogni certezza e sicumera nell’accettazione come vera di un’ipotesi d’accusa’’ e la disponibilità verso il tentativo di confutazione della difesa (L. FERRAJOLI, L’etica della giurisdizione penale (contributi per una definizione della deontologia dei magistrati), in Quest. giust., 1999, p. 489-494). (23) Al riguardo, è opportuna una precisazione: il giudizio negativo qui espresso sulla decisione della Suprema Corte non implica necessariamente anche un giudizio nel merito della vicenda processuale de qua nel senso della fondatezza della tesi d’accusa. Ciò non deve sorprendere se ben si intende la differenza che passa tra il sindacato sulla logicità da parte della Cassazione e il giudizio che compete al giudice di merito.
— 1504 — mente condivisibili; per l’altro perché, proponendosi di valutare il grado di conferma logica della sentenza d’appello, omette, però, di considerare tutta una serie di elementi di prova che i giudici di appello avevano addotto a sostegno della propria tesi. Quanto al primo aspetto va detto che la sentenza impugnata viene censurata in diversi punti. 1) Sostengono i giudici di merito: le dichiarazioni della persona offesa sono attendibili in quanto costei non aveva alcun motivo per muovere contro l’imputato un’accusa calunniosa. Ribatte la Cassazione: tale considerazione non può condividersi, dal momento che la ragazza avrebbe potuto falsamente accusare l’imputato solo per giustificare, con i genitori, il rapporto sessuale avuto con una persona più grande di lei e per di più sposata. Sia detto per inciso che la giurisprudenza ammette che la deposizione della persona offesa, purché sottoposta ad una indagine positiva circa la sua attendibilità, possa costituire base di un giudizio di responsabilità, non risultando applicabile a questo tipo di prova la regola codificata nell’art.192 comma 3 c.p.p. (24) e che i giudici di appello si soffermano a lungo sul punto relativo alla crebililità delle dichiarazioni di R.P., confrontandole con gli altri elementi di prova. Per togliere validità alle argomentazione contenute nella sentenza impugnata, la Suprema Corte non contrappone loro una diversa versione dei fatti, supportata da concreti elementi probatori, ma un’ipotesi meramente teorica (non sostenuta, come risulta dagli atti del processo, neppure dalla difesa). Del resto sono gli stessi giudici di legittimità ad affermare, poco dopo, riferendosi a tale versione dell’accaduto, che essa, semplicemente, ‘‘non appare inverosimile alla luce del comportamento tenuto dalla vittima dopo i fatti’’. 2) Secondo punto: la ragazza aveva denunciato all’autorità giudiziaria la violenza subita solo a distanza di dodici ore. La Corte d’appello giustifica un tale ritardo sostenendo che la giovane presumibilmente provava vergogna o si sentiva in colpa. La Cassazione non ritiene convicente tale argomentazione, dal momento che non si vede quale vergogna o senso di colpa la ragazza potesse avvertire, se effettivamente vittima di una violenza carnale. Si è detto in precedenza come la Suprema Corte sia legittimata a censurare le massime d’esperienza adottate dal giudice di merito solo se contrastanti con il buon senso o con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Ma qui la Cassazione va addirittura contro la comune esperienza secondo cui é tipico delle vittime di stupro il vivere con un sentimento di colpa la violenza subita (25). Va ricordato che lo stesso legislatore nel ridisciplinare nel 1996 la materia dei reati contro la libertà sessuale, ha fissato (art. 609-septies comma 2 c.p.), nel caso del reato di violenza sessuale, un termine per la proposizione della querela di sei mesi dalla conoscenza del fatto, pari al doppio di quello normalmente stabilito dall’art. 124 c.p. Si è correttamante sottolineato che tale previsione ‘‘è verosimilmente giustificata dalla speciale delicatezza della materia in modo da consentire (24) Cfr. Cass., Sez. III, 25 giugno 1999, Mariola, in Guida al diritto, 1999, n. 38, p. 107, e Cass., Sez. I, 17 dicembre 1998, Kovacs, in Gazz. giur., 1999, n. 13, p. 29. Sul punto, si legga S. OLIVIERO, I titolari di interessi extrapenali, in M. CHIAVARIO (coordinato da), Protagonisti e comprimari del processo penale, Torino, 1995, p. 214 s. Ritiene auspicabile che a livello di interpretazione giurisprudenziale si giunga a richiedere, anche con riguardo alle dichiarazioni della parte civile sentita come teste, la necessaria presenza di riscontri esterni ed obiettivi, F. TAFI, Brevi note in punto di valutazione delle dichiarazioni della parte civile sentita quale testimone, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 599. (25) Sul punto si leggano le osservazioni di C. PANSERI, La notitia criminis e la valutazione circa la sua fondatezza nel corso delle indagini preliminari, in G. GULOTTA (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Milano, 1987, p. 400.
— 1505 — alla persona offesa uno spazio maggiore di riflessione, prima di assumere una decisione che può incidere pesantemante sulla sua sfera di riservatezza’’ (26). 3) Sul corpo della vittima e dell’imputato non sono stati riscontrati segni di colluttazione o, comunque, di una vigorosa resistenza della ragazza al suo aggressore. I giudici di Potenza sostengono che la ragazza non ha opposto resistenza temendo di subire gravi offese alla sua incolumità fisica. Neanche questa argomentazione convince la Suprema Corte che al riguardo osserva che è intuitivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla e che è illogico affermare che una ragazza possa supinamente subire uno stupro, che è grave violenza alla persona, per il timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica. Sul punto sia consentito fare alcune osservazioni. Innanzi tutto qui la Corte omette di considerare un particolare che pure era emerso dalla deposizione della ragazza: infatti, nel corso dell’esame dibattimentale costei aveva dichiarato di aver cercato, inutilmente, di gridare e di liberarsi dalla presa dell’uomo e di aver colpito l’imputato con schiaffi, non riuscendo, però, a farlo desistere dal suo proposito. Anche a non voler dar peso a tale dichiarazione, però, non si può non ricordare come sia ormai accertato che la reazione di un individuo ad un evento traumatico che lo colpisce possa essere, alternativamente, sia quella di fuga e di attiva ricerca di aiuto, sia quella di un blocco psico-motorio che si traduce in una apparente passività (27). 4) Il comportamento della ragazza, successivamente all’episodio di violenza, attira l’attenzione della Cassazione. In particolare i giudici di legittimità ritengono che la sentenza impugnata non dia una plausibile spiegazione del fatto che la ragazza, dopo la presunta violenza subita, si fosse messa alla guida dell’autovettura. Anche in questo caso la versione dei fatti proposta dalla Corte diverge sensibilmente da ciò che era emerso in dibattimento ove, con maggiore precisione, si era chiarito che, dopo l’atto sessuale, era stato l’imputato a guidare e che solo nell’ultimo tratto del ritorno a casa, quando ormai l’auto era giunta nei pressi del paese, alla guida era passata la ragazza. Al riguardo i giudici di merito avevano spiegato il comportamento della vittima con il suo interesse a tornare al più presto a casa. Ma la Corte dà l’impressione di non accontentarsi anche in questo caso della spiegazione offerta. 5) Da ultimo conviene esaminare la questione dei blue-jeans. I giudici d’appello avevano ravvisato un argomento a favore dell’ipotesi accusatoria nel fatto che la vittima, durante il rapporto sessuale, avesse i jeans tolti solo in parte (circostanza sulla quale entrambi gli interessati avevano convenuto), dal momento che, così avevano argomentato, ove si fosse trattato di un rapporto consensuale, la ragazza ‘‘non avrebbe avuto alcun motivo di non mettersi in totale libertà, per restare — scomodamente — con i pantaloni non del tutto sfilati’’. Argomentazione a dire il vero particolarmente debole, in quanto fondata su una massima (le persone che vogliono avere un rapporto sessuale in un’auto e in pieno giorno non resistono dal denudarsi per stare più comodi) della cui attendibilità è più che lecito dubitare. Non è da meno, però, la Cassazione. Nelle mani dei giudici supremi l’elemento dei jeans sfilati solo a metà diventa un boomerang contro la sentenza impugnata: in particolare, esso dimostrerebbe, all’opposto di quanto ritenuto nella decisione sottoposta a controllo, la consensualità del rapporto, dal momento che è un dato di comune esperienza che è impossibile sfilare i jeans di una persona senza il suo consenso. Il fatto che i giudici di merito non ne abbiano tenuto conto vizia il loro ragionamento. È sin troppo facile osservare come ai giudici di legitti(26) Così G. AMBROSINI, Le nuove norme sulla violenza sessuale, Torino, 1997, p. 65. (27) Per un’analoga affermazione, M. BERTOLINO, Libertà sessuale e blue-jeans, cit., p. 701.
— 1506 — mità siano sfuggite le ultime evoluzioni della moda, dal momento che oggi con il termine jeans si può intendere una variegata tipologia di tessuti, fogge e modelli, con caratteristiche molto diverse (in particolare, con gamba sia stretta sia larga). Sicché nulla ci dice che nel caso in esame la ragazza non indossasse un tipo di pantoloni facilmente sfilabili. Ma vale, comunque, la pena spostare la nostra attenzione su un altro piano. Come è noto, ai sensi dell’art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p. il giudice è tenuto nella motivazione ad indicare non solo le prove a supporto della ipotesi prescelta, ma anche le ragioni per le quali non ha ritenuto attendibili le prove contrarie. Prescindendo dai diversi orientamenti giurisprudenziali che si dividono sul fatto che ai fini dell’annullamento della sentenza in cassazione l’omesso esame debba riguardare una qualsiasi prova contraria, ovvero solo quelle decisive (tali per cui una loro adeguata valutazione avrebbe dovuto necessariamente portare ad una decisione diversa da quella adottata), nel caso di specie il dato probatorio appare in sè privo di qualsiasi capacità dimostrativa in ordine ai fatti da provare e, come tale, non doveva neanche essere considerato dai giudici di merito. A fronte della capziosa argomentazione di questi ultimi, la Corte Suprema si sarebbe dovuta limitare a rilevare l’illogicità dell’inferenza e verificare l’influenza di tale vizio sul grado di conferma dell’ipotesi accusatoria. Si è anticipato prima come il procedimento seguito dalla Cassazione nella valutazione della accettabilità razionale della decisione impugnata non risulti persuasivo anche per il fatto che la Corte omette di considerare gli altri elementi di prova addotti dalla sentenza di merito a sostegno dell’ipotesi accusatoria (ad esempio le testimonianze del padre e di un’amica della presunta vittima, ovvero il referto della visita ginecologica a cui la ragazza si era sottoposta). Alla Corte manca una visione d’insieme: solo un esame complessivo può consentire di rilevare il grado di accettabilità razionale di una ipotesi. 4. Prescindendo dalle critiche mosse ad alcune affermazioni francamente sconcertanti della Corte (che mettono più di un dubbio sull’effettivo superamento nella cultura giuridica italiana di vecchi ed inaccettabili pregiudizi), la sentenza in esame rimane un esempio di sconfinamento della Cassazione rispetto ai propri compiti istituzionali. Non si tratta di un caso isolato, se ‘‘la sempre più accentuata tendenza della Corte a travalicare i limiti del giudizio di legittimità’’ è stata recentemente denunciata, al più autorevole livello, dalla Cassazione stessa (28). Il problema dello slittamento della Suprema Corte verso un modello di giudice di terza istanza non è di origine recente (29) né di facile soluzione. In effetti, in relazione al nesso che da sempre lega questo tema ai limiti del controllo sulla motivazione, va detto che, come in precedenza si è accennato, quando la Cassazione è chiamata a decidere sulla presunta illogicità della motivazione, i confini tra legittimità e merito inevitabilmente si fanno sfumati e il pur doveroso richiamo ad un atteggiamento di self restraint da parte degli stessi giudici pare insufficiente. Oggi la spinta a trovare altre soluzioni sembra venire anche dalla necessità di interventi volti a ridurre l’eccessiva durata dei procedimenti penale, nella ‘‘consa(28) Cfr. Lettera del Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione 10 marzo 1999, pubblicata nella Gazz. giur., 1999, n. 19, p. 68 s. Di totale adesione al contenuto del documento il commento di C.F. GROSSO, Una coraggiosa iniziativa di chiarezza, in Gazz. giur., 1999, n. 29, p. 1-3. Vale la pena ricordare che analoghi rilievi erano stati fatti nel 1986 (tredici anni prima) dall’allora Primo Presidente della Cassazione, Antonio Brancaccio, nel discorso pronunciato in occasione del suo insediamento (Della necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione, pubblicato in Foro it., 1986, V, c. 461 s.). (29) Per un utile inquadramento storico del problema, si legga, da ultimo, G. MICALI, Corte di cassazione o terza istanza?, in Giust. pen., 1988, III, c. 491 s.
— 1507 — pevolezza che l’altissino tasso di elefantiasi e di degenerazione delle garanzie d’impugnazione è causa non ultima, tra l’altro, dell’incapacità del sistema di assicurare quello standard di ‘durata ragionevole’ dei processi che tutti avvertono come un obiettivo essenziale’’ (30). Una soluzione, però, che non voglia prendere la via di facili scorciatoie (quale sarebbe la eliminazione del vizio di motivazione dai casi di ricorso in cassazione overo la riduzione dell’area di sindacato all’assenza fisica del discorso giustificativo’’ (31), senza la contemporanea introduzione di opportuni contrappesi) deve essere tale da riuscire a mediare tra esigenze di efficienza del sistema e garanzie individuali (32), e non può che passare attraverso una più generale revisione del sistema italiano delle impugnazioni in materia penale (33). PAOLO RENON Dottore di ricerca in Procedura penale Università di Pavia
(30) Testualmente M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico e contraddittorio tra l’intervento della Consulta e i progetti di riforma costituzionale, in Legisl. pen., 1998, p. 947. Non sarà superfluo aggiungere che a seguito della modifica dell’art. 111 Cost., di recente entrata in vigore, il principio della ragionevole durata del processo, in precedenza rinvenibile solo a livello di fonti internazionali, risulta oggi esplicitamente affermato dalla nostra stessa Carta fondamentale tra i principi generali del processo. Ha sottolineato da ultimo come la tendenza della Corte a travalicare i limiti del giudizio di legittimità, determinando la moltiplicazione dei ricorsi e un correlativo grave aumento del carico di lavoro, incida negativamente sulla capacità della Cassazione stessa di rispondere ai propri fini istituzionali, il Primo Presidente della Corte Suprema, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, nell’occasione più sopra ricordata (cfr. Lettera del Primo Presidente, cit., p. 69). (31) Non si ignora come l’ipotesi di contrazione del sindacato della Suprema Corte si ponga in radicale contrasto con la tesi di chi sostiene che nella funzione assegnata costituzionalmente alla Cassazione sia implicito un controllo che investa anche la congruenza della motivazione in fatto (cfr., tra gli altri, A. BARGI, Il ricorso per cassazione, cit., p. 458 e M. SCAPARONE, Elementi di procedura penale, Milano, 1999, p. 160). Contro l’esclusione dei vizi di motivazione dai casi di ricorso in cassazione, vedasi, da utimo, l’autorevole intervento di uno dei più attenti studiosi della materia, in campo processualcivilistico, E. FAZZALARI, La Cassazione civile: stato attuale e possibili misure, in Riv. dir. proc., 1999, p. 894, il quale, non inconsapevole della crisi in cui versa la nostra Corte Suprema, ritiene, ciò nonostante, non sia il caso di togliere a quest’ultima ‘‘un compito che (...) [essa stessa] ha considerato giustamente essenziale e si è arrogato in varie guise’’. (32) Al riguardo, la vicenda processuale sin qui analizzata offre uno spunto prezioso. Tra le specificità del caso, era il fatto che l’imputato, assolto (almeno dal reato di violenza carnale) in primo grado, fosse stato condannato solo in appello. Con riguardo all’ipotesi di prima condanna in appello, la dottrina più attenta (cfr., per tutti, P. FERRUA, Il sindacato, cit., p. 94 s.) ha da tempo sottolineato come si ponga un problema di mancato rispetto, nel nostro ordinamento processuale, di quel diritto ad un riesame della condanna, riconosciuto ad ogni condannato dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Benché la norma non richieda espressamente un secondo giudizio nel merito, non possono non rimanere dubbi sul fatto che tale garanzia possa dirsi oggi tutelata dall’attuale ricorso per cassazione. Né appare irragionevole pensare che la consapevoleza di tale deficit di tutela possa poi trasformarsi, nella pratica quotidiana, in una spinta ulteriore per i giudici della Cassazione a travalicare i limiti del proprio sindacato. All’eventuale riforma spetterà il difficile compito di comporre normativamente anche tali attriti, evitando che la prassi... si faccia giustizia da sola. (33) Nello stesso senso A. NAPPI, Contributi giurisprudenziali all’evoluzione del diritto processuale penale, in La Corte di cassazione dell’ordinamento democratico (Atti del Convegno tenutosi in occasione dei 50 anni dal ripristino dell’ordinamento democratico, Roma, 14 febbraio 1995), Padova, 1996, p. 52.
— 1508 — CASSAZIONE PENALE — 27 gennaio 1999 — sez. III Pres. Giammanco — Rel. Squassoni P.M. (conf.) Martusciello — Imp. P.M. in proc. Celino Lavoro — Prevenzioni infortuni — Sul lavoro — Preposto ex d.lgs. n. 626/1994 — Obblighi — Individuazione. In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, grava sul preposto, nell’alveo del suo compito fondamentale di vigilare sull’attuazione delle misure di sicurezza, l’obbligo di verificare la conformità dei macchinari alle prescrizioni di legge e di impedire l’utilizzazione di quelli che, per qualsiasi causa — inidoneità originaria o sopravvenuta —, siano pericolosi per l’incolumità del lavoratore che li manovra (1). (Omissis). — Il d.lgs. n. 626/1994 prevede espressamente la facoltà di delega, in materia di sicurezza e salute dei lavoratori (con le deroghe elencate dall’art. 1, comma 4-ter che qui non rilevano) essendo necessario che le singole unità produttive abbiano, in concreto, una persona cui fare riferimento per gli adempimenti richiesti; il citato decreto legislativo non enuclea i requisiti che la delega deve avere per essere efficace e liberatoria di responsabilità per il dante causa. In tale contesto, è legittimo recuperare i requisiti, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, di validità della delega: essa deve essere giustificata dalle dimensioni dell’azienda, espressa, formale, effettiva, liberamente accettata dal delegato, il quale deve avere specifica preparazione tecnica ed autonomia finanziaria. In base a tali criteri l’atto con il quale l’imputato è stato onerato di curare l’espletamento della vigilanza, della verifica, dei controlli in tema di prevenzione degli infortuni, pur denominato ‘‘delega’’, tale non è; sul punto basti por mente che l’atto non proviene dall’organo statutario, non prevede l’accettazione e la possibilità di spesa per il Celino. L’atto in questione deve qualificarsi, pertanto, come nomina di preposto. Tanto premesso, il fulcro della questione consiste nell’individuare quali siano i compiti di tale soggetto al fine di comprendere se le conclusioni del pretore siano, o meno condivisibili. Manca un’esplicita indicazione testuale di tutti i compiti che incombono al preposto; tuttavia le funzioni più significative, la cui inosservanza ha rilievo penale, si possono agevolmente ricavare dal contenuto sanzionatorio dell’art. 90, d.lgs. n. 626/1994. (Omissis).
——————— (1)
La delega di funzioni in diritto penale: brevi note a margine di un problema irrisolto.
1. Che il problema della ripartizione delle funzioni all’interno dell’impresa si sia posto tradizionalmente con riferimento alla normativa in materia di prevenzione antinfortuni è un punto incontroverso. Parimenti condivisa è l’importanza
— 1509 — della nuova regolamentazione che, sotto la ‘‘spinta’’ delle direttive comunitarie, ha visto la luce negli ultimi anni (1). La sentenza che qui si commenta consente tuttavia di svolgere alcune riflessioni sulla effettiva portata innovativa e sulla reale attitudine di tale provvedimento legislativo a risolvere il problema della trasferibilità di determinate funzioni. Il primo sintomo che induce a diffidare è invero rappresentato da un esame, sia pure superficiale, dell’iter del d.lgs. n. 626/1994. Se infatti si fosse stati seriamente animati da una tale volontà di chiarificazione sembrerebbe quantomeno contraddittorio che nell’originaria stesura non vi fosse alcun riferimento all’istituto della delega, facendo persino dubitare circa la sua stessa ammissibilità. Né sembra che il punto di arrivo rappresenti, come si cercherà di sottolineare, qualcosa di diverso da una mera enunciazione formale dell’ammissibilità, a determinate condizioni, del ricorso a tale strumento (2). La stessa Corte di Cassazione nella pronuncia in oggetto sottolinea, in modo puntuale, come il d.lgs. n. 626/1994 sopra menzionato, sebbene preveda espressamente la facoltà di delega in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, « non enuclea i requisiti che la delega deve avere per essere efficace e liberatoria di responsabilità per il dante causa ». A ben vedere la soluzione di tale problema presuppone necessariamente un’analisi delle questioni, di carattere più generale, dibattute in materia. 2. La delega di funzioni è, come noto, un tema classico del diritto penale dell’economia con forti implicazioni di carattere teorico-generale (3). Sebbene, infatti, si concordi circa la opportunità o addirittura « doverosità » (4) di ripartire le (1) Significativo l’atteggiamento di PADOVANI, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, p. 1157 ss., che parla, con riferimento alle iniziative legislative in oggetto, di « un vivace vento di riforma » e « di innovazioni di grande portata ». (2) Critico sulle scelte compiute dal legislatore PALOMBI, Il nuovo sistema sanzionatorio in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, in Riv. pen. econ., 1995, p. 387 ss.; in materia v. inoltre PANAGIA, Tendenze e controtendenze nel diritto penale del lavoro: i dd.lgs. nn. 626/1994 e 494/1996, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 185 ss. (3) Sulla delega di funzioni in diritto penale v., in generale, ALDOVRANDI, Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di delega di compiti penalmente rilevanti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 699 ss.; ALESSANDRI, voce Impresa (responsabilità penali), in Dig. disc. pen., VI, Torino, 1992, p. 209 ss.; ID., Manuale di diritto penale dell’impresa, PEDRAZZI-ALESSANDRI-FOFFANI-SEMINARA-SPAGNOLO (a cura di), Bologna, 1998, p. 54 ss.; FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale d’impresa, Firenze, 1985; FLORA, I soggetti penalmente responsabili nell’impresa societaria, in Studi in memoria di Nuvolone, II, Milano, 1991, p. 543 ss.; ID., L’individuazione dei soggetti responsabili all’interno della società con particolare riguardo ai reati colposi, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, p. 456 ss.; GIARRUSSO, Orientamenti dottrinali ed evoluzione giurisprudenziale sui problemi della responsabilità penale nell’esercizio dell’impresa e sull’efficacia della delega di funzioni, in Cass. pen., 1984, p. 2042; GRASSO, Organizzazione aziendale e responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in Arch. pen., 1982, p. 744 ss.; ID., Il reato omissivo improprio, Milano, 1983; M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 245 ss.; PADOVANI, Il problema dei soggetti in diritto penale del lavoro nel quadro della più recente giurisprudenza, in Leg. pen., 1981, p. 415 ss.; ID., Diritto penale del lavoro. Profili generali2, Milano, 1983; ID., Diritto penale del lavoro. Profili generali3, Milano, 1990; PAGLIARO, Problemi generali del diritto penale dell’impresa, in Ind. pen., 1985, p. 26 ss.; PALOMBI, La delega di funzioni nel diritto penale dell’impresa, in Giust. pen., 1985, II, p. 679 ss.; PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale d’impresa, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1988, p. 125 ss.; PULITANÒ, Organizzazione dell’impresa e diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1985, IV, p. 3 ss.; ID., voce Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. disc. pen., VI, Torino, 1992, p. 102 ss.; ID., voce Inosservanza di norme di lavoro, ivi, VII, Torino, 1993, p. 64 ss. (4) Su questo modo di intendere la delega di funzioni si registra un diffuso consenso nell’ambito della dottrina, soprattutto in considerazione del rilievo dei beni giuridici che di regola vengono in questione e della oggettiva impossibilità per l’imprenditore, nelle odierne strutture produttive, di assolvere ad ogni funzione. In questo senso v., tra gli altri, PEDRAZZI, Profili problematici, cit., p. 138; PULITANÒ, Organizzazione, cit., p. 183; F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1992, p. 152; FIANDACAMUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, p. 142. È interessante rilevare come il problema della delega, in tutta la sua attualità, si era già posto nella esperienza tedesca in occasione dei lavori che
— 1510 — funzioni tra soggetti diversi nelle organizzazioni produttive complesse, a lungo si è dibattuto e tuttora si controverte sulla coerenza di tale strumento con principi fondanti dell’ordinamento penale e sul suo inquadramento sotto un profilo propriamente tecnico-giuridico. La questione sembra incentrarsi, come acutamente rilevato, su un problema di imputazione (5). Quid iuris nell’ipotesi in cui il soggetto ‘‘geneticamente’’ tenuto a porre in essere una determinata condotta o ad adempiere un obbligo deleghi tale funzione? Sarà sempre questi da ritenere responsabile, in quanto formale destinatario delle norme in materia di reato proprio, ovvero il trasferimento di funzioni determina anche, per così dire, il ‘‘trapasso’’ della qualifica? È di tutta evidenza come la scelta tra le due opzioni sia problema di non poco momento. Se, infatti, si ritiene che la delega esaurisca i suoi effetti unicamente sul piano della colpevolezza, evidente è il rischio di prevedere ipotesi di responsabilità di posizione, con immediati riflessi sulla sua conformità al principio costituzionale di personalità della responsabilità penale ex art. 27 cost. (6). A ritenere invece il trasferimento di funzioni già rilevante sotto il profilo della tipicità si incorre nell’opposto rischio di determinare uno slittamento verso il basso della responsabilità e, soprattutto, si opera una scissione tra formale destinatario della norma penale e soggetto responsabile, con conseguente ipotizzabilità di una violazione dell’art. 25, comma 2, cost. (7) La giurisprudenza, dal canto suo, si è limitata ad individuare taluni requisiti al cui ricorrere è condizionata l’operatività di una delega che sia valida ed efficace. Si richiede, in estrema sintesi, che: l’impresa sia di grandi dimensioni o comunque complessa, la ripartizione delle mansioni non abbia carattere fraudolento od artificioso, il delegato sia in possesso delle competenze tecnico-professionali e dei mezzi necessari per adempiere l’incarico e goda di un’ampia sfera di autonomia nell’esercizio del proprio potere decisionale, la delega, infine, sia conferita per iscritto con indicazione specifica delle funzioni delegate (8). I presupposti così individuati, e peraltro suscettibili di critica per quanto concerne talune ingiustificate delimitazioni (9), denotano come l’interesse del pratico hanno preceduto l’introduzione del nuovo § 14 Abs. II. Sul punto v. GÖHLER, Prot. V/1096: « Nella nostra moderna economia produttiva non è facile che sia possibile che il titolare di un’azienda adempia a tutti i doveri che l’azienda porta con sé. Egli è costretto a servirsi della collaborazione di altre persone che adempiano per suo conto a tali doveri ». (5) Così PEDRAZZI, Profili problematici, cit., p. 127, che sottolinea come « al cuore del diritto penale dell’impresa vi sia un problema di imputazione ». (6) Sottolinea come tale soluzione « significherebbe far loro carico di una responsabilità sostanzialmente per fatto altrui giacché si imputerebbe ai soggetti in questione il mancato compimento di un’azione che essi non potevano di fatto realizzare e che era stata legittimamente affidata ad altri » GRASSO, Organizzazione aziendale, cit., p. 745; nello stesso senso v., tra gli altri, PALOMBI, Delega, cit., p. 679. Ammonisce come sia tuttavia connaturato ai reati commessi nell’esercizio di un’impresa il riassumersi della tipicità al vertice PEDRAZZI, Profili, cit., p. 131. (7) Per una rassegna delle principali obiezioni alla teoria funzionalista v. PADOVANI, Diritto penale del lavoro3, cit., p. 69 ss.; PULITANÒ, Igiene, cit., p. 106 ss. (8) In materia di delega esiste un’imponente produzione giurisprudenziale. Limitandosi dunque alle pronunce più recenti cfr. Cass., sez. IV, 23 marzo 1994, in Cass. pen., 1996, p. 1270 ss. con nota di BELLAGAMBA; Cass., sez. III, 25 ottobre 1995, ivi, 1997, p. 1138; Cass., sez. IV, 26 novembre 1996, in Giust. pen., 1998, II, p. 35; Cass., sez. III, 29 maggio 1996, in Foro it., 1997, II, p. 152; Cass., sez. III, 20 marzo 1996, in Lavoro nella giurisprudenza, 1996, p. 520. Nel senso di richiedere « l’esistenza di precise ed ineludibili norme interne o disposizioni statutarie, che disciplinano il conferimento della delega ed adeguata pubblicità della medesima », da ultimo v. Cass., sez. III, 23 aprile 1996, in Cass. pen., 1997, p. 1868. (9) In particolare, il riferimento alle dimensioni dell’impresa quale requisito condizionante la validità ed efficacia di un’eventuale delega è stato aspramente criticato nell’ambito della dottrina, e questo indipendentemente dall’opzione teorica prescelta nella ricostruzione dell’istituto de quo. Sul punto v. , per tutti, PADOVANI, Diritto penale del lavoro3, cit., p. 70 ss. il quale sottolinea che « non si può contestare a
— 1511 — si sia polarizzato su di un momento diverso rispetto al problema della natura giuridica della delega e ad esso logicamente successivo. Sembra invece opportuno operare un’inversione metodologica nell’approccio al fenomeno, tentando di analizzare, in primo luogo, ancora l’aspetto dell’inquadramento giuridico-sistematico, che rappresenta sicuramente il punctum dolens nell’ambito delle tematiche connesse al fenomeno della delega di funzioni (10). 3. Le ipotesi di reato in materia d’impresa sono in larga parte figure di reato proprio, incentrate sulla realizzazione della condotta ad opera di un soggetto qualificato. I problemi relativi alla natura giuridica della delega sembrano, da questo punto di vista, discendere direttamente dalle difficoltà di individuazione dei soggetti responsabili (11), e questo sia per quanto attiene l’eventualità che si tratti di una persona giuridica e non fisica, sia, infine, per la distanza che talora si viene a stabilire tra l’intraneus ed il soggetto che materialmente pone in essere la condotta (12). Pur esulando dall’ambito delle presenti considerazioni un adeguato approfondimento di tutte le tematiche inerenti al reato proprio, si evidenzia chiaramente come solo attraverso un’analisi del ruolo che la qualifica soggettiva riveste nella struttura del reato sarà possibile indagare i riflessi penalistici del trasferimento di funzioni. La categoria del reato proprio non è stata oggetto, nella dottrina italiana, di organico approfondimento sotto il profilo dogmatico, preferendosi piuttosto riservare l’attenzione su specifici aspetti a tale tematica correlati (13). Individuare tutqualsiasi datore di lavoro la libertà di scegliere il modo attraverso il quale adempiere gli obblighi penalmente sanzionati ». Interessanti sono, a riguardo, alcune sentenze nelle quali la Suprema Corte, mutando parzialmente orientamento, ha, opportunamente, posto l’accento sulla complessità più che sulle semplici dimensioni dell’organizzazione produttiva. Così Cass. pen., sez. III, 3 marzo 1992, in Riv. giur. polizia locale, 1994, p. 199 e, da ultimo, Cass. pen., sez. II, 8 settembre 1994, in Riv. pen., p. 1041 « L’imprenditore può legittimamente delegare ad altro soggetto gli obblighi su lui gravanti che attengono alla tutela antinfortunistica, solo se si trovi impossibilitato ad esercitare di persona i poteri-doveri connessi alla condizione di naturale destinatario della normativa antinfortunistica, per la complessità ed ampiezza dell’azienda, per la pluralità di sedi e stabilimenti di impresa o per altre ragionevoli evenienze ». (10) Lucidamente evidenzia ALESSANDRI, Impresa, cit., p. 210, come « solo sulla base di una preliminare soluzione del quesito circa la natura e gli effetti della delega potrebbe porsi, razionalmente, la successiva questione circa i requisiti che in concreto devono esistere per far sorgere un trasferimento penalisticamente rilevante ». Parimenti critici sull’atteggiamento di dottrina e giurisprudenza PADOVANI, Diritto penale del lavoro3, cit., p. 63, che rileva come sovente si siano preferite « soluzioni empiriche, avulse da salde premesse concettuali e fondate più che altro su considerazioni casistiche che non hanno favorito l’inquadramento sistematico del fenomeno »; FIORAVANTI, Delega di funzioni, cit., p. 771, che sottolinea l’atteggiamento ambiguo, soprattutto in sede interpretativa, in merito all’efficacia da attribuire alla delega di funzioni. (11) Osserva SPIRITO, Datore di lavoro - imprenditore e tipicità dei soggetti nelle fattispecie omissive improprie colpose, in questa Rivista, 1986, p. 1165, come « il problema dei soggetti sia il problema del diritto penale dell’impresa » ed esaurisca in sé i temi dell’adeguatezza della sanzione, della determinazione dell’ambito oggettivo della fattispecie e dell’imputazione soggettiva. Su questo ultimo aspetto v. anche infra nota 3. (12) La questione si è posta in modo particolare nel campo del diritto del lavoro qualora un ente collettivo o comunque una persona giuridica sia datore di lavoro e, di regola, si è fatto ricorso, con opportuni adattamenti, a talune teorie quali quella organica e normativa tradizionalmente elaborate nel campo civilistico: v. PADOVANI, voce Reati contro il lavoro, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, p. 1207 ss., ove si accenna, quale ipotesi risolutiva, al ricorso ad un meccanismo di imputazione c.d. bifasica, che si risolverebbe nell’integrazione della proposizione normativa con le norme organizzative interne al fine di accertare, al verificarsi di un evento lesivo, quali persone fisiche, organi dell’ente, avrebbero dovuto agire od astenersi dall’agire; ID., Diritto penale del lavoro3, cit., p. 61 ss.; TRUCCO, Responsabilità penali nell’impresa: problemi di personalizzazione e delega, in questa Rivista, 1985, p. 775 ss.; FERRANTE, I soggetti responsabili nel diritto penale del lavoro, in Riv. pen. econ., 1995, p. 17 ss. (13) Pienamente condivisibili sul punto le osservazioni di DEMURO, Il bene giuridico proprio quale contenuto dei reati a soggettività ristretta, in questa Rivista, 1998, p. 845, il quale sottolinea che, fatta eccezione per talune risalenti indagini monografiche (MAIANI, In tema di reato proprio, Milano 1965; ALLE-
— 1512 — tavia quale sia — per utilizzare un’espressione di Carnelutti — « il requisito di più » che caratterizza il reato « particolare » rispetto al reato comune può risultare, nel caso di specie, di estrema utilità (14). La dottrina tradizionale tendeva a risolvere tale questione facendo riferimento alla particolare natura delle norme ‘‘proprie’’, che si indirizzerebbero ad una cerchia ristretta di destinatari (15), ovvero sottolineando la specialità della fattispecie quale unico elemento discretivo rispetto alle ipotesi di reato comune (16). In tempi più recenti si è infine elaborata la teoria dei c.d. beni giuridici limitatamente offendibili, che, invece, sposta l’attenzione dal piano della norma alle relazioni esistenti tra il soggetto attivo ed i beni giuridici protetti. Il reato proprio si caratterizzerebbe in quanto traduzione sul piano normativo della specialità dei beni giuridici in questione (17). Quest’ultima impostazione reca in nuce alcuni interessanti spunti di approfondimento. E questo non solo perché già su di un piano logico risulta preferibile (18) — non si comprenderebbe infatti quale fondamento sostanziale potrebbe avere una norma propria in assenza di un bene giuridico proprio — ma in quanto rivolge opportunamente l’attenzione sul nesso funzionale che intercorre tra il bene oggetto di tutela ed il soggetto qualificato (19). Questo legame risulta particolarmente ‘‘vivo’’ con riferimento ai reati omissivi sia propri che impropri. Il contrasto tra chi ritiene che le particolari qualità del soggetto si traducano nell’individuazione di un bene giuridico nuovo e speciale, e quella parte della dottrina secondo cui, invece, la posizione del soggetto nei reati propri inciderebbe non sull’identificazione dell’interesse, ma sul disvalore della GRA, Norme penali speciali e reati speciali, in Annali, 1939), si è manifestato un certo disinteresse da parte della dottrina italiana su tale tema. Le ragioni sono probabilmente anche da ricercare nella mancata introduzione, sulla falsariga dell’ordinamento tedesco, di una specifica disposizione in materia, nonché nella tendenza, a lungo prevalente in dottrina, ad analizzare il problema delle qualifiche soggettive in un’ottica normativista. (14) Così CARNELUTTI, Teoria generale del reato, Padova, 1933, p. 130. (15) È questa la tesi sostenuta da BETTIOL, Sul reato proprio, Milano, 1939, ora in Scritti giuridici, I, Padova, 1966, p. 409. L’Autore — richiamandosi alle teorie di BINDING, Handbuch des Strafrechts, Leipzig, 1885 ed al lavoro di NAGLER, Die Teilnahme am Sonderverbrechen, Leipzig, 1903 — parla di legge generale con limitata sfera di applicazione e di imperativi che si dirigono solo ad una cerchia ben delimitata di destinatari. Così pure MORO, Sul fondamento della responsabilità giuridica dell’estraneo che partecipi a reati propri, in Giust. it., 1948, IV, p. 27. Per una critica alla concezione imperativistica del diritto v. da ultimo PAGLIARO, Il concorso dell’estraneo nei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. proc., 1995, p. 975. (16) Per una compiuta esposizione delle teorie della Sondernorm e della Sondertatbestand e delle obiezioni ad esse rivolte v. DEMURO, Bene giuridico proprio, cit., p. 859 ss.; MAIANI, In tema, cit., p. 148 ss. (17) Ancora DEMURO, Bene giuridico proprio, cit., p. 864, osserva come seguendo questa impostazione teorica si dovrebbe concludere che ad essere qualificato è non tanto il soggetto quanto il bene in questione. Nella dottrina tedesca v., in generale, LANGER, Das Sonderverbrechen, Berlin, 1972. (18) DEMURO, Bene giuridico proprio, cit., p. 858, parla, con riferimento alla teoria del bene giuridico proprio — riprendendo una considerazione di LANGER, Sonderverbrechen, cit., p. 50 — di ‘‘una sorta di preponderanza genetica’’. Contra, FIORELLA, Sui rapporti tra bene giuridico e le particolari condizioni personali, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, (a cura di) STILE, Napoli, 1985, p. 194 ss. (19) Per evidenti ragioni di economia di indagine si è preferito non soffermarsi sulle teorie che individuano il dovere proprio come essenza del reato proprio, sia perché non sembra che sussista la differenza concettuale che di regola si tende ad evidenziare, sia perché larga parte di queste problematiche sono state elaborate nella dottrina tedesca con riferimento alle tematiche inerenti lato sensu alla partecipazione al reato. Del resto può essere utile ricordare come nella dottrina d’oltralpe il problema delle besondere persönliche Merkmale è stato prevalentemente studiato come limite alla teoria della accessorietà. Sul punto v., in generale, ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, Berlin-New York, 1994; ID., § 28, in Leipziger Kommentar-StGB, Berlin-New York, 1994; SAMSON, § 28, in RUDOLPHI-HORN-GÜNTHER-SAMSON (a cura di), SK-StGB, 1993; SCHILD, Täterschaft als Tatherrschaft, Berlin-New York, 1994. Per alcune considerazioni sui Pflichtdelikte nella dottrina italiana v. VENAFRO, voce Reato proprio, in Dig. disc. pen., XI, Torino, 1996, p. 342 ss.
— 1513 — condotta (20), sembra attenuarsi con riguardo a tale categoria di reati. Appare infatti indiscutibile che il substrato materiale sia rappresentato da una particolare relazione di affidamento ad un determinato soggetto della tutela di determinati beni (21). Avviene dunque che la responsabilità si riassuma in capo a determinati soggetti, in grado di provvedere alla tutela di specifici beni, in quanto capaci di ‘‘controllare’’ le fonti di pericolo, elemento, quest’ultimo, che costituisce la ‘‘base fenomenica’’ della c.d. posizione di garanzia, che a sua volta rappresenta l’equivalente della relazione ‘‘privilegiata’’ che lega i soggetti ai beni de quibus (22). La scelta, piuttosto frequente nel campo del diritto penale dell’economia, di individuare al vertice i centri di imputazione della responsabilità non ha dunque solo una valenza di politica criminale, ma è espressione della necessità squisitamente dogmatica di tener conto di questa particolare relazione tra la posizione rivestita dal soggetto ed i beni tutelati. 4. La contrapposizione di fondo nella ricostruzione, sotto un profilo teorico, del fenomeno della delega, è, come si è accennato, tra un’impostazione oggettiva ed una soggettiva (23). Anche in questo caso sembra tuttavia che a fondamento di tale distinzione vi sia una differente ‘‘visione’’ del concetto di reato proprio. L’individuazione infatti di soggetti qualificati quali garanti della salvaguardia di determinati beni, sostengono i fautori della tesi da ultimo menzionata, finirebbe con il condizionare la tipicità del fatto. Ferma restando dunque la ammissibilità della delega, questa non potrebbe che esplicare i suoi effetti sul piano della colpevolezza (24). Eventuali profili di responsabilità, rispettivamente, del delegante e del delegato potrebbero dunque apprezzarsi unicamente sul piano della colpa ovvero mediante il ricorso al meccanismo concorsuale. Dall’altro lato, invece, si denuncia la « ossificazione formalistica dell’indagine » (25) cui una tale opzione interpretativa condurrebbe. Si sottolinea in particolar modo — con questo riprendendo le argomentazioni addotte da parte della dottrina tedesca (26) — come il legislatore, nell’incardinare la responsabilità in capo a determinati soggetti, abbia piuttosto inteso fissare il principio generale se(20) Per le opposte tesi v. VENAFRO, Reato proprio, cit., p. 340 ss., la quale sostanzialmente condivide l’impostazione sul punto di Roxin; FIORELLA, Sui rapporti, cit., p. 199. Contra, DEMURO, Bene giuridico proprio, cit., pp. 885-886. Di particolare interesse sono le perplessità sollevate dall’Autore sulla perfetta compatibilità delle tesi di Roxin con un diritto penale fondato sul paradigma « reato come fatto offensivo di un bene giuridico » (v. nota 163). (21) Fa riferimento DEMURO, Bene giuridico proprio, cit., p. 887 — richiamandosi al concetto di Überantwortung utilizzato da Langer — all’esistenza di un vero e proprio rapporto ‘‘privilegiato’’ tra soggetto attivo e bene giuridico tutelato. (22) V., tra gli altri, ALESSANDRI, Impresa, cit., p. 196 e 201, secondo cui « il tema degli illeciti commessi nell’esercizio dell’impresa è intessuto di reati propri, che portano in superficie vere e proprie posizioni di garanzia, indipendentemente dalla morfologia delle singole ipotesi di reato »; PADOVANI, voce Reati della navigazione, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, p. 1199, che sottolinea come « il terreno d’elezione dei reati propri o esclusivi è rappresentato dagli ordinamenti particolari a struttura gerarchica, in cui l’identificazione della lesione penalmente rilevante si interseca con i vincoli di natura funzionale che caratterizzano l’inserimento del soggetto nell’ordinamento in questione, e con le esigenze, pure di natura funzionale, che scaturiscono dalla salvaguardia degli interessi cui tale ordinamento risulta finalizzato ». (23) A questo riguardo PAGLIARO, Problemi, cit., p. 20, parla di una teoria ‘‘formale-civilistica’’ e di una teoria ‘‘funzionalistica’’, sebbene tale distinzione, come peraltro quella prospettata tra ‘‘oggettivisti’’ e ‘‘soggettivisti’’, non risulta, come vedremo, compiutamente rappresentare il composito panorama dottrinale in materia. (24) Per tutti v. PADOVANI, Diritto penale del lavoro3, cit., p. 74, che sottolinea in modo netto come il datore di lavoro conservi sempre sul piano obiettivo il ruolo di garante dell’adempimento, mentre sarà sul piano della misura della diligenza esigibile che potranno venire in considerazione elementi quali la dimensione dell’impresa o la complessità della struttura organizzativa. (25) L’espressione è di ALESSANDRI, Impresa, cit., p. 203. (26) Il riferimento è, in primo luogo, alle posizioni teoriche espresse da WIESENER, Die strafrechtliche Verantwortlichkeit von Stellvertretern und Organen, 1971.
— 1514 — condo cui rileverebbe non la mera titolarità formale della qualifica, ma l’effettivo esercizio dei poteri e delle funzioni cui corrisponderebbe l’assunzione dei correlativi doveri e responsabilità, di modo che « colui che possiede effettivamente questa sfera di mansioni ed è pertanto qualificato a realizzare il fatto tipico del reato, deve, per ciò stesso, considerarsi anche qualificato come autore di esso » (27). Altri ancora ritengono risolutivo il ricorso ai principi in materia di trasferimento delle posizioni di garanzia. Si sostiene, più precisamente, che l’obbligo di garanzia gravante sull’imprenditore permane poiché conseguenza necessitata della posizione giuridica da questi rivestita e derivante peraltro dalla stessa legge (28); questo tuttavia non escluderebbe la possibilità di costituire posizioni di garanzia derivate. Di tal che la delega di funzioni, pur non spiegando efficacia liberatoria nei confronti del delegante, produrrebbe l’effetto ‘‘oggettivo’’ di modificare il contenuto della situazione originaria, nel senso che all’obbligo di un suo adempimento diretto si sostituirebbe « un’attività di coordinamento organizzatorio, di direzione e controllo dell’attività del delegato » (29). In altri termini, esisterebbe un vero e proprio « residuo non delegabile », rappresentato dal « potere-dovere di organizzare l’impresa in modo adeguato alla salvaguardia degli interessi di terzi, messi in gioco nello svolgimento dell’attività d’impresa e perciò oggetto della garanzia dovuta dall’imprenditore » (30). La contrapposizione poi tra rilievo oggettivo e soggettivo della delega rappresenterebbe, si è fatto notare, un falso problema, potendo agevolmente risolversi facendo applicazione delle acquisizioni più recenti in tema di c.d. doppia misura della colpa (31). Vi è infine chi ha fatto riferimento al principio dell’affidamento quale criterio di ripartizione della responsabilità tra delegante e delegato (32). L’assunto di base è da ricercare nella riconduzione delle norme in materia di distribuzione del carico prevenzionistico (art. 4 del d.P.R. n. 547/1955 ed art. 1, comma 4-bis, del d.lgs. n. 626/1994) al concetto di disciplina ex art. 43 c. p. Questo consentirebbe infatti di individuare alcune regole di condotta a contenuto cautelare cui gli stessi dele(27) Così WIESENER, Die strafrechtliche Verantwortlichkeit, cit., p. 147. Nello stesso senso v. F. VASSALLI, La responsabilità penale per il ‘‘fatto dell’impresa’’, in prefazione a JORI, Organizzazione dell’impresa e responsabilità penali, Firenze, 1981, secondo cui la nozione di reato proprio « non si riferisce tanto ad un soggetto qualificato, quanto piuttosto ad una condotta tipica [...] che, in virtù della loro posizione di potere, quei soggetti sono in grado di produrre »; cfr., inoltre, FIORELLA, Il trasferimento, cit., p. 87 ss. (28) Sul punto v., per tutti, PEDRAZZI, Profili, cit., p. 28, che considera tali doveri in capo all’imprenditore come assolutamente speculari all’esercizio di quella libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 cost. e comunque derivanti direttamente dal disposto dell’art. 2087 c.c., che gli affida la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro; ALESSANDRI, Impresa, cit., p. 211, secondo cui la « la creazione di posizioni di garanzia derivate non è altro che un modo di adempiere al precetto penale ». (29) Testualmente GRASSO, Organizzazione aziendale, cit., p. 753. In termini sostanzialmente analoghi ALESSANDRI, Impresa, cit., p. 212, rileva come, in un certo senso, l’obbligo di garanzia dell’imprenditore si ‘‘trasferisca’’ sul piano organizzativo imponendogli che « quella stessa diligenza a lui richiesta percorra la struttura a ciò deputata ». Di uno spostamento più che di una delimitazione del dovere di diligenza parla VITARELLI, Evento colposo e limiti del dovere obiettivo di diligenza nella responsabilità penale del direttore di stampa periodica, in questa Rivista, 1990, p. 1234. (30) È questa la posizione espressa da PULITANÒ, Igiene, cit., p. 108. (31) PULITANÒ, Inosservanza, cit., p. 71 e letteratura ivi citata. L’A. sottolinea come attribuendo rilievo alla violazioni di regole di diligenza già sul piano della tipicità del fatto, logica conclusione è che, a condizione che il delegante abbia adempiuto ai suoi doveri, l’evento realizzatosi o il comportamento di terzi non sarà a lui obiettivamente imputabile come fatto proprio. (32) Il riferimento è a M. MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., p. 359 ss., il quale in realtà si occupa più specificamente del problema della ripartibilità di funzioni nel campo della prevenzione degli infortuni, sebbene il « respiro » più ampio dell’indagine si desuma dalla presa d’atto del ruolo di « settorepilota » sia per le elaborazioni dottrinali che giurisprudenziali. Sul principio dell’affidamento in materia di infortuni sul lavoro v. anche VOLPE, Infortuni sul lavoro e principio di affidamento, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 102 ss.; VENEZIANI, Infortuni sul lavoro e responsabilità per omesso impedimento dell’evento: problemi attuali, ivi, 1998, p. 993 ss.
— 1515 — gati dovrebbero uniformarsi e che rappresenterebbero il presupposto di operatività del meccanismo dell’affidamento. Il garante primario, sia esso imprenditore o datore di lavoro, potrà pertanto legittimamente confidare che i soggetti delegati si comportino secondo i parametri di diligenza richiesti, di modo che alla ripartizione di mansioni all’interno della struttura organizzativa corrisponda anche un frazionamento degli obblighi di diligenza (33). 5. Il composito panorama dottrinale dimostra, con una certa evidenza, la difficoltà, in assenza di una espressa previsione normativa in materia, di procedere ad un compiuto e sicuro inquadramento del fenomeno de quo. Se infatti non sembra contestabile che il delegante sia titolare di una posizione di garanzia ex lege (34), più difficile risulta definire gli effetti del trasferimento di funzioni, e questo per quanto riguarda sia la posizione del delegante che quella del delegato. Tuttavia l’analisi dei diversi orientamenti emersi in dottrina e giurisprudenza offre ulteriori spunti di riflessione. In primo luogo, il continuo riferimento da parte della teoria c.d. funzionalista ai presupposti, di individuazione giurisprudenziale, di validità della delega non appare decisiva ai fini della risoluzione del problema della sua natura giuridica, sia perché la Suprema Corte ha sempre accuratamente evitato di intervenire nella querelle, sia per l’esplicito riconoscimento, a più riprese operato, dell’esistenza di settori in cui non sarebbe attribuibile un effetto liberatorio alla delega (35). Parimenti significativo è il riconoscimento, ad opera dei più autorevoli sostenitori di tale teoria, dell’esistenza di funzioni intrasferibili e soprattutto del permanere di un, non meglio definito, dovere di vigilanza in capo al delegante (36). Ma ancora più difficile risulta pervenire ad una soluzione accettabile nel caso in cui, avvenuto il trasferimento di funzioni, il delegante venga a conoscenza di eventuali inadempienze del delegato. A voler infatti essere coerenti si dovrebbe (33) M. MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., pp. 360 e 361, parla di una « limitazione degli obblighi di diligenza di pertinenza del garante originario-delegante per un’estensione corrispondente a quella coperta dagli obblighi cautelari riversati sul garante secondario-delegato ». (34) Su tale aspetto si registra una certa uniformità di vedute in dottrina, permanendo invece contrasti circa l’esatta individuazione della fonte legale dell’obbligo, indicata a volte nell’art. 2086 c.c. o piuttosto nel disposto dell’art. 2087 c.c.. Sul punto v., per tutti, PULITANÒ, Igiene, cit., p. 107 ss. (35) Per quanto riguarda il primo rilievo si vuole solo evidenziare come nell’ambito giurisprudenziale non ci si sia soffermati ad analizzare, una volta avvenuta la delega di funzioni, quali siano i riflessi sulla posizione giuridica del delegante e del delegato. Relativamente alla seconda questione esemplificative appaiono alcune pronunce in materia di inquinamento delle acque ma soprattutto in materia tributaria, ove la Suprema Corte, con una certa costanza, ha fortemente limitato se non, in numerosi casi, escluso il ricorso alla delega. In argomento v. Cass. pen., sez. III, 11 aprile 1989, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 145 ss., con nota critica di SERENI; Cass. pen., sez. III, 7 febbraio 1996, in Cass. pen., 1997, p. 1871 « in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, se la norma penale prevede un reato che è proprio del titolare dell’impresa (in qualunque modo egli sia indicato nella norma medesima), anche in caso di delega ad altri delle sue funzioni, il titolare non si spoglia delle responsabilità, poiché l’obbligo originario si trasforma in obbligo di garanzia, ed egli risponde a norma dell’art. 40 c.p. ammenoché nessuna colpa gli sia addebitabile »; Cass. pen., sez. III, 4 luglio 1996 , in Fisco (Il), 1996, p. 11207 e, di recente, Cass. pen., sez. III, 11 marzo 1999, in Guida al diritto, fasc. 14, 1999, p. 79 ss., nella quale, pur confermandosi il tradizionale orientamento restrittivo in materia di adempimento di obblighi tributari, si apre uno spiraglio prevedendo espressamente che il legale rappresentante possa andare esente da responsabilità allorchè provi « di essere stato un uomo di paglia e di non aver scientemente accettato la situazione ». (36) Tali critiche sono ovviamente rigettate, come inconferenti, da FIORELLA, Il trasferimento, cit., pp. 175 ss. e 314, il quale sottolinea come, per quanto riguarda il primo aspetto, l’intrasferibilità non sarebbe certo ontologica né deriverebbe dalla strutturazione delle singole fattispecie penali, ma piuttosto dalla normativa extrapenale richiamata. Con riferimento poi alla seconda questione, il permanere di una situazione di dovere sul delegante è utilizzata dall’Autore come ulteriore argomento per confermare l’esistenza di un’efficacia già su di un piano oggettivo della delega. Sul punto v. anche PAGLIARO, Problemi, cit., p. 23, che, pur aderendo all’impostazione sopra delineata, deve ammettere che « una delega non sposta mai (o quasi mai) tutti i poteri e doveri: normalmente rimangono doveri di controllo e vigilanza ».
— 1516 — concludere per la sua non punibilità, dal momento che già sul piano oggettivo non sarebbe più configurabile a suo carico una situazione di dovere. Considerazioni essenzialmente di politica criminale portano invece a ravvisare una responsabilità a titolo di concorso del delegante. Conclusione, quest’ultima, che, in tale contesto argomentativo, non sembra condivisibile, sia che si ritenga effetto di una riassunzione delle funzioni da parte del delegante medesimo, sia che si ravvisi una normale ipotesi di concorso dell’estraneo nel reato proprio (37). Nel primo caso infatti è logico dedurre, salvo ci si limiti a prendere atto di tale fenomeno di riviviscenza, quantomeno il permanere in capo al delegante, per quanto delimitato e frazionato che lo si consideri, di un obbligo di garanzia. Deduzione questa che metterebbe in crisi lo stesso fondamento della teoria funzionalista. A voler invece accedere alla seconda tesi, si perverrebbe alla conseguenza di far rispondere come estraneo il primitivo destinatario delle norme in materia di reato proprio con ciò eludendo la scelta operata dal legislatore, in sede di selezione dei garanti, di tener conto della particolare relazione tra la qualifica e l’interesse protetto, proiettandola sul fatto costitutivo del reato (38). Perplessità derivano tuttavia anche dall’utilizzazione del meccanismo dell’affidamento, sebbene appaia condivisibile lo sforzo di individuare, nell’ambito di una impostazione soggettivistica, la fonte formale dell’obbligo del delegante. Pare infatti molto dubbio che le norme attributive di competenze in materia di prevenzione antinfortunistica, individuando figure ulteriori di garanti rispetto al datore di lavoro, ed in genere le norme di organizzazione interna, siano da qualificare come ‘‘discipline’’ ex art. 43 c.p. Non sembra possibile supplire alla mancata natura cautelare di tali disposizioni argomentando che essa deriverebbe per via mediata dalla natura degli obblighi su cui vanno ad incidere (39). Nelle ipotesi di colpa specifica l’art. 43 c.p. richiede espressamente uno stringente Risikozusammenhang tra la violazione della regola di condotta a contenuto cautelare e lo specifico pericolo che essa mirava a prevenire. Nel caso di specie sembra invece mancare tale nesso, salvo ritenere che l’atto attraverso cui vengono individuate determinate sfere di signoria in capo al delegato riassuma in sè il contenuto di tutti i singoli obblighi a contenuto cautelare il cui adempimento viene richiesto, con le ovvie conseguenze quanto al rispetto del principio di tassatività. Ma è la stessa logica sottesa al principio dell’affidamento che, in questo caso, mostra i suoi inevitabili limiti. Una rigida applicazione di tale paradigma concettuale condurrebbe, a seconda dei punti di vista, ai due opposti estremi della scusabilità, quasi in ogni ipotesi, del delegante, ovvero al rischio di circoscrivere, in modo significativo, l’ambito di operatività del meccanismo concorsuale anche in casi in cui apparirebbe legittimo il ricorso a tale istituto (40). (37) Così FIORELLA, Il trasferimento, cit., p. 173; PAGLIARO, Problemi, cit., p. 23, il quale ritiene che, nell’ipotesi prospettata, dovrebbero trovare applicazione i normali principi in materia di concorso nel reato proprio con la sola variante che extraneus sarà da considerare, a seguito del trasferimento di funzioni, il delegato e non il delegante originariamente destinatario degli obblighi. La tesi sembra tuttavia contraddire l’impostazione di fondo. Se si ritiene che, insieme alle funzioni, si trasferisca anche la qualifica non si comprenderebbe a quale titolo il garante originario, in assenza di uno specifico apporto materiale, sarebbe tenuto a rispondere, non gravando più su di lui alcun obbligo giuridico di impedire l’evento. (38) Di estremo interesse le osservazioni, di carattere generale di PADOVANI, Diritto penale del lavoro3, cit., p. 72, secondo cui ciò equivarrebbe a « spostare il piano della tipicità, ricostruendo una fattispecie diversa in relazione all’inerzia di un diverso soggetto ». (39) È questa la tesi sostenuta da M. MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., p. 358, per il quale « la valenza cautelare delle predette norme interne e la correlativa possibilità di includerle fra le discipline contemplate dall’art. 43 c.p. discendono in via mediata, vale a dire per il tramite degli obblighi che esse — distribuendoli — intervengono a regolare ». (40) Una coerente applicazione del principio dell’affidamento dovrebbe infatti importare che, una volta attribuite determinate funzioni, il delegante possa appunto confidare, sempre e comunque, nell’operato diligente del delegato, conclusione che, per evidenti ragioni politico-criminali, si tende ad escludere.
— 1517 — Le brevi considerazioni svolte suggeriscono, ovviamente nel tentativo di rinvenire una soluzione che sia attenta alle moderne esigenze di divisione del lavoro senza tuttavia mortificare i fondamenti del nostro ordinamento, di preferire i postulati della tesi, per così dire, intermedia, che fa applicazione dei principi generali in materia di trasferimento delle posizioni di garanzia. L’assunto di fondo è sì rappresentato dal riconoscimento all’originario garante della possibilità di costituire posizioni di garanzia derivate, così valendosi di una struttura organizzativa per provvedere alla tutela di determinati beni, ma questo senza che costui possa dismettere la posizione di destinatario legale di doveri penalmente sanzionati separatamente dal ruolo cui la legge si riferisce (41). In tal modo, in linea con le posizioni espresse da autorevole dottrina (42), si tiene in giusto conto la relazione, già più volte sottolineata, tra la particolare natura dei beni in questione e la necessità che alla loro tutela provvedano soggetti qualificati. Ma, al contempo, si prende atto dell’inevitabile modificazione che, per effetto della delega, si determina sul contenuto della posizione di garanzia gravante sull’obbligato originario (43). Estremamente interessante è rilevare, a questo riguardo, come, sebbene questa particolare relazione di affidamento sia una nota peculiare delle posizioni di garanzia, siano esse di protezione o di controllo, essa si atteggi in modo diverso nelle due ipotesi. In entrambe in realtà si è assolutamente concordi, sia sul piano dell’elaborazione teorica che in sede applicativa, nel dare prevalenza, in caso di trasferimento della relativa posizione ed ai fini della liberazione del garante originario, al profilo sostanziale dell’effettiva presa in carico del bene. Mentre però si è soliti, quando vengono in rilievo posizioni di protezione, escludere, alle condizioni sopra richiamate, la permanenza di un obbligo giuridico in capo al garante originario, è ravvisabile invece una tendenza, variamente espressa nell’ambito della dottrina, secondo cui residuerebbe comunque, per le posizioni di controllo, un frammento della situazione iniziale di dovere in capo al delegante; conclusione, quest’ultima, probabilmente dettata dalla stretta connessione esistente tra titolarità dei poteri di controllo ed organizzazione e qualifica formalmente rivestita. Sembrerebbe dunque che, nel valutare la trasferibilità di dette posizioni, si seguano orientamenti diversi, nel senso di ammettere un trasferimento definitivo delle posizioni di controllo attraverso la cessione della propria posizione legale (ipotesi di difficilissima, se non impossibile, verificazione con riguardo alle posizioni di protezione), imponendo invece dei limiti alla costituzione di posizioni di garanzia derivate ed optare per una soluzione opposta qualora si tratti di posizioni di protezione (44). Da qui le perplessità sul ruolo da attribuire a tale principio espresse da parte autorevole della dottrina tedesca: v., per tutti, FRISCH, Tatbestandmäßiges Verhalten und Zurechnung des Erfolges, München, 1988, in particolare p. 237 nota 30. Per quanto riguarda poi il secondo ordine di problemi si intende solo sottolineare come è ben possibile che una determinata condotta dotata di una pericolosità ‘‘astratta ed indeterminata’’ si appoggi ad una condotta altrui in immediata connessione di rischio rispetto all’evento lesivo che la regola cautelare mirava a prevenire, ma ciò può avvenire solo in quanto l’originaria atipicità sia colmata dall’operare del meccanismo concorsuale, e questo sia che si attribuisca rilievo preminente all’esistenza di un legame psicologico, sia che si risolva il problema sul piano della fattispecie oggettiva. Sul punto v., in generale, RISICATO, Il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, in questa Rivista, 1998, p. 132 ss. e bibliografia ivi richiamata; ROBLES PLANAS, La participación en los delitos imprudentes: estado de la cuestion y aproximación personal a la problematica, in corso di pubblicazione, p. 17 e ss. del dattiloscritto. (41) Così PULITANÒ, Inosservanza, cit., p. 70; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 439. (42) A ragione FIORAVANTI, Delega di funzioni, cit., p. 777, pone l’accento sulla « sostanziale simmetria » tra questa impostazione e le tesi sostenute dai soggettivisti, primo fra tutti, Padovani. (43) V. retro n. 3. (44) In argomento v., per tutti, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano,
— 1518 — Che non esista peraltro una significativa distanza concettuale rispetto alle teorie soggettiviste è dimostrato da un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo gli stessi soggettivisti puri, allorché ammettono (e non potrebbe essere altrimenti vista la legislazione in materia) l’esistenza di garanti ulteriori, implicitamente riconoscono che, in qualche misura, anche la situazione giuridica del delegante si presenti strutturalmente diversa. Ma ad essere analoga, nelle due ricostruzioni, è la qualificazione dell’effetto della delega, che non sarà mai di ricostruire una nuova tipicità in relazione al fatto posto in essere da un soggetto diverso rispetto al garante originario, ma di ritenere ancora quest’ultimo destinatario delle relative situazioni di dovere ed escludere la sua responsabilità solo ove si dimostri che si sia attenuto alla misura di diligenza richiesta ovvero che il comportamento dovuto non fosse in concreto esigibile (45). L’esistenza di un nucleo duro di funzioni strettamente legate alle qualità del soggetto qualificato e come tali non trasferibili si evince, anche con una certa chiarezza, dalla stessa recente normativa in materia di sicurezza sul lavoro, laddove si prevede (art. 1 comma 4-ter, d.lgs. n. 626/1994) l’esistenza di taluni adempimenti non delegabili da parte del datore di lavoro (46). Non sembra invece affatto sostenibile, come pure è stato proposto (47), che, con il provvedimento de quo, si sia inteso avallare un’impostazione funzionalista nella ricostruzione del fenomeno della delega. Lungi infatti dal prendere posizione su tale questione, ci si è esclusivamente limitati, come sopra evidenziato, a dare formale riconoscimento a tale istituto e ad individuare, secondo una tecnica legislativa già sperimentata, accanto al datore di lavoro, altre figure di garanti ex lege, i quali, in virtù del disposto del comma 4-bis dell’art. 1, sono tenuti, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, relativamente alle attività che dirigono o sovrintendono, all’osservanza delle disposizioni legislativamente previste in materia di sicurezza sul lavoro, senza peraltro affrontare i punti nodali in materia. Traspare tuttavia, in alcune pronunce, una certa tendenza a confondere i due piani. Paradigmatico è il caso che ha dato occasione alla decisione in oggetto. In primo grado l’imputato era stato assolto proprio perché, ad avviso del giudice, egli si era attenuto alle prescrizioni contenute nella delega e, ad ogni modo, 1995, sub art. 40 c.p., p. 357 ss., ed in particolare pp. 361 e 362. Per una più approfondita analisi delle diverse categorie di obblighi di agire, v. da ultimo LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999. (45) Osserva FLORA, I soggetti, cit., p. 557, come, anche attribuendo alla delega la creazione di nuove posizioni di garanzia ad assumere assoluta preminenza è l’elemento soggettivo, al punto che l’A. propone un mutamento di prospettiva muovendo, piuttosto che dalla individuazione dei soggetti responsabili, dall’esigenza di « accertare, di volta in volta, alla colpa di chi è riconducibile il singolo evento offensivo verificatosi ». (46) Per comodità del lettore si riporta il testo dei commi 4-bis e ter dell’art. 1, d.lgs. n. 626/1994: « Il datore di lavoro che esercita le attività di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 e, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, i dirigenti e i preposti che dirigono o sovrintendono le stesse attività, sono tenuti all’osservanza delle disposizioni del presente decreto ». « Nell’ambito degli adempimenti previsti dal presente decreto, il datore di lavoro non può delegare quelli previsti dall’art. 4, commi 1, 2, 4, lettera a), e 11, primo periodo ». (47) In questo senso v. BASENGHI, La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici, in AA.VV., La sicurezza del lavoro. Commento al d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, (a cura di) GALANTINO, p. 89 ss., il quale più esattamente ritiene il principio di effettività come criterio ispiratore dell’intervento legislativo; cfr. inoltre BELLAGAMBA-CARITI, La responsabilità penale per infortuni sul lavoro, Torino, 1998, p. 37 ss. Appare invece significativa della mancanza di una visione generale da parte del legislatore la semplice constatazione dell’assoluta assenza di ogni riferimento, nella stesura originale, al fenomeno della delega, che aveva indotto parte della dottrina ad interpretarlo come un aperto segno di ostilità, nei riguardi di tale strumento, da parte del legislatore medesimo. Di questo avviso CULOTTA, Obblighi prevenzionali del datore di lavoro e facoltà di delega a dirigenti e preposti nel quadro della nuova normativa di derivazione comunitaria, in Riv. crit. dir. lav., 1995, p. 253. Sul punto v. anche supra n. 1.
— 1519 — non era dotato dei poteri di autonomia e spesa necessari a configurare a suo carico un’ipotesi di responsabilità. Il Procuratore generale della Repubblica, opportunamente, non ha invece insistito, al fine di ottenere l’annullamento della sentenza, sul contenuto della delega, ma ha denunciato, in sede di ricorso, il vizio di violazione di legge assumendo « che non sia l’oggetto della delega a definire gli obblighi del preposto ad attuare le misure antinfortunistiche in quanto tali obblighi discendono dalla stessa posizione assunta in forza della delega ». Il Supremo Collegio ha, a sua volta, in modo incisivo sottolineato la confusione che si era determinata tra « il ruolo, la funzione, la responsabilità del delegato in senso tecnico con la posizione del preposto » ed ha ritenuto unico responsabile l’imputato, proprio in quanto ha escluso la ricorrenza nell’ipotesi sottoposta al suo esame di una delega di funzioni, qualificando piuttosto l’atto di attribuzione dei poteri come nomina di un preposto con l’effetto di determinare le sue funzioni esclusivamente sulla base del quadro dei poteri e doveri delineati dall’art. 90, d.lgs. n. 626/1994. 6. La difficoltà di rinvenire una soluzione appagante del problema della delega è peraltro dimostrata dai numerosi tentativi, che si sono succeduti, di stimolare, il legislatore ad intervenire sul punto. La proposta che presenta, per la sua stessa natura, il maggior grado di sistematicità è quella elaborata dalla Commissione Vassalli-Pagliaro nel 1992 che interviene sul problema delle qualifiche soggettive, della espressa previsione normativa di doveri di sorveglianza e sul trasferimento di funzioni medesimo (48). L’impianto complessivo sembra indubbiamente denotare una spiccata preferenza per l’approccio funzionalista. Si introduce infatti il principio che soggetto attivo sia non solo il formale titolare della qualifica ma anche colui che, mediante l’esercizio di fatto di un’attività, sia divenuto titolare dei poteri e doveri giuridici che tale qualifica denota; si individuano la liceità e l’effettività quali condizioni cui subordinare l’efficacia liberatoria del trasferimento di funzioni, ed infine si prevede, in aggiunta al classico obbligo di garanzia, un obbligo di sorveglianza per conoscere della commissione di reati e di informazione del titolare del bene o del garante. Tali ipotesi di riforma appaiono peraltro suscettibili di osservazioni critiche. Anche volendo prescindere dalla disciplina riservata alle qualifiche soggettive ed all’irragionevole ampliamento della tipicità del reato proprio che questa determina, è in primo luogo l’introduzione dei canoni della liceità e dell’effettività che desta qualche ragionevole dubbio. Se infatti, con la prima espressione, si è voluta probabilmente ribadire l’esistenza di funzioni intrasferibili, il riferimento all’effettività presenta note di ambiguità. Qualora vada inteso come riformulazione sintetica dei presupposti della delega già individuati in sede di elaborazione giurispru(48) Il riferimento è allo Schema di Disegno di legge-delega al Governo per l’emanazione di un nuovo codice penale, adesso pubblicato in PISANI (a cura di), Per un nuovo codice penale, in Quaderni de ‘‘L’indice penale’’, Padova, 1993. Per comodità del lettore si riporta il testo degli artt. 9 e 11: ART. 9. (Soggetto attivo). — 1. « Stabilire che quando la legge penale indica il soggetto attivo mediante una qualifica soggettiva, che implichi la titolarità di un dovere o potere giuridico, essa ha come destinatario il formale titolare della stessa o chi, mediante l’esercizio di fatto di un’attività, è divenuto titolare di tali poteri e doveri giuridici ». 2. « Prevedere che solo il trasferimento lecito ed effettivo delle funzioni che fondano l’obbligo liberi l’originario titolare di quest’ultimo ». ART. 11. (Reati omissivi). — (Omissis). 3. « Titolare dell’obbligo di sorveglianza è la persona che, priva dei suddetti poteri impeditivi, è giuridicamente tenuta a sorvegliare per conoscere della commissione dei reati e comunque ad informarne il titolare del bene o il garante ».
— 1520 — denziale, quel riferimento nulla sembra innovare rispetto allo stato del dibattito in materia; se invece si fosse voluto introdurre un requisito nuovo ed ulteriore, si tratterebbe certamente di un canone equivoco e di difficile determinazione (49). Così pure la scelta di prevedere obblighi di sorveglianza finirebbe con il riproporre le controversie dottrinali sorte in sede di interpretazione dell’art. 40 cpv. c.p., unitamente alla difficoltà di intervenire a tipizzare tali obblighi (50). Per i motivi che si sono sopra accennati non appare neanche percorribile la strada di tipizzare gli obblighi extrapenali del datore di lavoro alla cui violazione collegare sanzioni penali, strada che peraltro sancirebbe anche il definitivo abbandono della possibilità di regolamentare tale istituto facendo ricorso a strumenti tipicamente penalistici (51). Insoddisfacente, se non addirittura eversiva, sarebbe infine la scelta di incentrare l’intero disvalore penale sull’omesso impedimento o omesso esercizio di poteri, prevedendo dunque un disvalore di condotta omissiva del tutto disgiunto da un disvalore di evento (52). Questo infatti non solo condurrebbe ad una eccessiva anticipazione della soglia di tutela (53), portando a punire ipotesi che non sono sanzionate neanche sul piano civilistico, ma finirebbe con lo snaturare la stessa funzione dell’evento (ove ci sia) nelle fattispecie penali in oggetto, che sarebbe degradato a mera condizione obiettiva di punibilità. Se è vero poi che la previsione di tali condizioni è il risultato di una scelta politico-criminale operata dal legislatore sulla base di un bilanciamento tra beni giuridici diversi, non si comprende come si possa sacrificare la tutela dell’incolumità personale, che rappresenta il bene giuridico protetto in settori in cui tradizionalmente si è posto il problema della delega (si pensi alla materia prevenzionistica), senza mutare la stessa oggettività giuridica delle ipotesi de quibus. Nel quadro delle ipotesi delineate merita invece particolare attenzione e risulta anche di più agevole attuazione la proposta di prevedere un’espressa norma in cui, da un lato, si determinino le condizioni e gli effetti derivanti dal trasferimento di determinate funzioni, e, dall’altro, si lasci tuttavia residuare una responsabilità in capo al delegante allorché questi, pur essendo venuto a conoscenza di elementi che dovevano indurlo ad agire, si sia astenuto dal farlo. In tempi anche recenti si è peraltro insistito sulla necessità di individuare questo ‘‘doppio livello’’ di tutela. Il riferimento è al Corpus Iuris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea, che dovrebbe rappresentare, negli intendimenti dei formulatori, la base per la futura creazione di un codice penale europeo. In esso nel tentativo di rinvenire un momento di sintesi delle esperienze dei diversi ordinamenti, si individuano precise e stringenti condizioni cui subordinare (49) Sul punto v. FIORAVANTI, Delega di funzioni, cit., p. 773. (50) Istruttiva è del resto l’esperienza di altri ordinamenti dove in sede di elaborazione di progetti di riforma si era avanzata la richiesta di tipizzare gli obblighi di garanzia poi disattesa in sede legislativa (il riferimento è al § 12 dell’Alternativ Entwurf del 1966). (51) Pare solo il caso di rilevare come, a questo proposito, serva da monito l’esperienza dell’ordinamento tedesco, dove esiste una norma espressa in materia, ma la dottrina ne ha, a più riprese contestato, l’eccessivo irrigidimento su parametri civilistici. Per una articolata esposizione delle problematiche emerse nella dottrina e giurisprudenza d’oltralpe v. SCHÜNEMANN, § 14, in Leipziger Kommentar-StGB, 11a ed., Berlin-New York, 1993. (52) Escludono in modo reciso che sia percorribile, nel nostro ordinamento, la strada di una contrapposizione tra un autonomo disvalore di azione ed il disvalore dell’evento MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 2a ed., Milano, 1999, p. 389. (53) FLORA, I soggetti, cit., p. 565, unitamente a tale concreto rischio denuncia anche quello di creare delle ipotesi dai contorni eccessivamente sfumati ed incentrate unicamente su « un genericissimo obbligo di vigilare sul generale andamento della gestione ».
— 1521 — la validità di una delega di poteri, ma si insiste al contempo sulla necessità di mantenere comunque un dovere generale di sorveglianza e controllo a carico dell’imprenditore ed un nucleo di attribuzioni a lui necessariamente inerenti (a questo preciso riguardo l’art. 13, n. 2 parla testualmente, con espressione che probabilmente creerà problemi di interpretazione, di « ambiti propri dell’imprenditore » rispetto ai quali la delega rimarrebbe esclusa e, più precisamente, stabilisce che « una delega dei poteri e della responsabilità penale è valida solo se essa è parziale, precisa e speciale, se corrisponde ad un’organizzazione necessaria dell’impresa e se i delegati sono effettivamente in grado di adempiere le funzioni delegate. Tale delega non esclude la responsabilità generale di controllo, di sorveglianza e di scelta del personale e non concerne gli ambiti propri dell’imprenditore, quali l’organizzazione generale del lavoro all’interno dell’impresa ») (54). La necessità di prevedere forme di tutela che, senza importare ingiustificati arretramenti della punibilità né tantomeno acuire le difficoltà di accertamento dell’elemento soggettivo, consentano tuttavia di sanzionare la condotta del delegante che, in presenza di un trasferimento di funzioni valido ed efficace, pur essendo venuto a conoscenza del comportamento inadempiente del delegante, colposamente, non si attivi per impedire la commissione di reati da parte di quest’ultimo, potrebbe essere parimenti soddisfatta attraverso la espressa tipizzazione di una figura di agevolazione colposa. In tale modo si realizzerebbe un contemperamento degli opposti interessi ammettendo sì, a determinate condizioni, il permanere di una residua responsabilità in capo al delegante ma subordinandola all’esistenza di un altrui fatto illecito cui il suo comportamento sia causalmente legato ed alla presenza del coefficiente soggettivo della colpa (55). In definitiva, tanto l’introduzione di un’ipotesi di agevolazione colposa, su cui notoriamente si registra in dottrina una cospicua quantità di consensi (56), quanto l’ingresso di una disposizione normativa strutturata come sopra specificato, sembrerebbero rispondere alla necessità di garantire le ineludibili esigenze di divisione del lavoro, senza tuttavia sacrificare sull’altare di una presunta giustizia sostanziale le ragioni dettate dal rispetto del principio di colpevolezza (57). ANTONIO GULLO Dottorando in diritto penale dell’economia presso l’Università di Messina
(54) Il testo delle disposizioni contenute in questo corpo normativo si trova pubblicato in Verso uno spazio giudiziario europeo, con prefazione di GRASSO, Milano, 1997. Sembra tuttavia che la soluzione proposta, pur presentando, come sottolineato, profili di estremo interesse, rischia di incorrere nei problemi sopra riferiti relativi alla tipizzazione di tali obblighi di controllo. (55) Per FLORA, I soggetti, cit., 565 residuerebbe solo il problema di definire con nettezza i contorni della condotta vietata attraverso una formulazione della relativa norma « in termini sufficientemente determinati ». (56) L’idea di introdurre una tale figura di reato era stata, da tempo, avanzata da autorevole dottrina v. MARINUCCI-ROMANO, Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in questa Rivista, 1971, p. 704; nello stesso senso v. FIORELLA, Il trasferimento, cit., pp. 384 e 385 e, da ultimo, FLORA, I soggetti, cit., p. 567, il quale propone l’introduzione di una fattispecie così formulata: « [...] Fuori dei casi di concorso, il delegante è punito con la stessa pena prevista per il reato compiuto dal delegato, diminuita fino ad un terzo, quando, pur essendo a conoscenza del comportamento inadempiente del delegato, non ne ha colposamente impedito la commissione ». (57) Sulla necessità di contemperare gli opposti interessi insiste anche, seppur in una prospettiva diversa, MOCCIA, Giustizia aziendale e stato sociale di diritto: prospettive di politica criminale, in questa Rivista, 1986, p. 230 ss.
— 1522 — c) Giudici di Merito
G.I.P. TRIBUNALE DI PIACENZA — 4 giugno 1998 Imp. Ghisoni Delitti contro la libertà sessuale — Bacio sull’avambraccio a donna non consenziente — Assenza della finalità di appagamento di un istinto sessuale — Esclusione — Violenza privata — Sussistenza (C.p., artt. 609-bis e 610). Integra il reato di cui all’art. 610 c.p. e non quello di cui all’art. 609-bis il bacio dato sull’avambraccio a donna non consenziente, se difetti la finalità di appagamento di un istinto sessuale ed il bacio sia espressione, invece, di un inganno ed incontrollato sentimento d’amore (1) FATTO e DIRITTO. — In seguito a richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal P.M. in data 30 luglio 1997, il G.I.P. presso il Tribunale di Piacenza fissava l’udienza preliminare nel procedimento promosso a carico di Ghisoni Roberto per il delitto di cui in epigrafe. Richiesto e disposto il giudizio abbreviato, all’esito della discussione, sulle conclusioni delle parti in epigrafe trascritte, il G.U.P. si ritirava per la decisione. * * * Deve affermarsi la penale responsabilità dell’imputato per il delitto di violenza privata, così derubricata la fattispecie in contestazione. Il 9 luglio 1997, Zangrandi Cristina, di anni trenta, sporgeva denuncia nei confronti dell’odierno imputato, riferendo che, da circa cinque anni — da quando aveva intrapreso l’attività di parrucchiera in un locale sito in città, in via Roma — il Ghisoni era solito attenderla all’uscita del locale o in prossimità della sua automobile, proferendo frasi amorose nei suoi confronti, fotografandola, riprendendola con la videocamera ed invitandola in ogni modo ad unirsi sentimentalmente e fisicamente a lui. Il Ghisoni, inoltre — proseguiva la Zangrandi — era anche solito inviarle, almeno due volte alla settimana, cartoline e lettere nelle quali le dichiarava il suo amore e la invitava a gesti ed atti di amore nei suoi confronti. Da circa un anno, poi, il Ghisoni aveva iniziato a telefonare in casa della Zangrandi, anche fino a tarda ora. A nulla erano valse le esplicite richieste della Zangrandi a non importunarla più ed i suoi fermi rifiuti verso le offerte d’amore del Ghisoni, al quale aveva anche precisato di essere una donna impegnata, perché convivente con un uomo ed un figlio in tenera età. Quel giorno, il Ghisoni, verso le ore 18,00, si avvicinava alla Zangrandi, mentre quest’ultima, terminato il lavoro ed uscita dal locale, si accingeva a salire sull’auto per fare ritorno a casa. Il Ghisoni afferrava il braccio sinistro della donna nel tentativo di baciarla, ma la Zangrandi si divincolava, gridando per attirare l’attenzione dei passanti, sicché il Ghisoni riusciva soltanto a baciare l’avambraccio sinistro di lei e, subito dopo, si dava alla fuga. Disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari, in sede di interrogatorio il Ghisoni ammetteva l’addebito, precisando, tuttavia, di essere innamorato della
— 1523 — Zangrandi da circa cinque anni e di aver sempre sperato che la donna potesse contraccambiarlo. Ritiene questo giudice che il fatto, così come risultante dagli atti, integri il delitto di violenza privata. Nessun dubbio sussiste in ordine alla materialità del fatto, consistito nel bacio sull’avambraccio sinistro della Zangrandi, dato dall’imputato mentre la donna tentava di sottrarsi al suo abbraccio ed al suo ennesimo approccio: la ricostruzione della vicenda compiuta dalla persona offesa coincide, infatti, esattamente con quanto ammesso dallo stesso imputato. In ordine alla qualificazione giuridica del fatto, si richiama il consolidato orientamento del Supremo Collegio, secondo cui il bacio può essere, nei vari casi, sia espressione di affetto puro, sia manifestazione di lussuria: affinché esso integri l’elemento materiale dell’atto di libidine violento, occorre che, per le modalità specificamente erotiche con cui viene dato e per la parte del corpo su cui viene posato, riveli l’intenzione di procurarsi o di procurare un eccitamento di indole amorosa. In altri casi, il bacio dato fuggevolmente sul viso o su una mano, può rivelare — al contrario — un intento di corteggiamento e, congiunto a toccamenti, può concretare il reato di violenza privata (Cass., Sez. III, 15 novembre 1965, Del Giudice; Cass., Sez. III, 15 ottobre 1963, Morelli; Cass., Sez. III, 22 novembre 1995, Delogu). Più recentemente — pur in seguito all’entrata in vigore della legge 15 febbraio 1996, n. 66 — è stato affermato che la condotta vietata dall’art. 609bis c.p. ricomprende — se connotata da costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica — oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, anche se non esplicato attraverso il contatto fisico diretto con il soggetto passivo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo il bene primario della libertà dell’individuo attraverso l’eccitazione o il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente. L’antigiuridicità della condotta resta connotata, dunque, da un requisito soggettivo (la finalizzazione all’insorgenza o all’appagamento di uno stato interiore psichico di desiderio sessuale), che si innesta sul requisito oggettivo della concreta e normale idoneità del comportamento a compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale e ad eccitare o a sfogare l’istinto sessuale del soggetto attivo (Cass., Sez. III, 6 febbraio 1997, Coro). Nel caso di specie, è palesemente insussistente il requisito soggettivo della finalità del comportamento del Ghisoni all’appagamento di un istinto sessuale, posto che — come evidenziato dalla stessa Zangrandi in sede di querela — ciò che ha sempre mosso i comportamenti dell’imputato nei suoi confronti è rappresentato dall’ingenuo ed incontrollato sentimento di amore, sorto e vissuto nella personalità del Ghisoni in una dimensione irrazionale ed ossessiva, dovuta all’affezione psicotica di cui si dirà con riguardo allo stato di imputabilità. Che tale fosse il movente dell’agente (appagamento del proprio sentimento di affetto) è dimostrato, sul piano oggettivo, dalle modalità con cui il reato è stato consumato. Il Ghisoni, infatti, aveva raggiunto la Zangrandi, mentre quest’ultima si accingeva a salire sull’auto, e tentava di abbracciarla. L’abbraccio di una persona, che sia raggiungibile nella propria sfera di azione fisica, evidenzia, di per sé, non già un intento di morbosa concupiscenza sessuale, ma l’espressione di un moto affettivo, che non resiste al mero appagamento delle manifestazioni verbali
— 1524 — del sentimento. Se il Ghisoni avesse inteso dare sfogo a bramosie sessuali, avrebbe potuto assai facilmente compiere toccamenti lascivi su parti più erogene del corpo della Zangrandi, piuttosto che limitarsi ad un fugace bacio sull’avambraccio. Le modalità del bacio, a loro volta, inducono ad affermare tutt’altro che la natura libidinosa della condotta. È vero, infatti, che non si può sostenere che siano libidinosi soltanto quegli atti che attingono le parti erogene del corpo, posto che l’istinto sessuale può trarre soddisfacimenti atipici anche da manovre su parti pudibonde del corpo (arti, capelli, ecc.), tuttavia, in quest’ultimo caso, occorre che le modalità della condotta, per la loro evidente connessione ad una stimolazione (fisica o psichica) del desiderio sessuale, rivelino intrinsecamente l’intento lussurioso dell’agente. Anche il toccamento di un avambraccio, in questo senso, può costituire atto di libidine, quando sia compiuto, ad esempio, con la lingua o pronunciando contemporaneamente frasi oscene all’indirizzo del soggetto passivo. Orbene, nel caso in esame, da nessuno degli elementi in atti è dato cogliere quel quid pluris idoneo a connotare come libidinoso il bacio recato dal Ghisoni sull’avambraccio della Zangrandi; sicché il fatto deve essere qualificato alla stregua dell’art. 610 c.p., avendo certamente la Zangrandi subìto il bacio contro la sua volontà ed in conseguenza della vis adoperata dall’imputato mediante la compressione del braccio di lei (querela Zangrandi: « ...il Ghisoni ha tentato di baciarmi con violenza, stringendo con forza il mio braccio sinistro con la propria mano. ...Nell’occorso mi ha soltanto baciato all’altezza dell’avambraccio sinistro »). Affermata, quindi, la responsabilità dell’imputato per il delitto di violenza privata, lo stesso appare meritevole del beneficio delle attenuanti generiche, trattandosi di soggetto incensurato e tenuto conto, altresì, del movente amoroso della condotta, che — per quanto manifestato, anche nel tempo antecedente al fatto commesso, in modo ostinatamente petulante — è comunque sintomatico di una personalità non turpe. Al Ghisoni deve essere riconosciuta, inoltre, l’attenuante di cui all’art. 62, n. 6 c.p., emergendo dalla produzione documentale della difesa come l’imputato abbia integralmente risarcito i danni morali e materiali patiti dalla persona offesa. L’imputato risulta, infine, aver commesso il fatto in stato di parziale incapacità di intendere e di volere, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 89 c.p. La difesa ha prodotto, infatti, un’ampia ed articolata relazione clinica — redatta dai medici della clinica psichiatrica presso la quale il Ghisoni si trova attualmente in cura — dalla quale risulta lo stato patologico dell’imputato. In particolare, si evidenzia come, nel Ghisoni, il giudizio di realtà sia disturbato dalla presenza di ideazione delirante, a tratti di tipo persecutorio. La coscienza della malattia è assente, il tono dell’umore è depresso, l’affettività è appiattita. Complessivamente, la personalità risulta psicotica, a causa di una grave forma di disturbo ossessivo-compulsivo di tipo cronico. Tale condizione patologica non compromette totalmente la sua capacità di intendere e di volere, ma non v’è dubbio che essa abbia inciso sulla consumazione del delitto commesso, essendosi trovato il Ghisoni nella convinzione delirante che il suo amore verso la Zangrandi fosse corrisposto. Pur non essendo esclusa, pertanto, la capacità di intendere e di volere del Ghisoni al momento del fatto deve ritenersi grandemente scemata. La giurisprudenza, sul punto, riconosce il vizio parziale di mente, quando si sia in presenza di una vera e propria infermità mentale, che dipenda da un’alterazione patologica insediatasi stabilmente nel soggetto,
— 1525 — mentre non sono sufficienti a legittimare il riconoscimento dell’incapacità, neppure parziale, le manifestazioni di tipo nevrotico, le personalità di tipo psicotico o psicopatico, le alterazioni comportamentali prive di substrato organico, ancor più se a carattere episodico o sporadico (Cass., Sez. I, n. 185471/90). Nel caso del Ghisoni, la derivazione patologica dell’idea delirante è provata dall’analitica anamnesi contenuta nella relazione in atti, dalla quale emerge che l’imputato, sin dalla tenera età, manifestava una personalità morbosa, con difficoltà nei rapporti coi coetanei, con gli insegnanti, fino al punto da assumere atteggiamenti inadeguati (come, ad esempio, il coprirsi il viso mentre camminava per strada, per il timore di essere osservato e criticato dagli altri). Non si tratta, pertanto — nel caso del Ghisoni — di una personalità abnorme (che, interessando solo la sfera affettiva, lascia generalmente integra la capacità mentale), ma di una condizione psichica patologica costantemente incidente sul processo ideativo e di rappresentazione della realtà. D’altra parte, se — secondo il Supremo Collegio (Cass., Sez. VI, n. 089033/76) — anche un « impulso ossessivo » si inquadra nel più lato concetto di infermità mentale, posto che esso va inteso come qualsiasi altra condizione patologica clinicamente valutabile per escludere totalmente o parzialmente la capacità intellettiva o volitiva, a maggior ragione deve essere considerata idonea a ridurre l’imputabilità una condizione — quale quella del Ghisoni — che si è cristallizzata (anche per l’assenza di cure adeguate) in una condizione cronica di affezione mentale. Le stesse affermazioni dei medici, che lo hanno in cura, consentono, tuttavia, di escludere sia la totale incapacità di intendere e di volere del Ghisoni sia la sua attuale pericolosità sociale, non avendo egli mai manifestato, nei circa otto mesi di degenza in clinica, atteggiamenti aggressivi o violenti nei confronti di alcuno. Visto l’art. 133 c.p., il G.U.P. stima equo irrogare la pena di mesi due di reclusione, così determinata: — pena base: mesi nove di reclusione; — diminuzione ex art. 62-bis c.p.: mesi sei di reclusione; — diminuzione ex art. 62, n. 6, c.p.: mesi quattro; — diminuzione ex art. 89 c.p.: mesi tre di reclusione; — diminuzione ex art. 442, comma 2, c.p.p.: mesi due di reclusione. L’imputato è obbligato al pagamento delle spese processuali, nonché di quelle di mantenimento durante il periodo di custodia cautelare. Rilevato, poi, che ricorrono i presupposti di cui all’art. 163 c.p. e che, avuto ancora riguardo all’art. 133 c.p., si può presumere — viste le attuali condizioni del Ghisoni, che, grazie al proficuo inserito nell’ambiente clinico, risulta aver preso coscienza della sua malattia e del disagio cagionato alla Zangrandi — che Ghisoni Roberto si astenga dal commettere ulteriori reati, si dispone che la pena, come sopra inflitta, rimanga sospesa per il termine di anni cinque sotto le comminatorie di legge. Visto, inoltre, l’art. 175 c.p., previa ulteriore valutazione dei medesimi criteri di cui al citato art. 133 c.p., ordina che della condanna non sia fatta menzione nel certificato del casellario giudiziale. P.Q.M.. — Il G.U.P., visti gli artt. 533, 535 e 442 c.p.p., dichiara Ghisoni Roberto colpevole del reato ascrittogli, ritenuta l’ipotesi di cui all’art. 610 c.p., e, concesse le attenuanti generiche nonché quella di cui all’art. 62, n. 6, c.p., riconosciuta l’ipotesi di cui all’art. 89 c.p. e con la diminuente del rito, lo condanna alla
— 1526 — pena di mesi due di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e di quelle di mantenimento durante il periodo di custodia cautelare. Pena sospesa e non menzione della condanna.
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Sul bacio involato a « lei » che dissente (postilla in margine a G.U.P. Trib. Piacenza, 4 giugno 1998).
1. La sentenza che offre lo spunto alle osservazioni che seguono, se pur non presenta, per il caso da essa pur lucidamente deciso, particolari profili di originalità, appare nondimeno interessante perché rappresenta una delle prime (non) applicazioni della nuova legge sulla violenza sessuale ad una fattispecie che, in modo per vero un poco singolare e fors’anche per questo suscettivo d’una certa amena ilarità, continua ad occupare le aule di giustizia, dai gradi di merito fino a quello di legittimità: il bacio variamente carpito a persona (a quanto consta sempre una donna, almeno in Italia) che non gradisca attenzioni siffatte. Che gl’italiani sian popolo esuberante... in « affari di cuore » è notorio, diciamo pure conclamato, ma il confine che in materia è segnato tra la più o meno cattiva educazione e la commissione di fatti penalmente rilevanti non dev’essere ancora del tutto chiaramente percepito (dai consociati, ma anche dal legislatore e dai giudici), se situazioni del tipo di quella giudicata dal G.U.P. del Tribunale di Piacenza hanno una frequenza tale da meritare menzione in austeri repertori di giurisprudenza (1). L’orientamento giurisprudenziale in materia è apparso descrittivamente riconducibile, com’è noto, a due essenziali filoni interpretativi: uno di carattere tendenzialmente « soggettivistico », ed uno più marcatamente « oggettivistico » (2). Il primo orientamento pone sostanzialmente l’accento, nella qualificazione del bacio come atto di libidine o meno (salva in quest’ultimo caso, di norma (3), la responsabilità per reato diverso, ove ne ricorrano i requisiti), sul tipo d’impulso che lo determina, se già esteriormente percepibile, oppure sul modo con cui il bacio stesso viene, diciamo così, apposto: in questo caso le modalità della condotta, in sé difficilmente decifrabili, non rilevano per vero come tali, ma come spia, indizio, espressione dell’impulso che la determina: così si legge (4) che il bacio può essere, variamente, espressione di affetto puro (nel qual caso sarà, ovviamente, penalmente irrilevante) o « manifestazione erotica », di « lussuria », « sfogo di sensualità », spia della « intenzione di procurarsi o di procurare un eccitamento di indole amorosa » o « di dare sensazioni libidinose », « eccitamento della brama sessuale », « concupiscenza carnale », « lascivia », e via discorrendo. Un secondo orientamento sembra teso a recuperare, almeno in via tenden(1) Esposizione sistematica di giurisprudenza sul codice penale dal 1964, vol., Milano, 1972, sub art. 521, pp. 20-21. (2) Per ampi riferimenti alla giurisprudenza in materia v. di recente S. TABARELLI DE FATIS, Sulla rilevanza penale del « bacio » come atto di libidine prima e dopo la riforma dei reati sessuali, in questa Rivista, 1997, p. 965 ss.; P. DAMINI, Sulla nozione di « atti sessuali » ex art. 609-bis c.p.: nuova legge, vecchia giurisprudenza?, in Ind. pen., 1998, p. 203 ss.; A. CADOPPI, in AA.VV. (coord. da A. Cadoppi), Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della legge contro la pedofilia, Padova, 1999, 2a ediz., partic. 51-67. (3) Per la liceità penale tout court v. di recente Cass., Sez. III, 15 novembre 1996, n. 1040, Coro, rv. 207299; Cass., Sez. III, 9 ottobre 1997, Corsaro, in Foro it., 1998, II, c. 505 ss. (sub II), con nota critica di G. FIANDACA, La rilevanza penale del « bacio » tra anatomia e cultura, ibid. (4) Esposizione sistematica di giurisprudenza sul codice penale dal 1964, loc. cit.
— 1527 — ziale e con qualche cadenza contraddittoria, i parametri d’una dimensione oggettiva del fatto, con riferimento — per un verso — ad un significato di « normalità sociale » della condotta e, per altro verso, mediante l’identificazione di un limite sicuro di rilevanza, rappresentato dal bacio « dato sulla bocca o in altre zone del corpo erogene » (5). In tale prospettiva, che in verità non esclude ma intende coniugarsi a quella più marcatamente soggettivista (6), l’elemento significativo della rilevanza (e del titolo di rilevanza) della condotta, da un lato, sarebbe identificabile nella qualificazione sicura come atto di libidine del bacio dato in « zone erogene »: parti del corpo su cui si appunta o si estende, per così dire, l’« istinto collegato con i caratteri anatomo-genitali »; dall’altro lato, esso postulerebbe l’ancoraggio di siffatta qualificazione alle circostanze di tempo, di luogo, alle condizioni dei soggetti coinvolti (oltre che alle modalità del bacio ed alla zona « prescelta ») (7). L’orientamento da ultimo riferito appare strettamente connesso, com’è agevole notare e come è espressamente riconosciuto (8), al nuovo assetto della disciplina dei reati in « materia sessuale », caratterizzata — per quel che qui più direttamente rileva — dall’unificazione (9) tra violenza sessuale ed atti di libidine. Non interessa qui, per il momento, approfondire come tali significato e portata di quest’innovazione, per quanto ad essa si debba indirettamente dedicare qualche accenno, nei limiti in cui il concetto di « atto sessuale » adottato si rifletta direttamente sullo specifico, connesso problema della rilevanza del bacio (10). In questa prospettiva, sembra opportuno notare come il significato prevalentemente oggettivo della nozione, nuova e contestata (11), di « atto sessuale » sia stato strettamente ancorato dai giudici (12) al riferimento dell’atto a parti del corpo che, seppure non genitali, siano ritenute « dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica ed antropologico-sociologica erogene... con esclusione di quelle forme di libido connotate da una sessualità particolare » sicché « il bacio sulle labbra o sulla bocca e quello cd. profondo... costituiscono atti sessuali, mentre tale non è il bacio sulla fronte, sempreché la direzione originaria sia una zona non erogena ». La conseguenza di tale argomentare è rappresentata, in definitiva, dall’identificazione del discrimine tra atto penalmente rilevante ed atto che tale non è — alla stregua dei delitti sessuali o tout court — nell’essere la zona del corpo erogena oppure no. 2.
Nessuna delle due posizioni interpretative sommariamente riferite — che
(5) Cass., Sez. III, 11 ottobre 1995, n. 11318, Delogu, in questa Rivista, 1997, p. 962, con nota di S. TABARELLI DE FATIS, Sulla rilevanza penale del « bacio », cit. (6) Cfr. anche S. TABARELLI DE FATIS, op. cit., la quale sembra condividere, dal canto suo, il riferimento alle zone erogene (cfr. p. 974). (7) Per tali criteri v. in particolare Cass., Sez. III, 27 aprile 1998, Di Francia, in Foro it., 1998, II, c. 505 (sub I) e in St. Iur., 1999, p. 88. (8) Cass., Sez. III, 27 aprile 1998, cit., c. 511. In dottrina v. ora F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, Padova, 1998, p. 10 s. (9) Ma con effetti « riduttivi », e cioè di esclusione di atti intrinsecamente libidinosi ma penalmente non sessuali: cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., 14 (ove riferimenti di contraria dottrina). (10) Dal punto di vista della successione di leggi, i problemi sono evidentemente connessi in termini così riassumibili: a) se il bacio rientra nell’atto di libidine ex art. 521 c.p., l’abrogazione di questa norma determinerebbe il transito sotto la fattispecie di violenza sessuale, almeno nella sua parte di caso di minore gravità; b) se il bacio non rientra nell’atto di libidine, in linea di principio neppure sarebbe rilevante alla stregua della nuova fattispecie, ma in questa ipotesi la funzione del « caso di minore gravità » potrebbe essere intesa come incriminatrice ex novo delle condotte (in generale cfr. per tutti A. CARMONA, Le nuove norme a tutela della libertà sessuale: problemi di diritto intertemporale, in Cass. pen., 1998, p. 992 ss.). V. anche oltre, nel testo. (11) Con toni particolarmente critici v. per tutti A. PECORARO ALBANI, Violenza sessuale e arbitrio del legislatore, Napoli, 1997, passim e partic. pp. 23-79, 129 ss., 146 ss. (12) Cfr. sent. cit. in nota 7. Tale riferimento è anche nella sentenza che si annota, che si richiama alle modalità « specificamente erotiche » dell’atto ed alla parte del corpo su cui il bacio viene posato.
— 1528 — peraltro, come si è accennato, non sono riscontrabili nella loro forma « pura » (13) — pare meritevole di convinto plauso. Non la prima, perché — tracciando il discrimine tra il lecito ed il penalmente rilevante a titolo di atto di libidine sive (ora) sessuale, nonché quello tra diversi titoli di reato, sulla mera base d’un impulso soggettivo — essa finisce per confondere l’oggetto della prova (14) con la fattispecie da provare e pertanto condiziona in definitiva all’esito della prova in sede processuale la stessa tipicità della fattispecie penale (15). Ma neppure il secondo orientamento appare immune da perplessità, sia dal punto di vista della coerenza delle soluzioni processuali cui è suscettibile di pervenire (16), sia, più in generale, da quello dell’intrinseca pertinenza del criterio esegetico adottato. Da quest’ultimo punto di vista, in effetti, appare davvero singolare che la determinazione del limite di rilevanza penale di un certo tipo di condotte sia affidata ad una sorta di carta geografica del corpo (di norma) femminile. Il parametro di legittimità sembra rinvenibile per esclusione, a chi scorra i repertori di giurisprudenza (e dottrina) in materia, praticamente soltanto richiamando alla memoria classificazioni di sapore cinquecentesco, espresse, è ovvio, nel lessico più prosaico dello stilus curiae; così, sembra ammesso il bacio puro e trepidante, il bacio dolce-amaro: è questa rara e desiderata specie quella che non entra senz’altro nelle maglie delle incriminazioni — il resto è a rischio, se le indesiderate smancerie esibiscono i caratteri che abbiamo visto. E tuttavia: che esistano zone erogene è notazione di carattere forse clinico se non del tutto estetico, comunque davvero non giuridico. Un’ottica penalistica, cui sono bensì familiari i problemi di efficacia della legge penale « rispetto alle persone », non può accettarne una perversione lessicale in problemi, per così dire, di « efficacia corporale » della legge penale. È ben vero che, come si dirà (§ 3), vi sono modalità sicuramente rilevanti come offensive della libertà sessuale. Ma, fuori da queste ipotesi (e, anche per esse, salve alcune precisazioni), il parametro di ammissibilità giuridico-penale di condotte più o meno affettive, comunque « esuberanti », non pare poter risiedere, a pena di scivolare su temi probatori di (13) Ad es. Cass., Sez. III, 15 novembre 1996, n. 1040, Coro, cit.: « l’antigiuridicità della condotta resta connotata da un requisito soggettivo (la finalizzazione all’insorgenza o all’appagamento di uno stato interiore psichico di desiderio sessuale) che si innesta sul requisito oggettivo della concreta e normale idoneità del comportamento a compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale e ad eccitare... l’istinto del soggetto attivo ». (14) Cioè le modalità dell’azione, l’oggetto materiale, la situazione della vittima et similia, dal punto di vista oggettivo; l’intenzione del reo quale elemento di prova del dolo, dal punto di vista soggettivo. (15) D’altro canto, il riferimento allo scopo dell’agente per la definizione non già del coefficiente soggettivo ma, ancor prima, della tipicità, rischia di convertire la fattispecie in reato a dolo specifico, con la conseguenza che fatti pur sicuramente riconducibili ad un’aggressione della sfera sessuale, ma compiuti per tutt’altri scopi che quelli « normalmente » connessi a quelle condotte non potrebbero coerentemente integrare che titoli diversi di reato Ad es., baciare la bocca in profondo, o il seno o il sesso d’una donna con il solo scopo di costringere alla reazione un amico presente e poterlo fracassare di botte, o per poter estorcere ad un parente una somma di denaro: casi in cui, come efficacemente scriveva (a proposito dell’« oltraggio violento al pudore ») F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, II, 18794, p. 369, l’agente intende « fare atto di rissa e non di libidine » (sul punto v. anche F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., p. 11). Sulla dimensione « oggettivistico-scientifica » del concetto di atti sessuali, nel senso che il carattere sessuale di un atto non implichi necessariamente l’impulso erotico, ma possa e debba essere definito in base alle definizioni offerte dalle scienze mediche e psicologico-sociali, cfr. ad es. A. CADOPPI, in AA.VV. (coord. da A. Cadoppi), Commentario delle « Norme contro la violenza sessuale » (legge 15 febbraio 1996, n. 66), Padova, 1996, partic. p. 39 ss. (ora in Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della legge contro la pedofilia, cit., ibid. e p. 48); F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., p. 13. (16) Sul punto si vedano i rilievi di G. FIANDACA, loc. cit., partic. c. 507 (in § II).
— 1529 — sapore invero boccaccesco, nel luogo del corpo su cui esse si posano; né, del resto, esclusivamente nel modo intrinseco di compimento dell’atto: che questo pure rimanga alla letteratura, alle cui risorse fantastiche e lessicali impegni pittorici siffatti meglio riescono che ad una norma penale od allo sforzo ermeneutico di pur scrupolosi magistrati ed accademici (17). 3. Deve dunque risiedere altrove il criterio di identificazione del bacio penalmente rilevante (prima della riforma di cui alla l. n. 66 del 1996 come atto di libidine, dopo come « atto sessuale », o comunque ad altro titolo): precisamente, come moderna e sensibile dottrina ha rilevato in linea generale, nella « dimensione di rapporto » dell’atto. L’esplicazione di tale concetto è nota (18): i comportamenti incriminati sono fatti che trovano una loro oggettiva illiceità nel tipo di rapporto instaurato fra soggetto attivo e soggetto passivo. Il parametro di liceità deve dunque essere ravvisato nella « reciproca parità di condizioni di libertà », con la conseguente condivisione del « rischio » da parte di tutti i partners (normalmente, ma non necessariamente, due) « che potrà poi tradursi in pari ‘‘onere’’ probatorio, di saper riconoscere, con vera attenzione per l’altro, la sua piena accettazione del rapporto, del suo sviluppo e del suo eventuale modificarsi o cessare, in quanto necessario incontro e permanere di un’offerta e partecipazione comuni e convergenti della reciproca intimità, liberamente volute senza inganno né violazione del rispetto per l’altro » (19). Il criterio appare pregevole nella sua capacità di cogliere con delicatezza il significato del « rispetto » quale (unica) dimensione veramente umana del rapporto fra uomo e donna — fra uomini e fra donne — come persone. Sulla scorta della pur limpida intuizione di base esso dev’essere, tuttavia, ulteriormente precisato, nel tentativo di definirne, raffinandoli, i contorni ed appianarne talune impurità che sono state rilevate, con particolare riguardo ai rischi di soggettivizzazione che comporterebbe il riferimento al concreto rapporto vissuto dai partners: « il concetto di atti sessuali ad esso agganciato tornerebbe ad atteggiarsi come concetto soggettivo... esso dipenderebbe da come quelle due persone vivono il loro rapporto e le effusioni affettive che lo connotano » (20). L’obiezione ora riferita coglie un’oggettiva difficoltà, ma appare solo parzialmente condivisibile. La difficoltà è correttamente ravvisata, in effetti, nel rischio di condizionare la rilevanza penale del fatto alla semplice percezione soggettiva che ne hanno avuto i partecipi, che fra l’altro può non essere reciprocamente coincidente. In questa prospettiva è senz’altro convincente ritenere che, per configurare un atto come propriamente « sessuale », e non semplicemente « libidinoso » (21), « occorra il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una (17) Altra questione è ovviamente la rilevanza del modo di compimento dell’atto, quando ne sia stata definita la rilevanza penale, ai fini della valutazione ex art. 133 c.p. (18) L. PICOTTI, Il dolo specifico, Milano, 1993, p. 139 ss. e partic. pp. 143, 148; ID., Il delitto sessuale: da sfogo « non autorizzato » della libidine a « rapporto interpersonale » illecito. Spunti di riflessione sull’evoluzione e la riforma dei reati sessuali, in AA.VV. (coord. da A. Cadoppi), op. cit. (1a ediz.), p. 419 ss. (19) L. PICOTTI, op. ult. cit., p. 424. (20) Cfr. A. CADOPPI, in AA.VV. (coord. da A. Cadoppi), op. cit., p. 44 e p. 47 della 2a ediz. (corsivo in originale). Si aggiunge ancora che la nozione sarebbe sempre soggettiva « perché prenderebbe corpo dal concreto modo di vivere il rapporto di entrambi i partners (ammesso che sia sempre vero che un partner ha le stesse sensazioni e le stesse percezioni psicologiche dell’altro...) e dal rilievo assegnato da essi, congiuntamente agli « atti » compiuti ». Nello stesso senso F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., p. 12 in nota 14. (21) Per questa distinzione cfr. per tutti, limpidamente, F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., p. 14.
— 1530 — persona con una zona genitale (compresa la mammella nella donna), anale od orale del partner » (22). Tuttavia non pare che il riferimento al rapporto interpersonale in concreto instauratosi determini, per ciò stesso, un’indebita subordinazione della natura dell’atto come « sessuale » al modo con cui questo sia concretamente vissuto. Lo stesso criterio del contatto fisico (23), invero, esprime un limite definitorio necessario, ma non sufficiente, in quanto eccessivamente asettico se astratto completamente dal significato degli atti nel rapporto vissuto. Se in effetti, da un punto di vista pratico, il problema si pone evidentemente in termini particolarmente problematici solo per i casi di confine (24), tuttavia anche nei casi di atti sicuramente sessuali, come poc’anzi identificati, il riferimento al « vissuto interpersonale » appare imprescindibile come criterio integrativo di valutazione: così, ad esempio, nei casi — non rari — in cui l’inizio ed il primo evolversi d’un rapporto fossero consensuali, non più invece la sua progressione. Se dunque il criterio in discorso appare imprescindibile nella sua funzione integrativa di valutazione degli atti sicuramente offensivi della libertà sessuale, la sua idoneità esplicativa dev’essere tuttavia, come s’è accennato, ulteriormente precisata. Infatti, per un verso, se rispetto ad atti sicuramente sessuali esso si profila come criterio integrativo, rispetto alle situazioni dubbie appare come l’unico criterio, necessario e sufficiente, di valutazione. Per altro verso, esso postula implicitamente, quasi lasciandolo nell’ombra, il suo reale titolo di legittimazione ermeneutica, l’essenziale « differenza specifica » rispetto agli altri criteri tradizionalmente proposti: esso esprime, cioè, un approccio di tipo quantitativo, quale criterio di valutazione del fatto che affianca la mancanza di consenso. È questo, a ben guardare, il criterio trasversale idoneo a sorreggere la qualificazione penalistica di un fatto come sessuale od avente significato sessuale (a seconda che, rispettivamente, si tratti di atto violento, anche se « meno grave », o atto libidinoso di molestia). Questa proposizione presuppone evidentemente un’osservazione preliminare. Il vizio comune a più tentativi di trovare una nozione di atto sessuale compatibile sia con la struttura delle incriminazioni, sia con il principio costituzionalmente rilevante di tassatività della fattispecie, sembra essere quello di ricercare la nozione degli atti (di libidine, sessuali o come altrimenti dir si voglia) secondo parametri qualitativi oggettivi ed extrapenali; laddove la differenza « interna » (cioè fra atti libidinosi rilevanti ad altro titolo e atti di violenza sessuale), così come la differenza « esterna » (cioè tra atti in ipotesi non rilevanti penalmente ed atti sessuali-libidinosi comunque rilevanti, come violenza o ad altro titolo), dev’essere piuttosto misurata in termini soltanto quantitativi, e cioè di intensità di una stessa tipologia di offesa (25). E che si tratti di una stessa tipologia d’offesa risulta dalla (22) A. CADOPPI, in AA.VV. (coord. da A. Cadoppi), op. cit., p. 45 s. (p. 48 s. della 2a ediz.): se ne deduce l’esclusione dalla nozione minima di atto sessuale dei semplici abbracci, di toccamenti di parti del corpo diverse da quelle dette, dei baci anche sulle labbra ma non « profondi » — atti, questi, che potranno essere libidinosi, ma non sessuali alla stregua delle fattispecie di violenza sessuale e che potranno se del caso integrare altre ipotesi di reato (artt. 594, 610, 660 c.p.). Contra, decisamente (ma con qualche sopravvalutazione nominalistica di questioni morfologiche) A. PECORARO ALBANI, Violenza sessuale, cit., passim e ad es. pp. 29 ss., 41 ss., 48 (dove però, nella citazione di dotti argomenti su fallacie logiche, non si nota ch’essi stessi incorrono... in una fallacia logica, quella della « errata divisione »), p. 65 s. (ma che ogni species abbia una sua identità non significa che sia inserita in una gerarchia definibile), pp. 133, 147, 151 s. (23) Cfr. sopra, nel testo, al richiamo della nota che precede. (24) S. DEL CORSO, Commento all’art. 3, l. 15 febbraio 1996, n. 66, in LP, 1996, p. 430. (25) Un bacio, un tocco, un abbraccio possono essere oggetto di qualificazione in un senso o nell’altro. Nel senso che si possa parlare di atti « ontologicamente » diversi v. invece A. PECORARO ALBANI, Violenza sessuale, cit., p. 70.
— 1531 — mancanza di libero consenso al fatto sessuale: in re ipsa in alcuni casi (come nel caso dell’art. 609-bis, che postula violenza minaccia o abuso di autorità); presunta in altri (26) (talora anche per irrilevanza di un’eventuale prestazione del consenso) (27); da accertare in concreto in altri ancóra. E ciò indipendentemente dal fatto che le norme incriminatrici postulino, dal lato del soggetto attivo, una condotta a base violenta (28): la quale, nelle sua varie manifestazioni, esprimerà solo il quantum di disvalore concreto del fatto. Insomma, il riferimento al consenso (mancante) nel rapporto interpersonale, non che venir « dopo » la definizione di un atto come « sessuale » (o libidinoso) (29), concorre essenzialmente a definire il « tipo »: l’unico « atto » sessuale-libidinoso che il diritto positivo conosce è un « fatto » compiuto in assenza di consenso. Il gradiente di offesa sarà rilevante, ovviamente, per determinare se compressa è la libertà sessuale o la semplice « tranquillità personale in materia sessuale » (30). Riassumendo: la mancanza del consenso all’atto rappresenta il tratto comune dei fatti incriminati; l’applicazione dell’uno o dell’altro titolo di reato dipende dalle modalità in concreto dell’offesa, dalla sua — per così dire — consistenza quantitativa. Sul punto è appena necessaria una precisazione: affermare che la mancanza di consenso sia il tratto comune delle fattispecie non significa sostenere che questo elemento fondi di per sé la punibilità delle condotte, almeno de iure condito; ma si tratta pur sempre di un elemento di fattispecie (31). 4. Tale rappresentazione non sembra priva di conseguenze pratiche, ne vedremo cursoriamente i tratti fondamentali in relazione allo specifico problema del bacio. Per ora si può rilevare com’essa imponga un mutamento di prospettiva probabilmente non trascurabile. Tradizionalmente si ricerca una nozione di atto sessuale da postulare quale categoria in cui in varia guisa e, per dirla con Tacito, ex foeditate loci ac multiplici patientia siano collocabili le diverse forme di atti, per poi decidere se gli atti, così collocati, siano anche penalmente rilevanti. Non sarebbe inopportuno, invece, postulare la rilevanza penale di ogni e qualunque atto di intrusione fisica posto in essere in difetto di consenso, per poi verificare quale di questi non sia in concreto penalmente rilevante. Titolo e gravità del reato potranno essere determinati sulla base sia del tipo di offesa che nel caso concreto appaia qualificante, sia del quantum di significato offensivo del fatto. In questa prospettiva sembra di poter superare, o quantomeno riproporre in termini diversi, le ambasce relative alla perduta (26) Cfr. ad es. art. 609-ter, n. 1. (27) Come nel caso di corruzione di minorenne. (28) Sul punto v. in generale e per tutti, di recente, F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., p. 4. (29) Così, invece, P. DAMINI, Sulla nozione di « atti sessuali », cit., pp. 214-215. (30) Per questa nozione cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., p. 15. La posizione dell’illustre Autore si sottrae alle obiezioni mosse alla differenziazione « ontologica ». Da essa quanto esposto nel testo si discosta tuttavia, proprio per il riferimento ad un criterio quantitativo. Insomma: non è che l’atto è sessuale se offende la libertà sessuale, solo libidinoso se offende la tranquillità. Piuttosto, ci sembra, l’atto è sempre a contenuto sessuale anche se l’offesa ha diversa gravità, sino a non poter essere qualificata come offesa alla libertà sessuale. (31) Appare significativo come, sia pure con riferimento specifico ai casi di « molestia » sessuale, il Codice di condotta relativo ai provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali, in GUCE L 49/1 del 24 febbraio 1992 (allegato alla Raccomandazione della Commissione 27 novembre 1991 « sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro »), testualmente imperni la definizione di comportamento (molesto) « a connotazione sessuale » o « basato sul sesso », offensivo della dignità, sul suo carattere « indesiderato »: « è la natura indesiderata della molestia sessuale che la distingue dal comportamento amichevole, che invece è benaccetto e reciproco » (§ 2, « Definizioni »).
— 1532 — distinzione fra violenza sessuale ed atti di libidine. Il significato offensivo di un atto « sessuale » non consentito da uno dei soggetti coinvolti può ben prescindere, in concreto, dalla sua catalogazione astratta nell’una o nell’altra tipologia: fermo restando che le modalità complessive del fatto, oltre la semplice mancanza di consenso, possono orientare univocamente in un senso o nell’altro il giudizio di gravità (32). Da inquadrare nella stessa ottica la rilevanza del bacio. Non sembra discutibile la rilevanza penale del bacio carpito su zona orale, anale o genitale di persona non consenziente, quale univoco atto sessuale. Quanto al titolo di rilevanza, non si dovrebbero nutrire dubbi sul fatto che l’applicabilità dell’art. 609-bis o d’altri titoli di reato debba sempre essere verificata sulla scorta del criterio integrativo del concreto rapporto interpersonale — come sopra specificato — quale criterio destinato, fra l’altro, ad orientare teleologicamente l’interpretazione della fattispecie da applicare. In questa prospettiva, ad esempio, sembra potersi più rigorosamente affrontare la questione se ai fini dell’applicazione della fattispecie di violenza sessuale si debba pretendere, nel caso di contatto orale, un bacio c.d. profondo. Ciò che dev’essere verificato non è solo, o non è tanto, il tipo di bacio in sé e per sé, ma il disvalore offensivo sprigionato contro la vittima dalla vicenda nel suo complesso (oltre che, da un punto di vista pratico, la ragionevolezza delle conseguenze sanzionatorie: v. infra). In tal senso, sarà plausibile l’applicazione della fattispecie di violenza sessuale quando al bacio (che rappresenti lo scopo della condotta) (33) — anche se, per avventura, non profondo — si accompagnino modalità violente o altre modalità rilevanti ai sensi dell’art. 609-bis. Conclusione che appare proporzionata, del resto, ove si consideri una situazione esattamente opposta a quella normalmente ipotizzata a proposito del bacio « profondo »: e cioè, che sia l’aggressore a tirare fuori la sua lingua ansiosamente vibrante per attingere abbondantemente le labbra della malcapitata. La relativa commisurazione della pena potrà se del caso fare riferimento alla clausola della « minore gravità » (34). Così, dunque, nel caso del bruto che in un’isolata calle di periferia approcci pesantemente la sconosciuta passante, la afferri, la blocchi, la strattoni e malmeni per darle un bacio e la baci, ma non riesca a solcarne le labbra, il fatto dovrebbe rilevare alla stregua del 609-bis, se del caso, appunto, nella fattispecie della minore gravità. (32) Ad es.: il toccamento di un gluteo sopra i vestiti, di cui sia vittima una ragazzina quattordicenne che sia avvia in bicicletta alla lezione di piano, da parte di giovinastri che si sporgono abbordandola da un’automobile, può avere effetti devastanti sulla psiche, o comunque ben duraturi nella loro negatività, tanto da influenzarne la percezione generale di ciò che ha a che fare con « quella cosa ». Si vorrà parlare di gravità per definizione minore rispetto a quella predicabile, ad es., dell’atto sessuale completo ma consentito solo sino alla soglia, sol perché la categoria dei toccamenti è incasellata nell’atto di libidine, meno grave per parmenidea ontologia di quella della penetrazione? Il fatto è che possono darsi fatti qualitativamente di identico significato offensivo, e che divergono solo quantitativamente: nel qual caso saranno appunto le complessive modalità del fatto a decidere della sorte penale delle condotte di intrusione. Accenna ai profondi coinvolgimenti emotivi che possono segnare la vittima per tutta la vita F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, op. loc. ult. cit. (33) Ché, se il bacio fosse ciò che soltanto è riuscito all’aggressore munito di più gravi intenzioni, si tratterà di violenza tentata. La questione è complessa (lo è sempre stata: cfr. almeno F. CARRARA, Programma, cit., p. 364 ss.), non può essere affrontata in questa sede. Si deve precisare, tuttavia, che anche tale conclusione deve essere intesa con riferimento al caso concreto, non potendosi escludere che il compimento di atti « libidinosi » — diversi dalla congiunzione carnale che l’agente volesse commettere — realizzi già il reato di violenza consumata: sulla questione v. ad es., diffusamente, I. GIACONA, Il problema dell’accertamento dell’idoneità degli atti ex art. 56 c.p., con particolare riferimento a un caso di tentativo di congiunzione carnale, in questa Rivista, 1998, pp. 892 ss., 897; su un caso singolare di progressivo « trascorrimento » di premesse argomentative d’una motivazione della Cassazione, dal fatto non punibile alla violenza tentata alla violenza consumata, cfr. G. FIANDACA, op. cit. (supra, nt. 3), c. 507. (34) Sui criteri cfr. in particolare F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., p. 42 ss.
— 1533 — Ma sulla scorta dello stesso criterio non si può escludere che le stesse modalità di bacio, cui si accompagnino differenti presupposti anche di rapporto interpersonale, siano rilevanti ad altro titolo (ivi compresa la forma tentata) o del tutto lecite (35). 5. Altra questione è quella, come si accennava, della ragionevolezza delle conseguenze sanzionatorie e, correlativamente, dell’opportunità di prevedere altre, autonome fattispecie o ipotesi circostanziali aggravanti per fatti sui quali il rigore plumbeo del reato sessuale non sembri ragionevolmente calibrato. Il problema è noto, si tratta dell’opportunità di incriminare autonomamente le molestie non verbali a contenuto sessuale, e cioè fatti a contenuto offensivo (sessuale) ridotto (36). Qui solo un accenno. La questione è stata affrontata, per consuetudine ma soprattutto dopo la riforma del 1996, in stretta relazione con quella relativa all’opportunità di mantenere distinta la violenza sessuale dall’atto di libidine (37). Tuttavia, se si muove dalla diversa prospettiva sopra delineata — e dunque dalla differenza solo quantitativa delle offese lato sensu a contenuto sessuale, fondate sul comune denominatore della mancanza di consenso — il vero problema è rappresentato dalla sostanziale irragionevolezza delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla qualificazione ai sensi dell’art. 609-bis di fatti a contenuto sessuale ma non forniti di gravità comparativamente significativa. In primo luogo, l’ampiezza della diminuzione prevista — che nel suo minimo è, in teoria, pari a dieci anni meno un giorno e, nel massimo, ad un anno e otto mesi — appare del tutto irragionevole; ma soprattutto, in secondo luogo, la clausola relativa ai fatti di « minore gravità » finisce per svolgere, in definitiva, una funzione non più circostanziale, ma sostanzialmente e larvatamente incriminatrice: ed è questa (piuttosto che la nozione di « atto sessuale ») la vera fonte di perplessità in relazione al mancato rispetto almeno dei principi di determinatezza e di legalità della pena. Su queste basi non si può che concludere per l’impossibilità di ricondurre fatti di ridotto disvalore offensivo della libertà sessuale alla fattispecie del « reato sessuale » pur nella forma di « minore gravità » (38). Sotto questo profilo non parrebbe inopportuna l’introduzione di una fattispecie incriminatrice di fatti di identico significato offensivo della sfera sessuale, ma nei quali alla mancanza del consenso non si accompagnino modalità di condotta rilevanti alla stregua dell’art. 609-bis; o, almeno, la previsione di fattispecie aggra(35) Diverso, anche se spesso indistintamente accomunatovi è il caso del bacio rapido dato su guancia e collo; si dovrà verificare in concreto anche quale fosse la direzione dell’atto nelle intenzioni dell’agente. (36) Cospicua è in materia la letteratura lavoristica, dacché, com’è noto, il fenomeno del sexual harassment pare molto diffuso sui luoghi di lavoro: cfr. di recente, ad es., A. PIZZOFERRATO, Molestie sessuali sui luoghi di lavoro: verso una tipizzazione della fattispecie giuridica e delle tecniche di tutela, in Riv. it. dir. lav., 1998, p. 799 ss., ove ampi riferimenti. Il Parlamento europeo (Risoluzione sulla violenza contro le donne 11 giugno 1986, doc.A2-44/86, in GUCE C 176/73 del 14 luglio 1986), nella prospettiva di un’armonizzazione delle legislazioni nazionali, ha invitato « le autorità nazionali a cercare di pervenire a una definizione giuridica di molestia sessuale affinché le vittime abbiano una base chiaramente definita su cui sporgere denuncia », nell’intento di « intervenire mediante sanzioni contro gli atti di violenza sessuale »; sanzioni che, peraltro, non devono essere necessariamente penali. (37) Contro l’introduzione di una fattispecie di molestie sessuali cfr. fra gli altri, in senso negativo, G. FIANDACA, in AA.VV. (coord. da A. Cadoppi), op. cit. (1a ediz.), p. 415; L. MONACO, Itinerari e prospettive di riforma del diritto penale sessuale, in Studi Urbinati (LXVII-LXVIII), 1988-89/1989-90, 446; L. STORTONI, in AA.VV. (coord. da A. Cadoppi), op. ult. cit., p. 475; a favore A. CADOPPI, in AA.VV. (coord. da A. Cadoppi), op. ult. cit., p. 89; cfr. anche lo Schema del dis. di legge delega del 1992 (art. 71, co 1 lett. c)). (38) Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale — I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., pp. 14-15.
— 1534 — vanti dei reati di violenza privata (art. 610) o di molestie (art. 660) nel caso in cui l’oggetto della coartazione avesse un significato sessuale. Si tratta, del resto, di soluzioni che appaiono particolarmente calibrate per ipotesi che, diversamente, rischierebbero di essere indebitamente e troppo facilmente sottratte a qualsiasi qualificazione penale; situazioni, ad es., analoghe a quella oggetto della decisione che ha dato spunto alle presenti riflessioni. In tali casi, in effetti, troppo comoda appare la scappatoia di una strategia difensiva che facesse leva sulla pura estasi d’amore dell’invasivo pappagallo. Si può qui soggiungere come nessuna delle obiezioni al ricorso a taluna delle dette soluzioni sembri risultare veramente convincente. Non quella « giuridicocomparatistica », di per sé controvertibile e non aliena da pregiudizi di carattere schiettamente etico. Il problema non potrà essere risolto, forse, in modo veramente uniforme nelle varie legislazioni occidentali ed anche solo europee (39): esso appare, fra l’altro, troppo strettamente dipendente dall’efficienza, nei diversi contesti socio-economico-culturali, delle « agenzie di controllo sociale » che dovrebbero filtrare ed eventualmente risolvere i conflitti « in prima istanza » (ad es., nell’ambiente di lavoro, tramite provvedimenti disciplinari o affini). Né sembra che si possano addurre in modo convincente obiezioni genericamente culturali, specificamente sociologiche, infine politico-criminali relative alla screziata complessità dei rapporti fra i sessi. Non s’ignorano certo le sfumature impercettibili tra finezze dell’amabilità ed accorgimenti della malizia, mezze parole, sottintesi, attestazioni d’amicizia e misteri della complicità, azzardi e proteste di tenerezza — dove « si rischia grosso » nel voler appropriarsi, credendo d’averlo riconosciuto, del segreto « che illumina una pupilla appassionata in un viso di ghiaccio »; ma appunto: il solo postulato di civiltà degno di vera, basaltica tutela dev’essere quello riassumibile nel principio « tutto ciò che vuole e nulla di quello che non vuole »; il resto, volontaria o involontaria barbarie. ALBERTO DI MARTINO Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa
(39) Fra le legislazioni che incriminano variamente il comportamento di molestie a contenuto sessuale vi sono quello spagnolo (c.d. acoso sexual: art. 184) e quello francese (c.d. harcèlement sexuel: art. 222-33); per riferimenti alla dottrina spagnola v. S. TABARELLI DE FATIS, Sulla rilevanza penale del « bacio », cit., p. 981 in nt. 78; per la Francia v. ad es. Y. MAYAUD, De la séduction au harcèlement, ou du licite à l’illicite, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1998, p. 105 ss. Sia consentito soggiungere un gustoso particolare, di cui in F. CARRARA, Programma, cit., p. 379, il quale ricorda che tal Gregorio « sull’autorità di Dino e dell’Alciato afferma che il bacio dà sospetto d’impudicizia in Italia e in Spagna, ma non altrettanto in Francia ». Quanto a dire che « la punibilità del bacio dipende dalle consuetudini locali ».
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Il trasferimento in Italia di Silvia Baraldini. Continuando la serie della documentazione sul ‘‘caso Baraldini’’ (per un riferimento ai precedenti v. in questa Rivista, 1999, p. 359 ss.), siamo ora in grado di pubblicare l’importante materiale relativo all’ultima e, per così dire, decisiva fase del rientro in Italia, concluso, il 25 agosto 1999, con l’ingresso della detenuta nel carcere di Rebibbia. Una ‘‘ricostruzione della vicenda’’, in particolare in ordine alle sei domande di trasferimento, è offerto da E. SELVAGGI, Il caso Baraldini, in Cass. pen., 1999, p. 2770. 1.
La richiesta ministeriale per il riconoscimento delle condanne statunitensi.
Ministero di Grazia e Giustizia - Direzione generale degli affari penali - Ufficio II - Prot.: SP/185 - Rif. n. [(II) TE 2268/AR]. Roma, 10 giugno 1999 Al Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Roma OGGETTO: Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983. Richiesta di riconoscimento di sentenze penali straniere di condanna nei confronti di Silvia Baraldini, nata a Roma il 12 dicembre 1947, attualmente detenuta negli Stati Uniti d’America, ai sensi dell’art. 1, Titolo primo, della legge 3 luglio 1989, n. 257, recante norme di attuazione della Convenzione. Agli effetti previsti dalla Convenzione di cui all’oggetto ed in relazione all’art. 1 della legge 3 luglio 1989, n. 257, si prega la S.V. di voler promuovere presso la locale Corte d’appello il riconoscimento delle seguenti sentenze definitive di condanna emesse dall’Autorità giudiziaria degli Stati Uniti d’America nei confronti della cittadina italiana Silvia Baraldini: 1. sentenza definitiva della Corte Distrettuale Federale per il Distretto Meridionale di New York del 15 febbraio 1984, con la quale Silvia Baraldini è stata condannata alla pena detentiva complessiva di anni 40 per ‘‘Racketeering Conspiracy’’ e ‘‘Participation in a Racketeering Enterprise’’; 2. sentenza definitiva della Corte Distrettuale Federale per il Distretto Orientale di New York del 19 aprile 1984, con la quale Silvia Baraldini è stata condannata alla pena detentiva di anni 3 per il reato contro l’amministrazione della giustizia previsto dall’art. 401, paragrafo (3), Titolo 18, United States Code. (*)
A cura di Mario Pisani.
— 1536 — A tale scopo si trasmettono le sentenze sopra indicate, inviate a questo Ministero con nota del Dipartimento della Giustizia di Washington del 12 aprile 1990, nonché i relativi atti di accusa e le norme incriminatrici statunitensi, con traduzione in lingua italiana. Alla nota del Dipartimento della Giustizia di Washington del 12 aprile 1990 è allegato un memorandum, recante la descrizione dei fatti delittuosi attribuiti a Silvia Baraldini. Si dà atto che iI Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti d’America ha acconsentito al trasferimento in Italia di Silvia Baraldini, per l’ulteriore esecuzione nello Stato italiano delle pene detentive inflittele, a condizione che le condanne inflitte negli Stati Uniti d’America a Silvia Baraldini vengano eseguite fino al termine del 29 luglio 2008, attualmente stabilito, senza poter beneficiare di alcuna forma di rilascio dalla carcerazione, ed alle altre condizioni specificamente indicate nel documento allegato. Questo Ministro ritiene di accogliere le condizioni poste dallo Stato di condanna, tenuto conto delle finalità di reinserimento sociale — mediante l’esecuzione della pena nello Stato di origine — proprie della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983. Silvia Baraldini, con la dichiarazione qui allegata, ha confermato la propria volontà di essere trasferita in Italia, accettando integralmente e senza riserve le condizioni fissate dagli Stati Uniti d’America, dopo averne preso debita conoscenza e con la piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne derivano. Ai fini del trasferimento dell’esecuzione della pena in Italia, si chiede, pertanto, che la Corte di appello di Roma a norma dell’art. 1, legge 3 luglio 1989, n. 257, tenuto conto delle condizioni indicate dal Governo degli Stati Uniti d’America, pronunci il riconoscimento delle sentenze definitive di condanna emesse dall’Autorità giudiziaria degli Stati Uniti d’America nei confronti della cittadina italiana Silvia Baraldini. Si resta in attesa di conoscere la data in cui gli atti verranno rimessi alla locale Corte di appello e, successivamente, l’esito del procedimento, per gli ulteriori adempimenti di questo Ministero. Il Ministro di Grazia e Giustizia OLIVIERO DILIBERTO All.: Omissis. 2.
La richiesta della Procura Generale alla Corte di appello.
Procura Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma - N. 14/99R.RIC. Il Procuratore Generale Vista la richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia del 10 giugno 1999 (prot. n. TE/2268/89/AR), formulata nei confronti di Baraldini Silvia, nata a Roma il 12 dicembre 1947, ai fini del riconoscimento delle sentenze: 1) della Corte Distrettuale Federale per il Distretto Meridionale di New York con la quale, in data 15 febbraio 1984 Silvia Baraldini è stata condannata alla pena detentiva complessiva di anni quaranta per ‘‘Racketeering Conspiracy’’ e ‘‘Participation in a Racketeering Enterprise’’; 2) della Corte Distrettuale Federale per il Distretto Orientale di New York con la quale, in data 19 aprile 1984, Silvia Baraldini è stata condannata alla pena detentiva di anni tre per il reato — contro l’amministrazione della giustizia — previsto dall’art. 401, paragrafo 3, Titolo 18, United States Code; rilevato che la richiesta è stata avanzata a mente e per gli effetti della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983 ed ai sensi dell’art. 1 della legge 3 luglio 1989, n. 257, recante norme di attuazione delle Convenzioni internazionali aventi ad oggetto l’esecuzione delle sentenze penali; visto il certificato del Casellario Giudiziale; ritenuto che: 1) le sentenze sopra indicate sono state pronunciate da Autorità giudiziarie di Stato estero che ha aderito alla Convenzione suindicata (Stati Uniti d’America);
— 1537 — 2) le sentenze sono divenute irrevocabili — secondo le leggi dello Stato nel quale sono state pronunciate — e non contengono disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato italiano; 3) le sentenze sono state pronunciate da giudici indipendenti ed imparziali e l’imputata è comparsa in giudizio, venendole riconosciuto il diritto ad essere interrogata in una lingua a lei comprensibile e ad essere assistita da un difensore; 4) non vi sono ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali abbiano influito sullo svolgimento o sull’esito dei processi; 5) i fatti per i quali sono state pronunciate le sentenze sono previsti come reati dalla legge italiana; 6) non risulta che, nello Stato italiano, sia stata pronunciata sentenza irrevocabile o sia in corso procedimento penale per gli stessi fatti e nei confronti della stessa persona; 7) Silvia Baraldini ha prestato il consenso al trasferimento in Italia per l’esecuzione della residua pena detentiva (secondo le condizioni poste dagli Stati Uniti), alla presenza del Console Generale d’Italia in New York, volontariamente e con la piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne derivano; 8) a mente dell’art. 10 della legge 25 luglio 1988, n. 334 (e dell’art. 735 c.p.p.) la pena complessiva comminata (sic) con le due sentenze delle quali si chiede il riconoscimento deve essere ridotta ad anni trenta di reclusione in applicazione del disposto dell’art. 78 c.p., comma 1o, n. 1; 9) il riconoscimento in parola non va richiesto anche agli effetti previsti dall’art. 12, comma 1o, nn. 1 e 2 c.p., in quanto, in relazione a detti effetti, il riconoscimento è gia stato deliberato dalla Corte di appello di Roma con sentenza 3 maggio 1991, n. 5187/91 reg. sent.; poiché competente a pronunciare la sentenza di riconoscimento è la Corte di appello di Roma, luogo — quest’ultimo — nel quale la condannata è nata; viste le leggi 25 luglio 1988, n. 334, e 3 luglio 1989, n. 257, nonché l’art. 731 e segg. c.p.p. chiede che la Corte di appello in sede voglia pronunziare sentenza di riconoscimento di quelle sopra specificate, emesse da Autorità giudiziarie degli Stati Uniti d’America nei confronti di Baraldini Silvia, ai fini dell’esecuzione della pena in Italia, come richiesto dal Ministero di Grazia e Giustizia, adeguando la pena complessiva al disposto dell’art. 78, comma 1o, n. 1, c.p. e determinando la pena che deve essere eseguita ancora in Italia a norma dell’art. 3 della legge n. 257/89, tenuto conto di quanto risulta dagli atti che si rimettono in allegato. Roma, 15 giugno 1999 Il Procuratore Generale della Repubblica (Vincenzo Nicosia) 3.
Il consenso della Baraldini per il suo trasferimento in Italia (*). Al Sig. Ministro di Grazia e Giustizia Ministero di Grazia e Giustizia ITALIA
Con riferimento alla sesta domanda di trasferimento dell’esecuzione della pena che mi è stata inflitta ed è attualmente in corso di esecuzione negli Stati Uniti, intendo confermare la (*) Questa dichiarazione, richiamata nella richiesta ministeriale (sub 1) e nel punto 7) della richiesta del Procuratore Generale (sub 2), era acclusa al fascicolo processuale. Non altrettanto era avvenuto — secondo quando ci precisa l’avv. Grazia Volo, alla cui cortesia dobbiamo l’inoltro del materiale di causa, e che qui ringraziamo — per l’accordo sulle ‘‘condizioni’’ del trasferimento, intervenuto tra gli Stati Uniti e l’Italia (v. infra).
— 1538 — mia volontà di trasferimento in Italia e dichiaro che ho preso conoscenza delle condizioni poste dagli Stati Uniti, che le accetto integralmente e senza riserve. Accetto: che la condanna che mi è stata inflitta dagli Stati Uniti venga eseguita fino al termine del 29 luglio 2008, attualmente stabilito, senza poter beneficiare di alcuna forma di rilascio dalla carcerazione; che la condanna venga eseguita senza poter beneficiare di alcuna forma di uscita dal carcere, anche per brevi periodi. Ciò comprende permessi per fine settimana, vacanze, assenze di qualsiasi genere, visite alla famiglia di qualsiasi genere, permessi di lavoro, liberazione sotto condizione di qualsiasi genere, compresi l’affidamento in prova o la reclusione in ambienti meno restrittivi, o qualsiasi altra forma di visite o attività al di fuori del carcere; che queste condizioni vengano applicate anche se persone che si trovano in una situazione analoga condannate e detenute in Italia possono ricevere un trattamento diverso o essere ammesse ad alcuni o a tutti i benefici che non potranno essere concessi a me; che nel caso in cui qualunque di dette condizioni non venga rispettata, l’accordo di trasferimento verrà considerato nullo e che da parte mia e da parte dell’Italia si acconsentirà, senza possibilità di ricorso, alla richiesta degli Stati Uniti di ritrasferirmi negli Stati Uniti per scontare la parte restante della pena e che l’Italia non mi rilascerà in pendenza di una decisione o di altra determinazione in merito a tale richiesta. Per il procedimento relativo al trasferimento confermo la nomina come difensore in Italia dell’Avv. Grazia Volo, con studio in Roma, via G.B. De Rossi 37, presso la quale eleggo domicilio. Silvia Baraldini CONSOLATO GENERALE D’ITALIA NEW YORK, M.Y. 10021 Visto per l’autenticità della firma della sig.ra Silvia Baraldini nata a Roma il 12 dicembre 1947 apposta in mia presenza. New York, 7 giugno 1999 Il Console Generale (Giorgio Radicati) 4.
Le ‘‘condizioni’’ per il trasferimento.
Sotto il titolo: Le regole accettate dal nostro Governo - « Non dovrà mai essere graziata », il quotidiano La Stampa del 25 agosto 1999, p. 9, così presentava ‘‘il testo sottoscritto da D’Alema con Diliberto per l’Italia e da Janet Reno per gli Stati Uniti. Il documento è stato letto ad alta voce a Silvia Baraldini che, prima del trasferimento, lo ha firmato. Il testo contiene le regole che lo Stato italiano si è impegnato ad osservare’’. Appendice A Garanzie che debbono essere accettate dal Governo d’Italia prima del trasferimento di Silvia Baraldini dagli Stati Uniti. 1. I competenti tribunali italiani convengono che la sentenza imposta a Silvia Baraldini negli Stati Uniti deve essere eseguita fino alla corrente data vincolante del 29 luglio 2008 senza beneficio alcuno di rilascio dalla detenzione con le condizioni-eccezioni sottoindicate. 2. Che questa sentenza sia esclusa da qualsiasi beneficio di indulto-grazia parlamentare per terroristi detenuti trasferiti o altri prigionieri. 3. Che il Ministro di Grazia e Giustizia stabilisca che la sentenza debba essere eseguita in una istituzione penale italiana destinata all’incarcerazione di donne condannate per reati
— 1539 — terroristici con una recinzione perimetrale oltre la quale ai prigionieri non venga permesso di muoversi in qualsiasi momento e che ai funzionari degli Stati Uniti prima del trasferimento venga permesso di ispezionare l’istituzione italiana a cui verrà assegnata la signora Baraldini per completare la pena qualora venga trasferita. 4. Che le condizioni della detenzione della signora Baraldini corrispondano il più strettamente possibile a quelle in vigore negli Stati Uniti. Tali condizioni vengono enunciate nell’Appendice B, sono operative per detenute federali in situazioni analoghe indipendentemente dalla loro nazionalità e diverranno parte della nostra intesa. Gli Stati Uniti sono consapevoli che, in un normale caso di trasferimento di un detenuto attuato in base alla Convenzione di Strasburgo, le condizioni della detenzione dopo il trasferimento e la determinazione delle esigenze di sicurezza vengono decisi dallo Stato che riceve il prigioniero. Dobbiamo comunque sottolineare che gli Stati Uniti si attendono che la signora Baraldini verrà detenuta nelle condizioni adatte ad un individuo riconosciuto colpevole di reati di tipo terroristico. Nel riconoscimento delle differenze tra i nostri sistemi penali e della inconsueta collocazione della questione di merito, gli Stati Uniti richiedono che l’Italia, prima dell’approvazione finale di questo trasferimento, renda nota ogni procedura in base a cui le condizioni della detenzione della signora Baraldini possano divergere da quelle enunciate nell’Appendice A o nell’Appendice B. 5. Che la sentenza venga eseguita senza beneficio di qualsiasi rilascio dalla prigione anche per periodi brevi: ivi inclusi permessi di weekend, festività, licenze di qualsiasi tipo, visite a famigliari di qualsiasi tipo, rilasci per motivi di lavoro, rilasci condizionati di qualsiasi tipo, comprese la libertà condizionata o la detenzione in ambienti meno restrittivi o qualsiasi altra visita o attività esterna. 6. Che nell’eventualità di qualsiasi malattia la signora Baraldini debba rimanere in stato di detenzione in un reparto carcerario medico, invece che un reparto esterno e che qualsiasi problema medico venga trattato come verrebbe trattato qualora la signora Baraldini continuasse a espiare la condanna negli Stati Uniti: vedi Appendice B paragrafo e. (...). 10. Che il Ministro di Grazia e Giustizia non richieda una grazia presidenziale a favore della signora Baraldini. (Da una comunicazione dal Governo d’Italia gli Stati Uniti deducono pertanto che una grazia presidenziale non potrà essere concessa). 11. Che sia chiaro come la totalità di questo accordo vincola lo Stato d’Italia e non meramente il presente Governo d’Italia e che qualora qualsiasi di queste condizioni non venga osservata l’accordo sul trasferimento sia considerato nullo e che l’Italia e la signora Baraldini acconsentano, senza appello, alla richiesta degli Stati Uniti di ritrasferire negli Stati Uniti la stessa signora Baraldini acciocché espii il resto della pena. Che l’Italia inoltre s’impegni acciocché la signora Baraldini non venga rilasciata nel corso delle deliberazioni o di altri adempimenti nell’ambito di tale richiesta. Appendice B Presenti condizioni della detenzione di Silvia Baradini. a) Livelli di sicurezza e reclusione: il livello di sorveglianza della Baraldini è di classe « IN », il che vuol dire che ogni qualvolta essa viene portata fuori della prigione deve essere ammanettata con una catena alla vita fissata alle manette e deve essere accompagnata da personale penitenziario. Qualora il direttore del carcere lo ritenga necessario ai fini della sicurezza egli ha l’autorità di ordinare l’uso di ceppi alle caviglie e di richiedere che il personale penitenziario di scorta sia armato e indossi giubbotti antiproiettile. Anche se i suoi crimini hanno raggiunto il più alto livello di gravità, presentemente il suo livello di sicurezza è « basso » in quanto rispecchia altri fattori che non presentano violazioni e che contribui-
— 1540 — scono a determinare il livello di sicurezza di un detenuto. Tali fattori includono la lunghezza del periodo della pena già espiata, l’assenza da parte sua di problemi disciplinari ed anche di coinvolgimento con alcool o stupefacenti. b) Alloggiamento: Baraldini è presentemente alloggiata in un cubitolo dormitorio per due persone con due letti separati situato in un edificio più ampio (« unità »). Mentre tali unità sono individualmente chiuse, lo spazio di movimento è quella di un ambiente da dormitorio aperto. Aree ricreazionali con bagni sono accessibili nelle unità. Le luci vengono spente alle 23,00 ma nelle aree comuni viene mantenuta una luce bassa sufficiente ai detenuti per raggiungere di notte i bagni (anche al fine di una supervisione dell’area stessa). c) Regime quotidiano: tutti i detenuti ad eccezione di coloro esonerati per motivi medici debbono lavorare a tempo pieno o prender parte a corsi di addestramento professionale, ovvero a programmi educativi con una riduzione dell’orario di lavoro. I detenuti trascorrono approssimativamente da dieci a undici ore al giorno nella loro area abitativa. Il tempo approssimativo del lavoro o dei corsi educativi è di sette ore al giorno, cinque giorni la settimana. Le ore rimanenti vengono destinate ad attività ricreative, a servizi religiosi, o alla partecipazione a programmi educativi non obbligatori disponibili in serata. Tutti i detenuti dispongono di due giorni alla settimana di non lavoro: questi due giorni possono essere dedicati ad attività religiose, ricreative o al tempo libero. La Baraldini è presentemente assegnata al Dipartimento Educativo per adulti come insegnante e le viene permesso di tenere corsi di studio per gli altri detenuti. d) Visite: i detenuti hanno accesso ai privilegi di visita cinque giorni alla settimana (giovedì e venerdì dalle 12,30 alle 20,00; sabato, domenica, lunedì e tutte le festività federali dalle 8,30 alle 15,00); i privilegi di visita vengono limitati se un detenuto viene riconosciuto colpevole di violazioni delle regole dell’istituto (presentemente limitazioni di questo genere non sono imposte alla Baraldini). Normalmente tre visitatori adulti ed un numero ragionevole di bambini alla volta possono visitare un detenuto. Il diritto alla visita viene esteso ai non membri della famiglia; comunque in questo caso è normale condurre controlli su eventuali trascorsi criminali dei visitatori. L’istituto carcerario è reso accessibile ai visitatori non abili. L’istituto carcerario permette contatti fisici durante le visite. Comunque nelle prigioni federali non esistono disposizioni per visite di carattere coniugale. e) Assistenza medica: in tutte le prigioni federali normali accessi a controlli medici sono disponibili a tutti i detenuti. Esistono anche cliniche sanitarie specializzate. Casi critici vengono deferiti agli istituti medici del « Bureau of Prisons » (questo è accaduto quando Baraldini è stata curata con successo per un cancro alle ovaie). A tutti i detenuti viene esteso trattamento medico tramite il Dipartimento Sanitario della prigione o medici professionisti sotto contratto. I detenuti possono accettare o respingere le cure, possono inoltrare proteste all’Istituto Amministrativo per i Ricorsi qualora non rimangono soddisfatti delle cure a loro estese. Visite mediche private non vengono permesse. f) Collocazione in comunità e permessi: la custodia in « comunità », la custodia cioè che include permessi ed altri viaggi non supervisionati fuori dei perimetri carcerari al fine di cercare alloggio e lavoro verso la fine della pena, può far parte di un piano penale per la reintegrazione nella comunità. Fino a quando e a meno che un detenuto non venga posto in custodia di « comunità » egli non può disporre di permessi o di altre visite non supervisionate all’esterno. Un detenuto di categoria « IN » non ha il permesso di superare il recinto perimetrale dell’Istituto penale. La custodia in « comunità » viene decisa con poteri discrezionali e non è regolata dagli statuti. Baraldini, quale cittadina italiana sotto ordine di deportazione non può avere accesso alla custodia in « comunità ». Comunque, secondo il « Bureau of Prisons », anche se la Baraldini dovesse essere rilasciata dopo l’espiazione della sentenza nella società americana esterna, la natura dei crimini connessi con attività terroristiche dei quali è stata riconosciuta colpevole preclude quasi certamente la possibilità di beneficiare della custodia in « comunità » e pertanto la detenuta rimarrebbe sotto custodia di tipo « IN » fino alla scadenza vincolata del suo rilascio. United States Department of Justice
— 1541 — Nota aggiuntiva del Dipartimento di Giustizia Usa vergata a mano e firmata da Charles Brooks, deputy (assistente): Da notare che abbiamo inviato una ulteriore comunicazione in cui viene stabilito che in caso di decesso della madre della signora Baraldini prima della fine della sua detenzione alla detenuta verrà permesso di presenziare ai funerali della madre a condizione che essa venga accompagnata dal personale penitenziario. 5.
La sentenza di riconoscimento della Corte di appello. (Corte di appello di Roma - IV Sez. penale - R.G. n. 18/99 sent. str. - sentenza n. 40/99).
Nel procedimento di riconoscimento, agli effetti previsti dalla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983, ratificata con legge n. 334/88, e ai sensi dell’art. 1 - Titolo Primo - della legge 3 luglio 1989, n. 257, recante norme di attuazione della Convenzione, della sentenza straniera emessa in data 15 febbraio 1984 dalla Corte Distrettuale Federale per il Distretto Orientale (*) di New York nei confronti di Baraldini Silvia, nata a Roma il 12 dicembre 1947 — attualmente detenuta negli USA — con la quale la Baraldini è stata ritenuta responsabile dei reati di ‘‘racketeering conspiracy to carry out affairs of a criminal enterprise through armed, robberies etc.’’ e ‘‘participation in a racketeering enterprise’’ previsti dal titolo 18 U.S. Code § 1961-1962’’ e condannata alla pena complessiva di anni quaranta di reclusione e 50.000 $ di multa; nonché della sentenza straniera emessa in data 19 aprile 1984 dalla Corte Distrettuale Federale per il Distretto Orientale di New York con la quale la Baraldini è stata riconosciuta responsabile del reato contro l’amministrazione della giustizia previsto dal Titolo 18 U.S. Code § 401 e condannata alla pena di anni tre di reclusione. Con sentenza emessa il 15 luglio 1984 dalla Corte Distrettuale Federale per il Distretto Meridionale di New York, Silvia Baraldini veniva condannata alla pena complessiva di anni 40 di reclusione e 50.000 $ di multa per i delitti di ‘‘racketeering conspiracy to carry out affairs of a criminal enterprise through armed, robberies etc.’’ e ‘‘participation in a racketeering enterprise’’ previsti dal titolo 18 U.S. Code § 1961-1962 (associazione a delinquere al fine di procurare profitti ad imprese criminali mediante rapine, estorsioni, nonché sequestro di persona, evasione, rapina a mano armata, tentativi di rapine a mano armata). Con altra sentenza emessa in data 19 aprile 1984 dalla Corte Distrettuale Federale per il Distretto Orientale di New York la Baraldini veniva condannata alla pena di anni 3 di reclusione per il reato contro l’amministrazione della giustizia previsto dal Titolo 18 U.S. Code § 401 (rifiuto di prestare il giuramento in sede di deposizione testimoniale, rendendo, così impossibile la sua escussione in qualità di teste). In data 10 giugno 1999 il Ministro di Grazia e Giustizia trasmetteva gli atti alla Procura Generale presso la Corte di appello di Roma chiedendo di voler promuovere presso la Corte — territorialmente competente ai sensi dell’art. 732 cod. proc. pen — il procedimento di riconoscimento delle suddette sentenze ai fini dell’esecuzione della pena in Italia a norma della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983, ratificata con legge n. 334/88, e ai sensi dell’art. 1, Titolo Primo della legge n. 257/89. Nella missiva del 10 giugno 1999 il Ministro dava atto che il Dipartimento della Giustizia degli USA aveva acconsentito al trasferimento in Italia di Silvia Baraldini per l’ulteriore esecuzione nello Stato italiano delle pene detentive inflittele a condizione che la condanna complessivamente irrogata negli USA ‘‘venisse eseguita fino al termine stabilito del 29 luglio 2008, senza poter beneficiare di alcuna forma di rilascio dalla carcerazione e nel rispetto delle condizioni specificamente indicate dal Governo degli USA ed accettate integralmente e senza riserve dalla stessa Baraldini’’. (*) Con successiva ordinanza di rettifica (20 luglio 1999) si è precisato trattarsi del Distretto Meridionale.
— 1542 — Lo stesso Ministro, nella missiva, dava atto che riteneva di poter ‘‘accogliere le condizioni poste dallo Stato di condanna, tenuto conto delle finalità di reinserimento sociale — mediante l’esecuzione della pena nello Stato di origine — proprie della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983’’. In data 15 giugno 1999 la Procura Generale in sede chiedeva che la Corte volesse pronunciare il riconoscimento in Italia di dette sentenze ai fini dell’esecuzione del residuo pena in Italia, con determinazione del fine pena a norma dell’art. 3, legge n. 257/89, tenuto conto di quanto risultava dagli atti che si trasmettevano in allegato. Fissata l’udienza ai sensi dell’art. 127 c.p.p., al termine della stessa il P.G. concludeva per il riconoscimento delle sentenze agli effetti dell’esecuzione del residuo pena in Italia. Lo stesso P.G. chiedeva che il fine pena venisse fissato al 3 aprile 2009, partendo da una pena massima di anni trenta, in quanto, a suo avviso, al periodo di detenzione sofferto a titolo di custodia cautelare preventiva e di espiazione pena, dovevano aggiungersi i benefici maturati, da calcolarsi in base alla legge italiana. La difesa della Baraldini aderiva alle richieste del P.G. La Corte riservava la decisione. In via preliminare occorre ricordare che questa Corte con sentenza del 3 maggio 1991 ha già riconosciuto la sentenza di condanna alla pena complessiva di anni 40 di reclusione ai sensi dell’art. 12, nn. 1 e 2 c.p. (e precisamente agli effetti della recidiva e della interdizione perpetua dai PP.UU.). Il nuovo codice di procedura penale, nel disciplinare unitariamente per tutti i tipi di riconoscimento le forme del procedimento davanti alla Corte di appello e la deliberazione che lo conclude, stabilisce che alla sentenza di riconoscimento debba di necessità inerire l’enunciazione espressa degli effetti che ne conseguono. Pertanto, ove manchi in una sentenza che attua il riconoscimento la declaratoria di tutti gli effetti dallo stesso astrattamente derivabili, detta sentenza non potrà essere integrata con un’ordinanza che indichi tutti gli altri effetti in precedenza non espressamente indicati ed occorrerà iniziare un nuovo iter di riconoscimento con la conseguenza e con il vantaggio che nel medesimo potranno essere dispiegate tutte le garanzie di legge, in perfetta aderenza alle esigenze del contraddittorio tra le parti e della difesa. Ciò premesso e passando all’esame degli atti, ritiene la Corte che sussistano nella fattispecie tutti i presupposti e le condizioni richiesti dall’art. 733 c.p.p. e dalla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983, ratificata con legge n. 334/88, per il riconoscimento delle suddette sentenze agli effetti previsti dalla citata Convenzione ed ai sensi dell’art. 1, legge n. 257/89 e precisamente ai fini dell’esecuzione del residuo pena in ltalia. Ed invero per quanto concerne i presupposti richiesti dall’art. 733 c.p.p., la cui sussistenza è stata, peraltro, già vagliata dalla Corte che ha effettuato il riconoscimento agli effetti previsti dall’art. 12, nn. 1 e 2 c.p., si osserva: A) che le suddette sentenze sono state pronunciate dall’Autorità Giudiziaria di uno Stato con il quale esistono accordi internazionali; B) che le suddette sentenze sono divenute irrevocabili per le leggi dello Stato in cui sono state emesse; C) che le sentenze non contengono disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato; D) che le stesse sono state pronunciate da un giudice indipendente ed imparziale; E) che l’imputata è stata assistita nel corso del giudizio da un difensore ed è stata interrogata in una lingua a lei comprensibile; F) che non vi sono ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, al sesso, alla religione, alla nazionalità, alla lingua, alle opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali abbiano influito sullo svolgimento o sull’esito del processo; G) che i fatti contestati e per i quali è stata pronunciata sentenza di condanna sono previsti come reato dalla legge italiana e corrispondono ai delitti di cui agli artt. 416, 56, 628 cpv., 629 cpv., 605, 385, 372 c.p.;
— 1543 — H) che per gli stessi fatti e nei confronti della stessa persona non risulta che sia in corso nello Stato procedimento penale o che sia stata emessa sentenza irrevocabile. Per quanto attiene alle condizioni richieste dalla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate si osserva in via preliminare che, avendo lo Stato di condanna e lo Stato di esecuzione aderito alla Convenzione, le disposizioni nella stessa contenute prevalgono sulle norme del Codice di rito ai sensi dell’art. 696 c.p.p. La Convenzione consente il trasferimento di una persona condannata solo in presenza delle seguenti condizioni, specificamente elencate all’art. 3: A) che la persona condannata sia cittadino dello Stato di esecuzione; B) che la sentenza di condanna sia divenuta irrevocabile; C) che la durata della pena che la persona condannata deve ancora espiare sia di almeno sei mesi; D) che lo Stato di condanna e lo Stato di esecuzione siano d’accordo sul trasferimento; E) che la persona condannata abbia acconsentito al trasferimento; F) che i fatti per i quali è stata inflitta la condanna costituiscono reato per la legge dello Stato di esecuzione o lo costituirebbero se fossero commessi nel suo territorio. Orbene non v’è dubbio che nella fattispecie si siano verificate tutte le condizioni previste dall’art. 3 della Convenzione. Infatti la Baraldini — che è cittadina italiana — è stata condannata con sentenze divenute irrevocabili perché riconosciuta responsabile di fatti delittuosi che costituiscono reato anche secondo la legge italiana (...). Lo Stato di condanna e quello di esecuzione si sono accordati sul trasferimento; la Baraldini ha prestato il suo consenso al trasferimento volontariamente e con la piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche del suo trasferimento in Italia e dell’esecuzione in questo Stato della pena inflitta dallo Stato di condanna. Infine la pena che la stessa deve ancora espiare è superiore a mesi 6 di reclusione. In tema di riconoscimento di una sentenza straniera ai fini dell’esecuzione della pena in Italia va poi ricordato che l’art. 735 c.p.p. dispone che la Corte di appello quando pronuncia il riconoscimento determina la pena che deve ancora essere eseguita nello Stato. Tale disposizione di legge va, però, coordinata ed armonizzata con quelle contenute negli artt. 9 e 10 della Convenzione di Strasburgo — che, come si è già detto in premessa, prevalgono sul codice di rito — ed in particolare con l’art. 10 che è espressamente richiamato dall’art. 3, legge n. 257/89 contenente disposizioni per l’attuazione di convenzioni internazionali aventi ad oggetto l’esecuzione delle sentenze penali. L’art. 10 sancisce che lo Stato di esecuzione, in caso di continuazione dell’esecuzione, è vincolato alla natura giuridica e alla durata della sanzione come stabilite dallo Stato di condanna e solo nel caso in cui queste siano incompatibili con la propria legge interna può adattare la sanzione alla pena da questa prevista per lo stesso tipo di reato. Orbene, poiché l’Italia, con il deposito dello strumento di ratifica, ha scelto il criterio della continuazione previsto dall’art. 9, comma 1o, lett. A) della Convenzione di Strasburgo anziché quello della conversione della pena, ne consegue che sussiste per lo Stato Italiano il vincolo in ordine alla natura giuridica ed alla durata della sanzione come stabilite dallo Stato di condanna. Né può sostenersi che queste ultime siano incompatibili con le leggi dello Stato italiano. Invero il Governo degli Stati Uniti, nel prestare il proprio accordo al trasferimento della Baraldini in Italia, ha posto come condizione che la stessa continui ad essere detenuta sino al 29 luglio 2008. Tale condizione — accettata senza riserve dalla Baraldini al momento della prestazione del consenso — può essere tranquillamente recepita dallo Stato italiano, con conseguente determinazione a tale data del fine pena. Infatti, se è vero che astrattamente è stata inflitta alla Baraldini una pena complessiva di anni 43 di reclusione, è pur vero che lo Stato di condanna fissando il fine pena al 29 luglio 2008, previa detrazione del presofferto a titolo di custodia cautelare preventiva e di espia-
— 1544 — zione definitiva, nonché del periodo di riduzione della pena per benefici già maturati e maturandi (cfr. al riguardo il documento trasmesso dal U.S. Department of Justice ove si attesta che ‘‘la Baraldini in considerazione delle riduzioni già maturate e del massimo di riduzione per buon comportamento che potrebbe maturare secondo le regole penitenziarie non può uscire dal carcere prima del 29 marzo 2008’’, data poi aggiornata e specificata in altro documento al 29 luglio 2008), ha in concreto determinato una sanzione di gran lunga inferiore a quella comminata (sic) con le sentenze di cui si chiede il riconoscimento; sanzione che rientra sia nei 30 anni previsti come limite massimo per le pene detentive temporanee dall’ordinamento giuridico italiano, sia nei limiti massimi di pena previsti dal codice penale italiano per i medesimi fatti per i quali la Baraldini è stata condannata. Né si può obiettare che ai sensi dell’art. 9 della Convenzione di Strasburgo l’esecuzione della condanna è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione che è l’unico competente a prendere ogni decisione al riguardo, dovendo tale disposizione essere interpretata nel senso che il regime di detenzione deve necessariamente essere quello dello Stato di esecuzione e non anche nel senso che devono in tale fase trovare applicazione disposizioni che possano modificare la pena da scontare, come stabilita dallo Stato di condanna. Unica eccezione è che la pena non sia in contrasto con i principi sanciti dal nostro ordinamento giuridico, cosa che nella fattispecie non sussiste, per come già precisato. Peraltro, va sempre tenuto presente che, in base alla Convenzione di Strasburgo, l’accordo degli Stati interessati è una condizione essenziale del trasferimento e che gli stessi sono liberi di accordarsi o meno. Pertanto è ben possibile che nell’iter formativo della volontà degli Stati diretta a stabilire i reali termini dell’accordo siano inserite condizioni da garantire mediante impegni reciproci. Tali condizioni saranno ritenute pienamente legittime se non siano in contrasto con l’ordinamento giuridico dei due Stati. Avvalora questa considerazione l’esame delle disposizioni contenute negli artt. 12 e 15 della Convenzione di Strasburgo ove si precisa che lo Stato di esecuzione deve fornire informazioni sull’esecuzione della pena allo Stato di condanna al quale spetta anche il diritto o la facoltà di accordare la grazia o l’amnistia conformemente alla propria Costituzione o ad altre Leggi. Proprio l’esame di tali disposizioni dimostra come lo Stato di condanna eserciti un potere di controllo e di vigilanza sull’esecuzione della pena. Ritornando, per concludere, sul consenso manifestato dalla Baraldini, si osserva che anche le condizioni dalla stessa accettate all’atto di prestarlo e di sottoscriverlo per ottenere il trasferimento in Italia non inficiano la validità dello stesso. Al riguardo si osserva che oggetto della Convenzione è quello di facilitare il trasferimento dei detenuti stranieri verso i rispettivi paesi d’origine e che la politica penale insiste in modo particolare sul reinserimento sociale delle persone condannate. E poiché questa politica si fonda essenzialmente su considerazioni di carattere umanitario ed il rimpatrio delle persone condannate corrisponde sia all’interesse dei detenuti sia a quello dei Governi è preferibile che la condanna pronunciata contro l’autore di un reato sia scontata nel suo paese di origine piuttosto che nello Stato di condanna. In considerazione dei principi dianzi esposti non può negarsi la legittimità di un trasferimento che comporti la prosecuzione dell’esecuzione per il tempo e secondo le condizioni stabilite dallo Stato di condanna. Nella fattispecie, peraltro, deve aggiungersi che lo Stato di condanna, nella determinazione della pena ha calcolato anche le diminuzioni per benefici maturati e maturandi, deliberando, così, in bonam partem per la persona condannata. Per le considerazioni innanzi svolte, la Corte di appello di Roma dichiara il riconoscimento delle sentenze straniere emesse nei confronti di Baraldini Silvia ed indicate in epigrafe, alle condizioni stabilite dagli U.S.A. ed accettate dalla Baraldini al momento della prestazione del consenso al trasferimento, con determinazione del fine pena al 29 luglio 2008.
— 1545 — P.q.m., Visti gli artt. 730 e segg. c.p.p.; Vista la Convenzione sul trasferimento delle persone condannate adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983, ratificata con legge n. 334/88 nonché la legge n. 257/89 contenente disposizioni per l’attuazione di Convenzioni internazionali aventi ad oggetto l’esecuzione delle sentenze penali; Dichiara il riconoscimento: A) della sentenza straniera emessa in data 15 febbraio 1984 dalla Corte Distrettuale Federale per il Distretto Orientale (*) di New York nei confronti di Baraldini Silvia, nata a Roma il 12 dicembre 1947 — attualmente detenuta negli USA — con la quale la Baraldini è stata ritenuta responsabile dei reati di ‘‘racketeering conspiracy to carry out affairs of a criminal enterprise through armed, robberies etc.’’ e ‘‘participation in a racketeering enterprise’’ previsti dal titolo 18 U.S. Code § 1961 - 1962’’ e condannata alla pena complessiva di anni quaranta di reclusione e 50.000 $ di multa; B) della sentenza straniera emessa in data 19 aprile 1984 dalla Corte Distrettuale Federale per il Distretto Orientale di New York con la quale la Baraldini è stata riconosciuta responsabile del reato contro l’amministrazione della giustizia previsto dal Titolo 18 U.S. Code § 401 e condannata alla pena di anni tre di reclusione, ai fini della esecuzione in Italia della pena residua irrogata con le suddette sentenze, alle condizioni stabilite dagli USA ed accettate dalla Baraldini al momento della prestazione del consenso al trasferimento, con determinazione del fine pena al 29 luglio 2008. Così deciso in Roma in camera di consiglio il 7 luglio 1999. Il Consigliere estensore (Serenella Siriaco) 6.
Il Presidente (Tommaso Figliuzzi)
Un commento dell’ex-guardasigilli Flick.
Mentre rimandiamo ad altra occasione un nostro commento sulla vicenda, ci limitiamo qui a trarre — dal ‘‘fondo’’ de La Stampa del 25 agosto 1999 — un commento di G.M. Flick (che aveva firmato la quinta richiesta agli USA, in data 16 maggio 1998, per il trasferimento della Baraldini): ‘‘Silvia Baraldini, per poter finire di scontare nel proprio Paese una pena che le è stata inflitta negli Stati Uniti, entra in un carcere italiano firmando — e con lei lo Stato italiano — l’impegno a non chiedere di uscirne per nove anni; nonostante la legge italiana le consenta, come a tutti, tante (forse troppe, secondo qualcuno!) alternative di questo tipo (permessi, lavoro esterno, semilibertà, affidamento al servizio sociale e così via). (...). La vicenda della Baraldini pone dei problemi di obiettiva difficoltà, sul piano tecnico e prima ancora su quello politico: può il potere esecutivo, o lo stesso interessato, prendere un impegno che riguarda l’applicazione della legge e quindi l’indipendenza del giudice? Ma il nodo non è soltanto questo, nella sostanza: è quello, prima ancora, di capire se hanno ragione gli americani, quando vogliono che Silvia Baraldini non esca mai dal carcere, per tutta la durata della pena e per nessun motivo (tranne l’eventuale funerale della madre, che per fortuna è ancora viva); o se al contrario abbiamo ragione noi, quando vogliamo invece che il sistema carcerario preveda tutta una serie di alternative alla detenzione e di incentivi per il trattamento e la rieducazione. (...). I casi Baraldini e Sofri sono due emergenze e come tali sono stati dibattuti e — se non proprio risolti — quanto meno affrontati. Ma di tutta la sterminata massa di problemi della giustizia ordinaria, che non hanno i requisiti per diventare dei casi Baraldini o Sofri, che ne (*) nale.
Con successiva ordinanza di rettifica si è precisato trattarsi del Distretto Meridio-
— 1546 — facciamo? Forse vale la pena di provare a trasformarli in un’emergenza permanente e globale, per cercare di cominciare — se non a risolverli — almeno ad affrontare anche loro e a discuterne con coerenza’’.
Il blocco elvetico dei beni di Milosevic e coimputati. 1. In una precedente occasione (La conferma dell’atto d’accusa nei confronti di Milosevic, retro, p. 1141) avevamo dato conto che, con ordinanza in data 24 maggio 1999, il giudice D. Hunt, del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, tra l’altro aveva ‘‘ordinato che tutti gli Stati membri dell’ONU’’ compissero ‘‘delle indagini volte ad accertare se gli accusati posseggono dei beni sul loro territorio’’ ai fini dell’adozione di eventuali ‘‘misure conservative allo scopo di bloccare questi beni’’. Poiché la Confederazione Elvetica non fa parte dell’ONU, con separata ed apposita domanda di assistenza, in senso tecnico, datata 28 maggio, il Tribunale dell’Aja aveva chiesto alla Confederazione di voler disporre, in base alla normativa interna, lo stesso tipo di misure provvisorie sopra indicato. 2. Siamo qui in grado di pubblicare il testo francese della conforme ordinanza, in data 23 giugno, emessa dall’Ufficio Federale di Polizia (ordinanza che, due giorni dopo, l’Associazione Svizzera dei Banchieri, con sede a Basilea, trasmetteva alle direzioni delle Banche associate). Decision de l’Office Féderal de la Police dans l’affaire Milosevic Slobodan et autres Vu, — la demande d’entraide (ci-après la demande) du Tribunal International chargé de poursuivre les personnes présumées responsables de violations graves du droit international humanitaire commises sur le territoire de l’Ex-Yougoslavie depuis 1991 (ci-après le Tribunal International) datée du 28 mai 1999; — l’article 7 de l’Arrêté fédéral relatif à la coopération avec les tribunaux internationaux chargés de poursuivre les violations graves du droit international humanitaire du 21 décembre 1995 (ci-après l’Arrêté; RS 351.20); Considérant que conformément à l’art. 7 al. 1 de l’Arrêté, si un tribunal international le demande expressément, des mesures provisoires peuvent être ordonnées par l’autorité compétente en vue de maintenir une situation existante, de protéger des intérêts juridiques menacés ou de préserver des moyens de preuve; qu’un juge auprès du Tribunal international a confirmé en date du 24 mai 1999 l’inculpation des nommés 1) Slobodan Milosevic, 20.8.1941, Président de la République Fédérale de Yougoslavie (FRY) 2) Milan Milutinovic, 19.12.1942, President de la Republique de Serbie 3) Nikola Sainovic, 7.12.1948, vice Premier Ministre de la FRY 4) Dragoljub Odjanic, 1.6.1941, Chef de l’état-major des forces armées de la Fry 5) Vlajko Stojiljkovic, Ministre de l’Intérieur de la République de Serbie pour crimes contre l’humanité en application de l’article 5 du Statut du Tribunal International, comprenant la persécution, la déportation et le meurtre au Kosovo. Le crime de meurtre reproché aux prenommés constitue également une violation des lois et coutumes de la guerre en application de l’article 3 du Statut du Tribunal international; que le Procureur du Tribunal international demande que les valeurs appartenant aux personnes susmentionnées sur le territoire suisse soient bloquéss à titre provisoire en vue de sauvegarder la possibilité pour le Tribunal International d’ordonner leur restitution ultérieure dans l’hypothèse d’une condamnation éventuelle des prénommés,
— 1547 — que au vu de la gravité des infractions en question, il convient de donner suite à la demande du Tribunal International dans la mesure la plus large possible; par ces motifs, l’Office Federal de la Police, ordonne 1) le blocage des valeurs mobilières et immobilières détenues par toute personne physique ou morale en Suisse au nom ou pour le compte des nommés a) Slobodan Milosevic, 20.8.1941, Président de la République Fédérale de Yougoslavie (FRY); b) Milan Milutinovic, 19.12.1942, Président de la PRépublique de Serbie; c) Nikola Sainovic, 7.12.1948, vice Premier Ministre de la FRY; d) Dragoljub Odjanic, 1.6.1941, Chef de l’état-major des forces armées de la FRY; e) Vlajko Stojiljkovic, Ministre de l’Intérieur de la République de Serbie; 2) le blocage des comptes bancaires au nom ou pour le compte des personnes mentionnées sous chiffre 1 de même que les comptes bancaires sur lesquels ces personnes disposent de légitimations (p. ex. procuration) ou dont elles sont propriétaires économiques. Il en va de même pour toute somme creditée ulterieurement sur les comptes bloqués. Le montant approximatif des valeurs bloquées sera communiqué à l’OFP dans les meilleurs délais. 3) Les personnes qui détiennent ou gerent des valeurs dont il y a lieu de croire qu’elles tombent sous le coup de la présente décision sont tenues de les annoncer sans délai à l’Office Fédéral de la Police, Bundesrain 20, 3003 Berne; 4) L’inobservation de la présente mesure est passible des sanctions prévues par l’article 292 du Code pénal suisse (Insoumission à une décision de l’autorité), soit les arrêts ou l’amende. Voies de recours La présente décision est susceptible de recours auprès du Tribunal fédéral dans les 30 jours dès sa publication dans la Feuille fédérale. Le recours n’a pas d’effet suspensif (art. 7 al. 3 de l’Arrêté). Berne, le 23 juin 1999 OFFICE FEDERAL DE LA POLICE
Le sous-directeur RUDOLF WYSS